Infezioni dell`apparato urogenitale

A. Bartoloni, G. Corti, L. Zammarchi
CAPITOLO
Infezioni dell’apparato
urogenitale
VULVOVAGINITI
Le vulvovaginiti sono infezioni assai frequenti, per lo più
benigne, in cui coesiste – in ragione della contiguità anatomica – l’interessamento di vulva e vagina. Sono causate essenzialmente da batteri, funghi del genere Candida e protozoi
(Trichomonas vaginalis).
Eziologia ed epidemiologia. Gli agenti eziologici sono numerosi. I più comuni sono descritti di seguito. Gardnerella
vaginalis, un piccolo coccobacillo pleiomorfo, immobile,
aerobio facoltativo, è di gran lunga il più frequente responsabile di una particolare tipologia di vulvovaginite
che va sotto il nome di vaginosi batterica; altri possibili
agenti causali sono rappresentati da Mycoplasma hominis
e da batteri anaerobi (Bacteroides spp. diverse da B. fragilis, Atopobium vaginae, Mobiluncus spp., Prevotella spp.,
peptostreptococchi).
Tra i miceti del genere Candida predomina, in oltre il 90%
dei casi, C. albicans, essendo fortunatamente molto più rare le specie (in particolare C. glabrata e C. krusei, nonché
C. lusitaniae, C. parapsilosis e C. tropicalis) meno sensibili ai
farmaci antifungini azoli (fluconazolo e itraconazolo). T. vaginalis è un protozoo delle dimensioni di circa 7-8 × 10-25 μm,
che esiste soltanto in forma di trofozoite, estremamente mobile in virtù di quattro flagelli anteriori liberi e di uno posteriore
integrato in una membrana ondulante.
Queste patologie costituiscono le condizioni cliniche per cui
una donna, non solo in età fertile, ricorre spesso a visita ambulatoriale. Mentre la prevalenza della tricomoniasi sembra
essere in riduzione, le forme di natura fungina (che rappresentano la maggioranza delle vulvovaginiti, in particolare tra
quelle recidivanti) e quelle di origine batterica (dal 10 al 30%
del totale) appaiono in costante aumento.
La vagina è normalmente colonizzata da una varietà di batteri,
principalmente aerobi facoltativi e anaerobi obbligati, tra i
quali soprattutto i lattobacilli, gli streptococchi “viridanti” e
di gruppo B e gli stafilococchi. I motivi alla base del fatto che
in talune situazioni la flora vaginale endogena va incontro a
modifiche tali da favorire la proliferazione di agenti patogeni
causa di vulvovaginite non sono del tutto compresi. Tra i
principali fattori di rischio vanno annoverate la carenza di
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estrogeni, la promiscuità e la frequenza dei rapporti sessuali,
la preesistente condizione di irritazione chimica favorita da
scarsa igiene intima e/o dall’impiego di abiti aderenti e di
vari prodotti (detergenti, assorbenti, tamponi, profilattici,
diaframmi), la coesistenza di patologie responsabili di difetti
immunitari (infezione da HIV, diabete mellito) e a trasmissione sessuale e la precedente assunzione di antibiotici ad
ampio spettro.
Patogenesi. Nella vaginosi batterica causata da G. vaginalis
il microrganismo, in virtù di modifiche sostanziali del milieu
vaginale, tende a sostituire la flora protettiva costituita dai
lattobacilli – che abitualmente ne limitano la crescita – probabilmente producendo perossido d’idrogeno.
La natura venerea della tricomoniasi è universalmente riconosciuta: il protozoo sembra ledere l’epitelio vaginale per
contatto diretto, cui fanno seguito l’attivazione del complemento e il richiamo di granulociti neutrofili nonché di cellule
monocito-macrofagiche che determinano l’instaurarsi di un
processo infiammatorio.
Il contributo della trasmissione sessuale è invece modesto
nella candidosi, dove sono importanti alcuni fattori già ricordati tra cui, in particolare: 1) cicli di terapia antibiotica
ad ampio spettro che sopprimono i lattobacilli, ma anche
preparati antinfettivi locali usati per trattare vaginosi batterica
e tricomoniasi; 2) impiego di abiti aderenti, che determinano
un microclima vulvare caldo-umido favorevole allo sviluppo
dei miceti; 3) alterazioni della fagocitosi e/o dell’immunità
cellulomediata osservabili in condizioni quali trapianti d’organo, chemioterapia, infezione da HIV; 4) elevati livelli di
estrogeni, soprattutto in virtù dell’uso di contraccettivi orali,
che predisporrebbero alla candidosi attraverso un’aumentata
disponibilità di glicogeno vaginale, l’abbassamento del pH vaginale, o in seguito a modifiche delle cellule epiteliali vaginali
che favorirebbero l’aderenza dei miceti.
Sintomatologia. Il quadro clinico è caratterizzato dall’assenza
di sintomi generali, mentre è dominato dalla presenza di irritazione vulvare e soprattutto di abbondanti secrezioni vaginali,
aventi caratteristiche ben distinte tra le tre forme batterica,
fungina e protozoaria (Tab. 15.1).
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
Tab. 15.1 Caratteristiche distintive delle vulvovaginiti.
Vaginosi batterica
Candidosi
Tricomoniasi
Irritazione vulvare
±
++
++
Eritema delle piccole labbra
–
+
±
Disuria
–
+
±
Prurito
–
+
+
Dolorabilità vaginale
–
+
+
Dolorabilità annessiale
–
–
±
Colore
Bianco-grigiastro
Biancastro
Giallo-verdastro
Consistenza
Schiumosa
Compatta
Cremosa
Odore sgradevole
++ (“di pesce”)
–
±
pH
>4,5
<4,5
>4,5
Aderenza alla vagina
+
+
–
Cellule epiteliali
Con batteri adesi
Normali
Normali
Granulociti neutrofili
Scarsi
Variabili
Numerosi
Sintomi e segni
Secrezioni vaginali
Esame microscopico
Diagnosi. Al di là delle varie caratteristiche riassunte nella
Tab. 15.1, che possono essere di ausilio nella diagnosi differenziale – ancorché di non sempre facile interpretazione – tra
le varie forme di vulvovaginite, alcune metodiche di laboratorio sono in grado di fornire un’accurata diagnosi eziologica;
tra queste, soprattutto l’esame microscopico dell’essudato a
fresco o dopo colorazione con varie tecniche, oppure l’isolamento in coltura da tampone vaginale, in particolare per
i miceti. Nelle vulvovaginiti causate da T. vaginalis, inoltre,
è possibile l’identificazione mediante tecniche di biologia
molecolare quale la reazione a catena della polimerasi (PCR).
Prognosi. È generalmente buona, anche se in taluni casi si
possono verificare alcune complicanze: per esempio, la vaginosi batterica può determinare la comparsa di un’endometrite
e/o di una salpingite, soprattutto in gravidanza, provocando
così aborto e amniosite, oppure favorendo il travaglio anticipato e il parto prematuro.
Le forme da Candida spp. mostrano la tendenza ad andare
incontro a recidive frequenti e, nelle pazienti immunocompromesse, possono rappresentare il punto di partenza per
infezioni sistemiche; la tricomoniasi può complicarsi con
una vaginite enfisematosa e, in gravidanza, determinare parto
prematuro con basso peso alla nascita.
Terapia. Per il trattamento delle diverse forme di vulvovaginite si dispone di preparati per uso sistemico (orale) e topico.
Nella vaginosi batterica si ricorre all’impiego di un preparato
nitroimidazolico; per esempio metronidazolo, 500 mg due
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volte al giorno per os (o per applicazione di gel intravaginale in
monodose giornaliera) per 7 giorni, oppure tinidazolo per os,
2 g in unica somministrazione. In alternativa può essere utilizzata clindamicina per os, 300 mg due volte al giorno o la
formulazione topica (crema od ovuli) per 7 giorni. Non è
indicato il trattamento del partner, a meno che quest’ultimo
presenti un quadro di balanite.
I medesimi farmaci nitroimidazolici (metronidazolo e tinidazolo) possono essere usati nella terapia della tricomoniasi in
monosomministrazione (2 g per os). Per questa patologia, a
differenza di quanto avviene nella vaginosi batterica, è sempre
raccomandato il concomitante trattamento del partner sessuale. Nel caso di fallimento terapeutico è possibile utilizzare gli
stessi farmaci per più giorni (3-5).
La terapia della candidosi si fonda sull’impiego degli azoli
somministrati per via orale per un solo giorno (itraconazolo,
200 mg per due dosi o fluconazolo, 150 mg in monodose da
ripetere eventualmente dopo una settimana). Va ricordato che
entrambi sono efficaci soprattutto nei confronti di C. albicans
(che rappresenta il principale agente causale) e meno attivi su
altre specie di Candida. Come alternativa si possono impiegare
creme per uso topico a base di miconazolo o di clotrimazolo.
INFEZIONI DELLE VIE URINARIE
Infezione delle vie urinarie (IVU) e batteriuria sono termini
spesso usati come sinonimi, anche se la batteriuria è una semplice e frequente colonizzazione (in particolare nei soggetti
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cateterizzati) del tratto urinario senza invasione tessutale e
quindi clinicamente silente, mentre l’IVU si manifesta con
la comparsa di sintomi a carico delle alte (rene, bacinetto) o
basse vie urinarie (vescica, uretra).
Infezioni delle basse vie urinarie
Le infezioni delle basse vie urinarie sono patologie relativamente frequenti che possono interessare l’uretra (uretrite), la
vescica (cistite) o entrambe (cistouretrite).
Eziologia. I bacilli aerobi gram-negativi appartenenti alla
famiglia Enterobacteriaceae, in particolare Escherichia coli,
sono responsabili della maggior parte delle IVU contratte in
ambito nosocomiale e tale eziologia è ancor più rilevante nelle
forme comunitarie (Tab. 15.2). Staphylococcus saprophyticus
è riconosciuto come frequente agente di infezioni delle basse
vie urinarie in giovani donne, ove risulta il secondo patogeno
in causa dopo E. coli; miceti del genere Candida sono riscontrabili quasi esclusivamente in pazienti immunocompromessi,
soprattutto diabetici. Altre Enterobacteriaceae, quali Proteus mirabilis e soprattutto P. vulgaris, Morganella morganii
e Providencia spp., Citrobacter spp. e bacilli del gruppo KES
(Klebsiella-Enterobacter-Serratia), costituiscono microrganismi di raro isolamento nelle forme comunitarie, ma divengono
rilevanti in quelle nosocomiali, dove possono determinare
problemi terapeutici di non facile soluzione, qualora siano in
causa ceppi antibiotico- o multiantibiotico-resistenti. È il caso
dei sempre più diffusi microrganismi produttori di b-lattamasi
a spettro esteso (extended spectrum b-lactamases, ESBL), che
Tab. 15.2 Principali agenti eziologici delle infezioni
a carico delle vie urinarie.
Comunitarie
Nosocomiali
Bacilli gram-negativi
>85%
70-80%
Escherichia coli
60-80%
30-60%
Proteus mirabilis
5-10%
5-10%
P. vulgaris, Morganella morganii,
Providencia spp.
Molto rari
5%
Gruppo KES
Raro
10%
Pseudomonas aeruginosa
Rara
10%
Citrobacter spp.
Molto rare
Rare
Cocchi gram-positivi
<15%
15-25%
Staphylococcus aureus
Molto raro
Molto raro
Stafilococchi coagulasi-negativi
Rari
Rari
Streptococchi
Rari
Molto rari
Enterococchi
Rari
15-20%
Altri
1%
1%
Candida spp.
–
5%
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nella maggior parte dei casi conservano una suscettibilità
quasi esclusivamente ai carbapenemi. A complicare ulteriormente il panorama già fosco, si è assistito negli ultimi anni
all’emergere di Enterobacteriaceae, soprattutto Klebsiella
pneumoniae, produttrici di carbapenemasi e pertanto resistenti agli antibiotici disponibili di questa classe (ertapenem,
imipenem, meropenem e doripenem), e di bacilli non fermentanti (Acinetobacter spp., Pseudomonas aeruginosa) di per sé
intrinsecamente resistenti a un gran numero di antibatterici.
Tra i cocchi gram-positivi responsabili di IVU, sia in ospedale
sia a domicilio, soprattutto negli anziani affetti da iperplasia
prostatica, vanno annoverati gli enterococchi. Enterococcus
faecium è il più temibile in quanto multifarmaco-resistente,
ma anche E. faecalis, il cui impianto a livello urinario è facilitato da diversi fattori di rischio (immunocompromissione,
pregresse terapie antibiotiche, presenza di catetere vascolare
e/o urinario) spesso mostra profili di antibiotico-resistenza
complessi.
Variazioni relative agli agenti eziologici di più frequente riscontro possono dipendere dal tempo di permanenza del
catetere vescicale; per esempio, nei pazienti ospedalizzati in
cui il catetere vescicale viene mantenuto per periodi di tempo
inferiori a un mese, l’eziologia è prevalentemente monomicrobica, con preponderanza soprattutto di Enterobacteriaceae
“facili” (E. coli, K. pneumoniae, P. mirabilis), Staphylococcus
epidermidis e miceti (C. albicans), mentre soggetti cateterizzati
per periodi di tempo superiori a un mese vanno generalmente
incontro a batteriurie polimicrobiche in cui il ruolo principale è svolto da Providencia stuartii e altre specie di Proteus
indolo-positive, bacilli gram-negativi non fermentanti (Acinetobacter spp., P. aeruginosa), enterococchi (compresi ceppi
vancomicino-resistenti) e specie di Candida non-albicans.
Alcune cistouretriti riconoscono un’eziologia virale. Tra queste, le cistiti emorragiche acute, più comuni nei bambini, sono
provocate da alcuni sierotipi di adenovirus umani. Gravi
cistiti emorragiche virali possono essere osservate anche nei
pazienti immunocompromessi (soprattutto, ma non esclusivamente, i trapiantati renali) e riconoscono nei polyomavirus
(BK e JC) gli agenti eziologici. In particolare, il polyomavirus
BK nei trapiantati renali può causare gravi quadri di nefropatia responsabile di rigetto nel 50% dei casi.
Epidemiologia. Le IVU, in generale, e quelle a carico delle
basse vie, in particolare, rappresentano un’entità assai comune; dati epidemiologici statunitensi calcolano in oltre 6 milioni
le visite ambulatoriali che vengono effettuate annualmente
per questa patologia, seconda soltanto alle infezioni delle
vie respiratorie. Inoltre, in ambito nosocomiale sono le più
frequenti in assoluto e costituiscono da sole oltre un terzo di
tutte le infezioni.
I tassi di prevalenza delle cistiti e uretriti nei neonati sono
dello 0,1-5,5%, con un rapporto maschi/femmine pari a 1,6:1;
nei prematuri la prevalenza può superare il 10% in entrambi i sessi. A partire dall’età prescolare e fino all’età adulta
queste infezioni sono da 10 a 30 volte più frequenti nel sesso
femminile, in particolare in gravidanza (con percentuali superiori al 5% e conseguente rischio di pielonefrite acuta del
20-40%). Nella popolazione anziana possono raggiungere una
prevalenza del 10% tra gli uomini e del 20% tra le donne.
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In queste ultime si concentrano oltre i due terzi delle visite
ambulatoriali per IVU e, nell’arco della propria vita, oltre il
40% delle donne va incontro ad almeno un episodio infettivo
delle vie urinarie, con un rischio di recidiva del 20%. I motivi
di tali elevate prevalenze risiedono soprattutto in quei fattori
di rischio riassunti nella Tab. 15.3 e discussi esaurientemente
nel paragrafo sulla patogenesi.
La prevalenza di batteriuria asintomatica, definita come la
positività per due urinocolture consecutive caratterizzate
dalla crescita dello stesso microrganismo – con conte di 105
unità formanti colonia (ufc)/mL) – varia in misura notevole:
dall’1% delle ragazze in età scolare a quasi il 100% tra i portatori di catetere vescicale a lungo termine. Questa condizione
è tuttavia di riscontro più frequente nei pazienti con malformazioni delle vie urinarie o a seguito di manovre urologiche
e, soprattutto, nei pazienti anziani.
In generale, il posizionamento di un catetere vescicale rappresenta di gran lunga il più importante fattore di rischio per
lo sviluppo di un’infezione delle vie urinarie nosocomiale o
contratta in ambiente sanitario (per esempio, negli individui
che soggiornano in case di riposo per anziani). Negli Stati
Uniti vengono registrati ogni anno circa mezzo milione di
episodi di infezioni a carico delle vie urinarie. Di queste, circa
l’80% è correlato alle pratiche di cateterizzazione urinaria, il
15-20% ad altre manovre che comportino una manipolazione
dell’apparato genitourinario e la rimanente quota a cause
sconosciute. Poiché oltre il 10% dei soggetti cateterizzati per
almeno un giorno va incontro a batteriuria e tale percentuale
aumenta mediamente del 5% per ogni giorno di permanenza
in situ del catetere urinario (fino a raggiungere il 100% entro
un mese), la durata della cateterizzazione costituisce il principale fattore predisponente di batteriuria ospedaliera e ne
condiziona anche l’eziologia. Altri fattori di rischio rilevanti
sono rappresentati dal tipo di drenaggio (quello chiuso è indicato ormai da decenni come il più sicuro), da errori tecnici
nella gestione del catetere stesso e da condizioni preesistenti
quali insufficienza renale e diabete mellito.
Tab. 15.3 Fattori di rischio correlati all’insorgenza
di cistouretriti.
Sesso femminile
• Aborto/gravidanza/parto
• Assunzione di contraccettivi orali (estrogeni)
• Caratteristiche anatomiche dell’uretra
• Scarsa o, al contrario, eccessiva igiene intima
• Rapporti sessuali
Sesso maschile
• Iperplasia prostatica
In entrambi i sessi
• Cateterizzazione vescicale
• Malformazioni/anomalie funzionali (cistocele, stenosi cicatriziali,
uretrocele, vescica neurogena)
• Patologie/terapie immunodepressive (diabete mellito, epatopatie,
neoplasie, farmaci biologici, corticosteroidi)
• Indagini strumentali endoscopiche
• Tumori dell’apparato urogenitale
• Urolitiasi
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Patogenesi. I batteri possono invadere le vie urinarie attraverso due modalità: ascendente ed ematogena. A livello delle
basse vie, la quasi totalità delle infezioni si verifica a seguito
del meccanismo ascendente, rendendo ragione dell’elevata
frequenza di isolamento di Enterobacteriaceae, soprattutto
E. coli. L’infezione iatrogena che avviene a seguito di manovre
strumentali costituisce in ordine di frequenza una modalità
di infezione che è seconda soltanto a quella ascendente nella
donna.
