Il Circuito del separatismo

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DIRITTI, UGUAGLIANZA, INTEGRAZIONE
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Diritti Uguaglianza Integrazione
Collana dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali
Dipartimento per le Pari Opportunità
diretta da
Massimiliano Monnanni
Comitato scientifico:
Daniela Bas, Camilla Bianchi, Marco Buemi,
Oriana Calabresi, Rosita D’Angiolella, Olga Marotti,
Federica Mondani, Antonella Ninci, Anna Riglioni, Pietro Vulpiani
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Danilo Catania e Alessandro Serini
(a cura di)
IL CIRCUITO
DEL SEPARATISMO
Buone pratiche e linee guida
per la questione Rom nelle
regioni Obiettivo Convergenza
ARMANDO
EDITORE
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CATANIA, Danilo – SERINI, Alessandro (a cura di)
Il circuito del separatismo. Buone pratiche e linee guida per la questione Rom nelle regioni
Obiettivo Convergenza ;
Pref. di Massimiliano Monnanni; Pres. di Antonio Russo; Intr. di Michele Rizzi
Roma : UNAR, © 2011
240 p. ; 22 cm. (Diritti, uguaglianza, integrazione)
ISBN: 978-88-6081-929-1
1. Integrazione delle comunità rom
2. Definizione della “questione Rom”
3. I Rom nel Meridione
CDD 300
© 2011 UNAR
Dipartimento per le pari opportunità
Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali
Largo Chigi 19 – 00187
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volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68,
comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e
CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI
il 18 dicembre 2000.
Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero
di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica
autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506,
e-mail [email protected]
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Sommario
Prefazione
MASSIMILIANO MONNANNI
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Presentazione: La memoria e la politica del fare
ANTONIO RUSSO
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Introduzione
MICHELE RIZZI
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PARTE PRIMA: L’INTEGRAZIONE DELLE COMUNITÀ ROM
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Capitolo 1: La “questione Rom”: una prima definizione
EMILIANA BALDONI
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Capitolo 2: Il disegno della ricerca: un “campo” da scoprire
DANILO CATANIA, ALESSANDRO SERINI
43
PARTE SECONDA: I Rom nel Meridione
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Capitolo 3: Il lento inserimento dei Rom in Campania
ALESSANDRO SERINI
63
Capitolo 4: In Puglia: sulla strada dell’integrazione
DANILO CATANIA
Capitolo 5: Calabria: luci e ombre nelle politiche pubbliche
in favore dei gruppi Rom
ANGELO PALAZZOLO, GIANFRANCO ZUCCA
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Capitolo 6: I Rom in Sicilia: i confini degli spazi di inclusione 163
ALICE RICORDY
Capitolo 7: Tra l’incudine e il martello
ALESSANDRO SERINI, DANILO CATANIA
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Conclusioni: Linee guida per la governance locale
dell’inclusione delle comunità RSC
MARCO LIVIA
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Cartografie
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Bibliografia
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Nota sugli Autori
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Prefazione
MASSIMILIANO MONNANNI1
Ci sono delle espressioni usate normalmente sui mezzi di comunicazione e nei dibattiti pubblici che si fissano nel lessico comune
e descrivono una determinata situazione meglio di altre; individuano con precisione e in forma concisa le radici storiche e culturali
di un determinato fenomeno; talvolta arrivano ad oltrepassare il loro
normale perimetro semantico, e divengono parte di un vocabolario
comune al punto che, evocate, attivano in noi significati talmente sedimentati nella coscienza da non ammettere fraintendimenti di sorta.
“Questione” è una di queste parole. Accostata ad una data comunità
o ad un dato territorio restituisce l’immagine di un problema irrisolto
che si perpetua da molto tempo a danno di quel territorio o di quella comunità. Basti pensare alla “questione meridionale”, sollevata in
Parlamento cento anni fa (1911) dall’Onorevole Giustino Fortunato,
che rappresenta tuttora una formula verbale efficace nel sintetizzare lo stato di arretratezza economica in cui versano la maggior parte delle regioni del Sud Italia; oppure alla “questione femminile”,
un’espressione linguistica che ha infiammato i dibattiti politici negli
anni Settanta, rimasta finora inevasa se si considera il ruolo tuttora
marginale delle donne nel mondo del lavoro e, in generale, della vita
pubblica.
Negli ultimi tempi, nel novero delle “questioni” è salita alla ribalta
delle cronache la questione Rom. Questa espressione evoca significati e immagini che rimandano ad una collettività, quella Rom, che vive
un’esistenza precaria. Una umanità in eccesso in cui il tratto della
precarietà permea le diverse dimensioni del vivere civile – casa, lavoro, salute, istruzione. A rendere ancor più vulnerabile la condizione
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Direttore Generale Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR).
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dei Rom, Sinti e Camminanti ha contribuito, peraltro, il diffondersi
di una cultura securitaria che assimila i Rom ad una minaccia sociale
permanente. La discriminazione delle comunità rom, sinte e caminanti ha quindi acquisito toni ancor più violenti del sentimento antiimmigrazione che serpeggia in alcune frange della nostra società: un
risultato paradossale, se solo si considera come la maggior parte dei
Rom sia di nazionalità italiana.
Mai come in questa particolare fase storica la lotta alla discriminazione si deve misurare con la questione Rom, mettendo in campo
risorse, ma soprattutto metodi e strumenti, adeguati alla complessità
del tema. Una lotta che si consuma quotidianamente nelle nostre città,
all’interno di contesti metropolitani in cui si intrecciano innumerevoli
istanze sociali: dal problema della casa, alla riqualificazione delle periferie; dall’assenza di lavoro per i giovani, al degrado dell’ambiente
e, in generale, alla ricerca della qualità della vita.
Da questo punto di vista, le amministrazioni locali sono chiamate
ad una difficile sfida: contemperare schemi di azione pubblica efficaci
e rispettosi delle popolazioni rom, sinte e camminanti con il consenso
e il sostegno dei cittadini non rom. Vanno in questa direzione le indicazioni espresse nei documenti di programmazione del Dipartimento
per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri:
Le politiche di sviluppo locale rappresentano un terreno privilegiato
per riuscire a realizzare delle concrete azioni volte al superamento delle disparità […] [per la] programmazione dello sviluppo del
proprio territorio, la sperimentazione di nuovi approcci e di nuove
forme di sensibilizzazione sul tema delle pari opportunità e di non
discriminazione. [Poat 2008: 25, punto c].
È dunque a livello locale che è necessario mettere in moto quei
processi di cambiamento sociale necessari a garantire uguali opportunità, indipendentemente dal sesso, dall’appartenenza etnico-religiosa,
dall’età e dall’orientamento sessuale. Si impone una netta inversione di tendenza rispetto ad un approccio di fondo connotato in senso
emergenziale: occorre difatti privilegiare azioni di medio/lungo raggio, che usino una varietà di strumenti e siano in grado di incidere in
modo duraturo sui meccanismi discriminatori.
Sotto questo aspetto, è necessario indurre ad un cambiamento organizzativo delle pubbliche amministrazioni, in funzione di un rafforzamento delle politiche di pari opportunità nei confronti di Rom, Sinti
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e Camminanti; ciò chiaramente non può che avvenire a seguito di un
adeguamento delle competenze tecniche a disposizione delle stesse
istituzioni locali. Quest’aspetto è cruciale poiché, come si legge nel
quadro riassuntivo degli obiettivi di programmazione, per garantire
un equo accesso ai servizi da parte delle popolazioni rom, sinte e
camminanti occorre:
[Un] rafforzamento delle strutture operative e delle competenze
delle pubbliche amministrazioni impegnate nei confronti delle comunità rom, ed una mappatura e valorizzazione delle opportunità
sociali per l’inclusione dei soggetti e delle comunità discriminate; si
intende favorire un più equo accesso ai servizi ed una più adeguata
capacità di comunicazione interculturale nei confronti delle comunità rom, sinte e camminanti da parte delle istituzioni pubbliche.
[Poat 2008, p. 30, tab. 3].
È bene ricordare che l’efficienza degli interventi dipende in larga parte dalla capacità di lettura del contesto d’azione: i bisogni e
le aspettative delle comunità direttamente interessate dalle misure di
sostegno sono dunque un punto di partenza imprescindibile per sviluppare nuove forme di azione pubblica. È su queste sollecitazioni
d’analisi che l’UNAR, sul finire del 2009, ha dato impulso ad un programma d’indagine che si è articolato su due differenti, se pur interrelate, considerazioni di fondo: occorre che il rapporto tra comunità
rom e società locale si sviluppi secondo forme di interazione positiva
all’interno delle quali ogni attore (istituzionale e non) sia disposto a
lavorare in sinergia con gli altri, superando le barriere ideologiche che,
allo stato attuale, caratterizzano il dibattito pubblico sulla questione
Rom; inoltre, è necessario favorire una dinamica simile all’interno
delle comunità stesse, facendo sì che gli insediamenti rom si aprano al
territorio, dissolvendo il senso di ghettizzazione e di autoesclusione.
È lungo questi orientamenti di fondo che si è mosso il percorso
d’indagine presentato in questo volume. Un’esplorazione all’interno
della questione Rom affrontata cercando di osservare il problema da
più prospettive, rintracciando in esse elementi utili al rafforzamento
del sistema degli attori istituzionali ed associativi, nel sostegno di
politiche e servizi a favore delle comunità rom, sinte e camminanti e
alla promozione della loro partecipazione politica, economica, istituzionale e associativa.
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Presentazione: la memoria e la politica del fare
ANTONIO RUSSO1
La mia famiglia è composta di nove persone: siamo io mia moglie
e sette figli, ma mio figlio è malato e ha l’osteomielite. Io capofamiglia sono affetto da artrosi e sono costretto a un periodo di riposo
forzato… Noi siamo in nove in una stanza e cucina che scola acqua
da tutte le parti meno che dal rubinetto. Il gabinetto sta fuori casa.
Quando uno deve cambiarsi o vestirsi facciamo i turni. I miei figli
dormono tre nella mia stanza e cinque come si entra, tutti mischiati
tra maschi e femmine. Ti scrivo perché voglio sapere se ho fatto
qualcosa di male; io non ho fatto mai niente a nessuno e i miei figli
nemmeno, allora io vi chiedo che razza di umanità è questa. Forse
io ho sbagliato quando mi sono sposato o forse quando sono nato.
Ad ogni modo sono pronto a pagare. Mettetemi in prigione oppure
ammazzatemi per essere nato, ma per carità non fate pagare questa
mia disgrazia ai miei figli. Non vogliamo l’elemosina da nessuno, ci
basta una casa come tutte le persone civili con la possibilità di poter
pagare l’affitto.
Questa lettera è una delle tante invocazioni di aiuto che, a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, giunsero ai Circoli delle ACLI di
Roma contigui alle borgate romane2: luoghi ai margini di una città
protesa in avanti, spinta da un sostenuto sviluppo economico. Tra le
fenditure di un’espansione urbanistica, che fu senza eguali soprattutto
negli anni del boom economico, si asserragliava un’umanità “invisibile” e senza voce. Una massa di uomini e donne, spesso partiti
1 Responsabile
nazionale Area Immigrazione ACLI.
Nel caso specifico, il circolo è quello di Santa Maria Mediatrice in Via Cori
e a scrivere la lettera (pubblica sull’“Avvenire” il 28 novembre 1969) è un abitante
della borgata di Villa Gordiani.
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da piccoli centri del Sud Italia con la speranza di una vita migliore,
composta da famiglie numerose e poverissime, in cui l’assenza di
lavoro rappresentava la cifra della propria condizione di vita. Queste
persone andavano a riempire gli spazi urbani non ancora interessati
da speculazioni edilizie, abitando in case pericolanti e baracche fatiscenti sprovviste di servizi igienici. Una condizione di vita che suscitò sentimenti di preoccupazione e d’intolleranza presso ampi strati
della popolazione “civile”, dando vigore ad una politica securitaria,
dove la “questione dei baraccati” fu presa a pretesto per fini elettorali
e propagandistici. In risposta alle migliaia di lettere di famiglie che
vivevano nelle baracche, non è un caso che le ACLI di Roma pubblicarono a riguardo un articolo in cui, oltre a sollecitare interventi
abitativi volti a sanare l’emergenza casa a Roma, esprimevano anche
la loro idea di politica:
Non ci sembra necessario spendere molte parole per solidarizzare
con quanti, senza chiassate o metodi tipici di gruppi strumentalizzati a fini politici, formulano concrete proposte con senso di responsabilità che merita considerazione molto maggiore di quanta non ne
meriti chi adotta il metodo della protesta arrogante e violenta3.
Un’idea saldamente ancorata sul terreno della concretezza, in cui
le soluzioni sono formulate a partire da una visione ben precisa di
progresso sociale, imperniato sullo sviluppo integrale di ogni persona, al di là della particolare origine etnica e della personale condizione socio-economica. Una concezione della politica che guardi
al bene comune con spirito propositivo e responsabile. Una politica
lungimirante in grado di immaginare il futuro attraverso un costante
investimento nella programmazione e nella pianificazione degli interventi. Insomma, una politica che sappia dare risposte tangibili sul
fronte dell’inclusione e dell’integrazione sociale, al di là dei proclami
suscitati dall’incendio di una baracca, nascosta tra gli anfratti della
periferia romana, in cui lo scorso 6 febbraio persero purtroppo la vita
quattro bambini rom.
Per la nostra Associazione è un obiettivo centrale la questione della dignità umana e del diritto a vivere una vita decente, come invocava quel padre nell’incipit di questa presentazione.
3 Iniziativa delle ACLI per i baraccati. Articolo pubblicato dal quotidiano “Il
Popolo” il primo dicembre 1969.
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Il gioco di specchi che la memoria talvolta riflette nelle nostre
coscienze tende a trasfigurare la miseria di un’esistenza vissuta in un
riparo di fortuna e fatiscente nell’immagine di gruppi rom che popolano le periferie delle nostre città. Figure che suscitano apprensione,
da esorcizzare attraverso politiche di ordine pubblico che hanno prodotto in tutto il territorio nazionale la proliferazione di “campi-sosta”.
Anche qui, la rievocazione della memoria provoca delle sovrapposizioni tra ieri ed oggi, tra il problema dei baraccati di quarant’anni fa e
l’attuale emergenza dei Rom. Questi ultimi, se spogliati dalla retorica
di una loro presunta quanto falsa vocazione al nomadismo, sono il nostro prossimo che vive in condizione di profonda indigenza, alimentata da una miscela di intolleranza e disinformazione che anestetizza
in qualche modo le nostre coscienze e l’indignazione che dovrebbe
suscitare la vista di un’esistenza relegata ai margini dell’umano vivere. Scene di profonda emarginazione, che richiamano alla mente immagini e parole di chi, prima dei Rom, viveva in quella disperazione,
e sollecitano una messa in moto di quella politica del fare che quasi
mezzo secolo fa le ACLI auspicavano, per risolvere definitivamente
il problema dei baraccati a Roma.
C’è dunque bisogno di risposte concrete, frutto di un’analisi il più
possibile approfondita dei vincoli e delle opportunità che implica una
determinata scelta. Un’analisi capace di scardinare antichi pregiudizi
e in grado di fornire una base informata per la formulazione di soluzioni adeguate ai diversi contesti d’intervento.
Per certi aspetti, questo corposo lavoro di ricerca sollecita il ricordo di una ricerca sociale condotta anni or sono, che fu strumento di
denuncia, ma anche elemento di riflessione per la definizione di interventi efficaci. Vite di baraccati, di Franco Ferrarotti, pubblicato nel
1974, diede un contributo importante alla realizzazione di azioni tese
a migliorare le condizioni di vita dei baraccati romani. La speranza è
che anche questa indagine, e le prossime a venire, possano contribuire
davvero a restituire dignità a persone che oggi sono relegate in una
condizione che umilia e offende, insieme a loro, l’intera umanità.
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Introduzione
MICHELE RIZZI1
Poche questioni come quella dei Rom scatenano nell’opinione
pubblica il dibattito se sia necessario integrarli o meno nella società
italiana. Se in tema d’immigrazione i più intransigenti possono tutt’al
più parlare di un male necessario (wanted but non welcome, direbbero
gli americani), per quanto riguarda i Rom si assiste ad una riprovazione, più o meno diffusa, della loro presunta scarsa attitudine al lavoro,
del loro stile di vita, persino del loro modo di essere. In aggiunta, nel
caso dei Rom, il ventaglio dei pregiudizi raggiunge la sua massima
ampiezza e poco o alcuno spazio viene dato ad una riflessione razionale e meditata su di essi: solo a titolo di esempio, nella gerarchia
degli atteggiamenti razzisti da parte dei giovani, i Rom sono in prima posizione, seguiti da Rumeni e Albanesi2. Raramente ci si siede
attorno ad un tavolo e ci si chiede se sia possibile integrare i Rom
nel tessuto della società italiana, e se qualcuno si sia già apprestato a
farlo. Il presente volume intende dare un contributo proprio in questa
direzione.
Realizzato grazie al contributo dell’UNAR (Ufficio Nazionale
Antidiscriminazioni Razziali – Ministero per le Pari Opportunità)
nell’ambito del PON “Governance ed Azione di Sistema” – Obiettivo Convergenza, Asse D Pari Opportunità e Non Discriminazione,
FSE 2007-2013, il volume raccoglie le analisi e le riflessioni svolte
1 Vice Presidente nazionale delle ACLI, delle quali è Responsabile del Dipartimento Istituzioni, è presidente della Fondazione Achille Grandi per il bene comune
e presidente di IREF, l’Istituto di ricerca delle ACLI.
2 SWG e IARD, Io e gli altri: giovani italiani nel vortice dei cambiamenti,
ricerca promossa dalla Conferenza dei Presidenti delle assemblee legislative delle
regioni e delle province autonome e presentata alla Camera dei Deputati il 18 febbraio 2010. Disponibile in www.parlamentiregionali.it.
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durante una ricerca sui percorsi di inclusione sociale dei Rom nel
Meridione. Otto studi di caso, una mappatura aggiornata dei campi,
interviste a testimoni privilegiati, e una raccolta del materiale documentale sulla questione sono il frutto di tale percorso. Si è deciso di
privilegiare l’approccio empirico di ricerca per dare sostanza ai ragionamenti riguardanti i Rom, e per cercare di chiudere quel ventaglio di
pregiudizi dietro cui spesso ci si nasconde, nel tentativo di affrontare
timidamente la questione.
Ma la questione dei Rom non può essere affrontata timidamente.
150 mila di essi sono presenti nel nostro territorio, la metà dei quali
è italiana e l’altra metà, pur essendo straniera, è oramai stanziale da
molti anni. Quella dei Rom è una questione che va dunque inserita a
pieno titolo nell’agenda politica per l’immigrazione. La stanzialità,
inoltre, mostra come la parola “nomade” sia inadatta a descrivere la
nuova situazione e come occorra quindi riformulare un vocabolario
che oramai risente degli anni. In definitiva, una presenza così consistente impone una politica di integrazione nei confronti dei Rom,
politica che, come vedremo, non è ancora stata formulata in modo
sistematico a livello nazionale. Ce n’è dunque per rimboccarsi le maniche, accendere il registratore, e viaggiare nell’Italia dei campi rom
(ma non solo) allo scopo di raccogliere quei tentativi di integrazione
che si stanno faticosamente realizzando in alcune città italiane.
Tra le righe, il viaggio nei luoghi di presenza rom suggerisce alcune osservazioni. La prima è che la parola “nomade” perde di significato nella gran parte dei casi. Come accennato, la quasi totalità di essi
sono stanziali, siano essi italiani o stranieri. A Scampia, dove vivono
oltre 1.500 Rom di origine jugoslava, si attestano le prime presenze
già dalla fine degli anni Ottanta: la seconda generazione di Rom jugoslavi, nati a Scampia, è di fatto italiana a tutti gli effetti. Anche in
Puglia, e al confine tra Molise e Abruzzo, si attestano presenze ultradecennali, in gran parte stanziali. A Noto, in Sicilia, la comunità di
Caminanti vi risiede dalla fine degli anni Cinquanta: vi sono episodi
di semi-nomadismo per alcuni di essi, ma la residenza e la dimora
abituale permangono nel comune siciliano. Si potrebbero fare altri
esempi nella medesima direzione, e mostrano come quello rom sia un
popolo che ha oramai deciso in buona parte di insediarsi nel nostro
territorio.
La seconda riflessione riguarda l’eterogeneità del popolo rom. Una
medesima lingua e una stessa cultura ne fanno un popolo unico, che si
diffonde in Europa alla ricerca di un posto dove abitare; nondimeno,
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l’incontro tra popolo rom e popolazioni europee ha determinato il
fiorire di culture miste, che hanno determinato una sorta di ramificazione dall’albero principale: rom nelle origini, assumono in parte gli
usi e i costumi dei Paesi dove si vanno a insediare. È stato sorprendente scoprire come i Rom rumeni arrivano in Puglia e rifiutano, per
quanto possibile, i campi attrezzati: cercano casa in affitto, vogliono
un lavoro, e se non trovano dove dormire, preferiscono accamparsi
in casolari abbandonati piuttosto che andare nei campi. In Romania
avevano una casa, lavoravano regolarmente, i figli andavano a scuola,
allo stesso modo delle altre famiglie rumene. Giunti in Italia per motivi economici, cercano nel nostro Paese il medesimo modello insediativo che avevano in Romania. In chiave di integrazione, non sfugge
l’importanza di una simile evidenza, laddove alla parola “rom” si accosta spesso la parola “campo”.
Riscontri come questi introducono la terza questione, relativa alle
politiche di integrazione. I campi rom sono certamente utili a fronteggiare situazioni di emergenza, come gli esodi derivanti da eventi bellici o da crisi economiche di interi Paesi; nel lungo periodo, tuttavia,
le politiche di gestione dei campi appaiono insufficienti a migliorare
la gamma delle opportunità lecite di emancipazione dei Rom. Interventi più interessanti si dimostrano certamente quelli dove la fuoriuscita dai campi viene favorita da progetti di integrazione con la
popolazione locale in materia di abitazione e di lavoro. In alcuni casi,
risulta determinante una cabina di regia di ispirazione politica: in effetti, il concorso di forze sociali e politiche favorevoli ha determinato
il successo, anche parziale, di talune iniziative.
In definitiva, la ricerca effettuata sul campo mostra come una vera
politica di integrazione delle popolazioni rom sia possibile, qualora
si decida di abbandonare facili riduzionismi e di declinare le politiche per i rom al plurale, introducendo una pluralità di strumenti di
intervento e una progressività nei tempi di realizzazione, come vedremo. È un cambiamento faticoso ma premiante, anche perché investire
in integrazione significa investire in sicurezza: la criminalità è figlia
dell’isolamento e del degrado, e una società inclusiva è anche una
società più sicura.
Per quanto riguarda i contenuti, il volume si divide in due sezioni. Nella prima parte si illustrano i principali risultati emersi dai vari
ambiti di discussione (storico, giuridico, associativo, politico, etc.)
su cui si è articolato negli ultimi trent’anni il dibattito riguardante le
popolazioni rom, sinte e camminanti nel nostro Paese (capitolo 1).
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A chiudere la sezione, nel secondo capitolo, si descriverà l’impianto
metodologico della ricerca, la logica dell’indagine, e gli strumenti
utilizzati per sondare il terreno sulla questione. Nella seconda parte del volume, invece, si commenteranno i principali risultati emersi
dagli studi d’area effettuati nelle regioni oggetto di indagine: Campania (capitolo 3); Puglia (capitolo 4); Calabria (capitolo 5) e Sicilia
(capitolo 6). I capitoli regionali sono stati organizzati secondo uno
schema comune, che prevede la descrizione del contesto regionale
– corredato da cartografie aggiornate sulla presenza di Rom, Sinti
e Camminanti nella regione; e il commento dei risultati emersi da
due studi per regione realizzati in altrettante città d’insediamento. I
contesti urbani di studio sono: per la Campania, Napoli e il comune
di Giffoni Sei Casali (Sa); per la Puglia, Foggia e Lecce; per la Calabria, Reggio Calabria e Cosenza; e, infine, per la Sicilia, Palermo e
Catania. Nelle città di Napoli, Foggia, Reggio Calabria e Palermo il
focus d’indagine è stato il tema dell’accesso ai servizi socio-sanitari
da parte di Rom, Sinti e Camminanti; nei restanti comuni, si sono
approfondite questioni riguardanti la condizione socio-abitativa delle
popolazioni d’indagine. Infine, al termine del volume, si commenteranno le principali sollecitazioni emerse dagli studi d’area (capitolo
7), e in conclusione si illustreranno alcune ipotesi di linee guida per
la governance locale, in relazione alle politiche di inclusione delle
comunità rom, sinte e camminante.
Come sempre, la ricerca è frutto di un lavoro corale, che coinvolge
una pluralità di attori. Desidero pertanto ringraziare innanzitutto il
Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri e in particolar modo l’Unità Nazionale Antidiscriminazione Razziale, i suoi dirigenti e tutti i loro dipendenti ed operatori che ogni giorno svolgono
un grande lavoro di difesa dei diritti umani. Ringrazio tutti i dirigenti
e gli operatori degli enti pubblici contattati e coinvolti dalle attività
di ricerca (Prefetture, Province, Comuni, Questure), le organizzazioni
locali pubbliche, ecclesiali e del privato sociale che hanno accompagnato i nostri ricercatori sui territori e all’interno delle comunità rom
(ACLI regionali e provinciali coinvolte, Croce Rossa Italiana, Caritas
diocesane, Opera Nomadi nazionale e regionali), infine un ringraziamento particolare ai partner che hanno contribuito e partecipato alla
realizzazione dell’indagine: la Fondazione Di Liegro e la società CODRES Scarl.
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PARTE PRIMA
L’INTEGRAZIONE DELLE COMUNITÀ ROM
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Capitolo 1
La “questione Rom”: una prima definizione
EMILIANA BALDONI
1.1 Note introduttive
Nel corso degli ultimi anni, la “questione Rom” ha acquisito uno
spazio sempre più rilevante nell’agenda pubblica europea, soprattutto
a seguito dell’allargamento a Est dell’Unione Europea. La crescita
di attenzione verso le inaccettabili condizioni economiche, sociali e
politiche in cui versa gran parte della popolazione impropriamente
denominata “nomade”, “zingara” o “Rom” assume tuttavia spesso
connotazioni politiche, che non contribuiscono a una corretta e rigorosa conoscenza di tale minoranza e, di riflesso, alla messa in atto di
politiche adeguate1.
Innanzitutto, chi sono i Rom2? Secondo Piasere, essi rientrano in
una categoria “politetica” costituita da elementi che si assomigliano
in qualcosa, ma per tratti diversi; la flessibilità della struttura concettuale di tale categoria ha permesso di includervi storicamente una
varietà abbastanza composita di persone con diversità culturali anche
notevoli, il cui unico tratto comune è consistito, forse, in una stigmatizzazione negativa [2004: 3]. La parola Rom è dunque un termine
universale, che rimanda ad una miriade di gruppi e sottogruppi caratterizzati da una serie di somiglianze che includono la lingua, le
modalità di vita, le tradizioni culturali e l’organizzazione familiare.
1 Si pensi all’aspro dibattito politico a seguito della controversa campagna di
rimpatri disposta recentemente dal governo francese che ha provocato la dura reazione delle istituzioni comunitarie.
2 Nel presente contributo l’utilizzo dei termini Rom o zingari (senza alcuna
connotazione negativa) per indicare gruppi diversi è dovuto solo a ragioni pratiche
di semplificazione.
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Inoltre, nel corso del tempo le singole specificità culturali si sono
compenetrate e fuse con elementi di altre popolazioni con cui sono
entrate in contatto, creando mescolanze potenti e forme di vita irregolari rispetto al presupposto archetipo Rom [Lapov 2004].
Nel contesto italiano l’impiego, sia in ambito istituzionale sia talvolta accademico, di categorie stereotipate che omogeneizzano tale
realtà variegata di gruppi etnici caratterizzati da provenienze nazionali, consuetudini abitative, appartenenza religiosa, credenze, pratiche
culturali e mestieri tradizionalmente praticati ben diversi (nonché da
un distinto status giuridico), ha implicazioni di rilievo in termini di
policy. Come osserva Ambrosini [2009: 319], i processi di naming e
di framing, selezionando e attribuendo un nome ad alcuni elementi
caratteristici del fenomeno da gestire, rimuovendone altri, elaborano
lo schema cognitivo di lettura e interpretazione della realtà, che predispone il terreno per le scelte propriamente politiche. Non a caso, in
Italia, l’etichetta generica di “nomadi” ha profondamente influenzato
le politiche abitative per la maggior parte di queste popolazioni.
Nella seguente parte introduttiva si tenterà di illustrare sinteticamente alcuni temi essenziali della “questione Rom”, che consentono
di contestualizzare il fenomeno e inquadrare i successivi sviluppi empirici oggetto d’indagine. In particolare, dopo aver tracciato in chiave
storica un (seppure approssimativo) quadro qualitativo e quantitativo
dei diversi gruppi presenti in Italia, si affronterà la spinosa questione dei “campi nomadi” a partire dalla legislazione regionale che li
ha istituiti, mostrando le ambiguità e le contraddizioni di politiche
nazionali che non riconoscono alle popolazioni rom lo status di minoranza e al contempo le confinano in campi-ghetto sulla base di una
loro presunta attitudine al nomadismo. L’attenzione poi si soffermerà
sull’aspetto problematico della tutela della salute della popolazione
Rom, aspetto che verrà poi approfondito negli studi di caso, e sulla
ratio delle politiche nazionali messe in atto negli ultimi tempi. Un’ultima riflessione riguarderà il mondo dell’associazionismo a favore dei
Rom e le modalità di promozione della partecipazione attiva.