Nel sesso femminile l’uretra, normalmente colonizzata da
batteri, in virtù delle ridotte dimensioni (non più lunga di
4 cm) e dell’ubicazione anatomica in prossimità della vulva e
della regione perianale, è facilmente predisposta alla contaminazione, permettendo inoltre un rapido accesso dei microrganismi alla vescica, dove possono moltiplicarsi e, in taluni
casi, risalire fino alla pelvi e al parenchima renale attraverso gli
ureteri. Piccole quantità di batteri entrano spesso in vescica,
per esempio in seguito al massaggio uretrale che avviene durante l’atto sessuale. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, la
carica microbica è modesta e i batteri vengono rapidamente
eliminati per mezzo del flusso urinario. La minzione postcoitale, comunque, riduce il rischio di cistite, mentre l’uso di
diaframmi o spermicidi altera notevolmente la normale flora
batterica dell’ostio vaginale con marcato aumento della colonizzazione e rischio di IVU. L’uomo è relativamente resistente
alle infezioni ascendenti per la differente anatomia dell’uretra
maschile e anche in virtù delle secrezioni prostatiche, che sembrano possedere una seppur modesta attività antibatterica.
La colonizzazione delle aree periuretrali e la successiva infezione dipendono, inoltre, da un’interazione tra il microrganismo infettante e i meccanismi di difesa dell’ospite.
Diversi ceppi uropatogeni di E. coli, microrganismo responsabile della grande maggioranza delle IVU, possiedono fattori
di virulenza che permettono sia la colonizzazione e l’invasione
dell’apparato urinario, sia la capacità di causare malattia. I
principali di questi fattori sono adesine di superficie di natura
fimbriale che conferiscono al batterio un’aumentata adesività
alle cellule uroepiteliali. Con la sola eccezione della mucosa
uretrale, l’apparato urinario è resistente alla colonizzazione
batterica grazie alla presenza di numerosi meccanismi di difesa delle basse vie urinarie. Batteri anaerobi ed altri microrganismi che compongono la maggior parte della flora uretrale
generalmente non si moltiplicano nell’urina, in quanto gli
estremi dell’osmolarità, l’alta concentrazione di urea e i bassi
livelli di pH inibiscono la loro crescita. Il pH e l’osmolarità
urinari nella donna gravida sembrano essere invece più adatti
alla crescita batterica rispetto alle donne non gravide. Anche
un aumento del pH vaginale, con conseguente aumentata
suscettibilità alla colonizzazione perineale, favorirebbe l’ingresso di agenti uropatogeni nelle basse vie urinarie.
In condizioni normali, a livello della mucosa vaginale e del
meato uretrale esterno è presente una flora saprofitica che
svolge un importante ruolo protettivo: lattobacilli e S. epidermidis hanno dimostrato, infatti, un’elevata capacità di
aderire in vitro a cellule vaginali ed uroepiteliali, competendo
efficacemente con E. coli ed altre Enterobacteriaceae per i
siti recettoriali.
Anche il meccanismo del lavaggio vescicale sembra esercitare un effetto protettivo: normalmente piccole quantità di
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batteri sono incapaci di aderire all’urotelio, restano sospesi
nelle urine e sono rimossi con lo svuotamento, ma in caso di
ostruzione al flusso urinario per vari motivi (anomalie congenite dell’uretra, calcoli, compressioni estrinseche, iperplasia prostatica), la stasi conseguente aumenta la suscettibilità
all’infezione.
Sintomatologia. Il quadro clinico delle IVU inferiori si estrinseca con modalità diverse a seconda dell’età. Nei neonati e nei
bambini di età inferiore a 2 anni, per esempio, si osservano in
genere sintomi aspecifici quali ritardo della crescita, vomito
e febbre. Nei bambini di età superiore (soprattutto dopo i
5 anni) e negli adulti prevalgono i sintomi locali provocati
dalla flogosi a carico delle mucose uretrali o vescicali: emissione frequente (pollachiuria), urgente (stranguria) e dolorosa
(disuria) di piccole quantità di urine torbide, talvolta maleodoranti, espressione di piuria.
Può accompagnarsi senso di tensione nella regione sovrapubica o dolore localizzato all’addome o al fianco. Occasionalmente si osserva ematuria, che è macroscopica in circa un terzo
dei casi. La febbre è in genere assente o comunque modesta;
talora, tuttavia, compaiono puntate febbrili elevate e improvvise precedute da intenso brivido, espressione di occasionali
batteriemie. L’esame obiettivo è spesso negativo e il paziente
a volte accusa solo dolorabilità sovrapubica.
La maggior parte dei soggetti anziani affetti da IVU inferiori è
asintomatica e la piuria può essere assente. Peraltro, laddove
presenti, i sintomi in alcuni casi non risultano diagnostici,
poiché in questa popolazione non è infrequente la presenza
di pollachiuria, disuria ed incontinenza urinaria.
Diagnosi. Confermare in laboratorio la presenza di un’IVU,
con l’identificazione del microrganismo responsabile e relativo antibiogramma, è di grande importanza, anche negli
episodi di cistite non complicata della donna. Come è noto,
i classici sintomi di pollachiuria e disuria vengono osservati
anche in altre condizioni cliniche quali vaginiti ed uretriti
(queste ultime da agenti resistenti agli antibiotici normalmente impiegati nella terapia delle IVU), flogosi provocate da
agenti fisici o chimici e traumi uretrali. La diagnosi di laboratorio delle IVU si avvale principalmente di due indagini: l’esame delle urine con studio del sedimento e l’urinocoltura. Tali
indagini permettono di accertare, rispettivamente, la presenza
di piuria (granulociti neutrofili) e di batteriuria, consentendo
di formulare la diagnosi anche in assenza di sintomatologia.
L’osservazione in microscopia ottica di 5-10 granulociti neutrofili per campo a medio ingrandimento, in specie se giovani
e ben conservati, è espressione di infezione in atto. Tuttavia, la
presenza di piuria non è di per sé specifica, in quanto anche in
assenza di piuria può essere identificata un’IVU e viceversa;
è altresì vero che la maggior parte dei pazienti con infezione
sintomatica va incontro a una piuria significativa. Una piuria
cosiddetta “sterile” (cioè in assenza di batteriuria) viene talora
osservata in corso di tubercolosi renale, neoplasie delle vie
urinarie, infezioni di eziologia non batterica dell’apparato
genitale, di traumi e così via. Una piuria in assenza di batteriuria in un paziente sintomatico deve far pensare ad un’uretrite
da patogeni quali Chlamydia trachomatis, Mycoplasma spp. e
Neisseria gonorrhoeae.
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L’urinocoltura è l’esame fondamentale per una corretta
diagnosi eziologica di IVU e consta di tre fasi: l’identificazione del microrganismo, la sua quantificazione e le prove
di sensibilità agli antibiotici. L’urina presente in vescica è
normalmente sterile: poiché l’uretra e l’area periuretrale
sono molto difficili da sterilizzare, anche campioni raccolti
con la maggiore accuratezza possibile sono frequentemente
contaminati. Tuttavia, con la quantificazione dei batteri
nelle urine raccolte dal mitto intermedio in contenitore
sterile, dopo detersione accurata dei genitali esterni e della
regione perineale e previa adeguata igiene delle mani, è
possibile discriminare una contaminazione da un’infezione.
I campioni prelevati devono essere esaminati immediatamente o, nell’impossibilità, refrigerati a 4 °C ma per non
più di 6 ore.
La diagnosi di IVU si basa sulla dimostrazione di almeno
105 ufc/mL di una singola specie per mL di urina. Conte
microbiche comprese fra 104 e 105 ufc/mL hanno significato dubbio, tranne che per patogeni altamente virulenti
(P. aeruginosa), e consigliano la ripetizione dell’esame. Titoli
inferiori a 104 ufc/mL non sono generalmente significativi,
sebbene in un paziente sintomatico con piuria documentata
si debba ritenere significativa anche una conta di 102 ufc/mL
se in presenza di un solo agente patogeno urinario. Nei casi
dubbi, o se è presente una flora batterica mista, è consigliabile
ripetere l’esame.
Un’urinocoltura con conta ≥105 ufc/mL è dunque diagnostica
di IVU: in particolare, la probabilità che si tratti di un’infezione è dell’80% se il rilievo deriva da un’unica coltura, del
91% se le colture positive sono due e del 95% se sono tre. I
falsi positivi dell’urinocoltura sono espressione della contaminazione o dall’incubazione delle urine prima di esaminarle,
mentre i falsi negativi possono conseguire all’uso di antibiotici
o saponi, ad un’ostruzione totale al di sotto dell’infezione, a
infezioni causate da microrganismi di difficile isolamento, a
tubercolosi renale e a diuresi abbondante.
La raccolta dell’urina mediante puntura percutanea sovrapubica offre maggiori garanzie in tema di contaminazione, ma
la tecnica richiede una certa manualità ed è invasiva, pertanto
resta limitata all’ambito ospedaliero per casi selezionati. Nelle
urine ottenute mediante questa manovra ogni microrganismo
(ad eccezione dei saprofiti cutanei) che si sviluppi indipendentemente dalla concentrazione è indicativo di IVU.
Altra tecnica da riservare a casi selezionati è il cateterismo
vescicale. Può essere indicato nei bambini e nelle donne non
collaboranti (anziane, allettate), non esclude completamente
il rischio di contaminazione ed è gravato da una certa percentuale di infezioni secondarie alla manovra stessa. Nei
campioni prelevati mediante catetere un numero di colonie
>102 ufc/mL è da considerare significativo se il patogeno
urinario è singolo o predominante.
Prognosi. Un singolo episodio infettivo o anche una breve
sequenza di episodi sono eventi comuni (soprattutto nelle
donna), assai sensibili alla terapia e abitualmente privi di
conseguenze. Essi non richiedono, pertanto, particolari accertamenti oltre l’esame batteriologico delle urine e giustificano una prognosi buona. Le complicanze, in particolare la
diffusione alle alte vie urinarie in un quadro di pielonefrite,
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
possono essere osservate nelle forme ricorrenti e in gravidanza, situazioni che meritano particolare attenzione alla gestione
dell’IVU.
Altre condizioni in cui le cistouretriti possono determinare
quadri più o meno complicati sono le forme contratte in ospedale. Queste ultime rappresentano un importante problema
di sanità pubblica, poiché hanno un notevole impatto sia sulla
morbosità (il 30 ed il 3% circa delle batteriurie asintomatiche,
rispettivamente, tendono a trasformarsi in infezione conclamata ed in batteriemia, e quest’ultima può evolvere, seppur
solo nello 0,5-2%, in sepsi grave e shock settico), sia sulla
letalità (rischio triplicato rispetto ai soggetti non batteriurici).
Anche i costi economici sono rilevanti: ogni IVU può costare
fino a 750 euro al giorno a causa dell’antibioticoterapia e,
soprattutto, della prolungata degenza ospedaliera.
Le IVU contratte da anziani degenti in residenze assistenziali,
spesso a eziologia polimicrobica per il notevole ricorso alla
cateterizzazione a lungo termine, sono contraddistinte da
un’ancor maggiore tendenza alle complicanze, in particolare
all’evoluzione batteriemica o francamente setticemica con
conseguente incremento del rischio di morte.
Terapia. Nella scelta di un adeguato trattamento chemioterapico delle cistouretriti, che è quasi sempre empirico, soprattutto a domicilio, il medico deve prendere in considerazione
tre fattori relativi a:
• l’agente patogeno, in particolare la sua prevalenza nell’eziologia di un’IVU e il suo grado di sensibilità agli agenti
antimicrobici;
• l’antibiotico, in relazione alle sue caratteristiche microbiologiche (attività in vitro, resistenza all’inattivazione enzimatica, induzione di resistenze batteriche), farmacocinetiche
(diffusibilità tessutale e/o eliminazione urinaria, emivita,
via di somministrazione), tossicologiche ed economiche;
• l’ospite, con tutta una serie di sottogruppi di pazienti che, in
base a sesso, condizioni preesistenti e storia clinica, meriteranno un trattamento differenziato gli uni dagli altri, come
la batteriuria asintomatica, la cistite acuta non complicata della donna, l’IVU ricorrente (da mancata risoluzione
o da reinfezione), l’IVU correlata alla cateterizzazione e
l’IVU complicata per la presenza di condizioni preesistenti.
Quest’ultima viene più spesso osservata in soggetti di sesso maschile con svariati fattori di rischio (omosessualità,
mancanza di circoncisione, infezione da HIV), diabetici,
anziani, pazienti immunocompromessi per varie cause o
con anomalie ostruttive delle vie urinarie.
Una lista degli antibiotici utilizzabili nella terapia delle uretrocistiti con le posologie indicate è riassunta nella Tab. 15.4.
La batteriuria asintomatica non richiede uno specifico trattamento antibiotico, tranne in occasione di manovre urologiche
invasive (per esempio, inserimento di un catetere di Foley),
laddove è sufficiente l’uso di cotrimoxazolo, 960 mg per os
ogni 12 ore per 3 giorni, ed in gravidanza, quando è consigliabile un ciclo terapeutico di 3-7 giorni con una beta-lattamina
(amoxicillina, cefalosporine orali) o, nei soggetti allergici, con
nitrofurantoina.
Nella cistite acuta non complicata della donna è in genere sufficiente una monodose di fosfomicina/trometamolo
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Tab. 15.4 Antibiotici prescrivibili nella terapia
orale delle cistouretriti.
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Amoxicillina-acido clavulanico, 1 g ogni 12 ore
Cefuroxima axetil, 500 mg ogni 12 ore
Cefpodoxima proxetil, 200 mg ogni 12 ore
Cefixima, 400 mg/die
Ceftibuten, 400 mg/die
Cotrimoxazolo, 960 mg (trimetoprim, 160 mg + sulfametoxazolo,
800 mg) ogni 12 ore
Nitrofurantoina, 100 mg ogni 12 ore
Ciprofloxacina, 250 mg ogni 12 ore
Levofloxacina, 250 mg/die
Moxifloxacina, 400 mg/die
da 3 g, sebbene talvolta associata a una minor efficacia e
a un maggior tasso di ricorrenze, o il trattamento breve di
3 giorni con cotrimoxazolo o con amoxicillina-acido clavulanico oppure con nitrofurantoina per 5 giorni. Queste opzioni
terapeutiche sono caratterizzate da una bassa prevalenza
di effetti collaterali e di resistenze batteriche, da un’elevata
adesione al trattamento da parte della paziente e dall’estrema
economicità. Valide alternative (sempre per cicli di 3 giorni),
seppur più costose, sono rappresentate dalle cefalosporine di
II (cefuroxima axetil) e III generazione (cefixima, cefpodoxima proxetil, ceftibuten). In quest’ambito è preferibile non impiegare in prima istanza i fluorochinoloni (ciprofloxacina, levofloxacina, moxifloxacina) in considerazione della crescente
resistenza di E. coli e K. pneumoniae, che ha quasi raggiunto il
40%, e per la capacità di questi farmaci di selezionare altri patogeni resistenti quali S. aureus meticillino-resistente (MRSA)
ed enterococchi vancomicino-resistenti (VRE).
La terapia antibiotica delle IVU inferiori può rivelarsi inadeguata ad arrestare la moltiplicazione batterica nelle vie
urinarie e la relativa sintomatologia. La causa più frequente
della recidiva consiste nella presenza di microrganismi resistenti alle beta-lattamine o ai sulfamidici; altre cause di mancata risoluzione di un’IVU nonostante una corretta terapia
antibiotica sono l’eziologia polimicrobica e la presenza di
insufficienza renale, che comporta una ridotta eliminazione
urinaria degli antibiotici, o di calcoli urinari, che possono
presentare sulla propria superficie elevate concentrazioni
batteriche. Tuttavia, oltre il 90% delle IVU ricorrenti propriamente dette è dovuto a reinfezione esogena, che può
manifestarsi anche a distanza di mesi: viene infatti definita
ricorrente un’IVU che si presenta con una frequenza di tre
o più episodi in un anno. Laddove non si riesca ad eradicare
l’infezione, trova giustificazione l’assunzione di una singola
dose di cotrimoxazolo (320 mg di trimetoprim + 1.600 mg
di sulfametoxazolo) all’esordio dei sintomi del nuovo
episodio, eventualmente seguita dalla somministrazione
a lungo termine (mesi) di una dose giornaliera di 480 mg
da assumere prima di coricarsi, poiché durante la notte
l’accumulo e la conseguente stasi di urine predispongono
alla moltiplicazione batterica.
Il trattamento di un’IVU dovuta alla cateterizzazione è consigliato in tutti i pazienti sintomatici, in particolar modo
in presenza di segni e sintomi di sepsi, nonché in quelli
asintomatici a rischio di gravi complicanze (pazienti immunocompromessi, sottoposti ad interventi di chirurgia
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
urologica o ad impianto di dispositivi protesici, portatori di infezioni causate da patogeni altamente virulenti).
Gli schemi di terapia, in questi pazienti, come nel caso delle
IVU inferiori complicate, sono gli stessi che saranno citati
nel paragrafo successivo a proposito della pielonefrite grave
e/o batteriemica, a cui si rimanda. Nei pazienti portatori di
catetere, che ormai da molti anni prevede l’uso di sistemi a
drenaggio chiuso, trovano ragionevole indicazione la rimozione o sostituzione dello stesso e, in generale, la massima
igiene nella sua gestione.
Infezioni delle alte vie urinarie
Le infezioni a carico delle alte vie urinarie (pielite e pielonefrite) sono patologie infiammatorie acute o croniche, relativamente rare, che interessano il parenchima e la pelvi renale,
bilateralmente o, più spesso, monolateralmente.
Eziologia. Analogamente a quanto descritto per le infezioni
delle basse vie urinarie, i membri della famiglia Enterobacteriaceae sono gli agenti eziologici più frequenti di pielite/pielonefrite, sebbene E. coli ne causi una frazione sensibilmente
più bassa (30-40% dei casi). Tra gli altri enterobatteri prevalgono i bacilli del gruppo KES, Citrobacter spp., P. mirabilis
e soprattutto specie indolo-positive (M. morganii, P. vulgaris,
Providencia rettgeri e P. stuartii) e bacilli non fermentanti
(Acinetobacter spp., P. aeruginosa). Cocchi gram-positivi,
quali enterococchi e stafilococchi (VRE e MRSA, in ambito
nosocomiale), si dimostrano in genere responsabili in seguito
a diffusione rispettivamente ascendente ed ematogena.
Epidemiologia. Anche queste localizzazioni sono più comuni
nella donna e nell’anziano, seppur con una prevalenza nettamente inferiore rispetto alle cistouretriti. Rappresentano
soprattutto la conseguenza della diffusione al rene di processi
infettivi recidivanti delle vie urinarie: l’abituale eziologia,
pertanto, è batterica (prevalentemente bacilli gram-negativi
ad habitat intestinale), ma possono essere causate anche da
virus e miceti. Più raramente, i microrganismi raggiungono
il parenchima renale per via ematogena come forme metastatiche conseguenti a batteriemie provocate da microrganismi
relativamente virulenti quali S. aureus a partenza da focolai
ossei, cutanei o endocarditici. Esse sono più frequenti in
pazienti sottoposti a terapie immunodepressive o nei soggetti
debilitati per malattie croniche.
Tra i fattori favorenti l’insorgenza di una pielite/pielonefrite,
vanno annoverati la gravidanza, le anomalie anatomiche o funzionali delle vie urinarie, alcune nefropatie croniche (nefroangiosclerosi, rene policistico, amiloidosi renale, idronefrosi), il
diabete mellito e la cateterizzazione urinaria.
La pielonefrite cronica è una delle principali cause di insufficienza renale cronica. Espressione quasi sempre di un’infezione persistente (forma attiva) o trascorsa (forma inattiva),
l’evoluzione in cronicità è più frequente in seguito a nefropatia ostruttiva e nei pazienti diabetici o vasculopatici.
Patogenesi. L’uretra è normalmente colonizzata da batteri,
ed il fatto che le IVU siano più comuni nel sesso femminile
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dà sostegno all’importanza della via ascendente. L’uretra femminile, grazie alla sua localizzazione anatomica in prossimità
delle aree caldo-umide vulvari e perianali, è più predisposta
alla contaminazione; inoltre, la sua brevità permette un rapido
accesso alla vescica. È stato notato, infatti, che i microrganismi
che determinano IVU nelle donne colonizzano l’ostio vaginale e
l’area periuretrale prima che si determini l’infezione. Una volta
all’interno della vescica, i batteri possono moltiplicarsi e poi
passare oltre gli ureteri fino alla pelvi ed al parenchima renale.
E. coli è responsabile della maggioranza delle pielonefriti,
tuttavia solo alcuni sierotipi, in particolare O1, O2, O4, O6,
O7, O18 e O75, determinano un’alta percentuale di infezioni.
Questi ceppi di E. coli sono selezionati dalla flora fecale per la
presenza di fattori di virulenza, tra cui l’aumentata adesività
alle cellule uroepiteliali. È stato dimostrato, infatti, che ceppi
di E. coli isolati da pazienti con pielonefrite aderiscono meglio
degli stipiti responsabili di cistite, e che i ceppi uropatogeni
tendono ad aderire alle cellule uroepiteliali più strettamente
che non i ceppi di E. coli isolati casualmente dalle feci. I tipi
più importanti di adesine superficiali tra gli stipiti di E. coli
uropatogeno sono di natura fimbriale. Anche per altre specie
batteriche è stata dimostrata l’importanza dell’adesività nella
patogenesi delle IVU: per esempio, P. mirabilis aderisce alla
mucosa renale grazie alla presenza di fimbrie.
Altre caratteristiche batteriche possono essere importanti nel
determinare una pielonefrite. Batteri mobili possono risalire
l’uretere in senso contrario al flusso urinario e le endotossine
dei bacilli gram-negativi diminuiscono la peristalsi ureterale
e contribuiscono alla risposta infiammatoria del parenchima
renale con l’attivazione delle cellule fagocitiche. Inoltre, la
produzione di ureasi da parte dei microrganismi infettanti
quali quelli del genere Proteus è stata messa in relazione con
la capacità di causare pielonefrite.
Infine, anche il reflusso vescicoureterale, sia esso dovuto ad
anomalia congenita, a sovradistensione della vescica o ad eziologia sconosciuta, contribuisce all’insorgenza di pielonefrite
per via ascendente. Pazienti con incompleto svuotamento
della vescica sia per ragioni meccaniche (ostruzione del collo
vescicale, valvole uretrali, restringimenti uretrali, iperplasia
prostatica), sia per disfunzioni neurologiche (poliomielite,
tabe dorsale, neuropatia diabetica, danno midollare) sono
infatti inclini a frequenti infezioni, poiché il reflusso tende a
perpetuare l’infezione mantenendo in vescica un residuo di
urine infette dopo lo svuotamento.
Sintomatologia. Il quadro clinico tipico della pielonefrite acuta comprende febbre elevata preceduta da brivido, malessere
generale, dolore al fianco e alla regione lombare e costovertebrale, per lo più associata a sindrome cistitica. Il dolore
renale è occasionalmente riferito alla regione epigastrica e
può essere irradiato ad uno dei quadranti inferiori, ponendo
talora problemi di diagnosi differenziale con le patologie a
carico delle vie biliari e con l’appendicite.
All’esame obiettivo risulta in genere positivo il segno di Giordano: la percussione della regione lombare dal lato interessato dall’infezione, effettuata con il taglio della mano, evoca
intenso dolore.
La pielonefrite cronica può far seguito a forme acute manifeste o rivelarsi come tale, espressione di pregresse infezioni
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
asintomatiche. Gli aspetti clinici appaiono sfumati, di rado
specifici, e quindi la diagnosi è spesso difficile; non è rara
l’evoluzione in rene grinzo pielonefritico senza che sia stato
possibile riconoscere in precedenza la nefropatia in atto.
Predominano sintomi sistemici come febbricola, astenia, dimagrimento, anemizzazione, ai quali possono accompagnarsi
dolori lombari e vaghi disturbi minzionali.
Diagnosi. L’esame delle urine e del sedimento evidenzia tipicamente la presenza di cilindruria ialina o leucocitaria,
nonché di piuria e batteriuria e spesso proteinuria, con pH
generalmente alcalino. Anche nelle pielonefriti l’urinocoltura
rappresenta l’esame microbiologico imprescindibile.
Allo scopo di evidenziare la diminuita efficacia dell’emuntorio
renale, è opportuno studiare i parametri ematici ed urinari di
funzionalità renale (azotemia, creatininemia, clearance della
creatinina), mentre tra le indagini radiologiche l’ecografia ha
ormai soppiantato l’urografia quale mezzo per documentare
il grado di sofferenza del parenchima renale, sia nelle forme
acute sia in quelle croniche.
Prognosi. Il singolo episodio isolato di pielonefrite acuta in
un soggetto senza significativi fattori di rischio ha una prognosi eccellente e solo rarissimamente evolve in pielonefrite
cronica oppure si complica con una necrosi papillare renale
o con ascessi renali o perirenali, evenienze invece ben più
frequenti in soggetti predisposti (per anomalie delle vie urinarie, nefropatie preesistenti, diabete mellito, vasculopatie)
o nelle donne gravide.
Terapia. In passato i pazienti con pielonefrite acuta venivano
ospedalizzati per effettuare una terapia antibiotica endovenosa ad ampio spettro per settimane. Da tempo è possibile
trattare forme non complicate – in particolare le pielonefriti
non batteriemiche – anche in ambito domiciliare, impiegando
antibiotici somministrabili per via orale per 5-7 giorni (fluorochinoloni) o per 14 giorni (amoxicillina-acido clavulanico,
cefalosporine orali, cotrimoxazolo).
Nelle forme gravi, nonché in presenza di batteriemia, è invece
consigliabile l’ospedalizzazione del paziente per intraprendere una terapia parenterale. In attesa dell’antibiogramma e
qualora non vi siano fattori di rischio per infezioni causate
da microrganismi multiresistenti, si impiegano regimi che
comprendono il ceftriaxone associato ad un aminoglucoside
(amikacina, gentamicina), oppure una penicillina protetta
(piperacillina-tazobactam o ticarcillina-acido clavulanico,
preferibili rispetto ad amoxicillina-acido clavulanico e ampicillina-sulbactam) o ancora un fluorochinolone, fino ad avvenuto miglioramento clinico. In base al principio della terapia
sequenziale, è possibile prevedere il passaggio a terapie orali
con una cefalosporina orale di III generazione, nel caso che
sia stato impiegato il ceftriaxone, oppure con cotrimoxazolo
per complessivi 14-21 giorni. In aree ad elevata frequenza
di ceppi di Enterobacteriaceae ESBL-produttori si rende in
genere necessario il ricorso ad un carbapeneme (ertapenem,
imipenem, meropenem).
Nella Tab. 15.5 sono riportati gli antibiotici prescrivibili nella
terapia delle pielonefriti. La pielonefrite acuta in gravidanza
deve essere trattata in ambito nosocomiale con l’iniziale somministrazione ev di ceftriaxone nelle forme lievi-moderate o di
un carbapeneme in quelle gravi, con eventuale passaggio ad
una cefalosporina orale quando il miglioramento del quadro
clinico lo consenta.
La terapia antibiotica della pielonefrite cronica ha la sua validità nei periodi di attività della malattia, sulla base dei risultati
dell’urinocoltura e relativo antibiogramma. L’evoluzione in
rene grinzo bilaterale potrà rendere necessari trattamenti
sostitutivi quali emodialisi e dialisi peritoneale.
PROSTATITI BATTERICHE
Le prostatiti batteriche sono infezioni relativamente comuni nel
soggetto adulto e anziano; possono manifestarsi in forma acuta
(e in tal caso la diagnosi clinica è agevole) o cronica, di più difficile riconoscimento. Le ipotesi relative alle modalità con cui i
batteri raggiungono la prostata includono la via ematogena, la
via ascendente dall’uretra e la via linfatica dal retto. Le manovre
invasive e gli interventi chirurgici possono rappresentare fattori
di rischio. Le forme croniche o acute cronicizzate costituiscono
la più frequente causa di infezioni ricorrenti delle vie urinarie
in assenza di anomalie anatomofunzionali; sono di assai arduo
trattamento, poiché la maggior parte dei chemioantibiotici non
penetra adeguatamente nei liquidi prostatici.
Eziologia. I bacilli aerobi gram-negativi (E. coli, Proteus spp.,
patogeni del gruppo KES) sono responsabili della maggioranza degli episodi di prostatite batterica, sia acuti che croni-
Tab. 15.5 Antibiotici prescrivibili nella terapia delle pielonefriti*.
Forme non complicate (per os)
Forme complicate (ev)
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
• Ceftriaxone, 2 g/die + amikacina, 15 mg/kg/die
(o gentamicina 3-5 mg/kg/die)
• Piperacillina-tazobactam, 4,5 g ogni 6-8 ore
• Ticarcillina-acido clavulanico, 3,2 g ogni 6 ore
• Ciprofloxacina, 400 mg ogni 12 ore
• Levofloxacina, 750 mg/die
• Ertapenem, 1 g/die
• Imipenem, 500 mg ogni 6 ore
• Meropenem, 1 g ogni 8 ore
Ciprofloxacina, 500 mg ogni 12 ore
Levofloxacina, 750 mg/die
Moxifloxacina, 400 mg/die
Ofloxacina, 400 mg ogni 12 ore
Amoxicillina-acido clavulanico, 1 g ogni 8 ore
Cefuroxima axetil, 500 mg ogni 12 ore
Cefpodoxima proxetil, 200 mg ogni 12 ore
Cefixima, 400 mg/die
Ceftibuten, 400 mg/die
Cotrimoxazolo, 960 mg ogni 12 ore
*Dosi giornaliere in soggetti adulti con funzionalità renale normale.
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
ci, mentre N. gonorrhoeae, prevalente in era preantibiotica, è
attualmente una causa infrequente di prostatite acuta. E. coli
è responsabile di circa l’80% dei casi; il 10-15% è dovuto a
P. aeruginosa, Serratia spp. Klebsiella spp. e Proteus spp., mentre nel restante 5-10% dei casi sono in causa gli enterococchi.
Dal punto di vista anatomopatologico, le lesioni appaiono
aspecifiche, inizialmente focali e quindi diffuse, consistenti
in iperemia, edema, infiltrazione linfoplasmacellulare con
presenza anche di macrofagi e granulociti neutrofili. Talora
si formano numerosi piccoli ascessi. Nella prostatite cronica
le lesioni sono focali, con scarsa flogosi.
Sintomatologia. La sintomatologia della prostatite batterica
acuta è rilevante, con febbre elevata preceduta da brivido,
tensione o dolore perineale, disturbi della minzione; le manifestazioni cliniche appaiono talvolta di estrema gravità con
un quadro di tossiemia.
La prostatite cronica è caratterizzata da un’estrema variabilità
clinica, potendo risultare del tutto asintomatica o presentarsi
con senso di peso perineale, lombosacralgia, disuria e febbricola con ricorrenti episodi di IVU causati sempre dallo stesso
microrganismo.
Diagnosi. Nella prostatite acuta l’esplorazione rettale evidenzia una prostata dolente, ingrossata ed edematosa, con area
fluttuante in caso di evoluzione ascessualizzante, tutti reperti
che vengono confermati dallo studio radiologico effettuato
mediante ecografia e, solo nei casi meno evidenti, tomografia
computerizzata e risonanza magnetica. L’esame standard delle
urine mostra generalmente piuria.
Per la diagnosi microbiologica è di fondamentale importanza
l’esecuzione di un’urinocoltura da mitto intermedio (essendo
il massaggio prostatico gravato da un inaccettabile rischio di
disseminazione ematogena), di una spermiocoltura e talvolta
di emocolture.
La diagnosi di prostatite cronica, meno agevole rispetto a quella
della forma acuta, è basata sul riscontro di frequenti e ricorrenti
batteriurie imputabili allo stesso microrganismo, sull’esame
microbiologico delle urine da mitto intermedio e del secreto
prostatico ottenuto mediante massaggio e sull’indagine ecografica, che documenta le ridotte dimensioni del parenchima
ghiandolare e l’eventuale presenza di calcificazioni.
Prognosi. Possibili complicanze di una prostatite acuta sono
rappresentate dalle recidive, dalla cronicizzazione del processo e da ascesso ed infarto prostatici, soprattutto in soggetti
immunocompromessi, quali i diabetici, o in pazienti con corpi
estranei (calcoli) od ostruzione urinaria.
La guarigione di una prostatite cronica, una volta ritenuta
praticamente impossibile se non attraverso l’intervento chirurgico per i motivi che verranno esposti a proposito della
terapia antibiotica, è oggi resa possibile dalla disponibilità di
agenti, quali i fluorochinoloni, dotati di eccellente penetrazione nel parenchima prostatico anche in condizioni di ridotta
vascolarizzazione, come in questa forma.
Terapia. La prostata è uno dei cosiddetti santuari farmacologici, poiché il suo parenchima è difficilmente raggiungibile
da parte degli antibiotici, in particolare in caso di prostatite
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cronica, ossia quando la vascolarizzazione è molto ridotta,
oppure in caso di alterazioni del pH del secreto prostatico o
in presenza di calcoli prostatici. Nella prostatite acuta, invece,
l’intensa flogosi favorisce la soddisfacente diffusione di numerosi agenti antimicrobici: il regime terapeutico consiste, in
questo caso, nella somministrazione orale per 14-28 giorni di
cotrimoxazolo, 960 mg ogni 12 ore o di un fluorochinolone ai
dosaggi riportati nella Tab. 15.5. Il drenaggio di un eventuale
ascesso, da effettuarsi per via perineale o transuretrale, è di
fondamentale importanza non solo a scopo terapeutico, ma
anche diagnostico, permettendo così l’esecuzione di un’adeguata coltura in modo da isolare il microrganismo responsabile ed effettuare una terapia antibiotica mirata.
Nella prostatite cronica i farmaci di scelta sono costituiti dai
fluorochinoloni, che raggiungono livelli terapeutici efficaci
assai superiori a quelli ottenibili con il cotrimoxazolo: dopo
12 settimane di terapia con quest’ultimo al dosaggio di 960 mg
2 volte al giorno è stato osservato un successo clinico nel
30-40% dei pazienti trattati, mentre la percentuale supera il
90% in caso di trattamento con un fluorochinolone (ciprofloxacina, levofloxacina) per 4 settimane. I fallimenti terapeutici
vengono osservati prevalentemente in pazienti con calcoli
prostatici infetti.
INFEZIONI A TRASMISSIONE SESSUALE
Le infezioni o malattie a trasmissione sessuale sono un gruppo
di patologie di interesse multidisciplinare che colpiscono
soprattutto giovani adulti sessualmente attivi. Alcuni gruppi
di popolazione, per la frequenza dei comportamenti a rischio
(maschi che hanno rapporti sessuali con maschi, soggetti che
si prostituiscono) e/o per una maggiore suscettibilità biologica (donne, adolescenti e pazienti con infezione da HIV),
mostrano un’aumentata prevalenza di queste patologie. Si
tratta di infezioni frequentemente silenti o paucisintomatiche
anche per lunghi periodi di tempo durante i quali, tuttavia, il
paziente è contagioso. Accanto alle malattie tradizionalmente
riconosciute come sessualmente trasmissibili (sifilide, gonorrea, ulcera molle, linfogranuloma venereo), negli ultimi anni
è emersa una serie di infezioni che possono riconoscere anche
la via sessuale come modalità di trasmissione (Tab. 15.6).
Le principali sindromi con le quali le infezioni a trasmissione
sessuale si manifestano sono riassunte nella Tab. 15.7. La gestione del paziente con diagnosi di una particolare infezione a
trasmissione sessuale deve sempre prevedere la ricerca di altre
infezioni acquisite tramite la medesima via e la valutazione
e trattamento del partner. Di seguito vengono trattate solo
alcune di queste infezioni. Si rimanda agli specifici capitoli
per le infezioni da virus dell’epatite B e C, virus dell’immunodeficienza umana (HIV), papillomavirus umano e virus
herpes simplex (HSV).
Sifilide
La sifilide, o lue, è una malattia sistemica causata da Treponema pallidum, un batterio a prevalente trasmissione sessuale.
Dal punto di vista clinico viene classicamente suddivisa in
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650
Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
Tab. 15.6 Agenti patogeni a potenziale
trasmissione sessuale.