1.2 La galassia “nomadi” in Italia tra stereotipizzazione e
frammentazione etnica
Le popolazioni rom costituiscono una galassia di minoranze
[Dell’Agnese, Vitale 2007] tutt’altro che omogenea dal punto di vista
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storico, culturale e religioso3. Ci troviamo dunque di fronte ad un
mosaico di frammenti etnici: non una minoranza “territoriale”, ma
una “minoranza diffusa”, dispersa e transnazionale, che assume nomi
differenti: Rom, sinti, manus, kale, romanichals, etc. [Arrigoni, Vitale
2008].
La reale consistenza numerica delle popolazioni rom4 presenti in
Europa e in Italia non è nota. Questo vuoto di conoscenza, dovuto
all’impossibilità di eseguire censimenti su base etnica ma anche a
una certa reticenza a dichiarare un’identità fortemente stigmatizzata, lascia spazio a rappresentazioni distorte e strumentali. Le stime
disponibili, spesso oggetto di aspre contestazioni, dipingono scenari
discordanti a seconda che provengano da fonti governative, che non
hanno interesse ad ammettere di avere molti Rom nel proprio territorio, o dal mondo dell’associazionismo e dei movimenti di rivendicazione, che, al contrario, tendono a sovrastimare le presenze, anche per
garantirsi l’accesso ai fondi [Piasere 2004]5.
Secondo quanto riportato da Spinelli [2003], in tutto il mondo i
Rom sarebbero dai dodici ai quindici milioni6; di questi, la maggior
parte risiederebbe in Europa (dai 7.200.000 ai 8.700.000), in particolare nell’Europa dell’Est (circa il 60-70%) e in Spagna e Francia (1520%). Per quanto riguarda l’Italia, l’Opera Nomadi e l’Associazione
Italiana Zingari Oggi (A.I.Z.O.) hanno effettuato rilevamenti delle
presenze di Rom, Sinti e Camminanti sull’intero territorio nazionale,
stimando fra le 130 mila e le 150 mila unità, pari a circa lo 0,25%
della popolazione totale7. La metà di questi (70 mila persone circa,
discendenti di coloro che sono giunti nel nostro Paese fra il XV secolo e il 1950) possiede la cittadinanza italiana, mentre i restanti sono
extracomunitari provenienti soprattutto dalla ex Jugoslavia e dall’Albania o sono cittadini comunitari della Romania.
3 Cfr. Karpati 1993; Piasere 1999; De Cozannet 2000; Spinelli 2003; Vaux,
DeFoletier 2003; Piasere 2004; Mannoia 2007.
4 Com’è noto, “Rom” in romanì significa “uomo” o “marito” in contrapposizione a “Gagé” che indica i “non Rom”, l’alterità per definizione. La donna è romni,
romà è il popolo Rom nel suo insieme.
5 Emblematico è il caso della Romania che accoglierebbe il 26,6% della popolazione zingara d’Europa. Secondo Liégeois [1998], i Rom rappresenterebbero
l’8% della popolazione rumena, mentre nel censimento del 1992 essi risulterebbero
essere solo l’1,8% [Piasere 2004].
6 Sulla distribuzione territoriale dei Rom in Europa e nel resto del mondo si
veda anche il contributo di Piasere [2003].
7 Cfr. Scalia 2006; Dell’Agnese, Vitale 2007; Arrigoni, Vitale 2008.
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Le popolazioni rom, originarie dell’India sono presenti in Italia
da più di seicento anni. Fra i più antichi documenti storici che ne
testimoniano l’arrivo, vi sono quelli riguardanti il passaggio per Forlì
(anno 1422) e per Fermo (1430) di un gruppo di circa duecento “indiani” diretti a Roma per ottenere indulgenza e protezione dal Papa,
ma è probabile che altri gruppi avessero già raggiunto le coste del
Sud dalla Grecia8. Più che un’unica lingua, di origine indo-ariana, i
vari gruppi sparsi per l’Europa parlano dialetti romanè, che, seppure
influenzati dalle lingue locali e comprendenti una grande quantità di
vocaboli stranieri, presentano una notevole unità lessicale. Al di là
dei recenti tentativi di trascrizione, la moltitudine di linguaggi in cui
si è frantumato il romanè ha tradizione sostanzialmente orale, per cui
ogni gruppo ricorda solo la propria storia e non la condivide con gli
altri [Dell’Agnese, Vitale 2007].
La stragrande maggioranza degli zingari residenti in Italia è stanziale, non avendo mai praticato, a fronte dello stereotipo ricorrente,
alcuna forma di nomadismo. Due sono i gruppi maggiormente diffusi: i Rom (residenti in tutte le regioni italiane) e i Sinti (soprattutto
nel Nord e nel Centro); è poi presente una minoranza di Camminanti,
prevalentemente sedentarizzati in Sicilia, presso Noto. Le popolazioni rom di antico insediamento sedentarizzate nelle diverse regioni del
Centro-Sud ammontano (insieme ai Camminanti siciliani) a circa 30
mila unità e altrettanti risultano essere i Sinti residenti nell’Italia del
Centro-Nord9.
8 Sui diversi flussi migratori cfr. Liégeois 1995; Brunello 1996; Viaggio 1997;
Franzese 1999; Piasere 2004; De Vaux, DeFoletier 2003.
9 In linea di massima, appartengono al gruppo di antico insediamento [Scalia
2006]:
– Sinti piemontesi, stanziati in tutto il Piemonte;
– Sinti lombardi, presenti in Lombardia, in Emilia e parte anche in Sardegna;
– Sinti mucini, i più poveri, detti spregiativamente così, cioè “mocciosi”;
– Sinti emiliani, nella parte centrale dell’Emilia Romagna;
– Sinti veneti, presenti nel Veneto;
– Sinti marchigiani, presenti nelle Marche, nell’Umbria e nel Lazio;
– Sinti gàckane, zingari immigrati dalla Germania, attraverso la Francia, in
tutta l’Italia centro-settentrionale;
– Sinti estrekhària in Trentino-Alto Adige (e in Austria);
– Sinti kranària, nella zona della Carnia;
– Sinti krasària, nella zona del Carso;
– Rom calabresi, stabilitisi da secoli in Calabria;
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Come segnalato da Zoran Lapov, è impossibile compilare un’onomastica esaustiva dei Rom presenti in Italia, poiché l’onomastica romaní rappresenta un fenomeno socio-linguistico e identitario “assai
vivo e mutevole, in cui – a causa delle differenze generazionali e
territoriali, nonché degli spostamenti che taluni gruppi rom intraprendono – i loro etnonimi sovente e volentieri si sovrappongono, senza
lasciare la possibilità di tracciare confini ben definiti” [2004: 104].
Il “sistema Rom” è piuttosto l’insieme delle comunità non-gagè che
convivono e interagiscono in una data regione; “i nomi, più o meno
volatili, dei gruppi rom richiamano una tavolozza in cui i colori sfumano l’uno nell’altro e mutano fondendosi e distinguendosi da una
generazione all’altra” [Piasere 2004: 76].
Dopo la prima guerra mondiale sono giunti dall’Europa orientale
circa 7 mila Rom harvati, kalderasha, istriani e sloveni, mentre un
terzo gruppo ben più consistente di circa 40mila Rom xoraxanè (musulmani provenienti dalla ex-Jugoslavia meridionale), Rom dasikhanè
(cristiano-ortodossi di origine serba) e Rom rumeni è arrivato in Italia
negli anni ’60 e ’70. Nel secondo dopoguerra, l’Italia presenta una
complessa geografia di gruppi gitani, molti dei quali ben integrati nel
settore agricolo sia nel ricco Nord (come nel caso dei Sinti residenti
nella valle del Po) sia nel Sud, interessato dalle trasformazioni messe
in atto dalla riforma agraria; tale processo di integrazione viene messo in crisi dall’industrializzazione e meccanizzazione dell’agricoltura
nel Centro-Nord e nel Nord-Est, tanto che Rom e Sinti riprendono a
spostarsi verso le città di medie e grandi dimensioni [Vitale 2009].
Un ultimo rilevante flusso migratorio è tutt’ora in corso, seppure
con fasi alterne, a seguito del crollo dei regimi comunisti nei Paesi
dell’Europa dell’Est e alla guerra nei Balcani. Nei primi anni Novanta
tali flussi hanno riguardato soprattutto Rom provenienti dalla Serbia,
Kosovo e Montenegro10. In assenza di politiche di intervento, il loro
arrivo ha comportato una passiva implementazione dei campi nomadi
esistenti, determinando ulteriore emarginazione e sovraffollamento.
–
Rom abruzzesi dal XIV secolo, diffusi oltre che in Abruzzo e Molise, anche
nel Lazio, in Campania, in Puglia, nelle Marche; un nucleo consistente si
trova anche a Milano e in altre città del Nord;
– Ròmje celentani, presenti nel Cilento;
– Ròmje basalisk, presenti in Basilicata;
– Ròmje pugliesi, stanziatisi nella Puglia.
10 Con la costituzione di nuovi Stati nei Balcani, molti risultano attualmente
apolidi.
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Lo stesso è accaduto con l’ingresso dei Rom rumeni a ridosso degli
anni Duemila. Complessivamente si stima che dal 1992 al 2000 siano
giunti in Italia dalla ex Jugoslavia, dall’Albania e della Romania circa
16 mila Rom, disseminati su tutto il territorio nazionale11.
Attualmente il gruppo più numeroso, coeso, economicamente attivo e socialmente integrato è costituito dai Rom abruzzesi, tradizionalmente calderai e mercanti di cavalli, seguiti dai Rom calabresi, un
tempo apprezzati fabbri ferrai [Karpati 1995]. Gli zingari di ultima
migrazione, invece, costituiscono una popolazione fluttuante e invisibile, spesso mimetizzata con gli altri immigrati, accampata in condizioni di miseria ai margini delle città, lungo ferrovie, tangenziali,
canali, discariche e cimiteri, in terreni il cui valore fondiario è minimo [Sigona 2005]. La mancanza dei documenti di soggiorno aggrava
la loro fragilità sociale, allontana le prospettive di integrazione e li
rende particolarmente esposti ad attacchi xenofobi [Sigona, Monasta
2006].
1.3 Il mancato riconoscimento dello status di minoranza
Nonostante le popolazioni zingare rappresentino la più grande
minoranza presente in Europa, l’Unione Europea non ha mai messo in atto una politica complessiva di contrasto alle discriminazioni.
Tuttavia, a partire dalla Raccomandazione del Consiglio d’Europa n.
563 del 1969, nella quale l’Assemblea consultiva si dichiarava “profondamente allarmata” dalla mancata implementazione di politiche a
sostegno delle comunità rom e dalle “frequenti frizioni fra le famiglie
nomadi e la popolazione sedentaria”, sono state formulate nel corso
degli anni diverse risoluzioni e raccomandazioni di carattere antidiscriminatorio, declinate in base alle condizioni soggettive delle persone e alla loro appartenenza a gruppi specifici. In tempi più recenti,
l’Unione Europea ha affiancato alla produzione normativa strumenti
di politica “alternativi”, progetti finanziati e modalità negoziali per
combattere le discriminazioni, favorire l’inclusione sociale e migliorare le condizioni di vita dei Rom.
In Italia il nodo centrale resta legato al (mancato) riconoscimento
di Rom, Sinti e Camminanti come minoranza titolare di diritti e all’as11 Sui diversi gruppi presenti in Italia, cfr. Karpati 1995; Liégeois 1995; Viaggio
1997; Spinelli 2003; Impagliazzo 2008.
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senza di una legge nazionale specifica. Nell’ordinamento giuridico
italiano, il concetto di minoranza è legato alla peculiarità linguistica e
trova il suo fondamento nell’articolo 6 della Costituzione che recita:
“La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”.
Esito di un aspro dibattito parlamentare tra le diverse forze politiche,
la legge n. 482 del 15 dicembre 1999, “Norme in materia di tutela
delle minoranze linguistiche storiche”, riconosce e tutela dodici minoranze etnico-linguistiche storiche (albanese, catalana, germaniche,
greca, slovena, croata, francese, franco-provenzale, friulana, ladina,
occitana e sarda), tenendo conto di criteri etnici, linguistici e storici, nonché della localizzazione in un territorio definito. Ignorando
la specificità della lingua romanè, nell’interpretazione dell’articolo
6 ha prevalso un principio “territorialista” che di fatto esclude dal
dettato la minoranza zingara, in quanto “minoranza diffusa”, dispersa
e transnazionale priva di una concentrazione territoriale riconoscibile
[Dell’Agnese, Vitale 2007; Loy 2009]12.
Un tentativo di modifica si è avuto solo in tempi recenti con la
proposta di legge n. 2858, presentata alla Camera dei Deputati nel
luglio del 2007. La proposta, poi decaduta con la fine anticipata della
legislatura, proponeva l’estensione delle disposizioni di tutela delle
minoranze linguistiche storiche previste dalla legge 482/99 alle minoranze dei Rom e dei Sinti recependo i principi della “Carta europea
delle lingue regionali o minoritarie”, che riconosce le “lingue non territoriali” come lo yiddish e il romanè. Pertanto, allo stato attuale, non
esiste nel nostro ordinamento alcuna norma che preveda e disciplini
l’inclusione e il riconoscimento delle popolazioni rom nel concetto
di “minoranza etnico-linguistica”; le comunità “sprovviste di territorio”, residenti in Italia, sono prive di apposite norme per la reale
salvaguardia della loro cultura e della loro lingua. I Rom, i Sinti e i
Camminanti acquisiscono diritti de jure esclusivamente come individui, quando sono riconosciuti cittadini dello Stato italiano; non hanno
invece diritti in quanto “minoranza”, perché non sono riconducibili
ad un’appartenenza territoriale [Scalia 2006].
Il possesso o l’acquisizione della cittadinanza non significa tuttavia parità di diritti e doveri con gli altri cittadini italiani, se non
viene garantita la tutela della specificità culturale e la piena rappre12 Vale la pena ricordare che tra i diritti riconosciuti alle minoranze etnicolinguistiche vi sono l’insegnamento della lingua nelle scuole dell’obbligo, nonché
l’uso della lingua nell’amministrazione pubblica, nei media e nella toponomastica
ed onomastica locale.
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sentatività e partecipazione, a livello locale quanto nazionale13. Per la
maggior parte dei Rom di ultimo ingresso, resta poi pendente la questione fondamentale della regolarizzazione. Per coloro che sono nati
in Italia e vissuti nei campi, l’acquisizione della cittadinanza italiana
al compimento del diciottesimo anno è ostacolata dall’impossibilità
di produrre apposita documentazione che attesti la residenza continuativa in Italia per tutti i 18 anni. Per quanto riguarda gli apolidi o
zingari “di nazionalità non determinata” che sono privi di permesso
di soggiorno, è necessario che siano regolarizzati o, come afferma lo
stesso Ministero dell’Interno, che ricevano documenti non in deroga,
ma identici a quelli degli altri cittadini (ibidem). La minaccia costante
di espulsione dall’Italia, la relazione stretta tra permesso di soggiorno
e contratto di lavoro, le difficoltà di accesso ai servizi di base (tra cui
quelli socio-sanitari), il problema del non riconoscimento dei matrimoni tradizionali celebrati all’interno della comunità costituiscono,
tra gli altri, ostacoli concreti ad una positiva integrazione sociale.
1.4 Il ruolo della legislazione regionale
In assenza di provvedimenti legislativi nazionali a tutela delle minoranze Rom, un ruolo fondamentale è stato svolto dalla legislazione
regionale. La nascita dei “campi nomadi” risale alla fine degli anni
Ottanta quando, sotto la spinta dell’emergenza causata dagli ingenti
flussi migratori provenienti dall’ex Jugoslavia, le regioni decisero di
realizzare programmi di intervento nel settore della tutela e della promozione culturale di tali minoranze.
Prima di allora, le carovane itineranti di Rom e Sinti erano costantemente costrette a muoversi. A seguito di specifiche ordinanze
emesse dai sindaci, un particolare tipo di segnaletica era stato infatti
apposto in diverse parti del territorio italiano: si trattava dei cartelli
– anticostituzionali e discriminanti – di “divieto di sosta ai nomadi”,
che obbligavano le famiglie a cercare sempre nuovi luoghi in cui fer-
13 Per i Rom di cittadinanza italiana è inoltre aperto il dibattito se debbano essere riconosciuti come minoranza transnazionale e, quindi, con diritto di risiedere
in qualsiasi Stato, oppure se, cittadini di pieno diritto di uno Stato, debbano essere
soggetti, emigrando in altro Stato, alle norme che regolano il soggiorno degli stranieri [Scalia 2006].
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marsi14. Le politiche di espulsione adottate da quasi tutte le città settentrionali rendevano le condizioni di vita dei gruppi rom sempre più
precarie, ostacolavano l’accesso ai servizi e impedivano ai bambini di
frequentare in modo continuativo la scuola.
Negli anni dei “divieti di sosta” per i nomadi, un ruolo di primo
piano nella promozione sociale di Rom e Sinti15 e nella nascita delle
prime aree attrezzate fu rivestito dall’Opera Nomadi e da altri gruppi
di volontariato. Tuttavia, il rischio insito nella creazione dei “centri
sosta” appariva chiaro sin dall’inizio. Nelle posizioni (oggi discutibili) dei volontari di allora, che consideravano il popolo zingaro in
condizioni di sottosviluppo, si ribadiva infatti la dannosità di centri
sosta concepiti come ghetti o campi di concentramento e privi di un
ordinamento interno [Azzolini 1971: 21-22].
A partire dal Veneto, con il varo della legge regionale n. 41 del
1984, diverse regioni hanno legiferato per tutelare il “diritto al nomadismo” e alla sosta nel territorio regionale, regolando le modalità di
allestimento di aree attrezzate, i cosiddetti “campi”, i quali avevano
il fine di accogliere i nomadi e di aiutare i bambini a frequentare le
scuole16. Secondo Brunello [1996: 15]:
14 In seguito alle proteste delle organizzazioni dei Sinti italiani, il Ministero
dell’Interno chiese ai prefetti di intervenire per obbligare le amministrazioni comunali a rimuovere i cartelli di “divieto di sosta ai nomadi”; ciononostante, ordinanze
e cartelli dai contenuti equivalenti sono ancora in uso in molti comuni italiani [Enwereuzor, Di Pasquale 2009: 22].
15 Un intervento emblematico fu la sperimentazione, dapprima a Bolzano e a
Milano, di classi speciali “Lacio Drom”, che in pochi anni diventarono oltre sessanta. Le classi speciali furono istituite dal Ministero della Pubblica Istruzione nel
1965 ed erano rivolte a “zingari e nomadi”; esse prevedevano una grande elasticità
di orario e di calendario scolastico al fine di adattarsi alle esigenze degli utenti. Già
dal 1971 il Ministero avvertì l’esigenza di affermare la transitorietà di tale soluzione, altamente ghettizzante, ma le classi speciali furono definitivamente soppresse
solo nel 1982 [Sigona 2002].
16 Al di là delle finalità dichiarate, lo spirito di fondo delle leggi regionali resta
la considerazione della “questione Rom” in termini prevalenti di ordine pubblico,
come efficacemente evidenziato da Sigona [2002: 70]: «la sosta dei gruppi ha creato e crea problemi di varia natura, in tema di rapporti con le comunità locali, come
anche in tema di ordine pubblico. Affrontati a posteriori o in termini solo repressivi, questi problemi non sono scomparsi, ma anzi si sono sempre riproposti, anche
aggravati; è necessario quindi affrontarli a priori, con un insieme di misure che
valgono a scongiurarli, e comunque ad attenuarne la portata, corresponsabilizzando
in varia forma le comunità interessate».
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l’obiettivo sul quale convergono amministratori e gruppi di volontariato, e che finisce con il catalizzare la discussione sui giornali, è
l’apertura di campi attrezzati. Al fondo di questa richiesta si trovano
considerazioni di ordine sanitario (chiudere luoghi malsani, assicurare un minimo di igiene) e insieme di controllo sociale (impedire la
“dispersione” dei gruppi rom, concentrarli in un luogo).
Attualmente, metà delle regioni italiane (Emilia-Romagna, FriuliVenezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Sardegna, Toscana, Umbria e Veneto) e la provincia autonoma di Trento
si sono dotate di leggi specifiche per la “protezione di nomadi/zingari/
rom/sinti e della loro cultura”, incluso il “diritto allo stile di vita nomade” [Enwereuzor, Di Pasquale 2009]. Rilevando numerose similitudini tra le suddette norme regionali, alcuni commentatori parlano
in realtà di “leggi fotocopia”; i temi trattati nei testi di legge variano
minimamente da regione a regione, mentre ciò che muta è la maggiore o minore definizione degli obiettivi, degli interventi e delle risorse
previste [Sigona 2002].
Elemento comune a tutti i dispositivi normativi è il riconoscimento del nomadismo come tratto culturale caratterizzante Rom e Sinti,
da cui far discendere la “tutela del diritto al nomadismo” e alla sosta
nel territorio regionale.
Difatti, come osservano diversi autori, fatta eccezione per Veneto, Toscana ed Emilia Romagna, che hanno apportato modifiche ai
loro ordinamenti per riconoscere la stanzialità della maggior parte
dei Rom, dei Sinti e dei Camminanti, con l’istituzione dei “campi
sosta per nomadi” si tende ad incorporare nella legge la credenza
diffusa che tali gruppi possiedano un’identità nomade che preferisce vivere in campi isolati e separati dalla popolazione maggioritaria
[Dell’Agnese, Vitale 2007; Sigona 2007]. Di fatto, tale concezione
dei Rom come “nomadi” permea ogni aspetto delle politiche pubbliche italiane, in particolar modo di quelle abitative [Enwereuzor, Di
Pasquale 2009].
Stabilendo una sorta di legame di causa-effetto tra necessità di tutela e costruzione delle aree di sosta, le leggi regionali finirono da un
lato per costringere i Rom a vivere nei campi, rafforzando lo stereotipo negativo sulla loro mancanza di volontà di integrazione, dall’altro
per incentivare forme di nomadismo forzato e di mobilità indotta,
slegata da ragioni di tipo economico o culturale e strettamente di30
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pendente dall’atteggiamento di chiusura delle autorità amministrative
locali e della popolazione maggioritaria17.
Per tale via, gruppi etnici caratterizzati da tradizioni, stili di vita,
abilità professionali, religioni e tratti culturali diversi vengono dapprima etichettati in un unico termine (nomadi) e poi gradualmente
compresi in un singolo provvedimento amministrativo che si fonda
su un principio etnico riferito ad uno specifico comportamento (il presunto nomadismo); questa categoria è fondata e alimentata da una
visione non-sociale che non consente processi di riconoscimento, ma
solo di reificazione [Vitale 2009].
Un ulteriore limite del processo di “regionalizzazione” della tutela delle minoranze “senza territorio” [Simoni 2003b] è che, in mancanza di forme di coordinamento orizzontale fra gli enti e di governance multilivello fra istituzioni ordinate verticalmente, i Comuni,
responsabili della costruzione e gestione dei campi sosta, raramente
ottemperano le disposizioni regionali [Sigona 2005], incoraggiando
di fatto la costruzione di insediamenti abusivi. Inoltre, in assenza di
un intervento normativo statale non si producono opportunità di affermazione esplicita di diritti e diviene più arduo promuovere “una
discussione sul bilanciamento dei (a volte contrapposti) diritti dei
soggetti coinvolti” [Simoni 2003: 73]. La decisione di costruire un
nuovo insediamento provoca, nella maggior parte dei casi, reazioni di
ostilità e allarme sociale da parte della popolazione residente, accompagnate da aspre controversie politiche.
17 Per alcuni autori, in realtà, il nomadismo praticato dalla maggior parte dei
Rom e Sinti in Italia è di tipo “simbolico” e si manifesta in un diverso utilizzo degli
spazi e degli ambienti, negli arredi di case che ricordano l’interno degli antichi
carrozzoni e delle tende, nella presenza delle roulotte in sosta accanto alle abitazioni [Franzese, Spadaro 2005: 21]. Ciò non significa che non siano riscontrabili
forme diverse di mobilità, per periodi più o meno lunghi, da quella “stagionale”,
motivata da richiami di natura economica (la raccolta della frutta, la vendemmia, la
partecipazione a fiere e a festività, l’esercizio di mestieri itineranti, ecc.) o familiare
(visita a parenti che si trovano in altre località), a quella “circolare”, seguendo un
determinato itinerario all’interno di un territorio limitato e in cui il punto di partenza coincide con il punto di arrivo, a quella “pendolare” tra una località principale e
una o più località situate a breve distanza.
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1.5 La questione dei “campi nomadi” tra segregazione
e controllo
La nascita dei “campi nomadi” risale dunque alla fine degli anni
Ottanta, quando, sotto la spinta dell’emergenza causata dai flussi migratori provenienti dall’ex Jugoslavia, le regioni decisero di realizzare programmi di intervento nel settore della tutela e della promozione
dei Rom, regolando le modalità di allestimento delle aree di sosta
all’interno del territorio. Le leggi regionali, laddove presenti, regolamentano soprattutto la localizzazione dei campi e delle aree di sosta,
i servizi di base che devono essere forniti, le condizioni di ingresso e
di permanenza. Esse prescrivono che gli insediamenti debbano essere
dislocati in aree metropolitane non degradate dotate di infrastrutture,
elettricità, servizi igienici, acqua potabile, fognature e raccolta dei
rifiuti, con facile accesso ai servizi socio-sanitari e alle scuole.
Tali prescrizioni sono rimaste largamente disattese. La soluzione
dei “campi sosta”, totalmente “made in Italy”, ha causato la costruzione di veri e propri ghetti in cui i Rom vivono sedentariamente, in
condizioni igienico-sanitarie precarie, all’interno di case fatiscenti o
baracche fabbricate con materiali di recupero, troppo calde d’estate e
troppo fredde d’inverno. Soprattutto nelle grandi città, i “campi sosta”
sono stati spesso realizzati in località lontane dal centro, lungo ferrovie, tangenziali, discariche, cimiteri, in terreni di scarso valore, completamente privi di infrastrutture e servizi minimi. Ai campi “ufficiali” vanno poi aggiunti gli insediamenti abusivi, ossia costruiti senza
la preventiva autorizzazione dell’amministrazione locale, impossibili
da calcolare con esattezza per i continui sgomberi operati dalle forze
dell’ordine18, i quali versano in condizioni di gran lunga peggiori. La
spirale dell’esclusione rischia così di diventare inarrestabile.
Il campo diventa un luogo di segregazione19 che permette la permanenza di persone espulse dalla città e indesiderabili; conferisce
normalità ad una situazione percepita come straordinaria ed eccezio18 Le demolizioni degli accampamenti, operate senza preavviso e senza fornire
alcuna sistemazione alternativa, compromettono spesso irrimediabilmente i tentativi di integrazione e di tutela sociale, negando la fruizione dei servizi essenziali e
aggravando la condizione di marginalità.
19 Secondo Vitale, i meccanismi che concorrono a produrre la segregazione
sono la concentrazione spaziale del disagio e degli svantaggi sociali, la separazione
spaziale del contesto abitativo, il meccanismo identitario di appartenenza e la svalutazione della rendita immobiliare [2009b: 168].
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nale [Brunello 1996]; rafforza l’identità culturale di chi vi è rinchiuso,
creando al contempo una sorta di target group per cui, alla fine, l’essere Rom coincide con il vivere nel campo. In altri termini, seguendo
le argomentazioni di Nando Sigona [2002: 9-10], le politiche “dei
campi”, adottate negli ultimi trent’anni, hanno sostenuto e alimentato
il pregiudizio nei confronti dei Rom:
la coltre di pregiudizi che avvolge i Rom trova la sua espressione
architettonica nelle politiche abitative elaborate da comuni e regioni
d’Italia […] Il campo non è solo uno strumento di controllo […],
ma anche il mezzo attraverso il quale si crea un target group. Si
accentrano i servizi, si costruisce un’utenza speciale e dedicata per
cui, paradossalmente, alla fine l’essere rom coincide con il vivere
nel campo.
Contenere, controllare, isolare, dare ricovero: questi sono i significati associabili ai campi, tutti all’insegna però dell’idea di separazione tra i destinatari delle misure insediative e i “normali” residenti,
tra le zone marginali in cui sorgono e il tessuto urbano, tra i circuiti
di socialità della maggioranza e quelli delle minoranze lì alloggiate
[Ambrosini 2009: 319].
La soluzione dei “campi nomadi” crea degrado fisico e sociale,
distanzia dai percorsi di socialità e accresce il rischio di devianza.
L’apartheid dei campi è il segnale di un trattamento differenziale delle
popolazioni zingare, giustificato in termini di razzismo differenzialista
e diventato modalità di azione pubblica [Dell’Agnese, Vitale 2007].
La costruzione dei campi è stata spesso realizzata senza negoziazione
né coinvolgimento dei destinatari, ammassando (letteralmente) provenienze, etnie e culture diverse, talvolta incompatibili, alimentando
così conflittualità interne e diffusione di condotte devianti.
Attualmente, circa un terzo dei Rom e dei Sinti, sia stranieri sia
italiani, vive in campi autorizzati e abusivi [Enwereuzor, Di Pasquale 2009] ma il numero totale di tali campi non è noto. I tentativi di
enumerazione risentono principalmente della precarietà materiale
di taluni insediamenti (baracche, edifici abbandonati) e dei continui
sgomberi operati dalle forze dell’ordine20. A fronte di un’ampia lette20 Monasta [2005], che nel 2001 ha effettuato una mappatura di tutti i campi presenti in Italia nell’ambito del progetto europeo The education of the Gypsy
Childhood in Europe, indicava 155 insediamenti per un totale di circa 20 mila Rom
stranieri. È dunque altamente probabile che con le ultime ondate provenienti dalla
33
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ratura sugli insediamenti presenti nel Centro-Nord Italia e nelle grandi aree metropolitane21, risulta una forte carenza di studi dettagliati
sulla situazione delle popolazioni rom del Meridione, sia in termini quantitativi (presenze, composizione socio-demografica), sia per
quanto riguarda le caratteristiche qualitative (nazionalità, storia delle comunità, grado di inserimento nel territorio), fatta eccezione per
alcune significative ricerche relative perlopiù a comunità di antico
insediamento22.