Batteri
Virus
Altri*
Trasmessi prevalentemente attraverso rapporti sessuali
• Neisseria gonorrhoeae
• HIV-1 e HIV-2
• Trichomonas
• Chlamydia trachomatis
• HSV-2
vaginalis
• Treponema pallidum
• HBV
• Phthirus pubis
• Haemophilus ducreyi
• Papillomavirus
• Klebsiella
• Virus del mollusco
granulomatis
contagioso
• Ureaplasma
• HTLV-1
urealyticum
• Mycoplasma
genitalium
Trasmissione sessuale, descritta ma non prevalente
• Mycoplasma hominis
• CMV
• Candida albicans
• Gardnerella vaginalis
• HCV
• Sarcoptes scabiei
• Streptococchi
• HDV
di gruppo B
• HHV-8
• Mobiluncus spp.
• HTLV-2
• EBV
Trasmissione sessuale per esposizione fecale-orale
• Shigella spp.
• HAV
• Entamoeba
• Campylobacter spp.
histolytica
• Giardia lamblia
*Inclusi miceti, ectoparassiti e protozoi.
stadi le cui manifestazioni possono in parte sovrapporsi le une
con le altre. Le donne in gravidanza affette da sifilide possono
trasmettere l’infezione al prodotto del concepimento, se non
adeguatamente trattate.
Eziologia. L’agente eziologico della sifilide è T. pallidum sottospecie pallidum, microrganismo appartenente all’ordine
Spirochaetales, famiglia Spirochaetaceae, genere Treponema.
Ha una lunghezza di 5-15 μm, forma sottile ed elicoidale, e
nei campioni biologici può essere identificato all’esame microscopico in campo oscuro o tramite immunofluorescenza
grazie al suo movimento “a cavatappi”. È estremamente labile
al di fuori dei tessuti umani e viene facilmente inattivato dal
calore, dall’essiccamento, dai saponi e dall’acqua, ragioni per
cui non è possibile coltivarlo in vitro. Inoltre, è indistinguibile
morfologicamente e con le indagini sierologiche dagli altri
treponemi agenti responsabili delle treponematosi endemiche.
Epidemiologia. La sifilide si trasmette principalmente attraverso i rapporti sessuali in presenza di una lesione cutanea o
mucosa attiva, mentre sono eccezionali i casi di contagio per
contatti affettuosi (baci). È possibile anche la trasmissione
accidentale al personale sanitario per contatto della cute con
secrezioni infette. La trasmissione tramite emotrasfusione è
molto rara, perché T. pallidum non sopravvive per tempi
prolungati alle temperature di conservazione del sangue.
L’infezione può essere trasmessa per via transplacentare
qualora la madre non venga trattata: ciò si verifica nel 60100% dei casi in corso di sifilide primaria o secondaria,
nel 40% durante la sifilide latente precoce e nell’8% nella
forma latente tardiva. La trasmissione verticale può essere
prevenuta nella maggioranza dei casi se in gravidanza viene
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somministrata una terapia adeguata e tempestiva. Più rare
sono la trasmissione perinatale, dovuta a contatto del neonato con lesioni luetiche perineali della madre durante il
passaggio attraverso il canale del parto, e quella postnatale
nel corso dell’allattamento per la presenza di lesioni localizzate ai capezzoli.
Annualmente, secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità (OMS), si verificano circa 12 milioni di nuove
infezioni da T. pallidum, la maggior parte delle quali nell’Africa subsahariana, in America Latina e in Asia. A partire
dagli anni Novanta, in molte nazioni dell’Europa occidentale,
negli Stati Uniti, in Canada e in Australia si è assistito a un
nuovo incremento del numero di casi di sifilide osservati,
come conseguenza sia della liberalizzazione dei costumi sia
dell’aumento dei comportamenti a rischio soprattutto tra i
maschi omosessuali. Un incremento dei casi è stato osservato
anche in Europa orientale a seguito dalla disgregazione dei
sistemi sanitari successiva alla caduta dell’Unione Sovietica e,
in tempi più recenti, in Cina per i profondi mutamenti sociali
indotti dalla crescita economica, con diffusione del fenomeno
della prostituzione.
Patogenesi. Al momento del contagio, T. pallidum invade
la barriera mucosa o cutanea replicandosi rapidamente. Nel
sito d’inoculo, dopo alcuni giorni appare il sifiloma, la lesione
caratteristica della sifilide primaria da cui il microrganismo si
dissemina, tramite i vasi linfatici, per poi raggiungere il torrente circolatorio localizzandosi nei vari organi. La presenza
del microrganismo induce la risposta immune, responsabile
di processi flogistici endoarteritici e perivascolari e successivi
fenomeni di fibrosi e necrosi simil-caseosa, mentre il ruolo
patogenetico diretto di T. pallidum diventa più marginale con
il passare del tempo. Questi eventi si riflettono clinicamente
nei successivi stadi di sifilide secondaria, latente e terziaria. Va
ricordato che la risposta immunitaria non genera immunità
protettiva nei confronti di reinfezioni. Nel caso della sifilide
congenita, T. pallidum raggiunge il feto direttamente per via
ematogena tramite i vasi del funicolo, durante le fasi di spirochetemia materna. Anche nell’infezione congenita il ruolo del
sistema immunitario è fondamentale, in quanto è stato osservato che il feto, sebbene possa essere infettato già nelle prime
settimane di gravidanza, non sviluppa danni tessutali fino al II
trimestre, momento in cui l’immunità fetale inizia a costituirsi.
Sintomatologia. La sifilide è denominata “la grande imitatrice” per le molteplici manifestazioni alle quali può dare luogo
rendendone non agevole la diagnosi.
Sifilide primaria. Segue al contagio, con un periodo di incubazione compreso tra 10 e 90 giorni (in media 21 giorni).
La lesione primaria appare nel sito d’inoculo come una maculopapula di colore rosso scuro che si erode in superficie,
dando luogo a una formazione ulcerata detta sifiloma. Questa
si presenta a margini netti e regolari, di dimensioni variabili
da qualche millimetro a qualche centimetro, ricoperta da
scarso essudato sieroso; presenta una base dura e infiltrata
e non è dolente. In genere la lesione è singola e può essere
accompagnata da linfoadenopatia locoregionale. Il sifiloma è
frequentemente misconosciuto nella donna a causa della sua
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
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Tab. 15.7 Agenti eziologici ed elementi di diagnosi differenziale delle principali sindromi a trasmissione
sessuale.
Agenti eziologici
Elementi clinici distintivi
Esami diagnostici per la diagnosi
differenziale
1. Sindrome caratterizzata da ulcere genitali
Treponema pallidum
Ulcera (5-20 mm) non dolente, infiltrata
RPR (o VDRL) + TPHA (o FTA-ABS o T. pallidum
IgG-IgM EIA) + indagine al microscopio a campo
oscuro
Virus herpes simplex tipo 1 e tipo 2
Vescicole o ulcere (<8-10 mm) multiple dolenti
PCR per HSV-1 e HSV-2 da tampone + sierologia
per HSV-1 e HSV-2 tipo-specifica
Chlamydia trachomatis (sierotipi L1-L3)
Piccola ulcera (2-10 mm) genitale autolimitante
Sierologia per C. trachomatis, esecuzione
Presenza di linfoadenopatia inguinale e/o proctite di NAAT per ricerca di C. trachomatis da lesioni
ulcerate o aspirato linfonodale
Haemophilus ducreyi
Ulcera dolente, non infiltrata, facilmente
sanguinante al contatto
Considerare epidemiologia. Coltura e PCR
specifica, se disponibile. Esclusione di sifilide
e HSV-1 e HSV-2
Klebsiella granulomatis
Ulcera cronica deturpante
Considerare epidemiologia. Dimostrazione
dei corpi di Donovan tramite scraping, esame
microscopico o biopsia
2. Sindrome caratterizzata da secrezione uretrale nel maschio
Neisseria gonorrhoeae
Abbondante secrezione uretrale purulenta
Esame microscopico per ricerca di diplococchi
gram-negativi nel secreto uretrale. Esame
colturale da tampone e/o NAAT per ricerca
di N. gonorrhoeae su urine o tampone uretrale
Chlamydia trachomatis (sierotipi D-K)
Scarsa secrezione uretrale mucopurulenta
NAAT per ricerca di C. trachomatis su urina
o tampone uretrale
Mycoplasma genitalium o Ureaplasma
urealyticum resistenti a doxiciclina,
Trichomonas vaginalis
Persistenza di segni e sintomi dopo trattamento
efficace per N. gonorrhoeae e C. trachomatis
Diagnosi clinica, NAAT su urina o tampone
uretrale
3. Sindrome caratterizzata da secrezioni vaginali anomale*
Cervicite da N. gonorrhoeae
Segni di flogosi cervicale, sanguinamento
intermestruale, segni e sintomi di PID
Esame colturale e/o NAAT per ricerca
di N. gonorrhoeae su tampone vaginale, cervicale
o urine
Cervicite da C. trachomatis
Segni di flogosi cervicale, sanguinamento
intermestruale, segni e sintomi di PID
NAAT per ricerca di C. trachomatis su tampone
vaginale, cervicale o urine
EIA, Enzyme Immunoassay; FTA-ABS, Fluorescent Treponemal Antibody Absorption Test; NAAT, Nucleic Acid Amplification Test; PCR, Polymerase Chain
Reaction – reazione a catena della polimerasi; PID, Pelvic Inflammatory Disease – malattia infiammatoria pelvica; RPR, Rapid Plasma Reagin; TPHA,
Treponema Pallidum Hemagglutination Assay; VDRL, Venereal Disease Research Laboratory.
*La sindrome caratterizzata da secrezioni vaginali anomale può essere dovuta anche alle vulvovaginiti.
Altri possibili quadri sindromici sono: linfoadenopatia inguinale (H. ducreyi, C. trachomatis sierotipi L1-L3); tumefazione scrotale (N. gonorrhoeae,
C. trachomatis, batteri gram-negativi, M. tuberculosis, Brucella spp.); dolore addominale dei quadranti inferiori nella donna (agenti eziologici della PID).
localizzazione intravaginale o a livello di cervice, perineo, piccole labbra. Nell’uomo il sifiloma è generalmente localizzato
sul pene. I sifilomi extragenitali colpiscono la cavità orale, le
zone periorali, la regione perianale, la cute vicino al capezzolo e le mani. Il sifiloma guarisce spontaneamente in media
entro 4-6 settimane (limiti 2-12 settimane), ma la linfoadenite
satellite può persistere per diversi mesi.
Sifilide secondaria. A distanza di 4-8 settimane dalla comparsa
della lesione primaria si possono osservare i segni e i sintomi
dello stadio secondario.
L’80% circa dei pazienti mostra lesioni a carico della cute e
delle mucose; l’eruzione cutanea può presentarsi con morfolo-
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gia variegata (macule, papule, maculopapule, pustole, talvolta
con elementi squamosi); le lesioni sono diffuse, simmetriche
(Figg. 15.1 e 15.2), non pruriginose, con evoluzione centrifuga e possono interessare le palme delle mani (Fig. 15.3) e
le piante dei piedi. Quando le lesioni coinvolgono le pieghe
cutanee e le regioni umide (zona perianale, vulva, scroto, solco
sottomammario) a volte confluiscono in placche di colorito
roseo o bianco-grigiastro, indolenti, note come condylomata
lata. A livello mucoso talora compaiono, in modo simile,
placche ed erosioni indolenti. Sia le lesioni cutanee sia quelle
mucose sono ricche di treponemi e perciò molto contagiose.
Più raramente l’eruzione cutanea va incontro ad evoluzione
necrotica (lue maligna), un fenomeno osservato in particolare
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
FIG. 15.1 - Sifilide secondaria con lesioni al volto.
FIG. 15.2 - Sifilide secondaria: lesioni papulopustolose diffuse
al tronco.
FIG. 15.3 - Eruzione palmare in corso di sifilide secondaria.
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nei pazienti HIV-sieropositivi. A carico degli annessi piliferi
possono evidenziarsi alopecia (diffusa o areolare temporoparietale) e caduta dei peli in regione sopraccigliare, mentre le
unghie presentano l’onichia e la paronichia luetica. Il secondo
organo bersaglio più frequentemente colpito in corso di sifilide secondaria è il sistema nervoso centrale (neurosifilide),
con sintomi di meningite a liquor limpido o coinvolgimento
dei nervi cranici. Appare significativo (5-10%) anche l’interessamento oculare con uveite anteriore o neurite ottica e
quello epatico (circa il 25% dei pazienti mostra alterazioni
delle transaminasi sieriche), mentre è rara l’epatite luetica; il
rene, a seguito della deposizione di immunocomplessi, può
essere coinvolto con quadri di glomerulonefrite e sindrome
nefrosica.
Tutte le manifestazioni d’organo della sifilide secondaria possono accompagnarsi a manifestazioni sistemiche che includono febbre (5-8%), malessere generale (25%), cefalea (10%),
faringodinia (15-30%), calo ponderale (2-20%) e artralgie;
nella maggior parte dei casi si rileva una linfoadenopatia generalizzata (che interessa anche le stazioni epitrocleari) e nel
15-30% degli individui è osservabile la lesione primaria in
fase di guarigione.
Sifilide latente. In assenza di trattamento, lo stadio secondario
evolve in sifilide latente, definita come condizione di positività
ai test sierologici in assenza di evidenza clinica di infezione da
T. pallidum. Nei primi anni dell’infezione latente (in genere
nei primi 4 anni), possono ricomparire alcuni sintomi e segni
della sifilide secondaria. In accordo con la definizione dei
Centers for Disease Control and Prevention (CDC), entro il
primo anno dall’infezione primaria si parla di sifilide latente
precoce, mentre successivamente viene utilizzata la denominazione sifilide latente tardiva. In corso di sifilide latente tardiva
è consigliabile l’esecuzione di una radiografia del torace per
escludere un coinvolgimento asintomatico dell’aorta (sifilide
terziaria cardiovascolare). I pazienti con sifilide latente tardiva
sono usualmente non contagiosi, con l’eccezione delle donne
gravide, che possono trasmettere l’infezione al feto anche a
distanza di molti anni.
Sifilide terziaria. Il mancato riconoscimento e trattamento è il
motivo per cui circa il 20-30% dei pazienti con sifilide latente
va incontro a distanza di alcuni anni o decenni alle manifestazioni tipiche della sifilide terziaria o tardiva. Si osserva in
questi casi la formazione di lesioni nodulari dette “gomme”,
che possono interessare qualsiasi organo o apparato, ma più
frequentemente si localizzano alla cute, alle ossa e all’encefalo. Poiché le gomme rispondono alla terapia con penicillina,
questo stadio viene indicato come sifilide tardiva benigna. Le
gomme sono granulomi infiammatori di dimensioni variabili
da alcuni millimetri a diversi centimetri. A livello cutaneo
danno origine a noduli duri alla palpazione ma indolenti, che
possono ulcerarsi guarendo con una cicatrice atrofica a bordi
iperpigmentati. Devono essere distinte dalle analoghe manifestazioni indotte dalla lebbra, da infezioni da micobatteri e
miceti. Quando vi è un coinvolgimento scheletrico, questo
predilige le ossa lunghe, quelle del cranio e le clavicole; è
caratteristico il dolore notturno, mentre i quadri radiologici
includono periostite e lesioni litiche o sclerotiche. La presenza
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
delle gomme a livello dello stomaco può simulare un carcinoma o un linfoma gastrico. Infine, l’interessamento delle vie
aeree superiori e dell’orofaringe può essere responsabile di
perforazione del setto nasale e del palato.
Neurosifilide. Il coinvolgimento del sistema nervoso centrale può avvenire sia negli stadi iniziali della sifilide (si veda
paragrafo sulla sifilide secondaria), sia negli stadi tardivi.
La tabe dorsale, la sifilide meningovascolare e la demenza
paralitica (o paralisi generale) costituiscono le manifestazioni
tipiche del coinvolgimento neurologico tardivo, anche se
questa suddivisione non è assoluta e si può assistere ad una
sovrapposizione dei quadri clinici. La forma meningovascolare è contraddistinta da una vasculite a carico dei vasi di
qualsiasi calibro associata a infiammazione meningea. Esordisce in genere entro 5-10 anni dall’infezione primaria con
un quadro di accidente cerebrovascolare, spesso preceduto
da una fase prodromica encefalica (insonnia, cefalea, vertigini, alterazioni psichiche). La paralisi generale consegue
a un danno parenchimale diffuso con progressiva perdita
delle funzioni corticali superiori. Viene osservata a distanza
di 10-20 anni dall’infezione primaria. Il processo patologico è contraddistinto da una reazione infiammatoria cronica
meningea e perivascolare con ispessimento delle meningi,
ependimite granulare e degenerazione del parenchima cerebrale. Clinicamente è responsabile della comparsa di disturbi
delle funzioni intellettive superiori (perdita della memoria
a breve termine, delle capacità di calcolo, orientamento e
giudizio, afasia); neurosensoriali (allucinazioni, illusioni) e
motorie (paralisi). La tabe dorsale è la manifestazione più
tardiva (osservata in genere dopo 20-30 anni dall’infezione
iniziale); il processo degenerativo provoca demielinizzazione
a carico dei cordoni posteriori e delle radici nervose dorsali
con abolizione dei riflessi periferici, parestesie, atassia progressiva, dolori lancinanti soprattutto agli arti inferiori. Nel
90% dei pazienti si evidenzia assenza del riflesso pupillare
fotomotore agli stimoli luminosi, mentre è conservato quello
all’accomodazione (pupilla di Argyll Robertson); il 20% dei
soggetti con tabe dorsale presenta atrofia ottica. Sono inoltre
descritte alterazioni degenerative a carico delle articolazioni
(articolazioni di Charcot), impotenza, incontinenza urinaria e
ulcerazioni perforanti alle piante dei piedi.
Sifilide cardiovascolare. Le due manifestazioni cardiovascolari
più frequenti della sifilide tardiva sono l’insufficienza aortica
e l’aneurisma dell’aorta ascendente (soprattutto dell’arco
aortico). In era preantibiotica queste complicanze venivano
osservate nel 10% circa dei pazienti, mentre oggi nei paesi
industrializzati sono rare.
Sifilide in gravidanza e sifilide congenita. L’infezione materna
non trattata, durante la gravidanza può essere responsabile
della comparsa di diverse complicanze: aborto spontaneo,
morte fetale intrauterina, idrope fetale non immune, morte perinatale, prematurità, ritardo di crescita intrauterina,
basso peso alla nascita e, infine, sifilide congenita. Come già
riportato nel paragrafo sull’epidemiologia, la probabilità di
trasmissione materno-fetale dipende dallo stadio dell’infezione materna.
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Nel caso l’infezione venga trasmessa, solo un terzo dei bambini presenterà manifestazioni cliniche di sifilide congenita
alla nascita, mentre i restanti due terzi potranno sviluppare
problemi negli anni a venire. Per una trattazione dettagliata
dell’infezione congenita, si veda a pag. 938.
Sifilide e infezione da HIV. In considerazione della comune
via di trasmissione sessuale, la coinfezione sifilide-HIV è
piuttosto frequente. La presenza di sifiloma o di altra lesione
mucocutanea aumenta di 3-5 volte il rischio di trasmissione
di HIV. La sifilide nei soggetti HIV-sieropositivi, soprattutto
nello stadio secondario, presenta un decorso più aggressivo
e prolungato con imponente eruzione cutanea e frequente
coinvolgimento oculare e neurologico. I soggetti coinfetti
presentano spesso titoli elevati ai test non treponemici, ma
non è chiaro se questo fenomeno sia ascrivibile ad alterazioni
nella risposta immunitaria indotte da HIV o una maggiore
virulenza e minor risposta terapeutica della sifilide in questi
soggetti.
Diagnosi. L’isolamento colturale di T. pallidum, come è stato
ricordato in precedenza, non è possibile: pertanto la diagnosi
di sifilide si avvale di metodi di identificazione diretta (microbiologici), in realtà poco utilizzati nella pratica clinica e di
metodi indiretti (sierologici).
Le prove microbiologiche possono essere eseguite sul materiale prelevato da tessuti in cui si sospetta la presenza di
T. pallidum. L’osservazione microscopica in campo oscuro è
di rapida esecuzione ed economica, ma la sua sensibilità non
supera il 70-80%. La PCR è una tecnica sensibile, ma non è
ancora impiegata nella pratica clinica ed è costosa. Infine, è
possibile identificare T. pallidum su preparati istologici utilizzando specifiche colorazioni (Warthin-Starry) o mediante
immunofluorescenza diretta.
Le prove sierologiche sono di due tipi: “test treponemici” e
“non treponemici”, entrambi necessari per porre una corretta diagnosi. I primi accertano la presenza dell’infezione da
T. pallidum, mentre i secondi valutano l’attività della malattia. Uno schema interpretativo della sierologia per sifilide è
riportato nella Tab. 15.8.
I test non treponemici più utilizzati sono la prova di flocculazione VDRL (Venereal Disease Research Laboratory) e
quella di agglutinazione RPR (Rapid Plasma Reagin); entrambi
rilevano con l’uso di un antigene cardiolipinico-lecitinico la
presenza di anticorpi IgG ed IgM. I risultati dei test possono
essere espressi in termini qualitativi o quantitativi (titolazione), con quest’ultima opzione preferibile. Il titolo (alla più
alta diluizione positiva) riflette l’attività della malattia e la sua
determinazione seriata permette di individuare il successo
o, viceversa, il fallimento della terapia e le reinfezioni. In
alcuni pazienti, dopo trattamento adeguato, VDRL e/o RPR
possono rimanere positivi a basso titolo senza essere necessariamente indicativi di fallimento terapeutico. I limiti delle
prove non treponemiche sono rappresentati da sensibilità e
specificità non elevate. La determinazione può risultare falsamente negativa in corso di sifilide precoce se eseguita nel
periodo di finestra sierologica (solitamente 1-3 settimane);
per il fenomeno di prozona (falsa negatività del test a basse
diluizioni in presenza di titoli anticorpali elevati) o per una
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
Tab. 15.8 Schema esemplificativo per l’interpretazione dei test sierologici per sifilide.
Test non treponemico
(RPR o VDRL)
Test treponemico
(TPHA, EIA, FTA-ABS) (1)
Possibili interpretazioni (2)
Positivo
(per esempio, RPR 1:4)
Positivo
(per esempio, TPHA 1:640)
• Sifilide confermata
• Falso positivo dovuto a treponematosi
endemica
Positivo
(per esempio, RPR 1:4)
Negativo
(per esempio, TPHA negativo)
• Falsa positività dell’RPR (gravidanza, malattie
autoimmuni, età avanzata)
• Falso negativo TPHA per periodo finestra
(TPHA si positivizza dopo RPR)
Negativo
(per esempio, RPR negativo)
Positivo
(per esempio, TPHA 1:640)
• Se storia di sifilide adeguatamente trattata,
è da considerarsi una “cicatrice” sierologica
• In assenza di storia di sifilide adeguatamente
trattata, possibile diagnosi
di sifilide latente tardiva (circa il 25% dei casi
ha RPR negativo)
Negativo
(per esempio, RPR negativo)
Negativo
(per esempio, TPHA negativo)
• Sifilide esclusa
• Possibile finestra sierologica in caso
di contagio avvenuto meno di 90 giorni prima
EIA, Enzyme Immunoassay; FTA-ABS, Fluorescent Treponemal Antibody Absorption Test; RPR, Rapid Plasma Reagin; TPHA, Treponema Pallidum
Hemagglutination Assay; VDRL, Venereal Disease Research Laboratory.
(1) Un secondo test treponemico deve essere eseguito per confermare la positività del primo test treponemico (per esempio, molti laboratori utilizzano
l’indagine EIA come primo esame, confermando i test EIA positivi con il TPHA). Un secondo metodo treponemico deve essere usato anche in caso di
negatività del primo test treponemico a fronte di un esame sierologico non treponemico positivo (per escludere una falsa negatività del primo test
treponemico).
(2) Vengono elencate solo le più probabili interpretazioni. Per un’accurata interpretazione delle prove si deve tener conto di una serie di altre variabili tra
cui i dati anamnestici, il quadro clinico, le precedenti terapie per sifilide eseguite ed i precedenti esami sierologici per sifilide eseguiti.
negativizzazione spontanea dopo alcuni anni, in assenza di
trattamento, come si osserva in circa il 25% dei pazienti con
sifilide latente tardiva non trattata. Anche i falsi positivi sono
piuttosto frequenti e si riscontrano in corso di infezioni virali
(epatiti, mononucleosi infettiva) e batteriche (febbre tifoide,
infezione da micoplasmi), patologie neoplastiche, malattie
autoimmuni, gravidanza, età avanzata.
Le prove sierologiche treponemiche impiegano T. pallidum
come antigene, dimostrando quindi gli anticorpi antitreponemici. I più utilizzati sono il TPHA (Treponema Pallidum
Hemagglutination Assay), il TPPA (Treponema Pallidum
Particle Agglutination Assay) e l’FTA-ABS (Fluorescent Treponemal Antibody Absorption Test), cui si sono aggiunti, più
recentemente, anche test immunoenzimatici (per esempio
l’Enzyme Immuno Assay, EIA). Sono prove sensibili e specifiche, utilizzabili come indagini sierologiche di massa per
l’elevata possibilità di automazione (EIA) o come conferma
(TPHA, TPPA, FTA-ABS). Per queste caratteristiche, un test
treponemico positivo, confermato da un secondo test treponemico di differente tipologia, consente di porre diagnosi
di infezione da T. pallidum. Tali prove, con la sola eccezione
dell’FTA-ABS, divengono positive più tardivamente (da 1 a
5 settimane dopo il contagio) rispetto a quelle non treponemiche. La positività, inoltre, permane anche nei casi di lue
trattati, rendendole non idonee per la diagnosi di reinfezione
e per il monitoraggio della terapia. La ricerca mirata di IgM
con metodica di Western blot o FTA-ABS è importante principalmente in caso di sifilide congenita. Gli anticorpi di classe
IgM, infatti, non sono in grado di attraversare la placenta,
perciò la loro presenza su sangue neonatale è testimone di
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produzione fetale di anticorpi, ovvero di infezione congenita.
Poiché il sistema nervoso centrale può essere interessato in
qualsiasi stadio, l’esame del liquor è indicato in presenza di
sintomi neurologici compatibili con neurosifilide oppure nel
caso di coinvolgimento oculare o uditivo o, infine, qualora
si sospetti il fallimento terapeutico. Taluni esperti, inoltre,
ritengono che tutti i pazienti HIV-sieropositivi con valori dei
linfociti CD4+ <350/μL e RPR >1:32 vadano sottoposti a
rachicentesi. Sul liquor, oltre all’esame chimico-fisico, vanno
effettuati sia un test treponemico sia il test non treponemico
(la VDRL è l’unica a essere validata in quest’ambito). La diagnosi di neurosifilide può essere esclusa in caso di negatività
dei test treponemici su liquor; è confermata in presenza di
positività della VDRL oppure di pleocitosi liquorale (>5 cellule/μL) associata a una prova treponemica positiva. Qualora
non ricorrano le situazioni sopra ricordate, ma il sospetto di
neurolue permanga, è d’ausilio il cosiddetto “TPHA index
Vienna 2000”, ossia il rapporto TPHA su liquor/ (albumina
su liquor × 103/albumina sierica). Un valore di TPHA index
>70 e un TPHA su liquor >1:320 sono considerati indicativi
di neurosifilide.
La diagnosi di sifilide congenita è molto complessa e non
sempre è possibile giungere ad una conclusione certa. Ogni
bambino nato da madre con sierologia positiva, anche se asintomatico, deve essere valutato attentamente tenendo conto
della presenza di eventuali segni e sintomi clinici, dell’adeguatezza del trattamento materno e del risultato dei test sierologici (effettuati al momento del parto su neonato e madre).
In particolare, sono considerati indicativi di infezione neonatale la positività per IgM nel neonato o un rapporto tra RPR
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
del neonato e RPR materno ≥4:1. In base al quadro clinicolaboratoristico emerso, potranno essere opportuni ulteriori
accertamenti quali una rachicentesi, una radiografia delle ossa
lunghe, un’ecografia addominale e transfontanellare.
Come diagnostica prenatale, l’amniocentesi per escludere la
trasmissione per via verticale della sifilide non è consigliata.
L’esecuzione di accertamenti ecografici ostetrici può trovare
giustificazione al fine di evidenziare anomalie fetali, se la diagnosi di sifilide è posta nella seconda metà della gravidanza, in
modo da esprimere con maggiore esattezza la prognosi fetale
e, secondo alcuni esperti, guidare il trattamento. L’ecografia
può rilevare alcuni segni di sifilide fetale come polidramnios,
idrope fetale, placenta ingrandita, epatosplenomegalia, dilatazione ed iperecogenicità dell’intestino.
Diagnosi differenziale. La sifilide primaria può essere confusa
con le altre infezioni a trasmissione sessuale; la sifilide secondaria, con patologie che provocano eruzioni cutanee (diverse
malattie esantematiche), l’infezione acuta da HIV e le reazioni
allergiche; la neurosifilide, con meningiti, meningoencefaliti
o patologie neurodegenerative. La sifilide congenita va differenziata dalle altre infezioni congenite.
Prognosi. In caso di trattamento precoce la prognosi è favorevole. La terapia antibiotica, tuttavia, non è efficace nel
favorire la regressione delle sequele ormai stabilite della sifilide congenita o alcune manifestazioni di neurosifilide e sifilide terziaria. La terapia adeguata e tempestiva in gravidanza
previene le manifestazioni della sifilide congenita nella quasi
totalità dei casi.
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Terapia. La penicillina è il farmaco di scelta: fino ad oggi non ne è mai stata documentata la resistenza da parte di
T. pallidum. Esistono varie formulazioni di penicillina, tra cui
la benzilpenicillina (detta anche penicillina G) benzatinica,
formulazione a lunga durata d’azione a somministrazione intramuscolare. In corso di neurosifilide e sifilide congenita deve
essere invece utilizzata la benzilpenicillina per via ev. Lo scopo
del trattamento è duplice: da un lato curare il paziente evitando
l’evoluzione verso gli stadi successivi, dall’altro renderlo non
contagioso. In assenza di una precedente terapia adeguata, qualsiasi paziente con diagnosi di sifilide dovrebbe essere trattato indipendentemente dai risultati del test non treponemico, che può
risultare negativo in caso di sifilide latente tardiva non curata.
Nella Tab. 15.9 sono sintetizzati gli schemi di terapia consigliati dai CDC statunitensi: va sottolineato che soltanto
la penicillina è raccomandata per la sifilide congenita e la
sifilide in gravidanza. Un trattamento adeguato durante la
gravidanza si definisce come una terapia a base di penicillina
al dosaggio appropriato per lo stadio di malattia, somministrata almeno 30 giorni prima del parto (idealmente, prima
della gravidanza o, preferibilmente, entro il I trimestre). In
caso di allergia alla penicillina, le donne gravide con sifilide
che necessitano di trattamento dovranno essere sottoposte ad
un protocollo di desensibilizzazione. Nei casi in cui la storia di
allergia sia dubbia, è possibile eseguire i test allergologici per
confermare o escludere l’allergia. In ogni caso, l’esecuzione
delle prove allergologiche non deve ritardare eccessivamente
l’inizio della terapia.
Dopo il trattamento, è indicato un controllo sierologico e clinico ogni 3-6 mesi per 1-2 anni. I test sierologici da valutare nelle
Tab. 15.9 Schemi terapeutici consigliati per la sifilide (adattati dalle linee guida dei CDC, 2010).
Stadio della sifilide
Prima scelta
Paziente allergico a penicillina
(escluse donne in gravidanza)
Sifilide primaria, secondaria,
latente precoce
Benzilpenicillina benzatinica, 2,4 mU im
(50.000 U/kg nei bambini) in singola dose*
Doxiciclina, 100 mg per os ogni 12 ore
per 14 giorni
oppure
Azitromicina, 2 g per os in singola dose
Sifilide latente tardiva
Benzilpenicillina benzatinica, 7,2 mU im
(150.000 U/kg nei bambini) in 3 dosi
da 2,4 mU ciascuna
(50.000 U/kg nei bambini) a distanza
di 1 settimana l’una dall’altra
Doxiciclina, 100 mg per os ogni 12 ore
per 28 giorni
Sifilide terziaria
(esclusa la neurosifilide)
Benzilpenicillina benzatinica, 7,2 mU im in 3 dosi
da 2,4 mU ciascuna a distanza di 1 settimana
l’una dall’altra
I CDC non forniscono raccomandazioni
Neurosifilide
(incluso il coinvolgimento
oculare ed acustico)
Benzilpenicillina, 18-24 mU/die ev in dosi
di 3-4 mU ogni 4 ore (o in infusione continua)
per 10-14 gg; successivamente può essere
considerato un ulteriore trattamento come per la
sifilide latente tardiva
Ceftriaxone, 2 g /die ev (o im) per 10-14 giorni
(od eventuale desensibilizzazione e trattamento
con benzilpenicillina)
Congenita (età <1 mese)
Sifilide congenita certa od altamente probabile: benzilpenicillina, 50.000 U/kg ev 2 volte al giorno
per i primi 7 gg di vita, poi 3 volte al giorno per 10 gg totali di terapia
Sifilide congenita possibile: benzilpenicillina benzatinica, 50.000 U/kg im in singola dose
Congenita (età >1 mese)
Benzilpenicillina, 200.000-300.000 U/kg/die ev, in dosi da 50.000 U/kg ogni 4-6 ore per 10 gg
*Alcuni esperti consigliano di ripetere una seconda dose da 2,4 mU di benzilpenicillina benzatinica im dopo 1 settimana in donne gravide per le possibili
alterazioni farmacocinetiche legate alla gestazione.
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
visite sono l’RPR o la VDRL. Per essere paragonabili, i test
andrebbero eseguiti sempre nello stesso laboratorio e con la
stessa metodica. Una riduzione del titolo di quattro diluizioni
in 6-12 mesi (per esempio, da 1:8 a 1:2) è indicativa di risposta
terapeutica. Al contrario, un incremento del titolo di almeno
4 diluizioni è considerato segno di fallimento terapeutico o di
reinfezione. In caso di neurosifilide con pleocitosi liquorale, i
controlli prevedono anche l’esecuzione seriata di rachicentesi
fino alla normalizzazione del quadro liquorale. Per quanto
riguarda i neonati di madre sifilitica, se il bambino non è
infetto i test sierologici devono negativizzarsi entro 6 mesi
(per i test non treponemici) o 18 mesi (per i test treponemici).
In circa il 50% dei pazienti con sifilide recente (primaria, secondaria o latente precoce) si manifesta, dopo 2-24 ore dall’inizio della terapia, la reazione di Jarisch-Herxheimer, dovuta
probabilmente alla lisi massiva delle spirochete con le prime
dosi di penicillina. La reazione è caratterizzata da malessere
generale, febbre, cefalea, sudorazione profusa, brividi o temporanea esacerbazione delle lesioni sifilitiche. Essa scompare
abitualmente in 24 ore, ma talvolta può provocare eventi gravi
in pazienti con localizzazione oculare, cardiovascolare o al
sistema nervoso centrale, per cui è consigliabile trattare questi
pazienti in regime di ricovero ospedaliero somministrando un
breve ciclo preventivo di prednisone. Nella seconda metà della gravidanza la reazione di Jarisch-Herxheimer può portare
a contrazione delle pareti uterine, parto prematuro o morte
fetale; pertanto, è indicato idratare la paziente, monitorare il
feto ed utilizzare paracetamolo.
I partner di soggetti con sifilide in qualsiasi stadio vanno sottoposti a valutazione clinica e sierologica per stabilire le relative indicazioni terapeutiche. In caso di paziente con sifilide
recente (primaria, secondaria o latente precoce) il trattamento
del partner viene raccomandato anche a fronte di sierologia
negativa se i rapporti sessuali si sono verificati nei 3 mesi
precedenti la diagnosi.
Infezione gonococcica
La gonorrea è un’infezione batterica a trasmissione sessuale
causata da Neisseria gonorrhoeae. Nei pazienti di sesso maschile, viene facilmente diagnosticata per il quadro di uretrite
acuta con disuria e secrezione purulenta. Nella donna, l’infezione determina una cervicite la cui la sintomatologia è spesso
sfumata fino alla comparsa delle complicanze tra le quali la
più temibile è la malattia infiammatoria pelvica, dovuta alla
diffusione dell’infezione in senso ascendente. Negli ultimi anni si è assistito a una drammatica diffusione a livello mondiale
di ceppi di N. gonorrhoeae antibiotico-resistenti, che ha reso
necessarie nuove strategie terapeutiche.
Eziologia. N. gonorrhoeae è un diplococco gram-negativo
delle dimensioni di 0,8 × 0,6 μm, aerobio, immobile, privo
di capsula, intracellulare, che fermenta il glucosio, ma non
il maltosio e il lattosio. Possiede fattori di virulenza e patogenicità, come i pili (che facilitano l’adesione alle mucose e
inibiscono l’attività dei granulociti neutrofili), le cosiddette
opacity-associated proteins (OPA), che facilitano l’invasione
delle cellule bersaglio, e le porine (note in precedenza come
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proteina I), che conferiscono resistenza al siero umano. Queste ultime permettono la sierotipizzazione del microrganismo
e sono associate a infezione disseminata (porB.1A) o localizzata a livello genitale (porB.1B).