La soluzione amministrativa del campo nomadi è da quattro decenni il modello di riferimento delle politiche abitative per Rom e
Sinti in Italia. Eppure nel corso del tempo numerosi tentativi (certamente poco noti) di superamento della logica del campo sono stati
attivati in varie parti d’Italia23, tra cui la costruzione di microaree,
l’assegnazione di alloggi popolari, l’equa-distribuzione, l’accesso ad
alloggi privati con strumenti di sostegno, il terreno privato, l’upgrading delle baracche24. La segregazione abitativa, intesa come processo e non come condizione [Vitale 2009b: 167], si lega strettamente
Romania, tale cifra sia notevolmente aumentata [Sigona, Monasta 2006]. Difatti,
come risulta dai censimenti voluti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con
le ordinanze del 30 maggio 2008 nei soli territori di Roma, Napoli e Milano sono
stati individuati complessivamente 167 accampamenti, di cui 124 abusivi e 43 autorizzati, ed è stata registrata la presenza, attraverso la rilevazione delle impronte
digitali, di 12.346 persone, tra le quali 5.436 minori. Cfr. http://www.interno.it.
21 Per alcuni esempi, cfr. Revelli 1999; Città di Bolzano, Fondazione Giovanni
Michelucci 2005; Franzese, Spadaro 2005; Ambrosini, Tosi 2007; Bragato, Mesetto
2007; Cossi, Ravazzini 2008; Vitale 2008; Ambrosini 2009.
22 Cfr. Schemmari 1992; De Luca, Panareo e Sacco 2007; Cammarota, Petronio, Tarsia e Marino 2009; Pontrandolfo 2004 e 2009.
23 Per una rassegna di casi significativi di politiche locali contro l’esclusione
sociale di Rom e Sinti, cfr. Vitale 2009b.
24 Secondo alcuni, oltre all’appartamento, la maggior parte delle famiglie rom e
sinte italiane aspira a due alternative abitative: il terreno privato (di proprietà) e la
microarea. Il terreno privato consente ai Rom di vivere con la propria famiglia allargata, scegliendo i propri vicini e dirimpettai. Nella Regione Lombardia, le famiglie che hanno acquistato terreni privati su cui stabilirsi finora hanno scelto terreni
agricoli, i cui costi sono più accessibili, ma la recente normativa in ambito urbanistico stabilisce che anche roulotte e case mobili sono immobili a tutti gli effetti,
necessitano di concessione edilizia e devono quindi essere stabilite esclusivamente
su terreni edificabili. La microarea è una soluzione alternativa al terreno privato.
Nella microarea vengono edificate casette unifamiliari sulle quali insediare non
più di cinque/sei nuclei familiari. Tale soluzione intermedia permette di eliminare
le situazioni di concentramento dei campi nomadi, mettendo a disposizione spazi
vitali più ampi e vivibili ed eliminando i problemi relativi alla convivenza forzata
[Berini 2009: 261-62].
34
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alla povertà, che è deprivazione economica ma anche mancanza di
opportunità lavorative e di accesso ai servizi. Tra gli aspetti più critici
vi è la tutela della salute, oggetto di approfondimento nel prossimo
paragrafo.
1.6 Accesso ai servizi socio-sanitari e bisogni di salute
Se intendiamo la salute come “stato di completo benessere fisico,
psichico e sociale e non la semplice assenza di malattia”25 e annoveriamo tra i requisiti per la sua promozione “la pace, la casa, l’istruzione, il cibo, il reddito, un ecosistema stabile, la continuità delle risorse,
la giustizia e l’equità sociale”26, la partecipazione e l’eliminazione
delle disuguaglianze diventano elementi imprescindibili nella pianificazione di percorsi di promozione della salute [Monasta 2009: 107108].
Nel caso dei Rom, numerosi ostacoli e pregiudizi si frappongono
all’accesso e alla fruizione dei servizi socio-sanitari di base. Da più
parti si sottolinea la contraddizione tra il tentativo di mettere a punto,
spesso sulla scia di un’emergenza o di un fatto di cronaca, progetti
sanitari e l’esistenza di condizioni di vita assimilabili a violazioni
dei più elementari diritti umani [Benevene 2003]. Innanzitutto, come
evidenziano Morrone et al. [2003], la regolamentazione dell’accesso all’assistenza medica da parte di Rom, Sinti e Caminanti è stata
in questi anni vaga e disarticolata ed è mancata una chiara politica
sanitaria che mirasse a garantire ad essi il diritto alla tutela della salute27.
In assenza di un quadro legislativo nazionale che regoli in modo
specifico il diritto alla salute per i Rom non in possesso di cittadinanza italiana, si fa riferimento alla normativa sull’immigrazione, includendo tali popolazioni nella categoria più generale degli stranieri28.
Per i Rom regolarmente soggiornanti è previsto l’obbligo di iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale, nonché la parità di trattamento e
25 Definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1948.
Cfr. www.who.int.
26 Carta di Ottawa del 1986.
27 Diritto peraltro riconosciuto dall’art. 32 della Costituzione a tutti gli individui, senza distinzione di razza, religione e cittadinanza.
28 Legge Quadro sull’immigrazione n. 40/1998, confluita con Dl.vo n. 286/1998
nel Testo Unico.
35
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la piena eguaglianza di diritti e doveri rispetto ai cittadini italiani. A
coloro che non sono in regola con le norme relative all’ingresso ed al
soggiorno vengono garantite nei presidi pubblici ed accreditati le cure
ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché
continuative, per malattia ed infortunio e l’estensione dei programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e
collettiva29. L’erogazione di queste prestazioni è legata al rilascio di
una tessera denominata STP (Straniero Temporaneamente Presente)
da parte delle aziende sanitarie30.
La legge n. 40/1998 ha dunque reso possibile l’accesso ai servizi
sanitari a tutti gli stranieri extracomunitari e Rom, ma senza la messa
in atto di un’efficace politica sanitaria in grado di rilevare i bisogni
sanitari della popolazione di riferimento: possibilità d’accesso non
significa automaticamente fruizione delle prestazioni [Hawes 1997].
Concorrono ad ostacolare l’utilizzo dei servizi la scarsa conoscenza
della lingua italiana, la poca comprensione e/o rispetto delle procedure di funzionamento delle strutture e, nel caso delle donne in gravidanza, la reticenza ad effettuare gli esami e i controlli prescritti,
concependo il parto come un evento totalmente fisiologico e naturale
[Sastipen 2006].
Gli utenti rom generalmente si rivolgono al servizio nella fase
acuta di malattia; richiedono, pertanto, prestazioni urgenti in tempi
stretti che mal si conciliano con la scansione temporale dei servizi.
Le terapie farmacologiche vengono spesso interrotte alla scomparsa
29 Cfr. gli articoli 34, 35, 36 del Decreto Legislativo del 25 luglio 1998, n. 286,
gli articoli 42, 43 e 44, del relativo Regolamento d’attuazione DPR del 31 agosto
1999, n. 394 e la Circolare n. 5 del 24 marzo 2000.
30 Più complicato è il caso dei cittadini provenienti dai Paesi di recente ingresso
nell’Unione Europea (in particolare Romania e Bulgaria) già presenti sul territorio italiano come irregolari che usufruivano delle prestazioni mediche attraverso
la tessera STP. In considerazione della sussistenza del regime transitorio alla libera
circolazione dei neocomunitari e del fatto che in base alle leggi vigenti lo status di
cittadino UE non permette il ricorso al tesserino STP, con una nota del 19 febbraio
2008 il Ministero della Salute ha precisato che l’assistenza sanitaria deve essere
garantita anche ai cittadini rumeni e bulgari privi di copertura sanitaria e di STP e
ha invitato le regioni a riconoscere ed assicurare l’accesso alle cure ambulatoriali
urgenti ed essenziali anche ai cittadini comunitari “non in regola”. La questione
è stata quindi di fatto delegata alle regioni, le quali stanno però percorrendo strade diverse (estensione della tessera STP, inserimento del codice ENI, richiesta di
assicurazione privata, ecc.). Su questi aspetti, cfr. http://www.simmweb.it/index.
php?id=303&no_cache=1 e http://www.salute.gov.it/assistenzaSanitaria/paginaInternaMenuAssistenzaSanitaria.jsp?id=903&menu=stranieri.
36
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dei sintomi; in molte occasioni il nucleo familiare allargato interviene
direttamente nella somministrazione della cura, creando attrito con il
personale sanitario. L’incontro tra il paziente rom e il Servizio Sanitario Nazionale avviene per lo più al pronto soccorso, che viene utilizzato in modo del tutto improprio per qualsiasi problema di salute.
Le ragioni di ciò vengono ricondotte alla mancanza di educazione
sanitaria e alla difficoltà a concepire un sistema di cure basato sulla
prevenzione e sulla costanza delle terapie.
La persistenza di pregiudizi, errate convinzioni e barriere comunicative aumentano la distanza tra i Rom e i servizi. Gli operatori
sanitari manifestano spesso difficoltà ad instaurare una relazione di
fiducia con l’utenza rom per la mancanza di conoscenza delle diverse
interpretazioni culturali del concetto di salute, mancanza che rischia
di generare un’alterata lettura del sintomo e una conseguente inefficacia della cura. Come evidenzia Paola Trevisan [2005], è necessario
tener conto dell’esistenza di una concezione della malattia molto diversa per i Rom e ridefinire le categorie salute/malattia/cura secondo
un approccio etnico che parta dai significati e dalle rappresentazioni
elaborati all’interno di quello specifico contesto culturale.
Ma quali sono i bisogni di salute della popolazione rom? Negli
ultimi anni, sono state realizzate in Italia diverse ricerche sullo stato
di salute degli immigrati, arricchendo di nuovi interessanti riflessioni
il dibattito teorico relativo alla cosiddetta medicina transculturale o
medicina delle migrazioni. Al di là di alcuni contributi sull’immunizzazione dei bambini31, poca attenzione è stata invece dedicata da
parte della ricerca empirica ai Rom come portatori di specifiche necessità di salute32.
In generale, si evidenzia per i Rom un patrimonio di salute più
precario e una vita media più breve rispetto alla popolazione immigrata, legati sia al basso livello socio-culturale sia alle critiche condizioni di vita nei campi. Risulta in aumento l’abuso di alcool e sostanze stupefacenti; le “malattie da disagio o da degrado” o “malattie
31 Cfr. ad esempio il rapporto redatto da Baglio et al. [2004] sulla campagna di
vaccinazioni in favore dei bambini rom e sinti di Roma, effettuata nel 2002.
32 Monasta [2005], che ha effettuato un’accurata analisi critica della letteratura medica sui Rom, sottolinea che molti studi sono caratterizzati da analisi superficiali sugli aspetti culturali e antropologici dei gruppi studiati e dell’ambiente
socio-economico di riferimento; è invece essenziale, a suo parere, che le ricerche si
concentrino su specifiche popolazioni zingare, considerando sia il contesto in cui
vivono (il campo) sia la legislazione e i comportamenti istituzionali, parte integrante dell’analisi epidemiologica. Cfr. anche Zeman, Depken e Senchina 2003.
37
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della povertà”, quali tubercolosi, scabbia, pediculosi, nonché alcune
infezioni virali, micotiche e veneree, si manifestano con sempre maggiore frequenza rispetto al passato. In alcuni contesti sono largamente
diffuse ipertensione e malattie metaboliche (in gran parte attribuite
allo stile di vita) e si registrano elevati rischi per la salute maternoinfantile33. Come si illustrerà in seguito, alcune esperienze di educazione sanitaria hanno portato risultati apprezzabili e, soprattutto,
smentito il pregiudizio di una “naturale” idiosincrasia da parte dei
Rom per la cultura della prevenzione. Ma la strada da percorrere per
garantire pari opportunità di accesso al Servizio Sanitario Nazionale
è ancora irta di ostacoli.
1.7 Politiche nazionali e pratiche discriminatorie
Nel corso degli ultimi anni la politica italiana dei “campi nomadi” è stata oggetto di grande attenzione da parte di vari organismi
internazionali di tutela dei diritti umani e, in modo sempre più marcato, della stessa Unione Europea34. In particolare, si condanna non
solo l’inadeguatezza dei campi autorizzati, privi dei servizi di base,
e l’inaccettabilità delle condizioni di vita in quelli abusivi, ma anche
il fatto che la segregazione delle popolazioni rom sia il riflesso di un
approccio generale da parte delle autorità che continua a considerarle
“nomadi per vocazione” e disinteressate ad ogni forma di integrazione.
Dure critiche sono state espresse, inoltre, alla pratica delle demolizioni dei campi abusivi e degli sgomberi forzati. È noto, infatti,
che alla demolizione di un insediamento abusivo segue quasi sempre
l’occupazione di un altro terreno e la costruzione di nuove baracche
altrettanto fatiscenti e precarie, fino al successivo sgombero.
Del resto, come già evidenziato, non essendo presenti nell’ordinamento giuridico italiano norme specifiche di tutela dei Rom, ispirate ai principi contenuti negli articoli 2 e 3 della Costituzione, che
affermano l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e la parità
di trattamento senza alcuna distinzione di sesso, di razza, di lingua,
di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, la
33
Cfr. Geraci et al. 2002; Monasta 2005; Sastipen 2006.
Per una rassegna delle normative europee e internazionali contro le discriminazioni dei Rom cfr. Rizzin, Tavani 2009b.
34
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questione Rom è stata affrontata soprattutto in termini di “problema
di ordine pubblico”35.
In particolare, a seguito di alcuni gravi fatti di cronaca che hanno
visto protagonisti cittadini rom di origine rumena, sono state messe
in atto una serie di risposte governative di tipo restrittivo che costituiscono un vero e proprio salto di qualità rispetto alle misure precedenti
[Loy 2009]. Per affrontare il “problema Rom” è stato innanzitutto
promulgato il Decreto legge n. 249 del 29 dicembre 2007, volto a
facilitare l’espulsione di cittadini extracomunitari e comunitari per
motivi di sicurezza. In seguito, il Decreto del Presidente del Consiglio
dei Ministri del 21 maggio 200836 dichiarava lo “stato di emergenza
in relazione agli insediamenti delle comunità nomadi in Campania,
Lombardia e Lazio” fino al 31 maggio 2009 e conferiva a funzionari
dello Stato e degli organi locali poteri straordinari, concepibili solo in
caso di gravi calamità naturali.
Nonostante la condizione strutturale di degrado ed emarginazione
delle popolazioni rom, la questione veniva dunque affrontata in termini di “emergenza”, paragonandola ad una situazione di “calamità
naturale” e di “serio allarme sociale”. A seguito delle ordinanze, rivolte direttamente agli appartenenti all’etnia rom e sinta indipendentemente dalla loro cittadinanza, i residenti nei campi di Napoli, Roma
e Milano sono stati censiti attraverso il rilievo delle impronte digitali
su base volontaria.
Da più parti è stato osservato che tali provvedimenti violano apertamente il principio di non discriminazione, tanto che l’Italia è stata
oggetto di condanna da parte di vari organismi internazionali e comunitari, tra cui il Parlamento Europeo (Risoluzione del 15.11.07 sull’applicazione della direttiva 2004/38/CE), il Consiglio d’Europa, il Comitato Onu per l’eliminazione della discriminazione razziale (CERD)
e l’Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali [Rizzin 2009].
La possibilità di espulsione dei cittadini comunitari per motivi di
sicurezza, salute e ordine pubblico resta il punto più problematico.
35 Fa eccezione la circolare del 1985 (Circolare Ministero degli Interni 85 n. 4
del 5.7.1985 sul “problema dei nomadi”), la quale sottolinea l’esigenza di garantire
“una reale uguaglianza degli appartenenti ai gruppi rom e sinti (tra l’altro in grande
maggioranza di cittadinanza italiana) e gli altri cittadini” e di fornire “un’adeguata
risposta ai bisogni primari delle popolazioni nomadi e che nello stesso tempo sia
rispettosa della cultura e delle tradizioni di vita, estremamente diversificate tra l’altro, delle varie etnie che rientrano nel nomadismo” [Vitale 2009b: 219].
36 Decreto reso esecutivo dalle ordinanze del 30 maggio 2008 n. 3676, 3677 e
3678.
39
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Non vi sono evidenze empiriche sull’aumento di insediamenti abusivi
a seguito dell’adesione di Romania e Bulgaria nell’Unione Europea
nel 2007 e la questione del degrado e del sovraffollamento non può
essere affrontata solamente con una “prova di forza” tra i governi
dei Paesi neocomunitari, che faticano a mettere in atto politiche di
riaccoglienza delle minoranze rom, e quelli degli Stati riceventi, che,
interpretando in maniera oltremodo estensiva i limiti alla libera circolazione, vorrebbero invece rispedirle indietro.
1.8 Note conclusive: la via della partecipazione attiva
La gestione dei “nomadi”, tematica recentemente divenuta sensibile per l’allargamento del consenso presso ampi strati della popolazione, da questione locale è dunque diventata oggetto di politica nazionale, scatenando dibattiti dai toni accesi che spesso alimentano in
maniera del tutto strumentale pregiudizi e stereotipi negativi. In tale
clima generale, si registra un inasprimento dell’atteggiamento della
popolazione maggioritaria verso le comunità rom, testimoniato dal
verificarsi di numerosi episodi di intolleranza e xenofobia. Ricerche
recenti mostrano che i Rom rappresentano la minoranza “più odiata”
dagli italiani a fronte di una scarsissima conoscenza del loro mondo
[Arrigoni, Vitale 2008].
I Rom vengono rappresentati “come sempre più lontani culturalmente e sempre più vicini spazialmente” [Vitale 2009b: 15]; sono visibili sui mezzi di comunicazione di massa e presenti nelle agende politiche prevalentemente in termini di problema e minaccia (appunto,
all’ordine o alla sicurezza pubblica) e raramente vengono interpellati
o coinvolti in decisioni che li riguardano. Eppure, forme di associazionismo pro-Rom sono presenti in Italia da almeno cinquant’anni.
Come sottolinea Piasere [2004], nel dopoguerra prendono vita i primi
movimenti di promozione sociale che, dopo secoli di mantenimento
di “basso profilo”, rivendicano la visibilità dei Rom. Si tratta tuttavia
di iniziative dei gagé, che non sempre riescono a coinvolgere attivamente le popolazioni romanì37.
Parallelamente all’istituzione dei “campi nomadi”, le prime associazioni ad occuparsi della questione Rom sono strutture di volonta37 Fa eccezione la Missione Evangelica Zigana, movimento di risveglio del
“popolo zigano” che si espande alla fine degli anni Settanta.
40
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riato di matrice prevalentemente religiosa, caratterizzate inizialmente
da approcci paternalistici e caritatevoli. In seguito, la loro attività si
integra con il servizio sociale pubblico per l’elaborazione di progetti di intervento sociale, culturale ed educativo di più ampio respiro
[Lapov 2004]. Tra le associazioni principali vi sono l’Opera Nomadi, costituita nel 1963 a Bolzano e successivamente riconosciuta ente
morale, e l’A.I.Z.O. (Associazione Italiana Zingari Oggi), fondata a
Torino nel 1971. Numerosi altri organismi operano poi a livello locale rivolgendo la loro attenzione ai Rom in maniera non esclusiva. Il
problema fondamentale sembra essere comunque la mancanza di una
politica comune e di linee di azione condivise tra i diversi attori del
terzo settore. In un contesto già difficile e ostile, l’assenza di coordinamento e la frammentazione delle attività indeboliscono l’efficacia
degli interventi e l’incisività dei messaggi veicolati38.
Ciononostante, negli ultimi anni la partecipazione sociale dei Rom
e Sinti risulta sensibilmente cresciuta. L’associazionismo zingaro (e
misto) assume sempre di più, seppure tra numerose contraddizioni,
la funzione di lotta alle discriminazioni e di rivendicazione di diritti,
oltre che di promozione sociale. L’attenzione viene concentrata sul
superamento della politica dei campi, sulla ricerca di soluzioni abitative alternative, sul pieno accesso ai servizi e al sistema scolastico. Si
ribadisce la necessità di combattere l’esclusione dal mercato del lavoro, soprattutto dopo l’abbandono più o meno forzato dei mestieri tradizionali, con nuove strategie di formazione e inserimento lavorativo.
Al contempo, si rivendica il riconoscimento dello status di minoranza
e la preservazione della lingua, cultura e identità rom.
La partecipazione attiva delle comunità rom sembra essere, al momento, la via privilegiata per contrastare la condizione di marginalità
e ghettizzazione. L’auspicio è che anche la ricerca empirica contribuisca a promuovere tale partecipazione, gettando luce sulle diverse
realtà presenti sul territorio e, nel caso specifico, sul Meridione.
38 Anche l’indagine sulla condizione dei Rom, Sinti e Camminanti promossa
dal Senato del Repubblica (XVI Legislatura) evidenzia che tale realtà associativa
appare oggi estremamente frammentata e attraversata da conflitti di gruppo e settari
[Senato della Repubblica 2011: 6]. Il rapporto sottolinea altresì l’esigenza di investire risorse per la formazione di operatori sociali e mediatori culturali, in modo tale
che essi diventino la rete intorno alla quale la partecipazione può essere organizzata
con continuità.
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Capitolo 2
Il disegno della ricerca: un “campo” da scoprire
DANILO CATANIA, ALESSANDRO SERINI
2.1 Delimitare il campo delle relazioni
Da un punto di vista operativo sia l’indagine sulle condizioni
socio-abitative negli insediamenti RSC sia quella relativa all’accesso alla rete dei servizi socio-sanitari da parte delle popolazioni RSC
hanno seguito percorsi di ricerca caratterizzati da un comune orientamento metodologico.
Un tratto in particolare accomuna le due indagini realizzate
dall’IREF sulle comunità RSC presenti nelle regioni Obiettivo Convergenza: la necessità di definire un quadro d’analisi in grado di evidenziare la complessità di un tema – come quello dell’esclusione/
inclusione sociale delle popolazioni RSC – che, inserito all’interno di
schemi interpretativi generali, corre il rischio di fornire letture del fenomeno omologanti, rappresentazioni generiche e decontestualizzate,
mettendo sullo stesso piano realtà territoriali assai differenti fra loro.
In ragione di ciò, un passaggio cruciale in fase di elaborazione del
disegno della ricerca è stata la scelta del livello territoriale d’analisi.
Si è infatti stabilito di impostare l’impianto di ricerca sul livello territoriale minimo: quello comunale. Un ambito questo che meglio di altri si presta nel dar conto sia delle condizioni di vita in cui versano le
popolazioni RSC sia del tipo di relazioni che le stesse comunità RSC
intrattengono con il contesto sociale ed istituzionale circostante.
La scelta di tarare l’osservazione su un livello territoriale che fosse il più “prossimo” alle popolazioni oggetto di studio va incontro
alla necessità dei committenti di predisporre strumenti – sotto forma
di elaborazione di linee guida e definizione di un repertorio di buone
pratiche – in grado di supportare le comunità locali nella definizione
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di processi d’integrazione sociale delle popolazioni RSC realmente
efficaci. Detto altrimenti, la decisione di centrare l’analisi sul livello
comunale ha permesso di cogliere le specificità organizzative e relazionali proprie di una data comunità locale, difficilmente evidenziabili adottando una scala territoriale più estesa (provinciale o regionale).
In fase di elaborazione dei risultati, ciò ha dato modo di definire modelli d’intervento attagliati alle caratteristiche delle diverse realtà territoriali, così da ottimizzare le risorse locali disponibili. Da un punto
di vista operativo, tale intendimento si è tradotto nella progettazione
di un impianto d’analisi volto ad evidenziare l’ampio ventaglio di
situazioni che ostacolano o, viceversa, favoriscono la nascita e l’implementazione di politiche locali d’inclusione sociale.
Peraltro, la decisione di inquadrare le azioni di ricerca all’interno
del perimetro comunale è funzionale al raggiungimento di un altro
obiettivo comune ad entrambe le indagini, ovverosia l’esplorazione
dello spazio delle relazioni che intercorrono tra i diversi attori locali
che a vario titolo sono interessati (direttamente o indirettamente) dalla “questione Rom”.
Il proposito di definire un impianto di ricerca che tenga in debita considerazione il livello d’interlocuzione tra i diversi attori locali
discende dagli obiettivi generali esplicitati tanto nel bando di ricerca
sull’accesso ai servizi socio-sanitari quanto in quello dell’inclusione
socio-abitativa delle popolazioni RSC, ovvero:
– rafforzare l’interazione tra i diversi attori sociali locali nel
campo del sostegno ai Rom e, parallelamente, mettere in moto
un processo di empowerment delle comunità rom e sinte, favorendo così la tutela dei diritti fondamentali e mettendo in moto
quel doppio movimento tra comunità locale e gruppi rom, presupposto irrinunciabile di ogni forma di integrazione (si veda
l’indagine sull’inclusione socio-abitativa delle popolazioni
RSC);
– analizzare gli effetti d’interazione tra territorio e comunità rom
e sinte a partire dalle condizioni socio-abitative delle comunità
RSC (si veda l’indagine sull’accesso ai servizi socio-sanitari).
Questo comune intendimento, in fase di progettazione dei piani
d’indagine, si è tradotto in un approccio all’oggetto di studio di tipo
esplorativo, comportando precise scelte di metodo:
– in primo luogo, nella definizione di azioni e strumenti d’indagine in grado di cogliere la pluralità delle prospettive connes44
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se ai temi dell’inclusione/esclusione sociale delle popolazioni
RSC;
– in secondo luogo, nella pianificazione di un percorso di ricerca
in cui i diversi attori locali offrano il loro contributo nella raccolta dei dati e nell’interpretazione degli stessi.
Le due indagini si inseriscono nel solco della tradizione della partecipatory action research [Kemmis, McTaggart 2000: 581-91], una
strategia d’indagine che mira alla trasformazione delle pratiche, al
cambiamento delle logiche d’azione attraverso il coinvolgimento degli attori sociali. Più in generale, l’impostazione di ricerca adottata si
inquadra all’interno dei modelli d’analisi tipici della ricerca-azione.
Difatti, la ricerca-azione è una strategia di indagine orientata alla
trasformazione delle logiche d’azione e delle relazioni tra gli attori
coinvolti nel processo di studio [Kemmis, McTaggart 1988; ZuberSkerritt 1996]. Tale processo si configura come una forma incrementale di conoscenza del fenomeno esaminato e si svolge secondo un
principio partecipativo; difatti, dal momento che la ricerca-azione si
basa sull’utilizzo ricorsivo di riflessione, osservazione e pianificazione, l’attività degli analisti è sullo stesso livello dell’oggetto di ricerca
e prende spunto dalle sollecitazioni fornite dagli attori direttamente
interessati al fenomeno.
Sulla scorta di tali considerazioni si sono elaborati due disegni di
ricerca in cui i territori e le comunità che in esse risiedono, con le loro
potenzialità e le loro contraddizioni interne, hanno costituito l’asse
portante su cui si è snodato un percorso conoscitivo teso ad analizzare
il rapporto tra comunità RSC e società locale. Un’esplorazione situata
e condivisa che si è concretizzata, in entrambe le indagini, in un’impostazione di ricerca basata sull’analisi di studi di caso.
In particolare, lo studio di caso consente di analizzare in modo
approfondito singole esperienze circoscritte all’interno di un particolare ambito territoriale, soprattutto quando i confini tra il fenomeno e
il suo contesto di riferimento non sono chiaramente evidenti. In tale
prospettiva, si utilizzano di solito fonti diverse di informazione, per
contribuire a delimitare meglio i contorni dell’unità d’analisi esaminata: interviste semi-strutturate agli attori coinvolti; osservazione in
loco; raccolta di materiale documentale; etc.1.
1 Le due indagini si sono basate sui cosiddetti mixed methods, ovvero strategie
di ricerca che mescolano strumenti standard e non standard. Nello specifico, il riferimento privilegiato è stata la concurrent triangulation strategy [Creswell 2003:
45
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Inoltre, quando il ricercatore è chiamato a svolgere uno studio di
caso, si avvicina il più possibile all’oggetto di studio osservandolo da
più prospettive; in tal modo, egli si trasforma in testimone vigile, che
guarda con attenzione alle dinamiche interne della realtà indagata. Lo
studio di caso è, peraltro, un approccio di ricerca con un solido retroterra alle spalle, che affonda le radici nella tradizione delle scienze
sociali applicate2.
In entrambe le indagini, la tecnica del case study si è dimostrata
particolarmente utile nell’esplorare la “questione Rom” da una prospettiva per certi versi inedita, che ha sollecitato i diversi attori locali
ad una rilettura del modo in cui tradizionalmente viene rappresentato
il rapporto tra Rom e comunità locale. Un rapporto che non di rado
assume i tratti dell’allarme sociale e dove l’amministrazione locale
si trova a dover fronteggiare situazioni di estremo degrado abitativo
e sanitario con strumenti e risorse spesso inadeguate. Un rapporto
altresì che talvolta solleva dubbi sulla capacità dei rappresentanti del
governo locale di elaborare interventi che derivano da una fattiva e
informata partecipazione delle diverse componenti sociali interessate
dal problema. Un rapporto, infine, in cui la stessa policroma galassia
del volontariato e delle associazioni di rappresentanza delle comunità
RSC mostra al suo interno visioni differenti, se non proprio contrapposte, sulla strada da seguire per una effettiva integrazione delle popolazioni RSC.
Da questo punto di vista, gli studi di caso hanno rappresentato
non solo un’opzione di metodo, ma anche il tentativo di sperimentare formule organizzative che stimolino il confronto sul terreno della
pianificazione degli interventi, fuoriuscendo da una logica di gestione
del problema eminentemente emergenziale.