Epidemiologia e patogenesi. L’uomo è l’unico serbatoio di
N. gonorrhoeae e la fonte dei microrganismi sono le secrezioni
infette degli organi colpiti (secrezioni uretrali, endocervicali,
congiuntivali). La trasmissione avviene per contatto interumano di tipo sessuale o, nel caso del neonato, al momento
del passaggio all’interno del canale del parto. L’OMS stima
che annualmente si verifichino 106 milioni di nuove infezioni,
la maggior parte delle quali in Asia, nell’Africa subsahariana
e nelle Americhe. In Europa, negli ultimi anni, si è assistito
a un notevole incremento dei casi segnalati, soprattutto nei
giovani sessualmente attivi (il 40% dei casi viene diagnosticato
in individui di età inferiore a 25 anni) e nei maschi omosessuali, che da soli rappresentano circa un quarto dei casi.
L’infezione gonococcica non soltanto aumenta la probabilità
di trasmissione dell’infezione da HIV, ma incrementa anche
la suscettibilità individuale all’acquisizione di HIV.
Il gonococco aderisce alle cellule epiteliali delle mucose grazie
ai pili e alle OPA. Successivamente, penetra all’interno delle
cellule epiteliali provocandone la morte, per raggiungere poi
il tessuto connettivo sottomucoso, evocando un’importante
reazione infiammatoria con accumulo di granulociti neutrofili
e formazione di microascessi il cui contenuto purulento si
riversa quindi nel lume dell’organo interessato (per esempio,
dell’uretra o della cervice uterina). L’infezione può diffondersi
per contiguità (dall’uretra maschile all’epididimo o dalla cervice verso l’utero e gli annessi) o per via ematogena (sepsi,
artrite, meningite).
Sintomatologia. Il periodo di incubazione è solitamente compreso tra 2 e 6 giorni e tende ad essere più lungo nelle donne
rispetto agli uomini. I soggetti di sesso maschile sono sintomatici nella maggior parte dei casi (oltre il 90%), mentre
nella donna l’infezione è più spesso asintomatica o paucisintomatica fino alla comparsa di complicanze. Nell’uomo
eterosessuale l’infezione determina l’uretrite gonococcica,
caratterizzata da disuria, stranguria, arrossamento del meato
uretrale esterno e fuoriuscita di materiale purulento. Se non
trattata, può risolversi spontaneamente nel volgere di diverse
settimane. Se l’infezione si estende ai tessuti e agli organi
circostanti, possono comparire complicanze locali come
balanite, epididimite, ascessi periuretrali, linfangite del pene
o prostatite acuta. Nei soggetti di sesso femminile la localizzazione iniziale provoca una cervicite: la cui sintomatologia
è costituita da secrezioni vaginali (più o meno abbondanti),
disuria e sanguinamenti intermestruali, specialmente dopo i
rapporti sessuali. Nel 10-20% delle donne l’infezione gonococcica può assumere un andamento ascendente responsabile di malattia infiammatoria pelvica (endometrite, salpingite,
ascessi tubarici, peritonite o periepatite). La vaginite gonococcica viene osservata raramente e per lo più in ragazze in
età prepubere o in donne in menopausa; la mucosa vaginale
intensamente eritematosa ed edematosa, con abbondante secrezione purulenta, è difficilmente esaminabile per l’intensa
sintomatologia dolorosa.
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
L’infezione può localizzarsi a livello anale, sia nelle donne sia negli uomini, a seguito di rapporti anali ricettivi o,
nel sesso femminile, per estensione dalla cervice. Spesso
questa localizzazione è asintomatica, ma può manifestarsi con i sintomi della proctite. La localizzazione faringea
sintomatica (faringite gonococcica) o asintomatica può colpire uomini e donne in seguito a rapporti sessuali orali.
La congiuntivite gonococcica nell’adulto è di rara osservazione e spesso consegue ad autoinoculazione in paziente
con infezione a livello genitale. La disseminazione ematogena rappresenta la forma più grave dell’infezione gonococcica: viene osservata soprattutto nel sesso femminile (con frequenza tre volte maggiore rispetto all’uomo)
e negli individui con difetti del complemento (C5-C9).
Essa è contraddistinta da febbre elevata con brividi e comparsa (nel 75% dei casi) di manifestazioni cutanee polimorfe
(papule, pustole, petecchie, lesioni necrotiche) e artrite
settica (artrite gonococcica). Quest’ultima interessa in genere una o più articolazioni, soprattutto ginocchia, polsi,
caviglie e gomiti (in ordine decrescente di frequenza). Rare
complicanze sono l’endocardite e la meningite gonococcica.
Nei neonati la forma di gonorrea di più frequente osservazione è l’ophthalmia neonatorum, che consegue all’esposizione
alle secrezioni cervicali infette durante il passaggio attraverso
il canale del parto. Le manifestazioni cliniche divengono
evidenti 2-5 giorni dopo la nascita con una congiuntivite
inizialmente aspecifica, ma che rapidamente diviene sieroematica con copiosa secrezione, chemosi ed edema delle
palpebre. Le ulcerazioni corneali inducono la formazione
di sinechie anteriori, panoftalmite e conseguente cecità. Per
questo motivo, dopo la nascita viene effettuata di routine la
profilassi mediante instillazione di nitrato d’argento all’1%
oppure con unguenti a base di eritromicina o tetracicline. La
colonizzazione faringea viene osservata nel 35% dei neonati
con gonorrea oftalmica ed è responsabile della comparsa di
tosse. Nelle infezioni sistemiche i neonati sviluppano un’artrite settica con interessamento poliarticolare a distanza di
3-21 giorni dalla nascita.
Diagnosi. L’esame microscopico diretto delle secrezioni uretrali dopo colorazione di Gram è attendibile solo in caso di
localizzazione uretrale nel maschio sintomatico (specificità
>99%, sensibilità >95%). All’indagine microscopica si osservano diplococchi gram-negativi sia all’interno dei numerosi
granulociti neutrofili, sia in posizione extracellulare. In tutte le
altre circostanze i test di riferimento sono rappresentati dalle
prove colturali (impiegando terreni selettivi come il ThayerMartin) o dalle tecniche di rilevazione degli acidi nucleici
(Nucleic Acid Amplification Test, NAAT). L’esame colturale
può essere eseguito su tamponi da diverse sedi: uretra nel
maschio, cervice nella femmina, faringe, ano e congiuntiva
per entrambi i sessi; il vantaggio dello studio colturale consiste
nella possibilità di eseguire il test di sensibilità agli antibiotici.
Le ricerche molecolari possono essere effettuate su tamponi
uretrali (nell’uomo), cervicali e vaginali (nella donna) e su urina (in entrambi i sessi, ma nelle donne hanno minor sensibilità
rispetto all’esame su campioni cervicali o vaginali). In caso di
infezione disseminata è presente una leucocitosi neutrofila e
N. gonorrhoeae può essere isolata da emocolture e (ove presente)
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dall’essudato articolare o dalle lesioni cutanee, nonché dalla
sede mucosa da cui ha avuto origine la batteriemia. Qualora
venga posta la diagnosi di gonorrea, è opportuno sottoporre
il paziente anche alle analisi per altre infezioni a trasmissione
sessuale, in particolare C. trachomatis, sifilide ed HIV.
Prognosi. È generalmente buona, ma l’infezione gonococcica
in gravidanza è associata ad aborto spontaneo, parto prematuro, rottura precoce delle membrane, aumentata mortalità
perinatale ed infezione neonatale. Il neonato può acquisire
l’infezione al momento del passaggio nel canale del parto.
Terapia. La resistenza agli antibiotici è uno dei principali
problemi emergenti per la cura e il controllo della gonorrea.
La penicillina e le tetracicline non sono più raccomandate da
tempo. In Europa il 63% circa dei ceppi isolati è resistente
alla ciprofloxacina, il 13% all’azitromicina e il 5% mostra una
ridotta sensibilità alla cefixima. A fronte di questo quadro,
le più recenti raccomandazioni europee consigliano un trattamento antibiotico di combinazione anche per le infezioni
non complicate. Per le localizzazioni uretrale, cervicale e
rettale il trattamento di scelta è con ceftriaxone, 500 mg im in
unica somministrazione, associato ad azitromicina, 1 g per os
in dose unica, oppure a doxiciclina, 100 mg per os ogni 12
ore per 7 giorni. Questo schema, includendo azitromicina o doxiciclina, garantisce un’efficacia terapeutica anche
nei confronti di C. trachomatis, che è presente contemporaneamente in circa il 30% dei pazienti con gonorrea. In
caso di allergia alle cefalosporine, è possibile utilizzare la
spectinomicina (non più in commercio in Italia), 2 g im
in unica somministrazione.
Per verificare l’efficacia del trattamento, è indicato ripetere
un test di amplificazione molecolare per N. gonorrhoeae a
distanza di 2 settimane dalla fine della terapia e, nel caso di
positività, eseguire l’esame colturale per determinare il profilo
di sensibilità dell’isolato.
Una terapia di più lunga durata con ceftriaxone è indicata
nelle infezioni disseminate con localizzazioni a carico di articolazioni, meningi ed endocardio. A seconda della localizzazione, potrà essere impiegato ceftriaxone, 1-2 g ev ogni 12 ore
per un periodo variabile da 7 a 28 giorni. La terapia sistemica
con ceftriaxone (25-50 mg/kg im in singola dose, massimo
125 mg) è indicata anche in caso di ophthalmia neonatorum.
Il partner sessuale di un paziente con gonorrea deve essere valutato e trattato empiricamente per N. gonorrhoeae e
C. trachomatis. Il trattamento di una donna gravida con gonorrea rappresenta la misura più efficace per prevenire l’infezione neonatale.
Uretriti non gonococciche
Il termine uretriti non gonococciche indica le infezioni a
trasmissione sessuale per le quali sia stata esclusa l’eziologia
gonococcica. Nel maschio, l’infiammazione dell’uretra si
manifesta con secrezione mucopurulenta o purulenta dal
meato uretrale esterno, disuria o prurito uretrale. Tuttavia,
in molti casi – soprattutto nel sesso femminile – l’infezione
può rimanere asintomatica.
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
Eziologia ed epidemiologia. L’agente eziologico principale è
Chlamydia trachomatis, responsabile di circa il 30-50% delle
uretriti infettive non gonococciche. C. trachomatis è un batterio
intracellulare di cui sono stati identificati molteplici sierotipi
responsabili non solo di infezioni genitali, ma anche di differenti sindromi (Tab. 15.10). Altri agenti responsabili di uretriti
non gonococciche sono Mycoplasma genitalium (15-25%),
Ureaplasma urealyticum (15-40%), alcuni batteri gram-negativi
della flora enterica (in caso di rapporti anali insertivi), T. vaginalis, HSV-1 e HSV-2 e gli adenovirus umani. La successiva
trattazione verterà soprattutto sull’infezione da C. trachomatis,
in considerazione della maggiore rilevanza epidemiologica.
Tutti gli agenti eziologici delle uretriti non gonococciche si
trasmettono per via venerea e colpiscono soprattutto la popolazione giovane e sessualmente attiva. Per quanto riguarda
C. trachomatis, l’OMS stima che ogni anno si verifichino oltre
100 milioni di nuove infezioni nella popolazione adulta, la
maggior parte delle quali concentrate in Asia e nelle Americhe.
La patologia ha comunque una notevole rilevanza anche negli
Stati Uniti e in Europa, dove studi di sorveglianza mostrano
una prevalenza nei giovani sessualmente attivi fino al 10%.
Va ricordato che, in considerazione della comune via di trasmissione, circa il 30% dei pazienti con gonorrea presenta
anche un’infezione da C. trachomatis. Questo spiega l’origine
del termine “uretrite post-gonococcica” ad indicare un’uretrite dovuta a C. trachomatis che compare in seguito al trattamento di un’uretrite gonococcica in assenza di trattamento
specifico per C. trachomatis. Il secondo episodio di uretrite è
spiegato dal fatto che C. trachomatis ha un più lungo periodo
di incubazione (7-21 gg. vs 2-6 giorni nel caso del gonococco)
e non è sensibile alla maggior parte dei farmaci utilizzati per
il trattamento di N. gonorrhoeae.
Patogenesi. C. trachomatis si caratterizza per l’elettivo tropismo nei confronti dell’epitelio di rivestimento dell’uretra
maschile e femminile, per l’epitelio della cervice uterina e
per quello delle alte vie genitali femminili, per la congiuntiva
oculare, per la mucosa rettale, per l’epitelio delle vie respiratorie del neonato e, probabilmente, anche per la prostata
e l’epididimo. La prima infezione non produce un’immunità
Tab. 15.10 Correlazione tra sierotipo
di Chlamydia trachomatis e manifestazione clinica.
Sierotipo
di C. trachomatis
Manifestazione
clinica
Modalità
di trasmissione
A, B, Ba, C
Tracoma
Contatto con
secrezioni oculari,
mosche, fomiti
D, Da, E, F, G, Ga, H,
I, Ia, J, K
Uretrite, cervicite,
Rapporti sessuali
malattia infiammatoria
pelvica, proctite
D, E, F, G, H, I, J, K
Congiuntivite da
inclusi, polmonite
neonatale
Passaggio nel canale
del parto
L1, L2, L2a, L2b, L3
Linfogranuloma
venereo
Rapporti sessuali
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protettiva; al contrario, le reinfezioni sono contraddistinte da
una più intensa risposta flogistica con successiva cicatrizzazione, responsabile di danno tessutale.
Sintomatologia. L’infezione da C. trachomatis è asintomatica
in circa il 70% delle donne e nel 50% degli uomini. Nei
casi manifesti il periodo di incubazione varia da 7 a 21 giorni.
L’uretrite si manifesta con scarsa secrezione biancastra di
aspetto mucoso o mucopurulento dal meato uretrale esterno,
disuria o prurito uretrale. La secrezione uretrale può talora
essere dimostrabile solo al mattino o dopo spremitura del
glande. Nella donna, in caso d’interessamento della cervice
(cervicite) si può osservare una secrezione vaginale anomala
o un sanguinamento intermestruale, tipicamente osservabile
dopo i rapporti sessuali.
Nel 20-40% dei casi non trattati, nella donna si verifica un
interessamento ascendente delle vie genitali con quadri di
salpingite, endometrite e peritonite, ovvero l’evoluzione verso
la malattia infiammatoria pelvica (vedi paragrafo successivo).
La sindrome di Fitz-Hugh-Curtis, originariamente descritta
come complicanza della malattia infiammatoria pelvica di
origine gonococcica, è stata associata più recentemente alle
infezioni da clamidie.
Nel maschio, l’infezione da C. trachomatis può coinvolgere
l’epididimo, costituendo, insieme con N. gonorrhoeae, la più
frequente causa (50-70% dei casi) di epididimite nei giovani
di età inferiore a 35 anni, mentre successivamente i batteri
della famiglia Enterobacteriaceae divengono i microrganismi
prevalenti. Clinicamente l’epididimite si manifesta con dolore
scrotale acuto, tumefazione solitamente monolaterale del didimo e dell’epididimo, talvolta accompagnata a disuria e febbre.
In entrambi i sessi, C. trachomatis può determinare una proctite sia per inoculazione diretta (rapporti anali ricettivi) sia per
estensione dalla cervice uterina al retto. Sono generalmente
in causa i sierotipi oculogenitali D-K e L1-L3, responsabili
del linfogranuloma venereo. I sintomi sono rappresentati per
lo più da tenesmo, prurito e secrezione anale mucopurulenta
o mucoematica. Qualora siano coinvolti i sierotipi di C. trachomatis responsabili del linfogranuloma venereo, il quadro
è più grave, con una proctocolite ulcerativa che deve essere
distinta dalle infezioni erpetiche e dalla malattia di Crohn. Se
l’infezione è stata acquisita tramite un rapporto sessuale orale
si può osservare la faringite.
C. trachomatis, infine, può causare una congiuntivite da inclusi, a decorso subacuto, solitamente unilaterale. L’infezione è
acquisita dall’adulto per via sessuale o tramite autoinoculazione nel caso di infezione a livello genitale.
Diagnosi. La diagnosi di uretrite può essere confermata dal
solo riscontro obiettivo di secrezione uretrale, oppure basarsi
su alcuni dati di laboratorio (presenza di 5 o più leucociti per
campo microscopico all’esame del secreto uretrale; positività
dell’esterasi leucocitaria su campione di urina del primo mitto; piuria, ovvero 10 o più leucociti per campo microscopico
nel sedimento dell’urina del primo mitto). Il riconoscimento
della cervicite si pone in virtù delle secrezione endocervicale
mucopurulenta o in presenza di sanguinamento prolungato
ed indotto facilmente dal delicato passaggio di un tampone
nell’orifizio cervicale.
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
La precisazione eziologica si fonda sugli accertamenti microbiologici. La metodica più utilizzata consiste nella ricerca
del genoma di C. trachomatis tramite NAAT. Nella donna il
campione di scelta per la diagnosi è il tampone vaginale, anche
autonomamente raccolto, mentre nell’uomo è preferibile utilizzare l’urina di prima emissione. Le tecniche NAAT vengono
impiegate anche per campioni endocervicali, congiuntivali,
faringei ed anali. Altre metodiche per la ricerca diretta del
microrganismo (coltura, immunofluorescenza diretta, saggi
immunoenzimatici, tecniche di ibridazione con acidi nucleici) sono meno usate perché più complesse o meno sensibili
rispetto a quelle molecolari.
L’utilità della sierologia è essenzialmente limitata alle forme
cliniche invasive (linfogranuloma venereo e polmonite neonatale), dove mostra un buon valore predittivo positivo e negativo.
Prognosi. L’infezione da C. trachomatis può complicarsi,
soprattutto nell’uomo, con un’artrite reattiva asettica a patogenesi immunomediata, che insorge solitamente alcune
settimane dopo l’infezione. Il quadro sintomatologico prende
il nome di sindrome di Reiter se accompagnato anche da
congiuntivite e lesioni cutanee.