In ragione di ciò, attraverso la tecnica degli studi di caso si è cercato di individuare processi organizzativi e decisionali in grado di in217]. Questa strategia viene adottata quando si intende validare i risultati ottenuti
con un determinato metodo (una survey, delle interviste, dei focus group, etc.), mediante i dati raccolti con altri strumenti: usando diversi metodi di raccolta dei dati
è possibile controllare con più accuratezza le informazioni acquisite, giungendo
così ad una interpretazione combinata del fenomeno studiato [Tashakkori, Teddlie,
2003: 236-38].
2 Nell’ambito della copiosa letteratura su questo argomento, si vedano i seguenti contributi: R. Yin, Case Study Research: Design and Methods, Beverly Hills
(CA), Sage, 1994 (seconda edizione); R. Stake, The Art of Case Study Research,
Thousands Oaks (CA), Sage, 1995; J. Hamel et. al., Case Study Methods, Newbury
Park (CA), Sage, 1993.
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cidere efficacemente sul livello d’integrazione delle popolazioni RSC
nel tessuto sociale d’insediamento.
In termini operativi, un classico disegno di ricerca di studi di caso
si articola in quattro principali fasi d’indagine: 1) la delimitazione del
contesto d’analisi; 2) la scelta dei casi di studio; 3) l’organizzazione
degli studi di caso; 4) il lavoro sul campo. Ognuna di queste fasi implica precise scelte metodologiche connesse all’oggetto di studio che
si intende osservare, ai particolari obiettivi che guidano il lavoro sul
campo e alle caratteristiche delle aree di studio.
2.2 Delimitazione del contesto d’analisi: mappature tematiche
Per quanto riguarda la delimitazione del contesto d’analisi, le due
indagini avevano come obiettivo di realizzare una mappatura il più
possibile accurata degli insediamenti delle comunità RSC presenti nelle quattro regioni Obiettivo Convergenza. La mappatura degli
insediamenti rispondeva alla necessità di ottenere un primo quadro
conoscitivo della distribuzione territoriale del fenomeno, indispensabile per la scelta delle rispettive aree di studio. In questa fase si sono
adottate più strategie d’analisi al fine di superare una serie di problemi legati alla difficoltà di individuare con precisione ed esaustività
gli insediamenti.
Nonostante nel corso degli anni siano state realizzate diverse
azioni di censimento e catalogazione, è complesso pervenire ad una
mappatura definitiva, soprattutto per quel che riguarda le regioni del
Sud Italia. Tale difficoltà è data innanzitutto dallo scarso coordinamento delle rilevazioni: sono molti gli enti (pubblici e non) che si
sono impegnati in questa attività, pervenendo spesso a ricostruzioni
approfondite ma lacunose dal punto di vista della copertura territoriale. Un altro limite delle mappature già effettuate, e quindi dei dati da
esse desumibili, è dato dagli obiettivi per i quali sono state realizzate
le rilevazioni. Gli enti che si sono fatti promotori di queste iniziative
sono molto diversi tra loro per cui gli obiettivi, le modalità di raccolta
dei dati e il tipo di informazioni sono spesso non comparabili tra loro.
Il progetto di ricerca deve innanzitutto essere in grado di superare
l’attuale frammentazione delle informazioni, integrando le fonti disponibili e standardizzando il più possibile i dati a disposizione.
Per superare i limiti imposti da una popolazione di rilevazione
sconosciuta alla statistica ufficiale, in fase di progettazione delle due
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indagini si è realizzata una strategia comune di raccolta dei dati, che
consiste nella differenziazione delle fonti dati disponibili e nell’uso di
procedimenti sia diretti che indiretti di raccolta.
Nel caso dell’indagine riguardante l’accesso delle popolazioni
RSC ai servizi socio-sanitari si è proceduto preliminarmente all’esame della letteratura scientifica e del materiale grigio concernente la
consistenza delle comunità rom nelle regioni del Sud (indagine di
sfondo), con l’obiettivo di definire un primo quadro conoscitivo del
fenomeno rispetto a tre principali dimensioni di studio: teorico-concettuale, numerico-statistico ed istituzionale-legislativo. Più in particolare, la delimitazione del campo d’indagine ha previsto una serie di
operazioni volte alla raccolta, all’analisi e alla sistematizzazione dei
dati desunti da differenti fonti d’informazione. In particolare, si è proceduto all’analisi dei dati e del materiale documentale presente negli
archivi e nelle banche dati istituzionali (Dipartimento Libertà civili,
religiose e dell’immigrazione del Ministero dell’Interno, Ministero
dell’Istruzione, Centri regionali di vaccinazione, etc.); alla consultazione di fonti statistiche nazionali e internazionali; alla rassegna bibliografica dei principali studi e ricerche avviati sul tema d’indagine;
allo studio della legislazione, delle politiche locali e delle direttive
europee in materia; all’individuazione di iniziative a livello nazionale
e regionale attuate o in corso coerenti con gli obiettivi del progetto.
Parallelamente alla realizzazione dell’analisi di sfondo, si è costituito nella sede dell’IREF un gruppo pilota coinvolgendo nell’indagine le principali organizzazioni del privato sociale e le istituzioni
che a vario titolo si occupano della popolazione oggetto di studio.
Questo gruppo ha rappresentato un riferimento costante durante l’intero svolgimento dell’indagine, sia nelle sue fasi più propriamente
progettuali (come ad esempio, l’individuazione delle aree territoriali),
sia in quelle più propriamente valutative (valutazione della trasferibilità delle buone pratiche nelle realtà territoriali studiate). L’individuazione delle organizzazioni componenti il gruppo pilota si è basata
sui seguenti prerequisiti: realtà associative di secondo livello (organizzazione ombrello) e strutturazione secondo un modello organizzativo reticolare (centro-periferia). Si tratta di soggetti istituzionali e
del terzo settore attivi nel campo socio-sanitario che hanno ricoperto
o ricoprono un ruolo centrale nella realizzazione delle politiche di
welfare e d’inclusione sociale in favore delle comunità rom, sinte e
camminanti. Rispetto a questo identikit si sono individuate quattro
organizzazioni accomunate da una consolidata esperienza nella pro48
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mozione e nella realizzazione di interventi in favore delle popolazioni
oggetto di studio:
I. La Croce Rossa Italiana, la quale ha realizzato numerose campagne di vaccinazione all’interno degli insediamenti nomadi.
A tal proposito e in coerenza con gli obiettivi d’indagine, di
recente (agosto 2009) la CRI della Campania ha sottoscritto
un protocollo d’intesa tra gli enti locali, la Prefettura e alcune
associazioni del terzo settore per la realizzazione di percorsi
partecipati finalizzati alla tutela sanitaria della popolazione nomade di Napoli (ASL 1 e 2) e provincia;
II. L’Opera Nomadi, attiva dal 1965 nella tutela e promozione dei
diritti delle popolazioni rom, svolgendo attività di sensibilizzazione presso le popolazioni locali, realizzando progetti sociali,
educativi e sanitari in collaborazione con gli attori locali. A tal
proposito, nel 2007 l’Opera Nomadi di Foggia in collaborazione con la clinica di malattie infettive ha realizzato un’azione
di screening sanitario nei diversi campi nomadi presenti nella
provincia foggiana;
III. La Caritas che, al pari dell’Opera Nomadi, è impegnata da anni
nella realizzazione di progetti d’integrazione delle popolazioni rom, sinte e camminanti; basti pensare, a titolo di esempio,
all’accordo siglato nel 2008 tra la Caritas diocesana di Catania
e la Provincia etnea per lo sviluppo di azioni tese all’inclusione
nel tessuto sociale locale in quattro ambiti d’intervento: salute,
educazione ed istruzione, diritto e rapporti con il territorio;
IV. Le ACLI (Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani), che partecipano, da oltre cinque anni, in sinergia con il Dipartimento
per le Pari Opportunità, alla gestione del Contact Center UNAR
attraverso l’organizzazione dei focal point territoriali e l’analisi
degli eventi di discriminazione presenti nell’archivio UNAR.
La particolare configurazione organizzativa di queste associazioni, unita alla presenza al loro interno di sistemi di archiviazione e
gestione dei dati centralizzati e gerarchici, ha permesso di disporre di
banche dati non ridondanti e omogenee, indispensabili per una prima
mappatura degli insediamenti RSC.
Inoltre, ai referenti territoriali delle organizzazioni inserite nel
gruppo pilota, è stata inviata una scheda di raccolta dei dati (da ora,
scheda delle organizzazioni) al fine di raccogliere informazioni ri49
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guardanti: la dislocazione degli insediamenti nelle province delle
regioni oggetto d’indagine; il tipo di interventi realizzati nei diversi
insediamenti e gli attori locali che sono stati coinvolti. L’analisi congiunta dei dati raccolti tramite le schede delle organizzazioni e delle
informazioni estrapolate dall’analisi delle fonti secondarie (documentazione e archivi statistici) ha permesso di dettagliare ulteriormente la
mappatura degli insediamenti rom e dei progetti/interventi realizzati
nei territori indagati.
Anche per l’indagine sulle condizioni socio-abitative delle popolazioni RSC è stata realizzata un’indagine di sfondo con un’impostazione analoga a quella sviluppata nell’indagine sull’accesso ai servizi socio-sanitari, con la sola differenza di aver previsto per questa
indagine la consultazione di banche dati a testo pieno dei principali
quotidiani nazionali (“la Repubblica” e “Corriere della Sera”), allo
scopo di raccogliere articoli utili a comprendere la situazione delle
comunità RSC nelle regioni Convergenza3.
Tutto ciò ha permesso di realizzare una mappatura territoriale delle aree d’insediamento delle popolazioni oggetto di studio, adottando
un approccio multi-metodo basato sull’uso di diverse fonti e sul controllo incrociato delle informazioni. La raccolta delle informazioni è
avvenuta dapprima tramite fonti indirette4 ed in seguito attraverso un
canale più diretto (contatto telefonico, e-mail o fax).
3 Inoltre, sono stati interrogati anche gli archivi digitali dei quotidiani regionali
delle regioni Obiettivo Convergenza, che spesso si sono rivelati preziose fonti informative, in grado di fornire informazioni più circostanziate (e quindi più precise e
dettagliate) rispetto ai giornali nazionali. La ricognizione dei quotidiani nazionali e
locali ha permesso di localizzare circa 40 insediamenti RSC, la cui presenza è stata
controllata attraverso la rete territoriale contattata. Non meno importante si è rivelata la ricerca a tutto testo per parole chiave sui blog. In questo caso è stato utilizzato
il motore di ricerca appositamente creato da google (http://blogsearch.google.it/).
Tramite questo canale sono venuti alla luce altri 20 insediamenti: le informazioni
sono state poi controllate, confermate o smentite e, eventualmente, integrate attraverso il confronto con le altre fonti.
4 Sono state acquisite informazioni e dati desunti dagli archivi delle organizzazioni coinvolte nell’assistenza, promozione ed integrazione delle popolazioni RSC
presenti sul territorio: associazioni di volontariato impegnate nella promozione dei
diritti delle comunità rom (Opera Nomadi, Associazione Italiana Zingari Oggi, OsserVazione, etc.); enti di ricerca che realizzano indagini e studi sulle popolazioni
migranti (Cestin, Fieri, Ismu, Cespi, etc.); organizzazioni di volontariato, pubbliche
e del terzo settore, operanti nel campo sociale e sanitario (Caritas, Sant’Egidio,
Croce Rossa Italiana, Protezione civile, etc.); associazioni degli enti locali sia comunali (ANCI) sia provinciali (UPI).
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Dopo essere passati al vaglio di un ulteriore controllo di attendibilità, i dati raccolti sono stati sistematizzati all’interno di una banca
dati condivisa dall’équipe di ricerca, così da poter essere aggiornata
in tempo reale. Il sistema di raccolta dati è stato strutturato in modo
da rispondere a due esigenze cognitive:
– Mappatura geografica degli insediamenti RSC. Questo tipo di
mappatura non si è limitato a rilevare il luogo dell’accampamento, ma ha anche rilevato informazioni sul tipo di insediamento (case abbandonate, capannoni occupati, baracche, roulotte, etc.) e, laddove erano disponibili dati, informazioni sulle
popolazioni insediate (numerosità, etnia, provenienza, etc.).
– Mappatura tematica dei progetti o degli interventi attuati in favore delle popolazioni RSC. Lo scopo di questa mappatura è di
individuare aree “scoperte” da interventi di assistenza. La mappatura dei progetti di inclusione sociale ha seguito due criteri
connessi alla rilevanza dell’intervento (sono state privilegiate
quelle aree in cui sono stati realizzati degli interventi strutturali
e di sistema) e all’estensione/eterogeneità degli attori coinvolti
dall’intervento (sono stati selezionati quegli interventi in cui
c’è stato ampio coinvolgimento dei diversi attori locali).
Sempre nell’ottica di avere il più ampio bagaglio informativo
possibile, è stato richiesto all’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) di sensibilizzare le istituzioni che, a vario titolo
si occupano del tema, rispetto agli obiettivi dell’indagine. Tramite il
raccordo istituzionale sono state acquisite ulteriori fonti d’informazione utili ad un miglior inquadramento del fenomeno5.
L’analisi delle fonti indirette ha consentito di tratteggiare una prima quantificazione del fenomeno – sia degli insediamenti RSC presenti nei territori indagati sia dei progetti d’inclusione sociale promossi dagli enti locali. Su questa preliminare delimitazione del contesto d’analisi ha preso avvio la rilevazione territoriale, contattando i
referenti locali di associazioni ed organizzazioni operanti nei territori
5 Nel dettaglio, si sono avviati dei contatti con le seguenti amministrazioni pubbliche: Ministero dell’Interno (in particolare, il Dipartimento per le Libertà Civili
e per l’Immigrazione); Ministero dell’Istruzione (gruppo sulla scolarizzazione dei
Rom); Ministero della Solidarietà Sociale (Direzione Generale dell’Immigrazione).
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della Sicilia, Calabria, Campania e Puglia6 a cui è stato chiesto di
compilare una scheda di raccolta dati7 predisposta dal gruppo di ricerca. Sono state contattate diverse strutture istituzionali (associazioni volontaristiche, servizi sociali e uffici immigrazione comunali e
provinciali, etc.) e tutte le 74 Caritas diocesane presenti nelle Regioni
indagate.
Le informazioni raccolte hanno consentito di precisare meglio
i contorni geografici e tematici dei temi oggetto d’indagine. Infine,
sono state poste a confronto le mappature scaturite dalle due indagini,
allo scopo di eliminare eventuali incongruenze e ridondanze informative.
Al termine di questo processo di precisazione e di validazione del
contesto d’analisi sono stati individuati e rappresentati su supporto
cartografico8 135 insediamenti (vedi cartina 1, p. 217)9 e 13 progetti
d’inclusione sociale (vedi cartina 2, p. 218).
6 Una lista completa delle persone contattate (carteggi, telefonate, fax e, a volte, incontri personali) richiederebbe una sezione a parte. È doveroso comunque
nominare almeno le seguenti persone (il cui contributo è stato determinante al buon
andamento dell’indagine): Giancamillo Trani (responsabile area immigrazione della Caritas Diocesana di Napoli); Massimo Converso (presidente Opera Nomadi);
Marco Squicciarini (delegato nazionale della CRI per RSC); Francesco Rocca (presidente CRI); Roberta Rizzotti (responsabile Osservatorio delle povertà di Catania);
Paolo Filetti (direttore Opera Nomadi di Catania); Francesca Stagno d’Alcontres
(commissario del Comitato Provinciale della CRI di Messina); Pierangela Fontana (responsabile Ufficio Immigrazione Regione Puglia); Santino Scirè (presidente
ACLI Sicilia); Annamaria Di Stefano (responsabile ufficio rom e patti di cittadinanza del Comune di Napoli); Rosy D’Agata (responsabile servizio immigrazione Salento della provincia di Lecce); Francesco Marsico (vicedirettore Caritas Italiana);
d.ssa Gabriella D’Orso (viceprefetto della Provincia di Napoli).
7 La scheda inviata via e-mail o via fax è stata sempre accompagnata da una
lettera di presentazione nella quale si specificavano le finalità della ricerca. La massiccia campagna di informazione via telefono si è presto trasformata in una campagna di sensibilizzazione verso gli obiettivi della ricerca che ha portato in più di una
occasione ad una partecipazione attiva dei soggetti coinvolti.
8 Nella costruzione dei cartogrammi è stato impiegato il programma Arc-GIS
(ver. 9.3.1).
9 La figura 1 mostra il cartogramma generale relativo agli insediamenti rom
localizzati nelle quattro regioni Obiettivo Convergenza. Occorre precisare che per
poter realizzare una rappresentazione “leggibile” si è dovuto rinunciare a rappresentare i campi presenti in uno stesso comune; per cui, il cartogramma correttamente inteso, evidenzia i comuni nei quali è presente almeno un insediamento Rom.
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2.3 Muoversi sul terreno dell’inclusione sociale: scelta e organizzazione degli studi di caso
Per le due indagini, la scelta delle aree di studio è stata effettuata
a partire dai risultati della mappatura degli insediamenti e dalla valutazione dei progetti/interventi individuati nella fase di delimitazione
del contesto d’analisi. In particolare, l’esame dei progetti ha seguito
due criteri connessi alla complessità organizzativa degli interventi realizzati:
– integrazione: si sono privilegiate quelle aree in cui sono stati
realizzati degli interventi strutturali e di sistema, ovvero tesi
a migliorare le condizioni abitative, sociali, economiche e, in
generale, di vita delle comunità RSC;
– pluralismo: si sono presi in considerazione quegli interventi
in cui il coinvolgimento dei diversi attori locali sia stato il più
ampio possibile.
Nella selezione degli studi di caso si sono presi in esame anche
aspetti che rimandano alle caratteristiche storico-sociali degli insediamenti RSC interessati dall’intervento, in particolare:
– Territorialità: la collocazione geografica della comunità RSC
influisce sulle condizioni di vita, sulle strategie adottate e sulle
reazioni dei cittadini non rom. Dal momento che il separatismo
abitativo e l’effettiva fruibilità di servizi essenziali risente di
una evidente componente spaziale, è necessario tenere conto
della collocazione geografica dell’insediamento, adottando una
prima distinzione tra insediamenti maggiormente urbanizzati e
realtà più distanti da contesti metropolitani.
– Radicamento: un secondo elemento considerato è il radicamento dell’insediamento. Uno dei principali ostacoli nell’attuazione degli interventi di integrazione è dato dalla diffidenza
dei membri delle comunità RSC nei confronti di soggetti gagè
(non Rom); per cui i migliori risultati si ottengono solo dopo
una lunga opera di familiarizzazione con la comunità da parte
degli operatori. Nell’ottica di prendere in esame i meccanismi
di produzione dell’esclusione, si è dunque tenuto conto della
componente temporale, distinguendo tra nuclei insediativi con
una permanenza più lunga sul territorio e insediamenti di recente costituzione.
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In base ai criteri summenzionati, è stato possibile selezionare un
primo gruppo di comuni in cui sono presenti insediamenti RSC. Da
questa prima lista è stato selezionato un sottogruppo di comuni caratterizzato dalla presenza di progetti/interventi dal diverso livello di
strutturazione.
In totale sono stati selezionati otto studi di caso, equamente suddivisi rispetto alle due indagini: Napoli, Foggia, Palermo e Reggio
Calabria per quanto riguarda l’accesso delle comunità RSC ai servizi
socio-sanitari; Catania, Cosenza, Lecce e Giffoni (provincia di Salerno) per l’analisi degli interventi di carattere socio-abitativo riguardanti le popolazioni RSC.
In sintesi, l’individuazione delle aree di studio ha seguito considerazioni connesse al differente grado di strutturazione degli interventi
messi in atto dai diversi attori locali. Si sono, infatti, individuate sia
realtà insediative dove sono stati realizzati degli interventi di sistema
– caratterizzati da un elevato grado di integrazione e pluralismo –
ovvero tesi a migliorare le condizioni abitative, sociali, economiche
e, in generale, di vita delle comunità RSC (Reggio Calabria, Napoli, Lecce e Giffoni); sia contesti caratterizzati da un basso livello di
strutturazione degli interventi, connotati da una debole sinergia tra i
diversi attori locali e in cui le azioni realizzate per le comunità RSC
sono prevalentemente di tipo assistenziale e legate all’azione dei singoli (Cosenza, Catania, Palermo e Foggia).
L’eterogeneità delle situazioni indagate ha permesso di evidenziare le peculiarità organizzative e relazionali dei diversi ambiti d’azione, rinvenendo in essi elementi comuni, utili per la messa a punto di
linee guida per l’individuazione di buone pratiche, in base alle quali
definire un primo repertorio di strumenti tesi al miglioramento del
lavoro dei soggetti coinvolti nella realizzazione dei progetti d’integrazione sociale delle popolazioni RSC.
2.3.1 Impostazione metodologica degli studi di caso sull’accesso
socio-sanitario
La realizzazione degli studi di caso ha previsto due fasi d’indagine sul campo: l’individuazione delle strutture sanitarie locali che
dovrebbero prendersi carico dei bisogni di salute delle comunità rom
residenti nel territorio di competenza (mappatura dell’offerta socio54
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sanitaria); la realizzazione di un’indagine sulle condizioni di accesso
alle suddette strutture.
Per quanto concerne la mappatura dell’offerta socio-sanitaria locale, in ciascuna area di studio sono state censite le strutture socio-sanitarie presenti sul territorio in cui sono ubicati gli insediamenti rom
oggetto d’indagine. In via preliminare, l’area di studio ha riguardato il
distretto socio-sanitario in cui è presente l’insediamento10. Attraverso la consultazione di fonti secondarie e tramite contatto diretto con
le principali istituzioni socio-sanitarie attive sul territorio, sono state
individuate le strutture pubbliche e del privato sociale che erogano
servizi e prestazioni socio-sanitarie alla popolazione residente.
Consultazioni e contratti hanno permesso di definire un primo
elenco di referenti territoriali che sono stati coinvolti nell’indagine
sulle condizioni di accesso ai servizi socio-sanitari delle popolazioni
rom, sinte e camminanti.
Al termine della mappatura dell’offerta socio-sanitaria locale, e
con l’individuazione dei referenti territoriali, ha preso avvio l’indagine sulle condizioni di accesso ai servizi socio-sanitari delle comunità RSC. L’indagine ha previsto la realizzazione di interviste semistrutturate a operatori socio-sanitari, a soggetti del terzo settore che
lavorano a stretto contatto con le comunità rom residenti nel Distretto
socio-sanitario e a membri di associazioni di assistenza sanitaria.
A seconda del tipo di intervistato sono state predisposte tracce
d’intervista ad hoc. Per quanto riguarda gli operatori sanitari sono
stati approfonditi i seguenti aspetti:
– l’affluenza di utenti identificati come Rom;
– il tipo di relazione in atto medico-paziente, con specifica attenzione ai modi mediante i quali gli operatori sanitari si rapportano alle specificità culturali delle popolazioni rom nei diversi
momenti di accoglienza, diagnosi e cura;
– la corretta applicazione delle cure mediche prescritte;
– la percezione da parte del personale sanitario dei fattori strutturali e relazionali che ostacolano o scoraggiano l’accesso ai
servizi socio-sanitari e/o una loro efficace fruizione da parte
dei Rom;
– modalità di fruizione dei servizi e l’eventuale ricorso alla mediazione culturale;
10 I distretti afferenti all’ASL 1 di Napoli; l’ASL di Foggia, l’AUSL 6 di Palermo e l’ex ASL 11 di Reggio Calabria.
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– rappresentazioni, atteggiamenti ed eventuali forme di pregiudizio nei confronti delle popolazioni RSC da parte del personale medico-sanitario.
Con gli operatori del privato sociale che operano quotidianamente
con le popolazioni oggetto d’analisi sono state sviluppate tematiche
riguardanti:
– lo stato sanitario e i bisogni di salute espressi dalle comunità
RSC residenti nel Distretto socio-sanitario;
– le modalità di risposta alla malattia e gli eventuali percorsi assistenziali previsti;
– dati corrispondenti alla copertura sanitaria (iscrizione al SSN,
tesserino STP, etc.);
– il livello di conoscenza dei diritti relativi alla salute e dei servizi sanitari di zona;
– i fattori culturali, strutturali e relazionali che ostacolano o incoraggiano l’accesso ai servizi sanitari e la corretta applicazione
delle cure mediche prescritte;
– la valutazione del sistema sanitario e della qualità delle relazioni medico-paziente instaurate durante le esperienze di contatto
con operatori sanitari.
Sulle sollecitazioni emerse dalle interviste con gli operatori sociosanitari (pubblici e del privato sociale) è stata impostata la struttura
tematica della traccia d’intervista elaborata per i rappresentanti delle
associazioni locali che hanno avuto un ruolo diretto nello sviluppo di
interventi territoriali11. All’inizio dell’intervista sono stati presentati
in forma schematica i principali risultati emersi nel corso delle interviste ad operatori socio-sanitari e del privato sociale; la restituzione
dei risultati ha dato modo agli intervistati di estrapolare indicazioni
utili alla progettazione di future buone pratiche.
11 In totale sono state realizzate 30 interviste ad operatori socio-sanitari, rappresentanti del volontariato e a funzionari dei distretti socio-sanitari presi in considerazione.
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2.3.2 Impostazione metodologica degli studi di caso sulla condizione socio-abitativa
La realizzazione degli studi caso è stata finalizzata al raggiungimento di due particolari obiettivi d’indagine: ricostruire le traiettorie insediative, le dinamiche di integrazione/inclusione nel territorio
d’accoglienza e, inoltre, valutare il livello di efficacia degli interventi
e delle politiche d’inclusione sociale delle comunità RSC attuati nelle aree oggetto di studio12. In termini operativi, lo studio di caso ha
previsto la realizzazione di due moduli di ricerca: un’indagine volta a
definire le caratteristiche socio-demografiche delle famiglie rom presenti nel campo d’insediamento e un’analisi storico-sociale dei processi d’inclusione sociale elaborati nei territori d’indagine.
Per quanto riguarda l’indagine sulla composizione socio-demografica delle famiglie rom, si è predisposta una scheda dell’area attraverso la quale sono state raccolte una serie d’informazioni sia sull’area
d’insediamento sia sul percorso insediativo della comunità residente.
Accanto a ciò, nella scheda d’area sono state raccolte informazioni
circa l’estensione dei gruppi familiari presenti negli insediamenti sotto osservazione e la loro composizione anagrafica. L’indagine sulla
composizione socio-demografica delle famiglie rom ha dato modo di
selezionare un campione di persone che sono state coinvolte in uno
studio qualitativo (attraverso la realizzazione di interviste biografiche) volto a sondare una serie di aspetti riguardanti:
– i percorsi migratori;
– le modalità di organizzazione e di gestione delle risorse economiche;
– i rapporti (lavorativi, sociali e culturali) che la famiglia intrattiene con la popolazione non Rom;
– il problema della devianza minorile e dell’abbandono scolastico;
– l’impatto che hanno avuto gli interventi realizzati dagli attori
locali nel campo in cui vivono e in termini di inclusione sociale
e territoriale (semplificare).
12 L’individuazione delle aree oggetto di studio ha riguardato principalmente la
presenza in esse di un campo d’insediamento. In particolare, gli studi di caso sono
stati realizzati in due campi autorizzati – Giffoni-Sei Casali (Salerno) e Lecce (Panareo) – e in altrettanti non autorizzati – Catania (quartiere di Zia Lisa) e Cosenza
(insediamento sugli argini del fiume Crati).
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In una logica di ricerca partecipativa, occorre che l’attività di indagine sul campo metta in moto un cambiamento tanto a livello di
definizione della situazione e rappresentazione del problema rom
quanto rispetto alle logiche dell’azione pubblica e alle linee di policy
adottate. Come si è avuto modo di constatare, l’intero progetto si basa
sul coinvolgimento attivo non solo delle comunità locali (siano esse
RSC o cittadini residenti), ma anche dei rappresentanti del governo
locale.
Gli attori istituzionali sono stati dunque i protagonisti dell’ultima
fase dell’indagine, nella quale si è cercato di elaborare i risultati emersi dagli studi di caso in proposte concrete. In questo senso, il processo
di ricerca va inteso come un tentativo di soluzione partecipata dei
problemi. In sintesi, l’obiettivo di questa fase è stato la creazione di
un accordo fra i partecipanti circa il modo di operare e le soluzioni da
prospettare per dar vita ad un reale percorso di inclusione negoziata
dei Rom nel processo di decision making locale. Per questo scopo, in
ogni area d’insediamento è stata realizzata una consensus conference,
all’interno della quale sono stati invitati rappresentanti delle istituzioni locali, della cittadinanza, delle comunità rom e i ricercatori che
hanno svolto lo studio sul campo.
2.4 Per concludere
In conclusione, le due indagini si muovono su una logica di analisi di tipo circolare, in cui l’individuazione dei modelli d’inclusione
sociale, attraverso la mappatura delle risorse locali, ha consentito di
tratteggiare un primo quadro conoscitivo del fenomeno oggetto di
studio, indispensabile per la realizzazione dell’analisi territoriale; la
quale a sua volta introduce nuovi spunti conoscitivi per la lettura e
la valutazione, in termini di efficacia, degli interventi realizzati sul
territorio di studio.
Da questo punto di vista, le due indagini hanno rappresentato ambiti in cui stimolare il confronto e la partecipazione fra i diversi attori locali. Peraltro, tale intendimento si è tradotto in precise scelte di
metodo, definendo strumenti capaci di favorire il confronto fra tutte
le parti in causa (ricercatori, politici, personale dell’amministrazione
pubblica, rappresentanti delle comunità RSC, etc.).
In tale direzione va letta la scelta dell’équipe di ricerca di sviluppare una struttura d’indagine in cui fossero presenti momenti di veri58
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fica dei risultati ottenuti, attraverso la partecipazione attiva di tutte le
parti interessate dal progetto di verifica: la delimitazione del contesto
d’analisi, la scelta degli studi di caso, l’organizzazione degli stessi e,
infine, l’individuazione di buone pratiche e linee guida. La realizzazione di ognuna di queste azioni è stata caratterizzata da un continuo
confronto fra le diverse parti in causa, con l’obiettivo di mettere a
fuoco il più possibile i contorni del fenomeno oggetto di studio.
La scelta di adottare una metodologia propria degli studi di caso
ha evidenziato ancor più la volontà del gruppo di ricerca, e della committenza, di porre al centro dell’analisi la trama delle relazioni esistenti in un dato territorio.
Da qui, lo sviluppo di un piano d’analisi che tenesse in debita considerazione le diverse prospettive attraverso le quali viene declinato
il rapporto tra comunità RSC e il territorio circostante.
In termini operativi, l’analisi del punto di vista dei cittadini, quello
degli amministratori/operatori e quello delle stesse comunità RSC ha
comportato la definizione di un disegno di ricerca versatile, abbinando tecniche di analisi più propriamente qualitative a tecniche di tipo
quantitativo, che ha rappresentato un tentativo di definire modelli di
ricerca-intervento per la pianificazione, realizzazione e valutazione
delle politiche locali d’inclusione sociale.
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PARTE SECONDA
I ROM NEL MERIDIONE
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Capitolo 3
Il lento inserimento dei Rom in Campania
ALESSANDRO SERINI
3.1 Introduzione
La storia dei Rom in Campania assomma gli oltre seimila Rom di
antico stanziamento, italiani, agli oltre quattromila Rom giunti negli
ultimi anni, in prevalenza dai Paesi della ex-Jugoslavia e dalla Romania. Se per i Rom di antico stanziamento si può parlare oramai di
una integrazione in atto – sebbene faticosa e dentro i ceti bassi della
popolazione – per i Rom stranieri la situazione appare in taluni casi
drammatica. I Rom ex-jugoslavi provengono, infatti, dalle zone di
guerra, e dalla guerra sono scappati in condizioni precarie e talvolta
senza passaporto. Solamente nel napoletano attualmente vi sono circa
duemila rom jugoslavi, una parte dei quali residenti nei cosiddetti
villaggi di accoglienza della città. Lo stesso può dirsi anche per i Rom
provenienti dalla Romania. Per essi non si può parlare di una fuga
dalla guerra, ma da una condizione di vita economica e sociale assai
precaria. L’emigrazione dal loro Paese ha quindi assunto il doppio
significato di fuga da condizioni di povertà e di speranza di costruire
altrove una vita migliore. Per guerra o povertà, i Rom dei Paesi balcanici hanno cercato di stanziarsi dove potevano intravedere maggiori
occasioni di riscatto e di reddito. Non stupisce dunque come in Campania si siano insediati soprattutto nel capoluogo di regione – centro
amministrativo ed economico, dove sono stati censiti circa duemila
Rom rumeni – e nelle aree circostanti i capoluoghi di provincia, come
si può notare nella cartina 3 (a p. 219)1.
1 Si ringrazia l’Opera Nomadi della Campania per le preziose informazioni
fornite. I dati dell’Opera Nomadi sono stati successivamente aggiornati con le in-
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La difficile condizione di arrivo ha costituito per molti Rom una
forte limitazione delle opportunità di emancipazione, che si è tradotta in una sistemazione in Campania all’insegna della marginalità sociale, della malnutrizione e della cagionevolezza di salute. Soprattutto negli anni Novanta, migrare in Italia significava sistemarsi
in accampamenti abusivi, senza acqua, né luce, né riscaldamento
né fognature. Per esemplificare, a Napoli, solamente nella zona di
Scampia e Secondigliano trovarono rifugio oltre 700 Rom, tra adulti
e bambini, in case fatte di materiale di risulta e tettoie di lamiera,
situazione che rimase pressoché stabile fino al giorno dell’incendio
del giugno 1999. In quel giorno, Napoli si accorse che esisteva una
questione Rom2. Furono incendi dolosi, e terrorizzarono a tal punto
le famiglie dell’accampamento che la notte successiva, in attesa di
una sistemazione alternativa, i Rom decisero di stabilire dei turni di
guardia e di dormire fuori le baracche, nel caso ci fosse stato un altro
tentativo d’incendio. Accanto a scene di solidarietà di alcuni gruppi
di napoletani, vi furono altri episodi di intolleranza verso i Rom3. Ad
esasperare i toni probabilmente contribuiva la vicinanza fisica della
popolazione napoletana ai Rom; vicinanza a cui in quel momento
nessuno era pronto. Tra l’altro, la vita a Scampia era comunque difficile per gli stessi napoletani, a causa delle condizioni di degrado in
cui versava il quartiere e della forte presenza della camorra: il suo
dominio mortale avrebbe raggiunto il culmine negli anni successivi,
come testimoniato dalla faida di Scampia, in cui morirono assassinate
ben 70 persone in poco più di un anno. Droga, furti, disoccupazione,
violenza, omicidi erano condizioni ambientali del tessuto napoletano
in cui i Rom, loro malgrado, si trovarono a vivere, aggiungendo miseria a miseria.
formazioni raccolte presso altre organizzazioni non profit, resoconti di cronaca ed
enti pubblici preposti. Vedi il capitolo 2.
2 L’incendio fu causato dalla rabbia per l’investimento di un ragazzo napoletano da parte, si presume, di un Rom che guidava ubriaco. La sproporzione tra torto
subito e ritorsione testimonia il clima pesante che si era creato tra le due popolazioni residenti a Scampia.
3 Alcuni motorini sciamavano intorno al campo intonando cori xenofobi, mentre un lenzuolo infuocato veniva gettato giù dal cavalcavia della metropolitana collinare che sovrastava il campo. La descrizione dell’incendio del campo e dei fatti
successivi di via Zuccarini è tratto da N. Sigona, Figli del Ghetto, NonLuoghi Libere edizioni, Civezzano, 2002. Scaricabile da web all’indirizzo www.osservazione.
org/documenti/figlidelghetto_sigona.pdf.
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Sulla falsariga di quanto accaduto, il 29 giugno del 2003 rigurgiti di antinomadismo esplosero nuovamente di fronte alla stazione di
Napoli, dove oltre 200 Rom rumeni vivevano ammassati e in cattive
condizioni da tempo. Nella notte, venne ordinato lo sgombero e organizzato dal Comune, dalla Prefettura e dalle associazioni di riferimento iniziò per loro un esodo della durata di diverse ore nei dintorni
della città. Rifiutata la loro presenza da parte della popolazione in un
allestimento momentaneo da approntare immediatamente fuori Napoli, si schiusero davanti a loro due possibilità: tornare a Napoli e
prendere dimora presso una ex-scuola, a Soccavo, che venne resa repentinamente agibile; oppure affrontare il rischio di una vita altrove e
iniziare un lento girovagare per l’intera regione. Una parte dei rumeni
preferì rimanere a Napoli, dove intravedeva comunque la possibilità
di cogliere maggiori occasioni di riscatto rispetto alla provincia – occasioni che, col senno di poi, non ci sarebbero state (par. 3.2); un’altra
invece affrontò il viaggio, e una segnalazione li portò a stabilirsi a
Prepezzano, vicino Giffoni, in provincia di Salerno. La mediazione di
un’associazione di assistenza li avrebbe ben presto condotti a trovare
una soluzione abitativa buona, dentro un casale, e ad imparare nuovi
mestieri legati alla raccolta agricola di olive, noci, mandorle ed altre
coltivazioni tipiche del luogo. Una vita fatta di lavoro, in gran parte
con i figli a scuola, nel desiderio talvolta dichiarato di tornare in patria
per sistemarsi (par. 3.3). Due destini collettivi diversi, un unico fattore scatenante, dove l’alea della sorte ha assunto un ruolo decisivo.
Uscire dalla casualità del riscatto umano per assumere un atteggiamento consapevole di promozione sociale ed economica dei Rom è
in fondo la ragione per cui gli interlocutori istituzionali iniziano ad
avviare percorsi di riflessione come questi e percorsi di intervento
come quelli che leggeremo nelle pagine seguenti.
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3.2 All’ombra del Vesuvio. Il rapporto di Napoli con i Rom4
Come per la Campania, anche la provincia di Napoli vede la presenza di Rom italiani e di Rom stranieri. I Rom italiani sono di antico stanziamento e vivono nella quasi totalità in abitazioni proprie o in affitto,
fondamentalmente nella provincia. Non è raro trovare Rom che di cognome fanno Bevilacqua, Greco, Spada, nell’entroterra napoletano5.
I Rom stranieri sono in gran parte jugoslavi e rumeni, distribuiti tra
Napoli e provincia in maniera omogenea. La loro presenza è attestabile a partire dagli anni Settanta, ed hanno iniziato ad intensificare la
loro presenza semi-nomade o stabile a partire dalla ridefinizione della
geografia dell’Europa dell’Est, alla fine degli anni Ottanta. In linea di
massima, i Rom che riescono ad avere condizioni di vita relativamente migliori sono quelli ex-jugoslavi, il cui ingresso in Italia è meno
recente e alcuni di loro sono riusciti a sistemarsi nei campi attrezzati.
Condizioni più difficili attendono i Rom di ingresso recente, in gran
parte provenienti dalla Romania, che vivono nelle baraccopoli, senza
servizi elettrici, igienici, idrici, fognari.
Per quanto riguarda la provincia di Napoli, a Caivano è presente
un villaggio comunale attrezzato, costituito da container dotati di ser4 Si ringrazia il dr. Pasquale Orlando, presidente delle ACLI di Napoli, per
l’intervista concessa e per il prezioso supporto fornito nella logistica della ricerca
e per i contatti istituzionali e associativi attivati. Si ringrazia altresì l’Opera Nomadi di Napoli, nella persona del consigliere nazionale dr. Vincenzo Esposito, per
il lavoro di supporto e di informazione per i campi di Scampia e Secondigliano; il
dr. Salvatore Esposito, della Comunità di Sant’Egidio, per le informazioni e i dati
forniti per i campi di Ponticelli, di via della Maddalena e di Barra; il vice-prefetto
d.ssa Gabriella D’Orso, dirigente dell’Area diritti civili, cittadinanza e immigrazione della Prefettura di Napoli, per le informazioni fornite in relazione al lavoro
della Prefettura; la d.ssa Annamaria Di Stefano, responsabile dell’Ufficio Rom e
patti di cittadinanza del Comune di Napoli, per il resoconto e la documentazione
relativa alle politiche per l’immigrazione del Comune e al patto di cittadinanza; le
d.sse Rossella Buondonno e Patrizia Castagna, dirigenti del SASCI di Napoli, per
le statistiche sanitarie e la storia del SASCI; la d.ssa Annamaria Mazzella, dirigente
sanitario del distretto sanitario 28, Scampia, per la testimonianza del lavoro sanitario svolto per i Rom; il dr. Giancamillo Trani, responsabile immigrazione Caritas
Napoli, per le notizie relative al lavoro svolto dall’associazionismo di riferimento;
le mediatrici culturali, Joan, Tania, e Julia, per le preziose informazioni fornite in
relazione alla vita quotidiana dei Rom a Napoli e ai loro rapporti con le istituzioni.
5 Sono oltre cento le famiglie sparse tra i comuni di Afragola, Caivano, Casoria, Marano, Nola, Pomigliano d’Arco, Torre Annunziata e Torre del Greco. La presenza maggiore si incontra nei comuni di Nola (25 famiglie), Marano (20 famiglie),
Torre Annunziata (20 famiglie) e Torre del Greco (20 famiglie).
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vizi con una popolazione di circa 120 rom korakhanè di provenienza
montenegrina. Altri insediamenti rilevanti per dimensioni nel territorio della provincia di Napoli sono quelli di Giugliano di Napoli (circa
600 Rom khorakhanè di provenienza bosniaca), Casoria (200 Rom
dasikhanè di provenienza serba), di Afragola (200 Rom rumeni) e di
Acerra, località Spiniello (150 Rom dasikhanè di provenienza serba).
In questi ultimi campi, privi di servizi e sommersi dai rifiuti, le condizioni di vita sono estremamente precarie.
Sul fronte urbano, punto di partenza per osservare la presenza dei
Rom a Napoli sono i quartieri di Scampia e di Secondigliano. In essi
si trova il cosiddetto villaggio comunale attrezzato di via Circumvallazione Esterna. È l’unico campo attrezzato e autorizzato di Napoli.
Fu consegnato nel giugno del 2000 con delibera del Comune, che
istituì l’Ufficio Rom comunale e introdusse il patto di cittadinanza.
Le famiglie abitano in container attrezzati per i normali servizi igienici, con bagni in muratura, e sono presenti anche acqua e luce. Esso
ospita circa 450 persone di provenienza serba. Sono Rom dasikhanè,
ovvero serbi di religione cristiano-ortodossa. Il 30% circa dei residenti è composto da bambini, tutti iscritti alla scuola dell’obbligo (circa
140), ma di cui solo il 70% frequenta regolarmente le lezioni. I Rom
jugoslavi sono oltre dieci anni che vivono a Napoli, e ciò nonostante
il numero di permessi di soggiorno è relativamente basso. Sempre a
Scampia, vi è un secondo campo, non autorizzato. Esso ospita circa
700 persone, suddivise in cinque insediamenti a ridosso dell’uscita
dell’Asse Mediano. Sono nella quasi totalità Rom dasikhanè, a parte
una minoranza di khorakhanè (musulmani) di provenienza macedone, Manjup. Essendo un campo spontaneo, le persone che vi abitano
vivono in condizioni molto precarie, in roulotte o in altre abitazioni
arrangiate. Non vi sono servizi igienici attrezzati, né energia elettrica.
Il livello di regolarizzazione è molto basso, anche se qualcosa si è
riuscito a fare in termini di promozione scolastica dei bambini.
Oltre ai Rom jugoslavi, vi è anche la presenza di Rom rumeni. Sono giunti a Napoli successivamente agli jugoslavi, e si sono
concentrati nella zona di via Ponticelli. La sistemazione precaria, le
condizioni degradanti, un rapporto conflittuale con la popolazione
limitrofa residente, ha provocato il loro sgombero, a seguito di un
incendio avvenuto nel 2008. Lo sgombero ha disperso i Rom rumeni
in diverse zone di Napoli.
Quattrocentocinquanta di essi vivono nel campo spontaneo di
Poggioreale, 250 nella zona del cimitero e 200 in una ex-fabbrica.
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Come insediamenti spontanei, non vi sono servizi essenziali e le famiglie vivono in piccole baracche. La frequenza scolastica è bassa e
lo status di cittadini europei li agevola relativamente, in quanto pochi
sono in regola con l’iscrizione anagrafica.
Sempre rumeni sono i circa 200 Rom che vivono nel campo di
Barra – S. Maria del Pozzo. Si trovano nelle stesse condizioni dei precedenti campi rumeni, ma il tasso di frequenza scolastica è superiore,
grazie agli interventi dell’associazionismo.
Infine, nella ex-scuola “Deledda” a Soccavo, trasformata in centro d’accoglienza, vi sono 130 Rom rumeni, giunti nel 2003. I trenta
minori del centro frequentano la scuola; gli ospiti usufruiscono dei
servizi essenziali, delle utenze domestiche e dei servizi sociali e la
gestione è affidata ad un’associazione che si occupa di protezione
civile. Le condizioni di vita sono migliori rispetto agli altri insediamenti, sebbene la disoccupazione adulta sia particolarmente diffusa,
e questo di Soccavo rimane l’unico centro di accoglienza per i Rom
rumeni a Napoli e provincia – sebbene non viga per questa realtà il
patto di cittadinanza6.
6 Alla luce del rapido incremento della presenza rom, e delle condizioni in cui
versavano, nel 2002 è nato l’ufficio Rom e patti di cittadinanza, con delibera del
Comune. La nascita di un ufficio dedicato prendeva atto della complessità crescente
nel gestire flussi consistenti di popolazioni rom provenienti dall’estero.
Con questa delibera, il Comune di Napoli ha inteso sposare la filosofia dell’accoglienza e della corresponsabilità. La parola chiave è “patto di cittadinanza”. La
strategia del patto di cittadinanza si basa sulla relazione con i rappresentanti delle
comunità, in vista della costruzione di un reciproco impegno tra le parti. Da parte
del Comune, vi è la presa in carico dell’emergenza sanitaria, educativa e giuridica
che la questione Rom comporta; da parte delle comunità rom, c’è la volontà di
avviare un percorso di fuoriuscita dalle condizioni di marginalità e di isolamento –
talvolta di illegalità – in cui versano.
Il patto nasce dalla convinzione che i Rom non sono criminali da recludere, ma
persone che chiedono di essere accolte e integrate pienamente nella società italiana.
In definitiva, denota un approccio maturo nelle relazioni con i Rom. Rappresenta
un intervento di alto profilo, dai numerosi risvolti: istituzionale, perché rivela un
riconoscimento e una legittimazione reciproca, sebbene in un quadro legislativo
insufficiente; sociale, perché pone come meta l’inserimento dei Rom nella società italiana; umano, perché si cerca di non abbandonare a se stesse le popolazioni
rom che giungono in Italia, talvolta in condizioni sanitarie gravi, ma di farsi carico
quantomeno delle principali emergenze; giuridico, perché i reciproci impegni che
promanano dal patto obbligano le famiglie Rom a intraprendere percorsi di inserimento nell’ambito delle opportunità che vengono loro offerte. Insomma, è una
filosofia ambiziosa, e trova la sua realizzazione nei progetti avviati in questi anni, i
cui esiti favorevoli possono rappresentare una forte spinta a proseguire sulla strada
dei patti di cittadinanza con le comunità rom.
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Per comprendere le conseguenze delle cattive condizioni abitative e igieniche in cui versano, basta ascoltare le parole di coloro che
affrontano la questione dei Rom rumeni da alcuni anni, i volontari di
un’associazione caritativa:
In tanti cominciavano a venire chiedendo delle informazioni di
carattere medico, ma soprattutto portando tutti le scatoline delle
medicine: “Mi servono queste medicine”; il medico [volontario di
Sant’Egidio che aveva iniziato a incontrare i Rom rumeni nei campi
spontanei, N.d.R.] chiedeva: “Chi te l’ha data questa medicina?”. E
molti Rom non sapevano neanche ben ricordare da quanto tempo
prendevano quella medicina, o perché avevano iniziato a prenderla;
però dicevano “Mi serve, mi serve”. Alcune erano anche psicofarmaci, per cui dicevano “Ah, ma io ho molto male alla testa”; un
grande problema erano i dolori di testa, dolori di denti; dolori muscolari, mal di schiena, diciamo una sofferenza tipica perché chi
vive in baracca, ovviamente, incontra questo primo problema. Però
questa era più una sofferenza, che una malattia specifica. Ecco, diciamo che ci ha colpito, una volta iniziato l’ambulatorio, vedere,
conoscere, l’invecchiamento tipico. Persone di 39, 40 anni che ne
dimostrano 60, 65. […] Tendenzialmente, ci stupivano all’inizio le
condizioni in cui vivevano. Chiedevamo: “Ma come fate a vivere”,
e molti di loro ci dicevano che vivevano meglio qui, in quelle condizioni, che in Romania. Probabilmente c’è una povertà leggermente diversa: qui loro hanno una “casa”; però non hanno ugualmente
l’acqua, non hanno elettricità, ovviamente non hanno riscaldamento
e soprattutto lamentano di aver fame, di non riuscire a procurarsi da
mangiare a sufficienza. Poi c’è anche un problema legato a malattie specifiche della povertà. Il problema della tubercolosi nei Paesi
dell’Est europeo è una questione ancora da affrontare, e che loro un
po’ si portano appresso. Molti di loro raccontano di operazioni di
asportazione di alcune parti di polmone proprio per questi motivi.
I bambini anche, spesso, la sensazione è che patiscono questa difficoltà, soprattutto nella crescita. Notiamo appunto che i bambini di
otto, dieci anni tendono ad essere molto più piccoli, apparentemente
dimostrano qualche anno di meno; e quindi, anche una difficoltà
nella crescita, nello sviluppo, che è legato ovviamente alle condizioni di vita nel loro Paese, che poi permangono quando vengono
qui e rimangono in un campo o vivono in una baracca. [Esposito,
Sant’Egidio].
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In queste parole c’è la sintesi di che cosa significa essere Rom nelle baracche. Molti di essi vengono da situazioni di povertà e di malattia già dal Paese d’origine, persone operate in precedenza per cattive
condizioni di salute, che affrontano il viaggio in Italia nella speranza
di avere condizioni di vita migliori. In Italia, rischiano di non incontrare quelle condizioni che speravano, e spesso trovano rifugio in baracche di fortuna, in campi spontanei. La vita nelle baracche è dura,
per il freddo, la fame, la mancanza di lavoro, l’ambiente sporco, senza luce, il fango quando piove, gli animali. Aumenta di gran lunga la
probabilità di contrarre malattie anche epidemiche e, unitamente alla
malnutrizione, soffrire di uno stato di debolezza generale. Non a caso
l’intervistato intravede nel volto di questi Rom una sofferenza, più
che una malattia specifica. I giovani manifestano questa sofferenza,
dovuta alla malnutrizione, con una crescita inferiore rispetto ai loro
pari età italiani; e negli adulti, invece, con una forma di invecchiamento precoce. A complicare il quadro generale, contribuisce poi una
scarsa educazione sanitaria, giacché non riescono a gestire le cure
farmacologiche continuative con cognizione di causa, dimostrando di
non ricordare gli schemi di somministrazione di farmaci assegnati dai
medici che li hanno precedentemente curati.
È chiaro dunque che la questione Rom a Napoli ha assunto la forma di molteplici situazioni gravi, delle quali le pessime condizioni
abitative e sanitarie sono state certamente le più urgenti da affrontare.
Per tale ragione, agli inizi degli anni Duemila, furono elaborati, dal
Comune e da altri enti chiamati in causa, due strumenti necessari a
porre mano alle questioni emerse: il patto di cittadinanza e il protocollo sanitario.
3.2.1 L’accesso ai servizi sanitari per i Rom
Accanto al patto di cittadinanza, realizzato con l’impegno dei
Rom dei villaggi d’accoglienza autorizzati, l’altra questione urgente
da affrontare ha riguardato la tutela sanitaria. Con toni un po’ coloriti,
una funzionaria intervistata affermava che in questi contesti sembra
di operare in missione in un Paese africano.
Del resto, alla fine degli anni Novanta il quadro giuridico rendeva
non facile la tutela dei diritti di coloro che non erano pienamente in
regola con la normativa. È vero che nel 1995 la legge Martelli aveva
reso possibile le cure urgenti per gli irregolari e nel 1998 la legge
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Turco-Napolitano aveva incluso nelle prestazioni sanitarie per gli irregolari anche le cure continuative ed essenziali; ma ancora nel 2004,
gli uffici anagrafici comunali napoletani congelavano la posizione
anagrafica dei Rom in attesa di permesso di soggiorno o di un suo
rinnovo, con conseguente impossibilità di richiedere atti e documenti;
non solo: alcune aziende sanitarie ponevano limiti temporali alla validità dell’iscrizione al sistema sanitario nazionale (SSN), condizionata
alla scadenza del permesso di soggiorno. Un inconveniente simile si
poneva anche quando il minore Rom nato in Italia non compariva
sul permesso di soggiorno dei genitori, precludendogli la possibilità
di usufruire delle prestazioni sanitarie non essenziali, non essendo
iscrivibile al SSN.
Per tale ragione, la Prefettura di Napoli, la Questura, l’Assessorato
regionale alla Sanità, le ASL del napoletano, i sindacati e le associazioni stipularono un protocollo temporaneo d’intesa che assicurava
i diritti fondamentali dei soggiornanti in attesa di permesso di soggiorno. Veniva concessa la proroga dell’iscrizione al SSN e del rilascio delle certificazioni anagrafiche per coloro che erano in attesa di
rinnovo del permesso di soggiorno, e soprattutto l’iscrizione al SSN
dei nati da almeno un genitore straniero regolarmente soggiornante,
purché inseriti nel passaporto di uno dei genitori. Iniziava un lento emergere dei Rom da condizioni giuridiche che in qualche modo
penalizzavano la loro esistenza, già compromessa dalle condizioni
ambientali in cui vivevano.
Assieme al protocollo d’intesa, il Comune di Napoli decise di
adottare una strategia particolare rispetto ad altre città, alla luce delle specifiche necessità che andavano emergendo in quegli anni e del
contesto normativo che si andava delineando:
C’era una concentrazione di immigrati nella città di Napoli e i distretti sanitari erano tanti nella ASL di Napoli centro – avevamo dieci distretti all’epoca; e c’era una circolare regionale che impostava
l’attività sanitaria nei confronti di questi immigrati, anche irregolari,
a partire dalla legge Turco-Napolitano. Quindi, bisognava organizzare, dare attuazione sul territorio alla normativa, sia nazionale che
regionale, e c’era bisogno di un coordinamento, perché bisognava
istituire, realizzare gli ambulatori dedicati agli stranieri temporaneamente presenti (STP) – tra l’altro i Rom sono STP. [Buondonno e
Castagna, direzione e ufficio statistico SASCI Napoli].
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In sostanza, le esigenze del territorio e le indicazioni legislative
lasciavano intravedere la necessità di erogare le prestazioni urgenti, essenziali e continuative all’interno di un contesto diverso, quello
degli STP, il cui incremento poneva non pochi problemi nei dieci distretti sanitari interessati. Si ravvisò quindi la necessità di creare un
coordinamento, ma non solo.
La scelta strategica della ASL Na1, rispetto alla questione della parità di accesso, è stata a monte quella di dire: “Io ti do il presidio pubblico in prossimità, perché cerco di fare in modo che, nonostante tu
sia senza cittadinanza, tu abbia un punto di riferimento nel distretto,
perché ci sia una presa in carico e si crei un rapporto fiduciario tra il
paziente e l’operatore sanitario. [Buondonno e Castagna, direzione
e ufficio statistico SASCI Napoli].
Quindi occorreva coordinare un’attività di assistenza sanitaria per
certi versi inedita, e realizzare ambulatori dedicati direttamente nei
distretti sanitari di Napoli, in modo tale che gli STP e gli stranieri senza fissa dimora avessero comunque una facilità d’accesso alla sanità
pubblica. Il coordinamento dei distretti sanitari in materia di medicina per l’immigrazione venne chiamato SASCI – Servizio Attività
Socio-sanitarie Cittadini Immigrati e senza fissa dimora – e l’istituzione degli ambulatori dedicati non fu dettata solamente da ragioni di
prossimità geografica.
Ci sono stati gli ambulatori dedicati perché c’era il senso della sostituzione del medico di medicina generale, a cui loro non avevano
diritto. Quindi, dire ambulatorio dedicato vuole dire ambulatorio in
cui possono essere fatte delle prescrizioni sul ricettario o comunque
delle prestazioni assimilabili a quelle del medico di famiglia. [Buondonno e Castagna, direzione e ufficio statistico SASCI Napoli].
In termini normativi, si erano venute a creare le condizioni per un
perimetro di legalità, all’interno del quale avviare un normale rapporto sanitario tra medico e paziente STP, con le risorse mediche e sanitarie necessarie a fronteggiare le esigenze dell’utente. Inizialmente,
si partì con le risorse a disposizione, dopodiché furono le esigenze
concrete a indicare la strada da percorrere:
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C’è stata una volontà politico-istituzionale, quindi un mandato
forte, e naturalmente poi si è partiti con le risorse disponibili, e si
sono trovate, perché su questa cosa ci ha lavorato il distretto 48 da
prima; poi piano piano si è allargato agli altri distretti […] e poi
naturalmente occorreva un servizio centrale di riferimento, al quale
si chiama quando c’è un problema, che ha fatto i corsi di formazione per gli operatori sulla mediazione linguistica e culturale… Nel
momento in cui nasce un servizio che fa da supporto, da promotore
[…] il processo ha garanzia di mantenersi. Queste e queste sono le
risorse; dopodiché quello che succede dipende dalla capacità di supportare quello che poi diventa un processo. Il fatto che ci sia questo
servizio [il coordinamento, N.d.R.] ha fatto sì che ci fosse una rete di
offerta, quantomeno funzionale e organizzativa. Però, la questione
dell’accoglienza è venuta man mano: ci sono i dieci ambulatori, ci
sono le esigenze, facciamo i corsi di formazione agli operatori sulla
mediazione linguistica, facciamo il resto… [Buondonno e Castagna, direzione e ufficio statistico SASCI Napoli].
Punto di partenza del lavoro fu quindi la valorizzazione delle risorse esistenti. Il distretto 48 includeva i campi rom di Scampia, quasi
1.500 persone, molte delle quali in condizioni amministrative parzialmente regolari e quindi in regime di STP. L’unità sanitaria di Scampia
già da anni si stava facendo carico di fronteggiare l’emergenza sanitaria, ed ebbe quindi modo di acquisire una certa competenza in merito.
Il SASCI prese dunque spunto dal lavoro fatto nel distretto per allargare l’esperienza agli altri distretti sanitari della città di Napoli, facendosi carico di supportare il processo di costituzione di ambulatori
(o quantomeno di servizi) dedicati alla medicina dell’immigrazione.
Si costituiva garante del processo, affiancando il lavoro già esistente
dei distretti sanitari e valorizzando le figure mediche e sanitarie esistenti, in una forma nuova, orientata agli STP e ai senza fissa dimora.
In tal modo, la riforma del quadro giuridico stava configurando la
ASL di Napoli sempre meno come erogatrice di servizi e sempre più
come una rete di offerta con funzione di organizzazione.