L’infezione in gravidanza è stata associata a prematurità, rottura precoce delle membrane e infezione perinatale. Quest’ultima, acquisita durante il passaggio all’interno del canale
del parto, può manifestarsi come congiuntivite da inclusi o
polmonite interstiziale tipicamente in assenza di febbre, che
esordisce nei primi 3 mesi di vita (vedi pag. 461). Il tracoma è
una particolare manifestazione oculare da C. trachomatis che
colpisce la popolazione pediatrica di aree a limitate risorse
igienico-sanitarie, rappresentando tuttora un’importante
causa di cecità. È dovuta a ripetute infezioni da sierotipi A,
B, Ba e C trasmessi principalmente attraverso contatto manoocchio tra bambini o tra i bambini e i genitori, ma anche per
mezzo di veicoli come mosche e suppellettili (vedi pag. 916).
Terapia. Gli schemi di prima scelta per il trattamento delle
infezioni non complicate da C. trachomatis (uretrite, cervicite,
proctite, congiuntivite) prevedono l’impiego di azitromicina,
1 g per os in singola somministrazione o doxiciclina, 100 mg
ogni 12 ore per os per 7 giorni. In alternativa, si possono utilizzare l’eritromicina (500 mg per os ogni 6 ore per 7 giorni) e
la levofloxacina (500 mg/die per os per 7 giorni). Nella donna
gravida, le attuali raccomandazioni indicano l’azitromicina,
1 g per os in singola dose o l’amoxicillina, 500 mg 3 volte al
dì per os per 7 giorni. In tutti i casi, deve essere consigliata
l’astensione dai rapporti sessuali fino a 7 giorni dopo l’inizio
della terapia. Un esame NAAT di controllo per accertare la
guarigione è indicato soltanto in caso di gravidanza, 3 settimane circa dopo il termine della terapia.
M. genitalium ed U. urealyticum sono generalmente sensibili
agli antibiotici utilizzati per il trattamento delle uretriti da
C. trachomatis; alcuni ceppi, tuttavia, possono essere resistenti
alla doxiciclina. Per questo motivo, in caso di uretrite persistente o recidivante si consiglia di trattare il paziente con azitromicina qualora, per il precedente episodio, sia stata utilizzata
doxiciclina. Inoltre, nel paziente maschio deve essere considerata la possibilità di un’uretrite da T. vaginalis, e quindi va
aggiunto metronidazolo (o tinidazolo), 2 g in singola dose orale.
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La terapia delle infezioni neonatali (congiuntivite e polmonite) si basa sulla somministrazione per via sistemica di eritromicina (base o etilsuccinato) o azitromicina.
Come nelle altre infezioni a trasmissione sessuale, la gestione
del paziente con infezione da C. trachomatis comprende la
valutazione ed il trattamento del partner. La prevenzione
delle infezioni neonatali si identifica nel trattamento della
donna gravida.
Malattia infiammatoria pelvica
La malattia infiammatoria pelvica (o Pelvic Inflammatory
Disease, PID) è dovuta a un’infezione ascendente a partenza
da un focolaio vaginale o cervicale che coinvolge l’utero, le
tube di Falloppio o l’ovaio determinando quadri di endometrite, salpingite, peritonite pelvica o generalizzata, ascessi
tubo-ovarici, periepatite o perisplenite. L’eziologia include
numerosi agenti patogeni che possono essere trasmessi per
via sessuale o a seguito di manovre invasive (inserzione di
contraccettivi intrauterini, isterosalpingografia). La PID si
caratterizza per una notevole difficoltà diagnostica e per la
possibilità di causare sequele come infertilità, gravidanza
ectopica e dolore pelvico cronico.
Eziologia ed epidemiologia. Tra gli agenti eziologici della
PID, ricorrono più frequentemente due patogeni a trasmissione sessuale come Neisseria gonorrhoeae e Chlamydia trachomatis, nonché numerosi altri microrganismi quali batteri
anaerobi (soprattutto Prevotella spp. e peptostreptococchi),
bacilli enterici gram-negativi, Gardnerella vaginalis, Haemophilus influenzae, Streptococcus agalactiae, Mycoplasma
genitalium, M. hominis, U. urealyticum e, ancora, una flora
batterica mista. Mancano dati certi sull’incidenza, a causa
delle difficoltà di una diagnosi accurata. Un recente studio
inglese ha stimato un’incidenza compresa tra 281 e 1.117
nuovi casi per 100.000 donne all’anno in relazione al grado di
certezza della diagnosi. La popolazione maggiormente colpita
è quella giovanile sessualmente attiva. Fattori di rischio per lo
sviluppo della PID sono l’utilizzo di dispositivi intrauterini,
l’esecuzione di procedure chirurgiche in ambito ginecologico,
la coinfezione con HIV, la giovane età, un elevato numero di
partner sessuali, pregresse infezioni a trasmissione sessuale e
la presenza di vaginosi batterica.
Patogenesi. I microrganismi diffondono all’apparato genitale superiore partendo da un focolaio a sede cervicale
o vaginale. Più raramente, la PID può essere conseguente
alla localizzazione genitale di alcune patologie infettive sistemiche, come la tubercolosi e la schistosomiasi. Entrambe
sono contraddistinte da flogosi granulomatosa cronica e
devono essere sospettate soprattutto quando ricorrano dati
anamnestici suggestivi (per esempio, provenienza da un
paese ad alta incidenza di tubercolosi, pregresso contatto
con soggetti con tubercolosi attiva o la storia di soggiorno
in un’area endemica per schistosomiasi).
Sintomatologia. Frequentemente, la sintomatologia è sfumata
e dipende dall’estensione del processo flogistico, che può coin-
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
volgere l’endometrio, le tube uterine, le ovaie e il peritoneo.
I sintomi indicativi di PID sono il dolore addominale localizzato ai quadranti inferiori, specie se di recente insorgenza, la dispareunia, il sanguinamento vaginale anomalo, talora dopo un
rapporto sessuale, una secrezione cervicale o vaginale anomala
(spesso mucopurulenta) e la febbre. La palpazione bimanuale
può evocare dolore annessiale o della cervice uterina.
In caso di complicanze quali la periepatite (o sindrome di
Fitz-Hugh-Curtis) dovuta alla disseminazione del processo
infettivo per via intraperitoneale, può comparire dolore all’ipocondrio destro causato dalla flogosi del peritoneo periepatico che porta alla formazione di aderenze. In alcuni di questi
casi la sintomatologia riferita soprattutto nella regione epatica
può indurre al sospetto di colecistite.
Diagnosi. Non vi sono purtroppo elementi clinici o di laboratorio, a esclusione della laparoscopia, che permettano di
riconoscere la PID con assoluta certezza. È quindi necessario
valutare nell’insieme i dati epidemiologici, clinici, laboratoristici e strumentali. Per esempio, la diagnosi è più probabile nel
caso di una giovane donna sessualmente attiva con numerosi
partner. La sintomatologia e i reperti obiettivi, soprattutto la
dolorabilità uteroannessiale alla palpazione bimanuale, sono
fondamentali.
Gli esami di laboratorio possono mostrare alterazione degli
indici di flogosi (leucocitosi, aumento della velocità di eritrosedimentazione e della proteina C reattiva). L’esistenza
di un’infezione a trasmissione sessuale (gonorrea o infezione da C. trachomatis) deve essere ricercata, poiché aiuta a
confermare il sospetto. In presenza di dolore pelvico, un
incremento dei granulociti neutrofili osservati nel muco
della cervice (30 per campo microscopico a medio ingrandimento) o un loro numero superiore a quello delle cellule
epiteliali nelle secrezioni vaginali (escludendo una vaginite
da T. vaginalis) aumenta il valore predittivo di una diagnosi
clinica di PID. Analogamente, l’insorgenza della sintomatologia in concomitanza con il ciclo mestruale, la presenza
di contraccettivi intrauterini, un flusso mestruale alterato
e un dato anamnestico di salpingite o di rapporti sessuali
con maschi affetti da uretrite incrementano la probabilità
di diagnosi di PID.
Tra le indagini di secondo livello, è indicata l’esecuzione
di ecografia transvaginale o di una risonanza magnetica
nucleare della pelvi, volte alla dimostrazione di alterazioni
flogistiche dell’endometrio e degli annessi. Talvolta è necessario ricorrere alla biopsia endometriale per documentare
la presenza di endometrite, o alla laparoscopia. La diagnosi
differenziale va posta con altre cause di dolore addominale
nella donna giovane, quali l’appendicite, l’endometriosi, la
rottura o torsione di una cisti ovarica, il sanguinamento di
corpo luteo, l’infezione urinaria o la gravidanza ectopica.
Prognosi. Dipende sempre dalla tempestività del trattamento.
Le possibili sequele sono l’infertilità, la gravidanza ectopica e
il dolore pelvico cronico.
Terapia. Alla luce della gravità delle possibili complicanze in
caso di mancato trattamento, la soglia decisionale per iniziare
la terapia va mantenuta bassa, sebbene la diagnosi possa non
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essere certa. La terapia antibiotica ad ampio spettro deve
essere sicuramente efficace nei confronti di N. gonorrhoeae,
C. trachomatis e degli altri possibili agenti eziologici. L’ospedalizzazione e il trattamento per via endovenosa sono da
preferirsi nelle forme più gravi, per esempio in presenza di
ascessi tubarici o di segni di peritonite. Nella PID grave si può
effettuare un trattamento con cefoxitina, 2 g ev ogni 6 ore (o
cefotetan, 2 g ev ogni 12 ore) associata a doxiciclina, 100 mg
per os ogni 12 ore (efficace su C. trachomatis ed altri batteri
intracellulari); tale regime va proseguito per almeno 48 ore
dopo il miglioramento clinico della paziente e continuato con
la sola doxiciclina per un totale di 14 giorni. In alternativa, può
essere impiegata la clindamicina (900 mg ev ogni 8 ore) associata a gentamicina (2 mg/kg ev o im seguiti da 1,5 mg/kg ogni
8 ore); anche in questo caso la terapia per via endovenosa va
proseguita per almeno 48 ore dopo il miglioramento del quadro clinico e completata con doxiciclina, 100 mg per os ogni 12
ore o clindamicina per os, 450 mg ogni 6 ore per complessivi
14 giorni. Nell’eventualità di gestione ambulatoriale viene
prescritto il ceftriaxone, 500 mg im in singola dose, associato
a doxiciclina (100 mg ogni 12 ore) e metronidazolo (500 mg
ogni 12 ore) per os per 14 giorni. Infine, possono essere impiegati anche i fluorochinoloni (levofloxacina, 500 mg per os
oppure ofloxacina, 400 mg per os ogni 12 ore), da soli o in
combinazione con metronidazolo, ma si deve tener conto degli
alti tassi di resistenza del gonococco a questa classe di farmaci.
Il partner sessuale di una donna con malattia infiammatoria pelvica deve essere trattato empiricamente sia per N. gonorrhoeae sia per C. trachomatis.
Linfogranuloma venereo
Il linfogranuloma venereo è un’infezione sistemica a trasmissione sessuale causata da alcuni sierotipi particolarmente
virulenti e invasivi di Chlamydia trachomatis. La malattia si
presenta frequentemente con una linfoadenopatia inguinale
associata o meno a un’ulcera sui genitali, oppure con un quadro di proctocolite.
Eziologia ed epidemiologia. L’agente eziologico è costituito dai sierotipi L1, L2, L2a, L2b ed L3 di C. trachomatis.
La trasmissione avviene prevalentemente per contatto sessuale. La malattia è diffusa soprattutto in Africa, Asia, Sudamerica e Caraibi. A partire dagli anni Duemila, in Europa,
Nordamerica e Australia si è assistito a un incremento significativo dei casi di linfogranuloma venereo causati dal sierotipo
L2b, soprattutto in maschi omosessuali di razza caucasica con
concomitante infezione da HIV e HCV.
Sintomatologia. Il microrganismo può penetrare le mucose
o la cute abrasa, diffondendosi successivamente a distanza attraverso il sistema linfatico locoregionale. Dopo un
periodo di incubazione di 3-30 giorni, si manifesta la prima
fase dell’infezione, con la comparsa, nella sede d’ingresso
(genitali, ano), di una piccola papula o pustola. La lesione si erode, ma guarisce rapidamente e spontaneamente,
tanto da passare inosservata nella maggioranza dei casi.
La seconda fase compare a distanza di 2-6 settimane ed è
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
caratterizzata da linfoadenopatia inguinale mono- o bilaterale dolente; i linfonodi interessati vanno a volte incontro a
colliquazione e fistolizzazione con successiva guarigione per
fibrosi cicatriziale o cronicizzazione della fistola. Soprattutto
nelle donne, possono essere colpiti i linfonodi iliaci interni, in
assenza di coinvolgimento di quelli inguinali: in questo caso
la sintomatologia sarà caratterizzata da dolore addominale o
lombare. La sindrome inguinale è spesso accompagnata da
sintomi sistemici: febbre con brivido, malessere generale, cefalea, mialgie e artralgie; talora vengono interessati anche alcuni
organi a distanza (polmoni, fegato, encefalo, articolazioni)
con quadri di polmonite, meningite o meningoencefalite,
epatite, artrite, congiuntivite. Dopo alcuni anni compare la
fase terziaria, caratterizzata da proctite o proctocolite cronica
che può simulare la malattia di Crohn, con possibile sviluppo
di fistole (anali, rettovaginali, rettovescicali e ischiorettali) e
stenosi. In questa fase i sintomi dominanti sono costituiti da
dolore in sede perianale, perdite mucoematiche a livello anale,
tenesmo e costipazione. In una piccola percentuali di casi,
nei soggetti di sesso maschile, il linfogranuloma venereo dà
origine a lesioni croniche infiltranti con formazione di ulcere
o fistole a carico del pene, dell’uretra e dello scroto.
Diagnosi. Viene abitualmente posta su base clinica, con successiva conferma diagnostica ottenuta con la dimostrazione
di C. trachomatis nei campioni prelevati dai linfonodi, dal
retto, dall’uretra o dalla cervice uterina. L’immunofluorescenza diretta e la coltura, quest’ultima un tempo considerata il
metodo di scelta, sono oggi spesso sostituite dall’impiego dei
test molecolari di amplificazione tramite NAAT. Se la tecnica
NAAT per C. trachomatis risulta positiva, è possibile eseguire
ulteriori test molecolari (PCR) per identificare il sierotipo di
Chlamydia in causa. Anche una sierologia positiva ad alto
titolo (per esempio, >1:64 con metodica di fissazione del complemento), può essere utilizzata per confermare la diagnosi.
Terapia. La terapia di prima scelta è rappresentata dalla doxiciclina, 100 mg 2 volte al giorno per os per 3 settimane;
il farmaco alternativo, impiegabile anche in gravidanza, è
l’eritromicina, 500 mg 4 volte al giorno per os sempre per
3 settimane. Anche il partner sessuale, indipendentemente
dalla presenza di sintomi, deve essere trattato con un regime
efficace per C. trachomatis.
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distanti. L’infezione è diffusa soprattutto in Africa, nei Caraibi e nel Sud-Est asiatico, mentre sono rari i casi segnalati
negli Stati Uniti e in Europa. Rispetto agli anni Novanta, la
percentuale delle ulcere veneree attribuite a H. ducreyi si sta
riducendo, mentre in proporzione stanno aumentando quelle
dovute al virus herpes simplex (HSV). La ragione di questo
fenomeno non è nota, anche se è stato ipotizzato che tre fattori abbiano contribuito a questo fenomeno: la disponibilità
di migliori tecniche diagnostiche per HSV basate sulla PCR,
la diffusione dell’epidemia di HIV, che può aver dato luogo
ad un aumento delle riattivazioni da HSV; il trattamento ad
ampio spettro con antibiotici delle lesioni genitali come suggerito dall’OMS secondo il cosiddetto approccio sindromico,
che può aver inciso maggiormente sulle malattie batteriche
rispetto a quelle virali.
Sintomatologia. Il periodo di incubazione varia da 1 a 14 giorni. Nella sede d’inoculo compare una papula che evolve in una
pustola e successivamente in un’ulcera (Fig. 15.4). Le lesioni
possono essere anche multiple. La localizzazione più frequente è costituita dal pene nell’uomo e dalla vagina o dalla vulva
nella donna. L’ulcera è spiccatamente dolente, non ha una
base infiltrata (caratteristiche che la distinguono dal sifiloma)
e sanguina facilmente al contatto. Frequentemente è presente
un’adenopatia inguinale, di solito monolaterale. Le lesioni
tendono a guarire spontaneamente in qualche settimana.
Diagnosi. La diagnosi definitiva di ulcera molle prevede l’identificazione di H. ducreyi, procedura non sempre attuabile. A tale scopo, può essere utilizzato l’esame colturale, per
il quale sono necessari terreni specifici, non disponibili in
tutti i laboratori e che comunque ha una sensibilità inferiore
all’80%. In alternativa, viene usata la PCR, anche questa disponibile solo in pochi centri. Nell’impossibilità di eseguire
un esame colturale o una PCR, la diagnosi deve essere fortemente sospettata in presenza di un’ulcera venerea dolente
con linfoadenopatia, a fronte di negatività dei test sierologici
per sifilide (eseguiti almeno ad 1 settimana di distanza dalla
comparsa dell’ulcera) e di negatività della ricerca del DNA di
HSV-1 o HSV-2 da tampone eseguito sull’ulcera.
Ulcera molle
L’ulcera molle è una malattia infettiva a trasmissione sessuale,
causata da Haemophilus ducreyi e caratterizzata dalla presenza
di un’ulcera dolente con base non infiltrata a livello genitale,
spesso accompagnata da linfoadenopatia inguinale. La diagnosi differenziale si pone soprattutto con la sifilide primaria
e le lesioni erpetiche.
Eziologia. L’agente responsabile è H. ducreyi, bacillo gramnegativo aerobio facoltativo, non mobile, che cresce soltanto
in terreni al sangue.
La malattia si trasmette prevalentemente per via sessuale,
anche se è possibile l’autoinoculazione in distretti cutanei
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FIG. 15.4 - Ulcera molle. (Da: Esposito R. Manuale di parassitologia clinica e medicina tropicale. 2a ed. Milano: Masson; 1994.)
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
Prognosi. Le uniche complicanze che possono sopraggiungere sono locali e costituite dalla perdita di tessuto e dallo
sviluppo di fimosi nell’uomo. L’ulcera molle rappresenta
un fattore di rischio per la trasmissione di HIV; inoltre, nei
soggetti HIV-sieropositivi mostra un decorso più grave, con
maggior frequenza di fallimenti terapeutici.
Terapia. Gli schemi di trattamento efficaci sono numerosi:
azitromicina, 1 g per os in singola dose; ceftriaxone, 250 mg im
in singola dose; ciprofloxacina, 500 mg ogni 12 ore per os
per 3 giorni; eritromicina base, 500 mg per os ogni 8 ore per
7 giorni. I contatti sessuali dei 10 giorni precedenti l’esordio
della sintomatologia devono essere trattati presuntivamente.