Attualmente, il coordinamento dei servizi sanitari è articolato in
varie attività e comprende, tra le altre cose, anche il monitoraggio
delle prestazioni sanitarie effettuate per gli immigrati (con reportistica annuale pubblicata sul sito del SASCI)7; la formazione specifica
7 I report annuali sono scaricabili dal sito http://www.aslna1.napoli.it/servizio_immigrati.aspx.
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rivolta ad operatori sanitari e sociali su questioni attinenti la medicina
dell’immigrazione; il coordinamento del lavoro organizzativo con altre realtà del mondo istituzionale e associativo; il supporto ai distretti
su questioni di carattere organizzativo e procedurale.
Dei dieci distretti sanitari attuali, quelli interessati dalla presenza
di campi rom sono quattro: il 46, il 48, il 52 e il 538. Come accennato,
dei Rom jugoslavi si occupa in via pressoché esclusiva il distretto
48; i Rom rumeni sono invece sparsi sui restanti distretti, a seguito
dell’incendio del campo abusivo di Ponticelli e della conseguente diaspora in varie zone della città (Poggioreale, Barra, Viale Maddalena,
Soccavo). Tra l’altro, i Rom rumeni che dal 1 gennaio 2008 vivono
in Italia da più di tre mesi (in forma non autorizzata) non possono
più usufruire del codice STP riservato agli extracomunitari, proprio
perché sono diventati comunitari; con intervento legislativo nazionale
– ratificato dalle Regioni con apposite delibere – si è pertanto provveduto a che i cittadini rumeni, stabilmente presenti in Italia ma sprovvisti di contratto di lavoro, possano accedere alle prestazioni previste
dalla legge 286/19989 attraverso il passaggio da straniero con codice
STP a comunitario con codice ENI (Europeo Non Iscritto)10.
Volendo dare un quadro statistico del lavoro svolto dagli ambulatori della ASL di Napoli 1, lo scorso anno sono stati assistiti 22.700
stranieri circa, di cui 3.708 STP, pari al 16,3% degli stranieri residenti
a Napoli11. Inoltre, sono state assistite circa 1.300 persone senza fissa
dimora – persone che per ovvi motivi vivono in condizioni di forte
problematicità, sia personali che ambientali: poveri, alcolizzati, tossicodipendenti, malati psichici. Le precarie condizioni abitative, peraltro, aggravano ulteriormente il quadro clinico, perché le condizioni
8 Con la riforma dei distretti sanitari, le numerazioni sono cambiate. Il distretto
46 è diventato 26, il 48 è diventato 28, il 52 è divenuto 32 e il 53 è diventato 33. In
questo capitolo si manterrà la numerazione vecchia, così come riportata dai Rapporti SASCI per gli anni presi in considerazione.
9 Le prestazioni previste riguardano ginecologia e ostetricia; tutela della salute
dei minori; vaccinazioni preventive; interventi di profilassi internazionale; profilassi e cura delle malattie infettive.
10 Pertanto, dal 2008 i rumeni sono usciti dalle tabelle statistiche con le serie
storiche relative ai trattamenti sanitari riservati agli STP. Di conseguenza, nelle
pagine successive si prenderanno in considerazione i dati del distretto 48, dove vi
sono i due campi rom jugoslavi e dove le prestazioni sanitarie per gli STP riguardano, al 75%, i Rom (serbi e macedoni).
11 Per quanto riguarda le informazioni di carattere generale, si hanno a disposizione i dati del 2010; il dettaglio delle prestazioni sanitarie dei singoli distretti,
invece, è disponibile fino all’anno 2009.
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ambientali aumentano il rischio di patologie del sistema cardio-respiratorio, oltre al rischio di contrarre infezioni e malattie dermatologiche. Tra STP e senza fissa dimora siamo quindi in presenza di oltre
5.000 persone che sono state curate dalla ASL di Napoli città, ma che
tuttavia versano in condizioni di indigenza e di rischio sanitario, ad
oggi non risolte pienamente.
Una chiave di lettura della difficile transizione verso una prassi
sanitaria normalizzata viene fornita direttamente dal SASCI, quando
si pone l’attenzione sul distretto 48. In termini di regolarizzazione,
su 1273 immigrati che hanno chiesto assistenza sanitaria nel 2008,
il 48% è iscritto al SSN e il 52% risulta ancora Straniero Temporaneamente Presente. Dei 662 STP che sono stati assistiti, l’80% sono
Rom jugoslavi abitanti nei campi. È il dato più alto di tutti i distretti
della città di Napoli: si conferma come la strada per la loro regolarizzazione sia ancora lunga, a differenza di altre etnie. C’è da dire che il
rilascio dei codici non ha avuto un andamento costante negli anni, ma
risentiva delle dinamiche migratorie dei Paesi dell’Est europeo, come
si può desumere indirettamente dalla seguente figura:
Figura 1. Codici STP rilasciati dal distretto sanitario 48 di Napoli,
2001-2008.
250
193
200
Totale STP rilasciati =1050
169
149
150
126
138
91
100
99
85
50
0
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
Anno
Fonte: Elaborazione IREF ACLI su dati dei rapporti SASCI, Napoli, 2001-2008.
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L’andamento a “gobba” del rilascio dei codici STP è frutto di dinamiche esterne e interne allo stesso tempo. Le dinamiche esterne
sono legate per l’appunto ai flussi migratori provenienti dai Paesi
dell’Europa orientale, le cui vicende sono note e più volte ribadite nel
rapporto di ricerca. Il flusso è andato decrescendo in coincidenza con
l’attenuazione delle crisi economiche dei Paesi limitrofi. Le dinamiche interne riguardano invece la presa di coscienza da parte delle istituzioni locali dell’emergenza rom, e il conseguente sforzo per uscire
fuori dal problema. Testimonia tale sforzo il rilascio di oltre mille
codici STP nel solo distretto che vede la presenza di un consistente
nucleo di Rom jugoslavi.
Negli ultimi anni, la nostra organizzazione interna ha consentito un
incremento dell’utenza, un inquadramento clinico e un follow up. La
chiave di tale incremento è da individuare nella presenza di personale disponibile (medici e personale parasanitario) che con grande
capacità di adattamento ha garantito e generato un clima di fiducia
e di attenzione alla persona attraverso l’ascolto, l’accoglienza, la
disponibilità e la competenza. [Buondonno e Castagna, direzione e
ufficio statistico SASCI Napoli].
In sostanza, molto resta da fare, ma molto è stato fatto, grazie a un
quadro legislativo che ha reso possibili alcuni investimenti in strutture dedicate e in personale disponibile e qualificato. I frutti di questo
lavoro si possono commentare analizzando la tabella successiva, che
riporta le prestazioni effettuate dal distretto 48 a favore dei Rom con
STP da parte della ASL di riferimento12.
In relazione al profilo anagrafico degli utenti, il 65% delle prestazioni è stato richiesto da donne, un dato in accordo con quello delle
straniere residenti negli altri distretti.
Per il resto, è interessante notare come i dati del distretto 48 talvolta sono in linea con quelli della città, talvolta se ne discostano. È
il caso dell’accesso ai servizi sanitari dei minori (13%), del dato sui
contatti successivi al primo, ovvero della continuità del rapporto (nel
96% dei casi i Rom ritornano a servirsi della sanità); delle prestazioni
odontoiatriche (39%); della proposta di ricovero (per casi gravi, 25%)
e della prescrizione farmaceutica (31% sul totale dei distretti). Ovviamente, parliamo solamente di pazienti in regime di STP.
12 Nella tabella seguente sono riportati solamente i valori percentuali per permettere una comparazione tra distretto e città.
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Tabella 1. Attività ambulatoriale per gli immigrati, prestazioni a STP,
comparazione Distretto 48 e città di Napoli, anno 2009, %.
STP distretto 48
(%)
STP di Napoli
(%)
Maschi
36
35
Femmine
64
65
Minorenni
13
7
Maggiorenni
87
93
Primo contatto n.
4
12
Contatti successivi n.
96
88
Esami laboratorio n.
58
52
Esami strumentali n.
42
48
odontoiatria
39
15
cardiologia
10
9
dermatologia
2
9
Prestazioni ambulatoriali
ortopedia
12
12
altro
37
56
Tot visite specialistiche
100
100
Proposta ricovero (dstr48/tot)
25
100
Prescr. farmaceutica n. (dstr48/tot)
31
100
Altro n. (dstr48/tot)
2
100
Nessun prosieguo (dstr48/tot)
0
100
Nuove cartelle cliniche (dstr48/tot)
43
100
Fonte: Elaborazione IREF ACLI su dati SASCI Napoli, 2009.
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Per quanto riguarda i minori, il distretto 48 effettua un numero di
visite pediatriche doppio (13%) rispetto alla media degli altri distretti
napoletani (7%). Per comprendere questa differenza, probabilmente
occorre tener conto del modello insediativo dei Rom rispetto ad altre
etnie straniere. Laddove altre etnie sono composte da primo-migranti
in gran parte maschi e adulti (o donne adulte, come nel caso delle
badanti dell’Est Europa), nel caso dei Rom la migrazione è in gran
parte familiare. Accanto all’uomo, si stabiliscono in Italia anche la
donna e i figli. Per tale ragione, le condizioni igieniche dei bambini
e dei ragazzi rom sono state oggetto di attenzione da parte dell’ASL
di Napoli, al punto tale che è stato aperto un ambulatorio pediatrico
dedicato nel 2001. Sono oramai dieci anni che esso opera sul fronte
delle vaccinazioni e della normale cura pediatrica, e nel 2009 sono
state erogate oltre 400 prestazioni sanitarie.
L’altra informazione interessante riguarda il primo contatto e i contatti sanitari successivi al primo. Sempre nello stesso distretto, essi si
attestano rispettivamente al 4% e al 96%, contro il 12% e l’88% del
dato totale di Napoli. In parole povere, gli immigrati del distretto 48
tornano a farsi curare più spesso che gli immigrati di altri distretti.
Questo dato si comprende alla luce del fatto che l’ambulatorio pediatrico dedicato è stato affiancato in questi anni da tre centri vaccinali
(a Scampia, a Chiamano e a Piscinola-Marianella) e da due consultori
materno-infantili. Molte donne rom hanno compreso che le vaccinazioni per i loro figli non erano un mero adempimento burocratico, ma
una necessità vitale per la salute dei bambini. Si è instaurato in tal
modo un rapporto di fiducia con il presidio medico pubblico e ciò le
ha spinte a rivolgersi alle strutture mediche anche per patologie legate
al loro stato di salute. Sono nati, pertanto, i consultori dedicati, che
hanno preso in carico le gravidanze e le Ivg (Interruzione volontaria
di gravidanza) delle donne rom e in generale la normale profilassi
medica per la salute della donna. L’instaurarsi di questi rapporti duraturi riguarda oramai il 96% delle persone che si sono rivolte alle unità
sanitarie dedicate.
Anche il dato sulle cure dentistiche fornisce un’importante riflessione. Il 39% delle prestazioni specialistiche erogate lo scorso anno
sono state di natura odontoiatrica, un dato quasi triplo a quello degli altri distretti sanitari in materia di odontoiatria per immigrati. Le
cure dentistiche non sono considerate dalla legge cure di emergenza
e per loro natura abbisognano di una certa continuità di intervento,
per completare la terapia. Dietro questo tipo di prestazione si rivela,
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dunque, una presa in carico della sanità che sembra destinata a permanere nel tempo. La percentuale è certamente influenzata dal crescente sforzo che si sta compiendo per i bambini rom in materia di
cura dentistica, ma la presa in carico del sistema sanitario nazionale
è testimoniata anche da un’altra informazione, relativa al numero di
ricette farmaceutiche rilasciate per le prescrizioni: il 31% delle ricette
rilasciate nella città di Napoli proviene dal distretto 48.
In sintesi, un profilo del genere evidenzia come oramai si sia creato
un rapporto stabile nel tempo, e come le prestazioni sanitarie riescano
a fronteggiare sia i casi gravi, per i quali è richiesto il ricovero, sia
la normale profilassi ed educazione sanitaria, testimoniata dall’incidenza delle prescrizioni farmaceutiche e dalla superiore incidenza di
cure odontoiatriche rispetto al resto della città in materia di medicina
dell’immigrazione. In definitiva, è la conferma di come un presidio
sanitario dedicato vicino agli insediamenti Rom, come nel caso di
Scampia, sia la migliore garanzia di accesso ai servizi sanitari per i
Rom, purché ovviamente tale lavoro venga preceduto e accompagnato da un rapporto fiduciario con la popolazione Rom; rapporto che si
può creare anche grazie all’investimento dell’ente pubblico e al ruolo
delle associazioni di volontariato.
In realtà, tale rapporto è stato creato nel tempo, e costituisce il punto di arrivo di un lavoro pesante, durato anni, spesso irto di difficoltà,
come testimoniato dalle persone che si occupano della questione. Incomprensioni da parte dei medici, incomprensioni da parte dei Rom,
disinformazione da parte dei distretti, scarsa cura sanitaria da parte
dei pazienti; insomma, un lento lavoro di avvicinamento reciproco,
dove le persone sono state le vere protagoniste del cambiamento. Significativa, in tal senso, la testimonianza di una dirigente sanitaria del
distretto di Scampia:
All’inizio fu uno shock; adesso, sono diventata una di loro […]
questi qua si aprono, dicono tutto, anche se è una comunità molto
chiusa; però nel momento in cui si fidano di una persona, si aprono,
arrivi non a pensare come loro, però a condividere delle idee, delle
loro scelte. Prima ero molto prevenuta, adesso no, assolutamente.
[Mazzella, dirigente sanitario distretto 28, Napoli].
Fu un trauma il trasferimento della dirigente da un distretto “normale” al distretto di Scampia, alcuni anni or sono, per giunta, nell’unità sanitaria dedicata ai Rom. Pregiudizi, paure, la barriera linguistica,
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la scarsa cura igienica dei pazienti, le difficili condizioni ambientali,
tutto concorreva a negare questo rapporto tra medico e paziente. L’incontro reale tra persone, tra mondi così diversi, ha permesso un lento
processo di abbattimento dei pregiudizi e degli stereotipi e ha rivelato il volto delle persone dietro ai bisogni. È nato così un rapporto,
in cui pian piano si è arrivati ad assumere il volto, le idee dell’altro
(“arrivi non a pensare come loro, però a condividere delle idee, le
loro scelte”). Attraverso il bisogno, si costruisce dunque un rapporto
di fiducia, anche se i problemi pratici da affrontare sono molti, da
entrambe le parti:
Queste difficoltà ci sono, ma si superano perché se ci sta qualcuno
fuori gli diciamo di venire dentro e di tradurre e farci capire che
cosa si sente, che cosa hai […] sono soprattutto gli anziani che non
riescono a comunicare: o vengono accompagnati oppure se sono
soli chiamiamo qualcuno. [Mazzella, dirigente sanitario distretto
28, Napoli].
La barriera linguistica è la prima difficoltà che si incontra. Con i
pazienti anziani, non ci si capisce nemmeno sulla lingua. Per tale ragione, gli altri Rom, spesso giovani, ricoprono un ruolo determinante
nel fare da mediatori tra i pazienti anziani e i medici, sia per quanto
riguarda la visita medica sia per quanto riguarda la terapia. Il rapporto medico-paziente, peraltro, è un rapporto complesso, che va oltre
la comprensione della lingua, come mostrato chiaramente da queste
mediatrici culturali:
Il nostro lavoro non è tanto legato alla mediazione linguistica,
quanto alla mediazione culturale. Questo perché spesso le persone
rom non conoscono le prassi sanitarie, non conoscono le nozioni
elementari della profilassi di alcune patologie; per cui c’è tutto un
lavoro soprattutto di questo tipo che si fa con loro: si fa sia nel momento in cui loro arrivano qua [alla ASL, N.d.R.] e sono in attesa
di essere ricevuti dal medico e ti chiedono già delle cose… noi facciamo questa specie di filtro, in qualche modo, prima di entrare dal
medico; molti di loro hanno anche la difficoltà a spiegare che cosa
hanno, per cui ci chiedono di accompagnarli all’interno della visita:
queste sono richieste che provengono dall’utenza. Qualche volta la
richiesta viene anche da parte del medico, ma sempre con il consenso dell’utenza […] Anche se si traduce subito quello che il medico
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dice, loro non capiscono le cose: bisogna spiegarle in modo che
l’utente lo capisca. A volte il medico segna sul ricettario una medicina e l’utente non capisce perché il medico non gliela dà subito […]
c’è tutta una parte sanitaria che va aiutata a gestirla […] loro non
sanno neanche che la cura deve essere seguita costantemente: loro
pensano che basta prendere una pillola: se gli fa male, fra sei giorni
prendono un’altra pillola. Noi interveniamo anche in questo caso
e gli spieghiamo che la cura deve essere seguita: tu devi prendere
oggi una pillola, domani un’altra pillola e glielo dobbiamo spiegare
parola per parola, come ad un bambino. [Julia e Tania, mediatrici
culturali, assoc. Il Pioppo, Scampia].
Come ad un bambino: questa è la condizione di partenza del rapporto sanitario. Anche con gli adulti occorre rapportarsi come se fossero dei bambini, perché c’è tutta una parte sanitaria da gestire. La
mediazione linguistica è solo un aspetto della gestione: occorre far
capire che le cure mediche necessitano di un’attenzione e di una continuità che spesso viene sottovalutata, giacché viene sottovalutato il
problema che sta alla base:
Perché loro hanno una grossa difficoltà: non conoscono i giorni
della settimana, a stento conoscono l’anno; e quindi prenotare una
visita a due o tre mesi risulta molto complicato da ricordare. È vero
che nei campi ci sono gli addetti del Comune e gli operatori delle
associazioni, ci sono le persone fisse… però è logico che… se io gli
do una ricetta, e se se la mette in tasca e nella migliore delle ipotesi
ci giocano i bambini che la fanno in mille pezzi, oppure la buttano
da un’altra parte – e anche con la prenotazione succede così; quindi,
diventa anche più difficile gestire la visita […] da parte loro c’è una
forte sottovalutazione del problema-salute: ci sono persone con i
trigliceridi a “800”, cose mai viste in vent’anni di esperienza in vari
ospedali, a causa del loro abuso alimentare: mangiano molta carne
di maiale, cose fritte, patatine fritte, poi bevono molta birra… [Mazzella, dirigente sanitario distretto 28, Napoli].
Una cattiva alimentazione determina alcuni problemi di salute, e
una scarsa (o inesistente) educazione sanitaria determina la mancanza
di cura, rafforzata peraltro da una difficoltà a comprendere la scansione del tempo. Un lavoro difficile, perché occorre agire su più fronti
contemporaneamente, su quello alimentare come su quello terapeuti81
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co, non ultimo quello relativo all’attesa e alla pazienza di fronte alle
inadempienze burocratiche.
Uno dei problemi per loro è prenotare una visita perché c’è tutto
un protocollo per cui bisogna prenotarsi prima di fare una visita.
Dovendo prenotare nelle strutture pubbliche e spesso bisogna farlo di persona, perché molti CUP (Centro Unico di Prenotazione,
N.d.R.) accettano solo prenotazioni di persona, c’è il problema che
spesso le liste d’attesa sono lunghissime e bisogna allora intervenire
per aiutare… per fortuna ci sono medici volenterosi, e chiamano i
colleghi per prenotare la visita. Anche perché gli utenti mancano
di costanza, per cui nel momento in cui li riesci ad “acchiappare”
subito, nel giro di poco gli fai fare la visita; allora la persona segue
quello che deve fare. Ma se passano tanti mesi tra la prima visita e
la prenotazione successiva, magari si sentono bene e spesso e volentieri abbandonano la cura. E quindi anche questa cosa, dell’attesa, diventa un ostacolo. [Julia e Tania, mediatrici culturali, assoc. Il
Pioppo, Scampia].
Se la lentezza burocratica è difficile da accettare per un italiano,
figurarsi per uno straniero, o quantomeno per un Rom che abbia scarsa dimestichezza con le istituzioni. Purtroppo si pone qui con drammatica evidenza il limite della scelta dei campi-sosta come mezzo
per affrontare il problema della permanenza dei Rom sul territorio
italiano. Trasformandoli in ghetti, si sono poste le condizioni per una
loro emarginazione sociale, prim’ancora che fisica. Tra i vari passaggi
delle interviste, si nota come spesso manchino le normali conoscenze
sociali di base per affrontare una vita di relazione, in un Paese che per
molti di essi è il loro, perché vi sono nati.
A complicare la questione talvolta sono gli stessi distretti sanitari
che, nonostante il costante lavoro svolto dal SASCI, non sono informati sulla normativa di riferimento e sulle procedure da attuare e
mettono in difficoltà i pazienti che vi si sono recati.
Alcune volte, quando noi richiediamo delle visite specialistiche,
vanno nelle ASL e li costringono a pagare il ticket, altrimenti non
erogano la prestazione. Noi diciamo: “Facci chiamare, perché
non sono informati in quanto… già il codice STP indica di per sé
un’esenzione; le ASL dovrebbero saperlo”; allora non c’è una conoscenza adeguata di questa realtà. Alcuni Rom pagano; altri invece o
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ci fanno telefonare – per cui spieghiamo che loro sono esenti – oppure se ne vanno. Succede ancora oggi: dieci giorni fa, ad una bambina che aveva prenotato una consulenza in cardiologia al Monaldi,
il papà ha dovuto pagare il ticket. Non conosco il motivo per cui le
strutture non si adeguano alla… io le posso solo segnalare il problema. [Mazzella, dirigente sanitario distretto 28, Napoli].
La normativa nazionale e regionale ha facilitato l’accesso ai servizi sanitari agli stranieri, siano essi in regola siano essi in regime di
STP: tuttavia, non tutti i distretti sanitari di Napoli sono a conoscenza delle disposizioni legislative, e talvolta obbligano i Rom a pagare
prestazioni da cui sono esenti. Sotto questo profilo, la mancanza di
certezze nella erogazione delle prestazioni di cura non facilita il cammino verso una progressiva forma di autonomia dei Rom dalle figure
di riferimento istituzionali, nonostante la buona volontà dei mediatori
culturali:
Molti di loro hanno paura ad affrontare le situazioni, perché hanno
paura di essere discriminati. All’inizio eravamo affollati… adesso la
situazione è più tranquilla, nel senso che da noi arrivano ora quelli
che veramente ne hanno bisogno, perché hanno capito che da noi la
disponibilità è fino a che gli serve, che devono rispettare il nostro
lavoro, perché in questo senso loro si responsabilizzano. Noi gli diciamo: “Io lo posso fare, ma guarda che là [all’ambulatorio, N.d.R.],
ci puoi andare anche tu”. [Julia e Tania, mediatrici culturali, assoc.
Il Pioppo, Scampia].
In sostanza, i Rom inizialmente si appoggiano a delle figure di
riferimento, per muoversi nei percorsi di accesso ai servizi sanitari; le
risposte che incontrano soddisfano, per quanto possibile, le loro esigenze; talvolta, si scontrano con lentezze e inadempienze di tipo burocratico, che rendono irti di ostacoli tali percorsi; chiaramente, vuoi
per le difficili condizioni ambientali in cui vivono, vuoi per una difficoltà iniziale a comprendere il concetto di cura, l’educazione sanitaria
e l’autonomia nel rapporto con il sistema sanitario è un traguardo ben
lontano dall’essere raggiunto. Tuttavia, alla luce del lavoro effettuato
in questi anni dai distretti sanitari e dal coordinamento, si può dire che
il cammino verso una maggiore consapevolezza nel godimento dei
diritti sanitari è comunque avviato, anche se il quadro generale non
può non tingersi di colorazioni in chiaroscuro.
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3.3 A Prepezzano la solidarietà si ferma vicino ai Rom13
Il Comune di Giffoni Sei Casali si trova nell’entroterra salernitano, a ridosso dei Monti Picentini, distante diciotto chilometri dalla
città di Salerno. Nelle sei frazioni di Giffoni14, da cui l’appellativo
“Sei Casali”, vivono all’incirca cinquemila abitanti, per lo più occupati in agricoltura.
In queste zone il lavoro nei campi rappresenta il principale bacino
di occupazione per molti immigrati. Non pochi, infatti, sono i lavoratori stranieri che nelle stagioni dei raccolti (nocciole, mele, olive, etc.)
giungono nei principali centri agricoli della provincia spinti dall’opportunità di un’occupazione nelle aziende agricole locali. Si tratta
di attività di bracciantato inquadrate all’interno di rapporti di lavoro
spesso irregolari e di conseguenza con scarse garanzie, sia sul piano economico che su quello della qualità/sicurezza del lavoro. Non
sono rari i casi in cui questi lavoratori sono vittime di procacciatori di
manodopera (i cosiddetti “caporali”), che impongono agli immigrati
condizioni lavorative e di vita alquanto disagevoli15.
È all’interno di un tale contesto sociale ed economico, in cui
l’immagine prevalente dell’esclusione sociale è incarnata dalla figura di lavoratori immigrati, che ha luogo l’incontro tra gli abitanti di
Giffoni e i Rom. Un incontro avvenuto quasi per caso, determinato
dall’esplodere, nell’estate del 2003, della questione Rom a Napoli.
Nella notte tra il 28 e il 29 giugno del 200316 circa 200 Rom rumeni,
da qualche settimana accampati, in condizioni di totale abbandono,
presso i giardini antistanti la stazione centrale di Napoli, vengono
condotti nel Comune di Saviano, presso un’area di proprietà del Comune di Napoli, la Cisternina, dove era stato attrezzato un centro di
prima accoglienza dotato di roulotte e bagni chimici. Il trasferimen13 Il presente paragrafo è una rielaborazione della Sezione 3.3, a cura di Roberto
De Angelis e Marco Brazzoduro, disponibile in IREF 2010b.
14 Capitignano, Prepezzano, Sieti Alto, Sieti Basso, Malche e Capocasale.
15 Secondo alcuni recenti rapporti di ricerca sul lavoro straniero in agricoltura
[Inea 2009, MSF 2008], nelle campagne del Sud Italia i braccianti immigrati lavorano in media 8-10 ore al giorno, con salari giornalieri di circa 30 euro. In aggiunta,
la maggior parte di questi lavoratori vive in strutture fatiscenti (ruderi e casolari
abbandonati) prive dei normali servizi domestici (acqua, luce e riscaldamento).
16 Per una ricostruzione più dettagliata degli avvenimenti del 28/29 giugno, si
rimanda alla lettura del resoconto stenografico del Senato, del 2 luglio 2003 n. 428,
riguardante la relazione redatta dal senatore Tommaso Sodano sui fatti avvenuti in
quelle giornate.
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to dei Rom a Saviano recepiva un’ordinanza della protezione civile
che imponeva al Comune di Napoli di intervenire con rapidità per
far fronte ad una situazione che con il passare dei giorni aveva assunto proporzioni di vera e propria emergenza umanitaria. All’arrivo
nell’area della Cisternina un comitato di cittadini di Saviano, con in
testa il sindaco ed esponenti politici locali, contestò duramente l’ordinanza della Protezione civile tanto da bloccarne l’attuazione. I duecento Rom, di cui molti minori, passarono tutta la notte sui pullman
in attesa di una nuova sistemazione. Nei giorni successivi l’intero
Assessorato alle politiche sociali del Comune di Napoli, con a capo
l’assessore Raffaele Tecce, attivò una serie di contatti con le organizzazioni del privato sociale, anche fuori la provincia partenopea, alla
ricerca di strutture che potessero ospitare quante più famiglie rom
possibili.
È in questo clima di emergenza e concitazione che l’Associazione
Oasi entra in contatto con il “problema Rom”:
Questi Rom che sono nelle case di Prepezzano, di Montecorvino,
sia quelle dell’Associazione Oasi che le altre, sono stati intercettati
da me circa 7 anni fa… e quindi quando fui interessata all’epoca
dall’assessore Tecce del comune di Napoli, tramite la d.ssa Taliento
che seguiva famiglie Rom per un’associazione su Napoli, mi chiesero se per caso avendo io relazioni e conoscenze qui, se potevo in
qualche modo individuare delle strutture che potessero accogliere
un po’ di queste famiglie, che da quest’esodo massiccio, provenienti
dalla Romania, avevano occupato allora circa 200 famiglie, proprio
la stazione di Napoli. Così furono in un primo momento accolti in
un centro sociale, poi ad una porzione di queste famiglie facemmo
visitare una casa che era allora a Montecorvino. E quindi da lì, ufficialmente, abbiamo sistemato due famiglie poi, a rotazione, ci sono
stati diversi inserimenti; insomma siamo arrivati ad ospitare ahimé,
anche in 120 130 mq., fino a 50, 60 presenze. Queste come fisse.
Perché poi attorno a queste ruotavano i bisogni di moltissime altre
famiglie. Di queste poi scelsero di rimanere alcune e una piccola
porzione di queste oggi è presente a Prepezzano, frazione di Giffoni
sei Casali. [M.L.M., volontaria dell’Associazione Oasi].
Questo passaggio, peraltro, evidenzia il ruolo svolto dal Comune
di Napoli nel tamponare l’emergenza umanitaria determinatasi con la
mancata sistemazione dei Rom nell’area della Cisternina. Un’azione,
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quella messa in campo dall’Assessorato ai servizi sociali del capoluogo partenopeo, che si è sviluppata su un duplice livello d’azione:
istituzionale, contattando altri enti locali; informale, in cui ciascun
operatore si è speso in prima persona, mettendo mano alla propria rete
di contatti per la risoluzione in tempi rapidi di una situazione che con
il passare del tempo avrebbe ancor più compromesso il già precario
stato abitativo e igienico-sanitario cui versavano i Rom a Napoli.
C’è da aggiungere che gli stessi volontari dell’Associazione Oasi
hanno a loro volta attivato la propria rete di contatti territoriali, interessando del problema la parrocchia di Giffoni Sei Casali, e mettendo
a disposizione un casolare di campagna, posto nella frazione di Prepezzano.
Il casolare in questione è situato in campagna ai piedi di un rilievo
collinare coltivato a olive, castagne e nocciole. È dotato di sette
stanze ognuna delle quali ospita una famiglia di Rom per un totale
di circa 40 individui; in media quasi sei individui per stanza. Dista circa 300 metri dall’abitato di Prepezzano. L’edificio, con piano
terra e primo piano, è stato concesso in uso alle famiglie rom che
pagano le utenze e curano la manutenzione ordinaria. [IREF 2010b:
80].
Sicché nell’estate del 2003 giunsero le prime famiglie di rom rumeni, tutte originarie della città di Calarasi, ospitate nel casolare di
campagna. Per i volontari dell’Oasi, e per la stessa città di Giffoni
Sei Casali, l’arrivo dei Rom segna l’inizio di una nuova esperienza
di ospitalità. Difatti, già nel passato il casolare di Prepezzano aveva
dato riparo a persone in difficoltà, un gruppo di immigrati senegalesi
arrivati nel Comune di Giffoni per lavorare come braccianti agricoli
nelle campagne circostanti. Ma il passaggio dagli immigrati ai Rom,
per la comunità di Giffoni, non ha rappresentato soltanto il dover familiarizzare con nuovi volti, altri idiomi e diversi modi di abbigliarsi,
bensì una fonte di immediata preoccupazione legata al corredo di stereotipi negativi che da sempre accompagna le popolazioni rom. Per
stemperare lo stato d’inquietudine suscitato dalla presenza dei Rom,
i volontari dell’Oasi hanno svolto un lavoro di mediazione con la popolazione locale, andando casa per casa a rassicurare i vicini:
[…] Dovemmo fare un’opera di mediazione prima di accoglierli definitivamente, per cui andai a trovare casa per casa, da tutte le per86
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sone per dire: “Guardate, state tranquilli, anche se sono Rom, però
non vi preoccupate, sono seguiti da noi”. Infatti è stato faticoso coi
vicini, non dico che siamo arrivati quasi alle denunce però è stata
durissima. Questa fase qua la ricordo proprio con una grande tensione, preoccupazione! [M.L.M., volontaria dell’Associazione Oasi].
Il porta a porta per rassicurare il vicinato delle buone intenzioni
d’integrazione della comunità rom rappresenta una novità significativa rispetto al modo con cui in altri contesti si è gestita la questione
Rom. La scelta di stabilire con gli abitanti di Prepezzano un confronto
diretto è risultata, a lungo andare, fruttuosa, poiché ha consentito di
definire un terreno di condivisione e di conoscenza reciproca, allentando via via le resistenze iniziali nutrite dalla comunità locale.
Oltre a ricercare un costante rapporto con i residenti di Giffoni Sei
Casali, l’Associazione Oasi si è posta a tutela e in difesa delle famiglie rom. Non sono stati rari i casi in cui le stesse famiglie rom sono
state vittime di raggiri e di episodi di sfruttamento da parte di caporali, che promettevano loro compensi per lavori svolti nelle campagne
circostanti, promesse che invece, terminata la stagione dei raccolti,
venivano puntualmente disattese. La condizione di estremo bisogno
e la mancanza di un regolare permesso di soggiorno rendeva i Rom
di Prepezzano estremamente vulnerabili e ricattabili. In ragione di
ciò, i volontari dell’Oasi hanno intrapreso una serie di azioni volte
alla promozione e alla tutela dei loro diritti. Un impegno questo che
si è indirizzato innanzitutto verso il riconoscimento giuridico della
presenza di queste famiglie sul territorio nazionale. Da questo punto di vista, grazie ad un’interpretazione estensiva dell’art. 31, terzo
comma del Testo unico sull’immigrazione, tutte le famiglie Rom di
Prepezzano, per un totale di circa sessanta persone, hanno ottenuto il
permesso di soggiorno.
La regolarizzazione ha rappresentato una tappa obbligata nel percorso d’inserimento sociale intrapreso dai Rom di Prepezzano. Nel
giro di pochi anni, con l’ottenimento del permesso di soggiorno, le famiglie rom hanno avuto la possibilità di migliorare progressivamente
la loro condizione di vita, sia da un punto di vista abitativo e occupazionale che da quello riguardante la scolarizzazione dei figli. Si è
effettivamente realizzato ciò che sosteneva la volontaria dell’Oasi ai
tempi delle battaglie per il riconoscimento giuridico delle famiglie
rom, ovvero che la loro fuoriuscita da una condizione di soggiornanti
illegali avrebbe avuto ricadute positive da molti punti di vista, anche
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sul versante dell’ordine pubblico. La regolarizzazione ha dato modo
a queste persone di poter rivendicare i propri diritti e al contempo di
assolvere pienamente ai loro doveri di cittadini.
Alcune delle famiglie rom, che qualche anno prima avevano sperimentato sulla loro pelle il clima di avversione e di rifiuto nutrito da
una parte consistente della popolazione italiana, oggi hanno lasciato
il casolare di campagna di Prepezzano e sono andate a vivere in appartamenti in affitto: un passo, questo, che testimonia il buon livello
di integrazione ed emancipazione raggiunto dai Rom a Giffoni Sei
Casali:
D: Sei contento di stare qui? R: Diciamo di sì… D: Ma lì avete la
casa a Calarasi? R: Miei genitori, mia suocera sì… D: Vai coi tuoi
genitori, i tuoi suoceri… Senti, magari tu riesci a risparmiarti dei
soldi per farti la casa in Romania? R: Lavoriamo… D: Lavorate
tanto… perché il sogno di molti dei Rom è quello di tornare a farsi
la casa? R: Sì, è questo. D: Vi trovate bene in questa casa? R: Sì.
D: Quante stanze ha? R: Due stanze, questo salone, il bagno e la
cucina. D: E vivete qua in quante persone? R: Ma siamo sei persone.
[N.M., 2 figli, intervista n. 5].
Il miglioramento della condizione abitativa è dovuto al soddisfacente inserimento dei Rom nel sistema produttivo e occupazionale
nell’economia picentina e, in particolare, in quella giffonese basata principalmente sulla coltivazione e produzione di nocciole, mele
e olive. Molti uomini della comunità rom di Prepezzano lavorano
come braccianti agricoli nelle aziende locali17; mentre, per quanto
riguarda le donne, alcune lavorano nelle aziende agricole con i loro
mariti; altre, invece, lavorano nelle serre disseminate lungo la piana
del Sele. Inoltre, una famiglia svolge l’attività, ormai etnicamente
connotata, della raccolta e della vendita di materiale metallico. Nel
settore dei servizi c’è da annotare almeno un caso di una donna Rom
assunta in qualità di collaboratrice domestica e, infine, due uomini
hanno trovato un impiego da autisti presso le ditte di autotrasporto
della zona.
Sono, invece, rari i casi di famiglie che per necessità praticano
l’elemosina, quando viceversa nello studio di caso realizzato nella
17 Spesso la durata di una giornata di lavoro è di 13-14 ore, con un guadagno
giornaliero di 30/40 euro.
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città di Catania (vedi par. 6.5) la quasi totalità delle donne del campo
di Zia Lisa, originarie anch’esse di Calarasi in Romania, fanno la questua per le strade della città.
L’irrilevanza numerica delle famiglie che a Giffoni praticano il
manghél (l’elemosina) testimonia come questa attività non derivi
da un presunto tratto culturale tipico di questi gruppi etnici, quanto
se mai da stringenti necessità economiche. Non è difficile immaginare come, posti di fronte alla scelta tra la possibilità di ottenere
un lavoro o quella di andare ad elemosinare per le vie della città,
la totalità dei Rom sceglierebbe il lavoro come mezzo primario di
sostentamento.
Istruttive, a tal proposito, sono le parole di una donna rom di Giffoni che al momento dell’intervista era costretta a chiedere l’elemosina per le strade di Salerno, non avendo al momento dell’intervista
un lavoro:
Per le donne proprio non ci sono il lavoro. Per i uomini a volte si
trovano ma per i donne neanche non ci vanno a lavorare. Stesso le
dicono la gente quando le vediamo dal mercato e facciamo elemosina: “Ma che stai facendo qua, sei giovane! Vai a lavorare!”. “Signora, io… Io voglio lavorare! Signora, ma se io avevo un lavoro, io
andavo! Se tu mi trovi un lavoro io vado!” […] ma io che sto avanti
di un mercato, e pure mi vergogno, pure anche mi stanco, mi scoccio… ogni persona che viene ti prende in giro […] E a volte altri
dicono così: “Sì, hai ragione!”. Solo così una parola per scappare,
perché loro prima ti dicono una cosa che prendono come in giro,
non lo so… R: … Così: a volte trova il lavoro da montagna quando
ci sono o sennò le donne vanno a chiedere elemosina al supermercato […] Sì, chiede l’elemosina perché ce l’ho i bambini. [C.F., 32
anni, nubile, intervista n. 8].
Per questa donna mendicare rappresenta la soluzione estrema per
garantirsi una qualche forma di sostentamento. Per lei, come per la
maggior parte dei Rom, è il lavoro il mezzo principale attraverso il
quale emanciparsi da un condizione di profonda fragilità economica.
Da qualche mese l’intervistata non ha più un’occupazione, in precedenza lavorava nelle campagne intorno a Giffoni Sei Casali: raccoglieva le nocciole. La fine della stagione del raccolto ha comportato la
cessazione del suo rapporto di lavoro. Il venir meno dell’unica fonte
di reddito familiare e l’impossibilità di trovare nell’immediato un’al89
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tra occupazione, ha costretto l’intervistata a chiedere l’elemosina per
le strade di Salerno.
La speranza di un lavoro è sempre viva nell’intervistata: un sentimento questo che mal si concilia con il pregiudizio di chi considera
i Rom persone che preferiscono andare ad elemosinare piuttosto che
assumersi le responsabilità connesse ad una qualsivoglia attività lavorativa.
In generale, la volontà dei Rom di Giffoni di contribuire con il
proprio lavoro allo sviluppo della società che li ha ospitati è testimoniata dal buon esito del percorso d’inserimento sociale che hanno
intrapreso fin dal loro arrivo nel piccolo centro picentino.
L’esperienza d’inclusione sociale che si sta portando avanti nel
Comune di Giffoni Sei Casali rappresenta, per certi versi, un’eccezione, se accostata al modo in cui, nel Sud Italia come altrove, viene di
norma affrontata la questione dell’integrazione sociale delle popolazioni rom. A Giffoni Sei Casali, fin dal primo momento, le famiglie
Rom hanno vissuto in una struttura residenziale in muratura, non lontana dal centro abitato. Una soluzione che è in controtendenza rispetto all’adozione di modelli insediativi fondati su logiche securitarie,
che hanno prodotto la proliferazione di campi-sosta in tutto il paese:
strutture spesso distanti dal centro abitato e al cui interno le condizioni abitative e di vita risultano assai precarie.
L’esperienza di Giffoni Sei Casali consente, peraltro, di rintracciare in essa alcune pratiche d’intervento che fuoriescono dalla normale prassi istituzionale, la quale fa della “questione Rom” un fattore
destabilizzante da tenere sotto controllo attraverso l’adozione di interventi che accrescono l’isolamento spaziale e relazionale dei rom
rispetto al contesto sociale in cui vivono. Lontano da questo modo
di intendere il rapporto tra Rom e gagè è il lavoro di mediazione che
l’Associazione Oasi ha svolto per “avvicinare” le famiglie romanì e
gli abitanti di Giffoni. Gli stessi abitanti di Giffoni Sei Casali, rispetto
a sette anni prima, percepiscono la presenza dei Rom non più come
una minaccia incombente, ma come lavoratori stranieri che vedono
nel nostro Paese un luogo in cui emanciparsi da una condizione di
vita precaria. Famiglie che vivono del proprio lavoro, svolgendo i lavori più umili, percependo salari molto bassi da non consentire loro di
andare oltre la soglia della mera sussistenza. Persone che, come molte
altre, sul loro sacrificio fondano la speranza per un futuro migliore per
sé, ma soprattutto per i loro figli.
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R: Nella Romania, là non ce l’hai lavoro, se paga tutto, i bambini
non vano alla scuola perché se paga la scuola, io non lavoro, mia
moglie non lavoro. Tutti quanti sta così… Io perciò arrivato qua in
Italia, per lavorare io, anche mia moglie questa cosa per loro. Per
andare a scuola, per fare una vita più… non com’è la mia […] Per
fare sacrifici per mio figlio… perché noi stiamo qua per mio figlio,
per fare la scuola, già sono la scuola qua. [N.M., 2 figli, intervista
n. 5].
Queste parole mal si accostano al repertorio di luoghi comuni sui
Rom (non hanno voglia di lavorare; rubano; non mandano i figli a
scuola, etc.), trovando invece corrispondenza di contenuti nelle aspettative per un futuro migliore che nutrono migliaia di immigrati che
vivono e lavorano nel nostro Paese.
Va precisato, tuttavia, che la sovrapposizione dell’immagine dei
Rom di Giffoni a quella degli immigrati, se, per certi aspetti, rappresenta una nota positiva, non esaurisce il problema della loro integrazione nel tessuto del nostro Paese. Infatti, affermare che tra la
popolazione del piccolo Comune picentino le famiglie Rom sono ormai percepite alla stregua dei molti braccianti agricoli stranieri, non
equivale a sostenere che gli immigrati hanno ormai raggiunto una
posizione sociale che consente loro di rivendicare condizioni di vita
migliori, tutt’altro; l’accostamento dei Rom agli immigrati sintetizza
l’idea che gli stessi lavoratori Rom sono tollerati dalla popolazione
locale in quanto persone utili per produrre reddito, e quindi costituiscono una ricchezza per il paese. In breve, anche per il razzismo non
si può non notare come vi sia una sorta di scala del pregiudizio, che
vede i Rom saldamente attestarsi all’ultimo posto.
Certo, se paragonato al tenore di vita cui si è soliti confrontarsi
quando si analizza la condizione dei Rom stranieri che dimorano nel
nostro Paese, Giffoni Sei Casali presenta dei tratti di eccezionalità18.
Un’anomalia in parte dovuta a fattori di tipo ambientale e legati all’ordine di grandezza del fenomeno. Più in dettaglio, il contesto produttivo della zona, principalmente basato su un’economia agricola, ha
permesso ai Rom di inserirsi in un mercato del lavoro caratterizzato
da una domanda di manodopera non qualificata e a buon mercato,
18 Un ulteriore indicatore del buon grado d’inserimento sociale raggiunto dalla
comunità rom di Giffoni riguarda il loro livello di scolarizzazione. La totalità dei
minori frequenta le scuole elementari e medie del Comune, mentre due ragazzi
stanno studiando per conseguire un diploma di scuola media superiore.
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andando a svolgere quei mestieri che solitamente sono appannaggio
esclusivo degli immigrati come, ad esempio, il bracciante agricolo,
l’operaio nelle serre o, ancora, la collaboratrice domestica. Inoltre,
la presenza di un numero contenuto di famiglie ha reso meno difficile il loro inserimento nella comunità ospitante, attenuando l’impatto
emotivo che spesso suscita nell’opinione pubblica la visione destabilizzante di una moltitudine di persone ammassate dentro i campi
rom. Le particolari caratteristiche del contesto d’insediamento, unite
all’adozione, da parte dell’Associazione Oasi, di una metodologia
d’intervento centrata sull’accompagnamento e sulla reciproca conoscenza tra abitanti e comunità rom, ha consentito di rendere più concreta e meno utopistica l’idea che si possano dare le condizioni per
una positiva integrazione dei Rom nel nostro Paese.
Tuttavia, si è detto in precedenza, il caso di Giffoni Sei Casali rappresenta un’eccezione nel modo in cui di solito è gestita la questione
Rom in Italia. Infatti, basta spostarsi qualche chilometro più in là,
in località Lido Spinetta19, per ritrovare, nelle parole dei Rom, quella rassegnazione desolante, frutto di una condizione di vita inumana
che alimenta nell’opinione pubblica immagini minacciose ed episodi
d’intolleranza e di disprezzo.
Anche io voglio cambiare la vita con i miei figli, non stare un giorno qua e un giorno là come dei cani. Per i cani hanno aperto qua
a Salerno una casa, se vedi che casa gli hanno dato per i cani…
incredibile! Te lo giuro i cani vanno sul balcone e vedono giù. Piace
più aiutare ai cani che ai genti umani, esseri umani, figli di Dio,
non lo so […] Io sono ormai grande: io posso resistere anche alla
fame, anche tutto. Ma i miei figli, per i miei figli mi dispiace, per
questi bambini che sono senza la scuola e poi quando cresceranno
non sanno scrivere, né a leggere… Poi vanno da qualche parte, si
perdono, non sanno dove sono né leggono niente! [S.B., 20 anni, 2
figli, intervista n. 1].
19 “In questa località, una spiaggia a sud di Salerno, è insediata una comunità
di Rom khorakhanè provenienti dalla Bosnia, ma ormai in Italia da oltre venti anni.
Il campo si presenta come un aggregato di roulotte e camper dislocati sull’arenile.
I Rom si sono insediati qui dopo una serie di sgomberi avvenuti a S. Nicola Varco
(Eboli) e sono consapevoli che con l’approssimarsi della stagione estiva saranno
sollecitati a spostarsi altrove. Questa condizione di nomadismo forzato è vissuta con un sentimento misto di rassegnazione, impotenza e rancore” [IREF 2010b:
92].
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In questo passaggio sono condensate le immagini con le quali si è
soliti confrontarsi quando si cerca di descrivere le condizioni di vita
dei Rom stranieri che risiedono nel nostro Paese.
Un’esistenza il più delle volte consumata in baracche, roulotte e
container in cui le condizioni abitative e igieniche sono ben al di sotto
di una soglia minima di decenza; nell’assenza cronica di un’occupazione o, al più, con lavori irregolari, faticosi e scarsamente remunerativi; infine, in una condizione insediativa instabile, continuamente
minacciata da ordinanze di sgombero che rendono difficile la realizzazione di qualsiasi tipo di progetto d’integrazione sociale.
Eppure la comunità di Rom bosniaci accampati sul litorale salernitano non è poi così diversa da quella che risiede nel Comune di
Giffoni Sei Casali. Del resto, le stesse famiglie rom che vivono a
Giffoni, durante il loro periodo di permanenza nella città di Napoli
versavano in uno stato di abbandono del tutto analogo a quello lamentato dai Rom di Lido Spinetta. A fare la differenza fra i due contesti
insediativi è l’attivazione nel Comune picentino di un processo di
presa in carico delle famiglie rom provenienti da Napoli, che si è
concretizzato in un intenso lavoro di accompagnamento, cui fa da
contraltare la desolante assenza da parte delle istituzioni riscontrata
nell’insediamento di Lido Spinetta.
Da qui, dunque, è agevole comprendere il tono di rassegnazione
che affiora dalle interviste realizzate ai Rom di Lido Spinetta, derivante dall’isolamento, prima di tutto relazionale, che li caratterizza.
Un’emarginazione frutto della mancanza di una presa in carico da
parte delle istituzioni e della società civile.
Va da sé che l’esperienza di Giffoni Sei Casali, per diversi aspetti,
rappresenta l’eccezione che conferma la regola, tant’è che a soli pochi
chilometri di distanza, in direzione del mare, torna attuale l’immagine
che solitamente accompagna il tema dei Rom nelle nostre città: scene
di desolazione e mancanza di prospettiva, che rendono il problema
Rom un groviglio inestricabile. A riguardo, l’esperienza di Giffoni
Sei Casali offre alcune delle risposte nel districare la matassa. Per essere realmente efficaci, andrebbero adottate soluzioni che impongono
un cambiamento di prospettiva rispetto al tradizionale modo di approcciare il problema, per esempio adottando una prospettiva d’intervento che fa dell’accompagnamento e della conoscenza reciproca la
base su cui fondare azioni di inclusione sociale, in grado di abbattere
le barriere che solitamente separano i Rom dal resto della società.
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3.4 “Era dai tempi di Poggioreale che non mi facevo una doccia”. Servizi per l’integrazione e dignità dei Rom
L’esperienza comparata di Giffoni Sei Casali e di Lido Spinetta
trova in parte riscontro nel capoluogo partenopeo, nel bene come nel
male.
La presa in carico dell’ente pubblico, l’accompagnamento della
società civile attraverso l’associazionismo, la conoscenza reciproca
tra italiani e Rom stranieri sono fattori necessari per avviare un processo di integrazione. Per quanto riguarda Giffoni, poi, vi è da dire che
la particolare forma di economia del territorio ha favorito certamente
l’ingresso di alcuni Rom nel mercato del lavoro, fattore determinante
per avviare un reale circolo virtuoso di inclusione sociale.
A conclusioni simili è giunta anche l’esperienza napoletana, con la
differenza che lì l’integrazione dei Rom è ancora un processo lungo e
faticoso, certamente non avanzato come nell’esperienza di Sei Casali. Non facilita il contesto metropolitano, anonimo, spersonalizzante,
difficile per tutti, figurarsi per i Rom, alla luce altresì della particolare
complessità del capoluogo campano. Non mancano, tuttavia, alcune
luci, frutto di quel percorso di avvicinamento che trova significative
sovrapposizioni nell’esperienza di Giffoni. Luci e ombre ora brevemente richiamate per fare il punto sulla situazione dei Rom in Campania.
Innanzitutto, vi è da dire che le manovre dall’alto e per imposizione non sembrano funzionare. Gli sgomberi risolvono il problema
in un quartiere, ma a ben vedere lo spostano in un altro. Non solo:
gli investimenti effettuati sul fronte dell’integrazione (bambini rom a
scuola, presa in carico delle associazioni locali, dialogo con la cittadinanza), con lo sgombero vengono irreparabilmente interrotti, e occorre ricominciare da capo altrove. Significative, in tal senso, le parole
espresse dal presidente delle ACLI di Napoli, Pasquale Orlando:
Non è che la presenza dei Rom sia una novità: ci sono sempre stati.
Se garantisci i servizi all’integrazione, l’integrazione si può raggiungere; se non garantisci servizi all’integrazione, non è che puoi avere
risultati positivi dal punto di vista dell’effetto, dell’ordine pubblico,
del rapporto con il territorio… è più semplice favorire l’integrazione garantendo servizi, altrimenti… l’idea degli sgomberi non è risolutiva: tutti quelli realizzati sono il segno di una mancanza di servizi
e di una mancanza di attenzione comune ad un problema che deve
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essere di tutta la città e non solo di un quartiere; quando poi li sposti
in un altro quartiere il problema si ripropone. La questione dunque
è garantire servizi per favorire la normalità dell’integrazione, ma
anche la libertà delle scelte, ovviamente con incentivi e disincentivi: se tu vai a scuola, etc.; se invece non vai a scuola, diciamo, te
ne vai: diritti e doveri, all’interno di una disciplina concordata, che
deve produrre risultati. Non c’è molta alternativa in verità: se uno
non investe in integrazione poi deve investire in sicurezza: ma è una
sicurezza che poi non si può mai raggiungere perché succedono le
rivolte, i quartieri, gli stessi Rom… bisogna decidere di spendere
qualcosa per garantire il miglior risultato a tutti. [Pasquale Orlando,
presidente ACLI Napoli].
Gli interventi vanno dunque concertati attraverso una politica di
prima accoglienza più complessa, che non si limiti a garantire una
ospitalità emergenziale, o peggio ancora una politica di sgombero; e
che miri a costruire un rapporto di reciproca assunzione di diritti e di
doveri. La presa in carico del territorio e dell’ente pubblico avviene
in tal modo in un contesto di assunzione di responsabilità anche da
parte dei Rom. Sotto questo profilo, la firma del patto di cittadinanza
tra le autorità partenopee e i Rom del villaggio autorizzato di Scampia
ne costituisce un esempio concreto. È un cambiamento di filosofia
importante, giacché si abbandona la logica securitaria e si abbraccia
la logica del “progetto esistenziale”, che comprende un luogo stabile
dove vivere – ratificato dagli attestati di dimora; l’inserimento dei
bambini a scuola, con obbligo di frequenza; la ricerca di un lavoro,
quantomeno nelle intenzioni; la cura igienica e sanitaria, testimoniati
dal rapporto oramai ultradecennale tra i Rom del campo e l’ambulatorio dedicato.
È chiaro che un patto di cittadinanza non può non contemplare
il coinvolgimento della popolazione locale. Il grosso lavoro di sensibilizzazione della cittadinanza condotto a Giffoni da parte dell’associazionismo ha costituito il pre-requisito perché si disinnescassero
meccanismi di violenza verbale e di contrapposizione stereotipata e
perché si avviasse un lento percorso di riconoscimento sociale dei
Rom. Sempre Orlando riassume con chiarezza l’importanza di tale
lavoro, che bisogna effettuare per preparare il terreno a qualsiasi forma di intervento:
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Ci sono dei periodi in cui c’è bisogno delle associazioni, anche se
non sono impegnate nei campi nomadi o nell’attività diretta per i
Rom, per far passare il ragionamento […] che pure, quando non c’è
risposta sui servizi, ogni tanto maturano delle scelte… maturano
movimenti negativi, di non accoglienza, di violenza; nascono soprattutto perché non ci sono servizi, e da un lato si creano situazioni
di abbandono, di furti, di rapine, di cumuli di immondizia; e dall’altro situazioni di ignoranza; e quindi bisogna continuare a spiegare
nei quartieri [dove sono i campi rom, N.d.R.] che le soluzioni ci
sono, che i Rom ci sono sempre stati, che si può convivere tranquillamente, che si possono impegnare in molte attività […] bisogna
spiegarlo alla città e fare in modo che non diventi un problema solo
di un quartiere, di pochi missionari. Anche per sostenere poi le scelte, quando capitano le scelte positive dell’amministrazione, evitare
che si trovino in controtendenza rispetto al senso comune della città:
che se tu vai in un quartiere dove succedono le rivolte e riesci a
far capire che è una scelta giusta, allora la puoi perseguire; se tutti
si convincono che è una scelta sbagliata… noi qui abbiamo avuto
manifesti contro i campi, anche della sinistra, che in qualche modo
inseguivano più la gente che aveva fatto la rivolta, immaginando
che era spontanea, e poi invece ci stava pure la camorra… io dico
che il senso comune delle persone a favore va di continuo contrattato, va fatto crescere, altrimenti può regredire. [Pasquale Orlando,
presidente ACLI Napoli].
In sostanza, la riuscita anche parziale di una esperienza di integrazione è possibile se trova non solo le istituzioni, ma anche la
popolazione aperta al dialogo. Come a Giffoni, non tutti i quartieri
napoletani si sono rivelati chiusi al rapporto con i Rom, e laddove si è
instaurato un dialogo, coinvolgendo parrocchie, municipi, e organizzazioni di volontariato, qualche risultato si è ottenuto. Significative
in tal senso le esperienze dei campi di Secondigliano-Scampia e della
ex-scuola di Soccavo: popolazione accogliente e collaborazione tra
istituzioni scolastiche e associazioni ha accresciuto significativamente il tasso di scolarizzazione dei bambini rom, sia quelli residenti nel
campo attrezzato che in quello spontaneo. Un medesimo risultato si è
raggiunto a Giffoni in relazione all’occupazione stagionale dei Rom.
Nell’uno come nell’altro caso è stato fondamentale il ruolo di comunicazione istituzionale e politica avviata nei confronti della popolazione locale, sia dall’ente locale come dalle associazioni delegate.
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Ente o associazioni non importa, purché non sia sottovalutato il ruolo
preparatorio riservato alla comunicazione dei progetti di inclusione,
anche arrivando al porta a porta con i residenti locali, se necessario.
Chiaramente, il coinvolgimento della cittadinanza è il terreno
dove poi devono attuarsi i progetti di inclusione sociale. Ascoltando le testimonianze degli addetti ai lavori, si conferma in Campania
quanto emerge negli altri studi d’area, e cioè che la questione Rom
è governabile se si adotta una visione di sistema e un programma di
intervento completo. Sanità, scuola, lavoro e abitazione per i Rom
procedono assieme, o assieme cadono. Non è pensabile trovare un
lavoro o mandare un figlio a scuola se sono gravi le condizioni igienico-sanitarie dell’abitazione in cui si risiede; non si può vivere in
un’abitazione dignitosa se non si ha un reddito per pagare l’affitto o il
mutuo; è difficile mandare i figli oltre la scuola dell’obbligo se i genitori sono entrambi disoccupati; nella consapevolezza tuttavia che,
almeno nei campi, l’emergenza sanitaria è certamente una priorità,
ma che anche le altre politiche non devono essere trascurate, per non
ritrovarsi in futuro con gli stessi problemi che si fronteggiano oggi.
C’è da dire che gli interlocutori istituzionali intervistati, non senza
una punta di malinconica ironia, sottolineano come sul fronte abitativo e occupazionale “a Napoli i Rom siamo noi”. Per certi versi hanno
ragione. L’emergenza abitativa e occupazionale (ma anche sanitaria)
coinvolge ampi strati della popolazione napoletana: spendere risorse
per una seppur minima parte degli abitanti del napoletano, per giunta stranieri e talvolta con problemi di giustizia, genera sicuramente
tensioni sociali e politiche. Sotto questo profilo, si rivela una volta di
più la vitale importanza del lavoro di comunicazione e di sensibilizzazione della cittadinanza residente, in relazione alla presa in carico
dei Rom da parte delle istituzioni pubbliche.
Se quella sanitaria è una emergenza, vi è da dire che l’emergenza
sanitaria è figlia della scelta di creare i campi-sosta. Certamente è
buona cosa trasformare un campo spontaneo in un campo attrezzato,
con acqua, gas, luce e fognature: sempre meglio che vivere in mezzo
ai liquami. Ma quando il campo è la forma architettonica principale
del rapporto tra italiani e rom, allora la crisi sanitaria si perpetua nel
tempo. È vero che l’assembramento limita il rischio-contagio con il
resto della popolazione; del resto, è altrettanto vero che l’assembramento favorisce il rischio-contagio all’interno del campo. Ne va della dignità della persona umana, per quanto disgraziata e miserabile
possa essere. Parziali miglioramenti ci sono stati con la riforma legi97
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slativa e con l’organizzazione sanitaria messa in atto dalla Regione
Campania: le campagne di vaccinazione coprono oramai la quasi totalità dei bambini dei campi; i distretti sanitari stanno maturando una
significativa esperienza di medicina dell’immigrazione, soprattutto
nel contesto urbano, dove si lavora per grandi numeri; resta tuttavia la
constatazione che solamente la fuoriuscita dai campi, o quantomeno
una loro riformulazione radicale, possa eliminare l’emergenza sanitaria e trasformarla in una normale prevenzione sanitaria.