Donovanosi o granuloma inguinale
La donovanosi, nota anche come granuloma inguinale, è
un’infezione batterica cronica a trasmissione sessuale che si
manifesta di solito con un’ulcerazione della cute o delle mucose nella regione genitale. Venne descritta per la prima volta
a Calcutta nel 1882, mentre il microrganismo responsabile fu
identificato da Charles Donovan nel 1905, a Madras.
Eziologia ed epidemiologia. L’agente eziologico è attualmente
classificato, in base alle analisi filogenetiche, come Klebsiella
granulomatis comb. nov. (noto in passato come Calymmatobacterium granulomatis), anche se taluni esperti considerano la
nomenclatura precedente (fondata sull’analisi della sequenza
genica della subunità 16S) più appropriata. Si tratta di un batterio intracellulare (di 1,5 × 0,7 μm) gram-negativo, capsulato
(solo nelle forme mature), che può essere isolato esclusivamente in colture cellulari. Il microrganismo “giovane” e privo
di capsula viene osservato soltanto in posizione intracellulare,
entro vacuoli citoplasmatici delle cellule mononucleate, ove
dà origine a vere e proprie colonie ben osservabili al microscopio ottico che vengono denominate corpi di Donovan; la
capsula è legata alla maturazione dei batteri e ne permette la
fuoriuscita dalle cellule e l’infettività.
La malattia si trasmette per via sessuale, anche se la contagiosità è inferiore quando paragonata a quella delle altre più
comuni infezioni veneree. Più raramente, l’infezione può
essere acquisita dal neonato durante il passaggio attraverso
il canale del parto.
La malattia è diffusa in piccoli focolai endemici in molti paesi tropicali e subtropicali, mentre è piuttosto rara nei climi
temperati; le nazioni dove la malattia è attualmente diffusa
sono India, Vietnam, Papua-Nuova Guinea, Australia, Brasile,
Guyana francese, Sudafrica e Zambia.
Sintomatologia. Il periodo di incubazione è solitamente compreso tra 3 e 50 giorni, ma può arrivare ad alcuni anni. Nella sede d’inoculo, più frequentemente il prepuzio, il solco
coronale, il frenulo e il glande nell’uomo, le piccole labbra
e il fornice nella donna, compare un’ulcera non dolente a
bordi rilevati che tende gradualmente ad estendersi (lesione
ulcerogranulomatosa classica). A livello dei linfonodi regionali
(inguinali) il processo infettivo determina una linfoadenite e
periadenite con evoluzione verso la colliquazione e la fistoliz-
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zazione seguita dallo sviluppo di un’ulcera in tale sede. Le lesioni così formatesi possono guarire spontaneamente, oppure
persistere ed estendersi lentamente ai tessuti circostanti, con
conseguenze deturpanti. La malattia può anche presentarsi
come un’ulcera ipertrofica o verrucosa (soprattutto a livello
anale) con margini sollevati e irregolari, oppure come un’ulcera necrotica destruente molto maleodorante o infine come
una lesione sclerotica con importante retrazione fibrotica.
Manifestazioni extragenitali vengono osservate nel 6% circa
dei pazienti e possono interessare le labbra, le guance, il palato, la faringe e la laringe. È segnalata la possibile disseminazione ematogena del microrganismo con localizzazioni epatiche
e ossee. In gravidanza la malattia evolve più velocemente e
risulta meno responsiva alla terapia.
Diagnosi. Oltre che sul quadro clinico, si basa sulla dimostrazione nei tessuti colpiti dei corpi di Donovan (corpuscoli
gram-negativi, pleiomorfi) che corrispondono al microrganismo localizzato all’interno degli istiociti. L’esame viene
effettuato allestendo un vetrino con materiale prelevato
tramite raschiamento cutaneo da una lesione ed eseguendo
un esame microscopico diretto dopo opportuna colorazione
(Giemsa, Wright o Leishman). Un’altra possibilità prevede
l’esecuzione di un’indagine istologica su biopsia. La coltura
e l’utilizzo di metodiche di biologia molecolare sono disponibili solo in laboratori specializzati. La sensibilità delle
tecniche microscopiche nel dimostrare la presenza di corpi
di Donovan non supera il 60-80%. La diagnosi differenziale
va posta con la lue (sifiloma primario e condylomata lata),
l’ulcera molle, il linfogranuloma venereo, l’herpes genitale
e l’amebiasi.
Prognosi. Possibili complicanze sono l’emorragia, il linfedema genitale, gli esiti cicatriziali, l’evoluzione verso il carcinoma squamocellulare delle lesioni e, raramente, la diffusione
per via ematogena con localizzazioni a distanza.
Terapia. Il trattamento consiste nell’impiego di diversi antibiotici per una durata minima di 3 settimane o finché non sia
stata ottenuta una guarigione completa. Si utilizzano: l’azitromicina (500 mg/die per os o 1 g una volta alla settimana per 4
settimane), il ceftriaxone (1 g/die im o ev), il cotrimoxazolo
(960 mg per os ogni 12 ore), la doxiciclina (100 mg per os ogni
12 ore), l’eritromicina (500 mg per os ogni 6 ore) e la ciprofloxacina (750 mg per os ogni 12 ore). In assenza di risposta
clinica nei primi giorni di terapia, è possibile aggiungere la
gentamicina, 1 mg/kg ev ogni 8 ore.
Il trattamento deve essere offerto ai soggetti che hanno avuto
contatti sessuali con il caso indice nei 2 mesi precedenti la
diagnosi, anche in assenza di sintomi.
SCHISTOSOMIASI UROGENITALE
La schistosomiasi urogenitale è un’infestazione causata dal
trematode Schistosoma haematobium, diffuso in tutta l’Africa,
in Medio Oriente e nelle isole dell’Oceano Indiano. I flussi
migratori e i viaggi internazionali sono responsabili del fatto
che questa patologia sia oggi frequentemente osservata anche
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
in paesi non endemici, come l’Italia. La malattia provoca
molteplici quadri clinici cronici di interesse uroginecologico.
Eziologia e ciclo biologico. S. haematobium è un elminta di
piccole dimensioni (il maschio e la femmina adulti misurano
rispettivamente 10-15 × 0,8-1 mm, 10-20 × 0,25 mm), appartenente alla classe dei trematodi, genere Schistosoma. Il ciclo
biologico è analogo a quello di S. mansoni (vedi pag. 557). Le
uova, fornite di un caratteristico sperone terminale (Fig. 15.5),
hanno forma allungata e dimensioni di 110-170 × 40-70 μm.
Le uova vengono eliminate con le urine, dando origine – qualora raggiungano l’acqua dolce – a larve mobili per la presenza
di ciglia (miracidi). Le larve, dopo essere penetrate in gasteropodi di genere Bulinus (ospite intermedio), si moltiplicano
per riproduzione asessuata producendo, in 4-6 settimane,
centinaia di cercarie mobili, lunghe circa 1 mm e dotate di
una coda biforcuta. Queste, una volta abbandonato l’ospite
intermedio, si rendono libere nelle acque e sono capaci di
iniziare l’infestazione umana per penetrazione transcutanea
(in occasione di balneazioni o anche semplice immersioni
di una parte assai limitata del corpo). Durante la fase di invasione nell’ospite umano, le cercarie perdono la coda e si
trasformano in schistosomuli. Questi ultimi guadagnano la
grande circolazione, migrano al cuore destro e ai polmoni
raggiungendo quindi i vasi portali. Qui, nello spazio di circa
6 settimane, avvengono la definitiva maturazione a vermi
adulti e l’accoppiamento degli esemplari maschi e femmine.
Gli elminti adulti, ancora accoppiati, raggiungono infine i
plessi venosi perivescicali e perirettali dove la femmina inizia
a deporre le uova dopo circa 2 mesi dall’infestazione. Le uova
perforano le pareti dei capillari e vengono spinte verso il lume
dei visceri cavi (vescica e retto), venendo escrete con le urine
o con le feci, mentre una parte rilevante rimane intrappolata
nei tessuti inducendo il danno d’organo. Alcune uova possono
immettersi nella circolazione sistemica, giungendo ai polmoni
e in diverse altre sedi. La sopravvivenza media degli schistosomi adulti nell’organismo umano è di 5-10 anni.
Epidemiologia. Considerando la schistosomiasi urogenitale
e quella epatointestinale nel loro insieme, l’OMS stima che
siano circa 230 milioni le persone che necessitano annualmente del trattamento specifico, e che la malattia provochi
FIG. 15.5 - Uovo di Schistosoma haematobium (sedimento urinario ×1.000).
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20.000 decessi ogni anno, dovuti a patologia d’organo terminale come il carcinoma della vescica, l’insufficienza renale e
le complicanze dell’ipertensione portale. La maggior parte
delle infestazioni da S. haematobium si concentra nell’Africa
subsahariana, dove la prevalenza può superare il 50%. La
malattia è comunque presente, anche se in misura più limitata, nell’Africa settentrionale (Algeria, Marocco, Tunisia), in
Medio Oriente e nelle isole dell’Oceano Indiano.
Al di fuori dei paesi endemici, la schistosomiasi viene osservata, oltre che negli immigrati, nei soggetti espatriati e nei
viaggiatori.
Patogenesi e anatomia patologica. In occasione della prima
infestazione, il sistema immunitario reagisce alla penetrazione
della cute da parte delle cercarie e alla successiva presenza in
circolo dei giovani schistosomuli sviluppando una risposta che
coinvolge principalmente i granulociti eosinofili, i macrofagi
e le IgE. Questa prima fase è contraddistinta dalla possibile
comparsa dei quadri di dermatite da cercarie (che compare
entro le prime 72 ore dopo il contatto con l’acqua infestata)
e della cosiddetta febbre di Katayama (che compare generalmente tra le tre settimane e i tre mesi dopo l’infestazione).
Nelle infestazioni croniche, assume un ruolo patogenetico
rilevante la formazione di granulomi intorno alle uova prodotte dai vermi femmina adulti. Le uova vengono rilasciate
nei capillari dei plessi venosi, dove risiedono i vermi adulti.
Da qui perforano le pareti dei capillari e sono spinte verso
il lume dei visceri cavi (vescica e retto), ma solo una piccola
quantità è eliminata con le urine o con le feci, mentre una
gran parte rimane intrappolata nei tessuti, inducendo una
flogosi granulomatosa e successivi fenomeni di fibrosi. Nella
schistosomiasi da S. haematobium le alterazioni più significative sono quelle a carico della vescica. Macroscopicamente,
la mucosa vescicale appare congesta, edematosa, cosparsa di
piccole papule che si trasformano poi in noduli, e quindi si
ulcerano o vanno invece incontro a sclerosi. Possono anche
osservarsi manifestazioni iperplastiche, con formazione di
polipi e, con il passare del tempo, calcificazioni, che danno
luogo a un quadro anatomopatologico altamente caratteristico. L’esito a distanza consiste generalmente in sclerosi della
mucosa, con riduzione della capacità della vescica. Non è
raro lo sviluppo di una neoplasia vescicale ed è frequente
l’estensione delle lesioni al terzo inferiore dell’uretere (che
può determinare stenosi ureterale, idrouretere e idronefrosi), alle vescicole seminali e alla prostata nel maschio, al collo
dell’utero e alla vagina nella donna.
Sintomatologia. Il quadro clinico dipende dallo stadio dell’infestazione e dalla progressione delle lesioni d’organo. Le
manifestazioni iniziali caratteristiche del periodo di invasione
(dermatite da cercarie e febbre di Katayama) risultano comuni
a tutte le specie di Schistosoma e sono state descritte nella
schistosomiasi intestinale (vedi pag. 558).
I sintomi urogenitali, caratteristici di S. haematobium, compaiono nella fase cronica, successivamente all’inizio della produzione di uova da parte dei vermi adulti. In caso di coinvolgimento vescicale l’ematuria, inizialmente solo microscopica
e poi anche macroscopica, è il segno più comune, associata
o meno a stranguria, disuria, pollachiuria o mitto ipovalido.
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
Parte di questi sintomi può essere correlata alle frequenti
infezioni urinarie secondarie. L’interessamento dell’uretere
determina sovente stenosi ureterale con successiva idronefrosi
e coliche renali. Le lesioni dell’apparato genitale maschile
(prostata, vescicole seminali, epididimo) si evidenziano spesso
con ematospermia. La localizzazione alla cervice uterina è
caratterizzata dalla presenza di chiazze granulose giallastre
(sandy patches) ed aree mucose ipervascolarizzate che tendono
al sanguinamento e facilitano la trasmissione di HIV. Il danno
endometriale e tubarico è responsabile di un quadro simile
alla PID e talora provoca infertilità. Nelle fasi avanzate possono presentarsi le complicanze dell’insufficienza renale, che
riconosce una patogenesi sia ostruttiva (idroureteronefrosi)
sia, più raramente, immunomediata (glomerulonefrite).
A causa della migrazione ectopica delle uova, la schistosomiasi in alcuni casi cagiona una compromissione del sistema
nervoso centrale, le cui manifestazioni più frequenti sono la
mielite trasversa acuta e la mieloradicolite subacuta.
Sia la schistosomiasi da S. mansoni sia quella da S. haematobium a volte si associano a infezioni croniche o recidivanti
da Salmonella enterica sier. Typhi e salmonellosi minori, in
quanto i batteri sono capaci di aderire alla superficie dei vermi adulti e divengono difficili da eradicare con la terapia
antibiotica.
La schistosomiasi genitourinaria deve essere differenziata
principalmente dalle neoplasie e dalla tubercolosi.
Diagnosi. Il sospetto diagnostico di schistosomiasi urinaria
deve essere posto in presenza di un quadro clinico e di un
contesto epidemiologico compatibili.
Nell’infestazione cronica da S. haematobium talora si rilevano
modesta eosinofilia, incremento delle IgE sieriche, proteinuria, micro- o macroematuria. L’ecografia dell’apparato
urinario è molto utile sia nell’inquadramento iniziale sia nei
controlli successivi, potendo documentare la presenza di
lesioni aggettanti in vescica o di idroureteronefrosi e permettendo di stimare il residuo postminzionale. A completamento, riescono utili indagini di II livello come la cistoscopia,
l’urografia, l’uro-TAC, la cistografia retrograda minzionale e
l’esame citologico delle urine.
Per quanto riguarda la diagnosi eziologica, questa si avvale di
indagini parassitologiche e sierologiche. L’esame parassitologico, poco sensibile, consiste nello studio microscopico diretto
effettuato su urine, feci o su campioni bioptici (prelevati con
cistoscopia o rettoscopia) per la ricerca delle uova. Il primo
si esegue sul sedimento delle urine raccolte nelle 24 ore; in
alternativa, si possono utilizzare campioni di urine raccolti tra
le 10 antimeridiane e le 2 del pomeriggio, poiché l’emissione
di uova presenta un ciclo circadiano con picco in quella fascia
oraria. In questo caso il paziente deve essere invitato ad eseguire una decina di piegamenti sulle ginocchia prima di iniziare
la raccolta, per facilitare il distacco delle uova dalle pareti vescicali. Per quanto riguarda sia le urine sia le feci, è opportuno
esaminare più campioni (almeno tre raccolti in giorni diversi)
per aumentare la sensibilità dell’esame. Le biopsie della mu-
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cosa vescicale e rettale (rectal snip) hanno una sensibilità più
elevata nel rilevare le uova, ma sono ovviamente più invasive.
Le ricerche parassitologiche devono essere ripetute dopo il
trattamento per valutarne l’efficacia; tuttavia, uova non vitali
possono essere emesse, anche dopo un trattamento efficace,
per circa 1-2 mesi. In tal caso, se l’esame parassitologico fosse
ancora positivo, è possibile eseguire il test di vitalità del miracidio per distinguere tra uova vitali e degenerate.
Per l’identificazione di anticorpi anti-Schistosoma si dispone
di diversi test: immunoenzimatici, di emoagglutinazione indiretta e Western blot. Le prove sierologiche si positivizzano
solitamente entro 3 mesi dall’infestazione e possono rimanere
positivi per tutta la vita senza risentire in modo sostanziale
delle eventuali terapie. Le indagini sierologiche hanno una
sensibilità del 70-85%, sicuramente superiore rispetto all’esame parassitologico, ed una specificità del 76-100% a seconda
delle metodiche impiegate. La causa più frequente di falsi
positivi è rappresentata dalla possibile reattività crociata con
altri elminti, soprattutto cestodi.
I test di determinazione degli antigeni degli schistosomi su
sangue e urine (circulating catodic antigen o CCA, e circulating
anodic antigen, o CAA) e i saggi molecolari sono disponibili
solo in laboratori altamente specializzati.
Prognosi. Dipende in larga misura dalla tempestività del
trattamento antiparassitario, che, eliminando i vermi adulti,
interrompe la produzione e l’accumulo delle uova responsabili del danno. Sebbene alcune lesioni iniziali, come gli
pseudopolipi infiammatori vescicali, possano regredire con il
trattamento antiparassitario, la maggior parte delle alterazioni
fibrotiche è irreversibile.
Terapia e profilassi. La cura della schistosomiasi genitourinaria si basa, da un lato, sul trattamento antielmintico specifico e, dall’altro, sulla correzione, spesso chirurgica, delle
complicanze d’organo.
Il farmaco di scelta è il praziquantel, attivo principalmente sui
vermi adulti. Nella fase cronica, il dosaggio di praziquantel
consigliato dalla maggior parte delle linee guida internazionali
è di 40 mg/kg (suddivisi in due dosi) per os per 1 giorno. La
singola dose è lo schema più utilizzato nelle aree endemiche,
dove rappresenta un intervento con un rapporto costo-efficacia molto favorevole per ottenere il controllo della malattia.
Nelle zone non endemiche, allo scopo di curare il singolo
paziente, alcuni esperti consigliano di ripetere l’assunzione
del farmaco più volte: per esempio, 40 mg/kg/die per 3 giorni
consecutivi, oppure per 2 giorni a distanza di 2-4 settimane
l’una dall’altra.
L’unica misura sicuramente utile per non acquisire l’infestazione è quella di evitare il contatto della cute con acque
dolci nelle regioni endemiche. Esistono alcuni prodotti che si
sono dimostrati efficaci in profilassi, ma non sono ancora stati
raccomandati dalle autorità competenti: tra questi, vi sono i
derivati dell’artemisinina, da assumere per os, e prodotti topici
a base di dietiltoluamide (DEET).
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Capitolo 15 • Infezioni dell’apparato urogenitale
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