In tal senso, viene in soccorso l’esperienza di Giffoni Sei Casali.
È un’esperienza che nega fin dall’inizio la logica dei campi – favorita
in questo dalla scarsa numerosità dei Rom giunti nel salernitano dopo
i fatti di piazza Garibaldi; il ridotto numero di famiglie e la possibilità
di abitare quasi subito in casali anziché in un campo-sosta ha favorito il loro inserimento, sia lavorativo che scolastico, permettendo di
risolvere a monte la questione sanitaria: sono state semplicemente
evitate le patologie legate all’immigrazione irregolare, alla malnutrizione, alle cattive condizioni abitative, ed è stato possibile stabilire un
corretto rapporto di prevenzione e cura sanitaria.
Tutto ciò per ribadire come, a detta dei testimoni privilegiati intervistati a Napoli, i grandi insediamenti creano svariati problemi di
gestibilità, di sanità e di rapporto con la cittadinanza. I villaggi ufficiali di accoglienza di Scampia non vanno bene per un’ipotesi di stanzialità di lungo periodo. Una lezione ben riassunta dal viceprefetto
D’Orso, che coordina il lavoro di enti pubblici, associazioni, Croce
Rossa e distretti sanitari, nel difficile lavoro di integrazione dei Rom
presenti nel napoletano:
Il discorso dovrebbe essere proprio quello, di avere la possibilità di
ripartirli sul territorio. Per la popolazione locale non sarebbe più la
“tribù” con cui vengono identificati tutti, buoni e cattivi; sarebbe un
discorso di inserimento nel territorio di piccoli insediamenti, che
non devono superare un determinato numero. Non posso pensare
che insedio cinquemila nomadi ad Afragola, che ha una popolazione
di tremila persone, perché è un rapporto squilibrato. Tanti piccoli
nuclei familiari… secondo me rende più agevole sia il loro inserimento come singole famiglie sia l’accettazione da parte di una comunità che si sente comunque più forte; perché c’è anche la paura:
se io me li trovo tutti insieme, ho paura, perché mi sento aggredita
come comunità dalla presenza di queste persone. Se io invece inizio
a fare un discorso… per esempio l’assessore Riccio mi raccontava
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l’esperimento di questa scuola dove vanno i Rom rumeni […] che si
sono ben integrati con il territorio: i ragazzi vanno a scuola, alcuni
Rom lavorano lì… si è creato un buon punto d’integrazione sociale:
tant’è che chi vive in quel quartiere è ben lieto di ospitarli, perché
non ha problemi con queste famiglie rom, che attualmente sono un
centinaio. [D.ssa D’Orso, Viceprefetto di Napoli, area immigrazione].
In sostanza, vanno pensati inserimenti mirati con pochi nuclei familiari, non con decine di famiglie e centinaia di persone; gli inserimenti fatti con poche famiglie rispetterebbero la convivialità tipica
dei Rom e nello stesso tempo permetterebbe un loro inserimento più
adeguato, dato il basso numero di famiglie rom coinvolte. La prima
accoglienza verrebbe effettuata più efficacemente e si lavorerebbe
prioritariamente sull’inserimento lavorativo e su quello scolastico.
Un modello di insediamento di questo tipo sarebbe adatto anche a comuni dell’hinterland napoletano di piccole dimensioni, come testimoniato dall’esperienza, tutto sommato positiva, di Giffoni Sei Casali.
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Capitolo 4
In Puglia: sulla strada dell’integrazione
DANILO CATANIA
4.1 Introduzione
Per la sua posizione geografica, la Puglia è da sempre un approdo
naturale per le popolazioni provenienti dalla penisola balcanica. I primi documenti attestano la presenza di insediamenti rom nella regione a partire dal sedicesimo secolo, anche se probabilmente gruppi di
Rom partiti dalla penisola ellenica giunsero sulle coste pugliesi tra il
quattordicesimo e il quindicesimo secolo, durante la prima avanzata
dell’esercito ottomano verso l’Europa continentale (Piasere 1988). Nei
secoli successivi si ebbero altre ondate migratorie che portarono Rom
di diversa etnia a scegliere la Puglia come principale destinazione.
La Puglia dunque, per la sua vicinanza con le terre balcaniche,
ha rappresentato per migliaia di Rom una terra amica in cui allacciare relazioni commerciali e, in tempi di guerra, trovare riparo. Anche
quanti recentemente sono giunti in Puglia per scampare agli orrori
innescati dal conflitto serbo-bosniaco (1992-1995) e subito dopo per
fuggire da un altro conflitto, la guerra in Kosovo (1996-1999), hanno
trovato nella Puglia un approdo sicuro.
Dai risultati della mappatura sugli insediamenti rom (cfr. capitolo 2), nei primi mesi del 2010, sul territorio pugliese erano presenti
19 insediamenti (vedi cartina 4, p. 220), concentrati soprattutto nelle
province di Bari, Lecce e Foggia e, in misura minore, in quelle di
Taranto (Sava e Ginosa) e Barletta.
Volendo dare una stima dei Rom stranieri presenti nella regione,
essi dovrebbero attestarsi intorno alle duemila persone1, in maggio1 La stima è stata effettuata confrontando i risultati emersi dalla mappatura degli
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ranza arrivati in Puglia negli ultimi trent’anni dalle regioni dell’ex
Jugoslavia, dalla Macedonia e dalla Romania. Si tratta di nuclei familiari di diversa etnia, al cui interno il numero di persone nate nel
nostro paese risulta ormai prevalente rispetto a coloro che sono nati
all’estero. Rispetto alla distribuzione territoriale dei gruppi rom, dai
risultati della mappatura degli insediamenti, affiora un quadro eterogeneo nella scelta dei contesti territoriali in cui stabilirsi. Una chiave
di lettura per interpretare le scelte insediative di queste popolazioni è
di considerare il loro status socio-economico, caratterizzato per lo più
da una condizione di pervicace deprivazione economica e lavorativa,
dovuta ad un clima diffuso di intolleranza e discriminazione nei loro
confronti, che di fatto ha comportato l’impossibilità degli stessi Rom
di autodeterminarsi attraverso i consueti canali della rappresentanza
sociale, politica ed economica. Ne consegue che i Rom hanno adottato modelli insediativi tipici di chi si muove nei circuiti sotterranei
dell’economia degli esclusi2. Un’economia che di fatto si è caratterizzata dall’assenza di un lavoro o, in alternativa, dalla precarietà di
lavori saltuari, mal pagati e privi di tutele; un’economia di mera sussistenza, non di rado sostenuta dalla generosità e dalla solidarietà degli
“inclusi”. Si comprende così come i circa duemila Rom stranieri si
siano insediati nelle periferie dei centri regionali economicamente più
dinamici. Medie e grandi città, soprattutto del litorale pugliese, dotate
di servizi e infrastrutture; dove, inoltre, il tessuto dell’associazionismo sociale e del volontariato è più articolato.
La scelta di realizzare i due studi di caso pugliesi nella città di
Lecce e Foggia risponde all’esigenza di analizzare due realtà che, per
insediamenti rom, realizzata per conto dell’UNAR, con le stime raccolte nel passato da altre organizzazioni che hanno tentato di quantificare la consistenza numerica
dei Rom stranieri che vivono nel territorio pugliese. In particolare, abbiamo fatto
riferimento alla rilevazione conoscitiva promossa nel 2008 dalla Regione Puglia
sugli insediamenti rom. In base a questa indagine, nelle province di Lecce, Bari e
Foggia sono stati rilevati 9 campi, per un totale di 614 Rom – peraltro quest’ultimo
dato si riferisce a solo 7 insediamenti su 9. Lorenzo Monasta [2005] ha individuato
in Puglia 11 insediamenti, quantificando il numero dei Rom stranieri in 1365 individui. Partendo da questi due dati, abbiamo dunque stimato in circa 2000 persone il
numero di Rom stranieri presenti in Puglia, partendo da una base di 19 insediamenti
censiti con una presenza media per insediamento intorno ai 100 individui.
2 Con questo termine si intende sintetizzare la situazione di chi versa in una
condizione di sistematica esclusione dai circuiti economici e produttivi. Uno stato di profonda debolezza sociale ed umana che conduce a sperimentare traiettorie
biografiche e lavorative caratterizzate da un tratto costante di precarietà. [Terreri
2001].
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ragioni diverse, rappresentano due importanti poli d’attrazione per le
popolazioni rom provenienti dall’area balcanica.
Nel Salento, in particolare nella città di Lecce, sono presenti sin
dalla fine degli anni Ottanta i Rom Khorakhanè Shiftarija (provenienti dall’area del Kosovo/Montenegro e quasi tutti residenti nel campo
Masseria Panareo) e, in minor misura, i Rom Khorakhanè Cergarija
Crna Gora provenienti dalla Bosnia (ma di origine e costumi montenegrini), per un totale di circa 80 famiglie; altri cento nuclei familiari, di più recente ingresso (Rom rumeni), sono invece sparsi nella
provincia. A Foggia capoluogo, nel campo autorizzato di Borgo Arpinova, vivono in prefabbricati e baracche circa 60 nuclei familiari
di Rom Manijup (macedoni), mentre altre 30 famiglie circa di Rom
rumeni risiedono in campi abusivi. Numerosi Rom bulgari, dediti soprattutto all’agricoltura, sono invece dislocati nelle zone rurali della
provincia (in particolare a Zapponeta, Stornarella, Ordona, Orta Nova
e Lesina – vedi cartina 4, p. 220).
In generale, i Rom hanno adottato strategie di sopravvivenza coerenti con la peculiare vocazione economica dei territori in cui si sono
stabiliti. In provincia di Foggia, i Rom hanno trovato riparo e sostentamento nelle case rurali e nel lavoro in agricoltura, assecondando la
tradizionale centralità del settore primario nell’economia foggiana.
Viceversa, nel Salento i Rom montenegrini hanno tradotto l’inclinazione commerciale e turistica dei comuni leccesi sviluppando forme
minime di auto-impresa – soprattutto attraverso la vendita di piantine
nei mercati rionali.
Un altro motivo, che ha portato ad impiantare gli studi di caso
a Foggia e a Lecce, risiede nel fatto che ambedue i contesti d’analisi risultano essere tra i più attivi sul fronte dell’inclusione sociale
delle popolazioni rom presenti nella regione. Nel Salento sono attivi
due diversi progetti d’inclusione sociale: il progetto “Intermedia on
the road”, finanziato dall’Assessorato alla Trasparenza e alla Cittadinanza Attiva della Regione Puglia, che ha come obiettivo quello di
rimuovere gli ostacoli che incontrano i cittadini stranieri nell’accesso
ai servizi pubblici; il progetto ASIA della provincia di Lecce, che si
propone di costituire un’agenzia sociale di intermediazione abitativa
(da qui la sigla ASIA) che, attraverso esperti del mercato immobiliare, offra servizi d’informazione e consulenza immobiliare agli immigrati. Inoltre, occorre segnalare una serie di iniziative poste in essere
dall’Opera Nomadi e da rappresentanti dei Comuni e delle ASL del
foggiano; in particolare, nelle zone agricole che orbitano attorno al
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comune di Cerignola, si stanno realizzando azioni di inclusione lavorativa e abitativa rivolte a Rom macedoni e rumeni.
Su questo terreno si innestano gli studi di caso realizzati negli insediamenti di Panareo (Lecce) e di Arpinova (Foggia): due realtà che
nascono da una storia per certi versi simile – fatta di esclusione sociale e intolleranza diffusa – ma che si collocano agli antipodi per quanto
riguarda la capacità delle istituzioni e degli attori sociali di sviluppare
interventi efficaci sul fronte dell’inclusione sociale. Nel caso del campo-sosta Panareo la fattiva collaborazione tra le istituzioni locali e le
organizzazioni di volontariato, soprattutto negli ultimi anni, ha creato
le condizioni per l’elaborazione e lo sviluppo di una serie d’interventi
d’inclusione sociale aventi una duplice finalità: nell’immediato, migliorare le condizioni di vita generali degli abitanti del campo-sosta;
nel medio periodo, arrivare alla chiusura del campo con l’inserimento
delle famiglie del “Panareo” nel tessuto salentino. Al contrario, nel
campo d’accoglienza per immigrati ubicato nel rione municipale di
Arpinova, la collaborazione tra le istituzioni locali e il mondo del volontariato è risultata più debole e legata alle contingenze. Sono le associazioni di volontariato, come l’Opera Nomadi di Foggia, la Caritas
diocesana e l’Associazione Medici Cattolici Italiani, ad aver offerto
negli anni assistenza, specie sul fronte socio-sanitario, alle sessanta famiglie di Rom macedoni che attualmente vivono ad Arpinova.
Questa situazione di segregazione spaziale e sociale al momento non
trova vie d’uscita, almeno nel breve e medio periodo, per l’assenza di
una progettualità che vada oltre il tamponamento delle innumerevoli
emergenze che la vita in un campo comporta.
Nelle prossime pagine si illustreranno i risultati emersi dai due
studi di caso realizzati al campo-sosta Panareo (Lecce) e al campo
rom situato a passo di Corvo, località borgo Arpinova (Foggia). Nel
caso di Lecce si sono esplorate le dimensioni connesse al fenomeno
del separatismo socio-abitativo di cui spesso sono vittime le popolazioni rom. Viceversa, nello studio del campo ad Arpinova, l’analisi si
è indirizzata su questioni riguardanti i meccanismi di accesso/esclusione dei Rom ai servizi socio-sanitari.
4.2 Lecce: un posto altrove
Le vicende che portarono, nel 1998, oltre 200 Rom khorakhanè
provenienti dal Montenegro al campo-sosta “Panareo”, depurate dai
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tratti propri del contesto in cui si sono consumate, appaiono uguali a
tante altre apprese attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Scene di “normale” segregazione sociale e territoriale che, pur cambiando gli attori e il proscenio, si ripetono sempre uguali a se stesse. Un
copione che non ammette variazioni sul tema: in cui intere famiglie,
sfuggite alla fame e alla guerra, approdano nel nostro Paese, clandestine senza alcun diritto, stabilendosi negli interstizi dimenticati delle
città – spazi urbani abbandonati da molto tempo, degradati e fatiscenti, senza acqua né luce3.
Quando sono arrivati la cosa che mi ha colpito è stata questa: sono
andata in questa specie di fondo dove li accolse un signore che era
molto gentile, non aveva interessi… vide questa gente nelle roulotte, disse: “qui c’è un posto recintato sulla strada per Torre Chianca: mettetevi lì così almeno non vi vede la polizia, non vi disturba
la gente”. Senz’acqua e senza luce. Allora, avevano fatto una cosa
straordinaria che mi ha colpito tantissimo, era un fondo così e c’era
il cancello con dei pilastri e lì avevano scritto “Lece”! Questo è importantissimo, si sentivano di Lecce! Erano appena arrivati a Lecce
(Rosalba Bove D’Agata, Responsabile dell’Ufficio Immigrazione
Salento della Provincia di Lecce)4.
In questi luoghi di precarietà umana e abitativa cresce la speranza di una vita diversa: una casa decorosa, un lavoro stabile. Progetti
che tendono ad un’esistenza normale5 che accomuna uomini e donne,
Rom e non Rom, e che in sostanza tradiscono l’aspirazione di sentirsi
parte di un collettività che si riconosce nei presupposti fondativi del
moderno concetto di cittadinanza.
3 Per ricostruire gli avvenimenti che hanno caratterizzato il primo periodo di
permanenza delle famiglie Rom nella città di Lecce ci si è avvalsi della testimonianza di Rosalba Bove D’Agata, la quale in quegli anni ha seguito per l’Assessorato del Comune di Lecce la situazione insediativa dei Rom giunti nel capoluogo
salentino. All’epoca dei fatti l’intervistata lavorava all’Ufficio minori e famiglia
del Comune: attualmente è responsabile dell’Ufficio Immigrazione della Provincia
di Lecce.
4 La presentazione del caso di Lecce è una rielaborazione della Sezione 3.3, a
cura di Roberto De Angelis e Marco Brazzoduro, disponibile in IREF 2010b.
5 Una vita che, peraltro, la maggior parte dei Rom conduceva prima di giungere nel nostro paese: alloggiando da molti anni in appartamenti e lavorando in modo
regolare, soprattutto nel campo del commercio.
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L’aspirazione di vivere come e con gli altri si interrompe bruscamente con il destarsi dell’attenzione della popolazione locale verso
quei luoghi dimenticati. Lo sguardo si ferma sulla miseria di una vita
consumata ai margini della società, alimentando nella popolazione
locale inquietudini e stereotipi resistenti all’incedere del tempo, al
punto di sollecitare gli amministratori ad adottare soluzioni drastiche
dettate dall’urgenza di porre sotto controllo un’umanità straniera e
avulsa dal contesto cittadino.
Poi li hanno portati in queste casette diroccate […] Case popolari da
cui erano andati via gli italiani, casette piccole; però, ci furono degli esposti alla procura della Repubblica e si stabilisce che devono
andar via da lì per forza. Con i carabinieri, i vigili urbani la mattina
vanno lì e i Rom non ci sono più. Li hanno portati tutti all’ostello
della gioventù a S. Cataldo (principale marina del comune di Lecce,
N.d.R.). Questa fu una cosa fortissima. [Rosalba Bove D’Agata, responsabile Ufficio Immigrazione Provincia di Lecce].
Gli insediamenti vengono così sgomberati, avviando un processo
di presa in carico del “problema Rom” da parte delle autorità locali.
I Rom così irrompono nelle cronache locali con lo stesso fragore mediatico delle notizie che annunciano l’imminente arrivo di una calamità naturale. Gli zingari diventano una “questione”, in primis di ordine pubblico. L’iter adottato nella gestione del problema segue uno
spartito che non si discosta molto da città a città, a dispetto del colore
politico della giunta in carica: occorre trovare una soluzione che non
provochi apprensioni e sollevazioni fra la popolazione locale.
A sollecitare gli interventi da parte delle istituzioni locali sono
ragioni tese al controllo di gruppi considerati potenzialmente destabilizzanti dell’ordine sociale. Spesso, infatti, l’individuazione di
un’area urbana in cui collocare le famiglie rom genera malumori e
tensioni fra gli abitanti che abitano nei pressi del posto in cui sorgerà
il “campo”, adducendo sia motivi di ordine pubblico, sia di carattere
economico6.
6 In alcuni casi le tensioni si fanno talmente insostenibili da dar luogo a sollevazioni di popolo al grido “Fuori gli zingari dal nostro quartiere”. Con questo slogan
il 2 settembre del 2003 una parte degli abitanti del quartiere di San Bernardino a
Verona ha manifestato il proprio disappunto per la presenza nel loro quartiere di un
gruppo di famiglie rom che avevano trovato riparo in un asilo nido disabitato da
anni (http://italy.indymedia.org/news/2003/09/365311.php).
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A San Cataldo cominciano a nascere tutti i circoli anti Rom, associazioni anti Rom. A San Cataldo, la zona costiera si muove: “non
vogliamo i Rom, ci stanno distruggendo, vanno sulle spiagge a chiedere l’elemosina, i bambini nudi”. Era vero però. Non volevano i
Rom a S. Cataldo, si muove tutta la litoranea contro i Rom […] e
li mandano a Solicara, un camping che sta a Torre Chianca [Rosalba Bove D’Agata, responsabile Ufficio Immigrazione Provincia di
Lecce].
Si costituiscono dei tavoli interistituzionali per definire il da farsi; si avviano consultazioni fra i vari responsabili in cui i Rom sono
lasciati fuori, in attesa del responso; si individuano delle strutture e
degli spazi pubblici inutilizzati dove poter ospitare i nuovi arrivati; in alcuni casi le soluzioni abitative prospettate non si discostano
molto da quelle escogitate dagli stessi Rom ai tempi del loro periodo
di “invisibilità”. Aspetto, quest’ultimo, che tradisce una propensione, da parte degli amministratori locali, ad assecondare innanzitutto
le aspettative manifestate dalla popolazione locale7. In altri termini, le risposte che vengono escogitate sono indirizzate a scongiurare
l’esplodere di possibili conflitti e contestazioni da parte dei cittadini,
inviando messaggi rassicuranti alla popolazione allarmata dalla presenza di vicini “sporchi” e “pericolosi”. Messaggi rassicuranti che di
fatto si inseriscono all’interno di una logica tesa alla “rimozione del
problema”, confinando i Rom in strutture nascoste alla vista dell’opinione pubblica: campi-sosta lontani dal centro abitato, protetti da una
rete di recinzione.
7 A tal proposito è istruttivo un passaggio di Sigona sul rapporto tra consenso
politico e bisogno di sicurezza dei cittadini: “La presenza dei Rom in Italia è ormai
un dato di fatto che spinge anche le amministrazioni meno sensibili ai problemi
delle categorie socialmente deboli ad intervenire, quanto meno per rassicurare i
propri cittadini. Città incapaci di accogliere si barricano a difesa dei propri microsistemi (…) Il bisogno di sicurezza, sia esso originato da una minaccia reale,
presunta o indotta, è sin dall’origine dello Stato moderno tra i bisogni fondanti su
cui il costituendo governo legittima la propria esistenza (…) Il “problema zingari”
rientra pienamente all’interno di queste dinamiche, ora additato dalle opposizioni
come esempio dell’incapacità del governo di garantire la sicurezza dei “cittadini
per bene”; ora capro espiatorio, valvola di sfogo dell’insicurezza diffusa, campione
umano su cui sperimentare nuove forme di controllo per la maggioranza” [Sigona
2002: 42].
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Il risultato di tale politica si concretizza nel trasferimento della comunità, alle prime luci dell’alba e sotto pesante scorta delle forze
dell’ordine, in un campo sosta lontano dal centro abitato, situato in
un ex campeggio in disuso [Solicara – N.d.R.]. Il luogo si rivelerà
sin da subito un ghetto malsano, assolutamente inadeguato per ampiezza e carente di servizi essenziali (pavimentazione, w.c., acqua,
luce elettrica, vie d’accesso e trasporti). L’arrivo della comunità nel
nuovo sito sarà accolto da blocchi stradali e veementi proteste da
parte dei residenti che, preoccupati dalla presenza dei nuovi vicini, ne invocano l’allontanamento [De Luca, Panareo e Sacco 2007:
119].
La ricerca di un posto “sicuro” in cui sistemare i Rom procede per
tentativi ed errori, e termina allorquando si individua un terreno – fuori città, isolato e non d’interesse edilizio – dove far sorgere il campo
sosta. La “bontà” della scelta è per certi versi testimoniata dall’attenuarsi dei rumors anti-rom che avevano accompagnato l’uscita dalla
città delle famiglie rom.
Cade la [giunta di – N.d.R.] sinistra a Lecce, e il commissario prefettizio decide di dare un taglio a tutto e di spostare i Rom dal campo Solicara al famoso campo Panareo, con l’aiuto delle assistenti
sociali che se ne prendono di tutti i colori. Bruciano tutte le vecchie
roulotte tra il dolore immane dei Rom perché avevano comprato
tante roulotte nuove… C’è stato addirittura un intervento che ha
fatto sì che la masseria Panareo venisse sequestrata alla ASL che
ne era proprietaria e venisse affidata al Comune tutta questa grande
zona. Il Comune stabilisce che quella zona sarà un campo-sosta che
non è detto che debba essere per i Rom, ma anche per le roulotte dei
vacanzieri, tanto che si fa uno statuto, io ce l’ho lo statuto di allora:
nel campo ci deve essere sempre un vigile urbano, un dirigente del
Comune, due impiegati, un educatore, un gabbiotto. Non c’è stato mai nessuno […] Questa è stata l’evoluzione… [Rosalba Bove
D’Agata, responsabile Ufficio Immigrazione Provincia di Lecce].
Così si torna alla normalità: i Rom sono lontani, vivono fuori dalla
città, stanno nel campo-sosta, in località “Masseria Panareo”.
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4.2.1 Attorno al campo: società civile organizzata e solidarietà
Il campo-sosta Panareo sorge su un fazzoletto di terra che costeggia
la strada statale Lecce-Campi Salentina. Si tratta di un terreno strappato alla coltivazione degli ulivi, disseminati tutti intorno al campo.
Il primo centro abitato dista quattro chilometri (il comune di Novoli),
mentre per arrivare a Lecce bisogna percorrere sette chilometri.
Nel campo-sosta vivono 224 persone, in maggioranza provenienti
dal Montenegro – molte famiglie sono originarie della città di Podgorica. I minori sono 89, di cui 72 nati in Puglia; in generale, considerando anche i maggiorenni, quasi la metà dei Rom autorizzati a
sostare nel campo Panareo è nata nel nostro Paese8.
L’ubicazione del campo in una zona isolata, se da un lato contribuisce a rafforzare meccanismi di segregazione sociale e il dilagare
del pregiudizio razziale, non facilitando le relazioni e la conoscenza
reciproca tra i Rom e il resto della popolazione, dall’altro ha paradossalmente creato le condizioni per lo sviluppo di una serie di progettualità, portate avanti dagli enti locali e dalle associazioni del terzo
settore, finalizzate alla progressiva inclusione dei cittadini di Panareo
nel tessuto sociale salentino9. In particolare, il raggiungimento di una
“tranquilla” condizione di stanzialità ha reso possibile il consolidarsi
della rete di associazioni e di persone che fin dall’inizio hanno sostenuto e difeso il diritto dei Rom ad esistere.
Da questo punto di vista, un ruolo di rilievo lo ha avuto il Comitato
di difesa per i diritti degli immigrati10 (abbreviato in “Comitato mi8 Questo fatto, analogo a tante altre situazioni presenti in Italia, può darci la
dimensione dell’urgenza di una legislazione che sia rispondente a questa realtà. Eppure le comunità rom sono costrette ad una vera e propria emergenza per ottenere il
permesso di soggiorno, non si parla neanche lontanamente di cittadinanza. Molti di
questi minori hanno ricevuto ormai dei nomi italiani come Anna, Matteo, Leonardo,
Valentino, Rosi, Alessio, Simone, Valentina, Edoardo [IREF 2010b: 43].
9 Per una trattazione più estesa sugli interventi e i progetti realizzati, si rimanda
al paragrafo 4.2.2.
10 Negli ultimi anni il Comitato ha attivato una mailing-list, “Rom, amici miei”,
in cui è possibile scaricare il modulo di adesione alla rete anti-razzista. Nella pagina di benvenuto c’è scritto: “Il Comitato è una iniziativa di solidarietà che nasce dall’unione tra importanti Associazioni di volontariato e singole persone che,
senza distinzioni di etnia, ceto, appartenenza politica e religiosa, età, sesso, scelgono coraggiosamente, con i mezzi a propria disposizione (e senza percepire un
centesimo!), di impegnarsi per dare voce a tutti coloro a cui la voce è stata tolta
dalla guerra, dalla povertà, dalla persecuzione e che, provenienti da ogni parte del
mondo, ora sono costretti ad una vita di ingiustizia e di indifferenza proprio qui, in
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granti”), che ha seguito fin dai primi anni Novanta i vari spostamenti
dei Rom che oggi vivono al campo Panareo11. Fin dalla sua costituzione il Comitato migranti ha rappresentato un luogo d’incontro aperto
alle diverse realtà associative che operano sul territorio per il riconoscimento dei diritti degli immigrati, stimolando processi di autorganizzazione dei gruppi etnici presenti nel Salento, anche tramite la creazione
di associazioni di immigrati, e la realizzazione di iniziative in favore
delle popolazioni immigrate, caratterizzate da un’ampia ed eterogenea
partecipazione di soggetti, sia istituzionali che del terzo settore.
L’azione del Comitato migranti ha portato alla nascita, nel 1998,
dell’Osservatorio Provinciale per l’Immigrazione (OPI) di Lecce, coordinato da Luigi Perrone che fu, insieme ad altre persone provenienti
dal mondo accademico, uno dei promotori dello stesso Comitato migranti. In concomitanza con l’avvio delle attività dell’OPI12, sempre
nel 1998, fu inaugurato il centro interculturale Migrantes, coordinato
da padre Ampelio Cavitano. La nascita del centro Migrantes rispondeva all’esigenza di consolidare le esperienze di tutte quelle realtà associative che gravitavano intorno all’Ufficio diocesano. Fin dalla sua
costituzione il Centro Migrantes si è posto, nel panorama associativo
salentino, come elemento di raccordo fra le diverse organizzazioni di
volontariato presenti sul territorio. La nascita del centro Migrantes ha
consentito di elaborare programmi d’intervento in rete e di sistema,
più efficaci nel rispondere ad una domanda di servizi per gli immigrati che nel corso degli anni Novanta è andata via via aumentando.
All’associazione interculturale aderirono organizzazioni non profit
quali l’Associazione Salva, che dal 1992 fornisce assistenza medicofarmaceutica a cittadini indigenti; l’onlus Avvocato di Strada, la quale
offre consulenza gratuita a persone senza fissa dimora; il Centro Scalabriniano e l’Associazione Popoli e Culture13.
Salento che è terra di PACE, che è terra di TUTTI!” [http://groups.google.it/group/
rom-amici-miei?hl=it&lnk=].
11 Per una ricostruzione sui motivi che portarono alla nascita del Comitato
si rimanda alla prima parte dell’intervista video ad Antonio Ciniero, ricercatore
dell’Osservatorio Provinciale sull’Immigrazione della Provincia di Lecce, consultabile all’indirizzo internet: http://fromtorompanareo.wordpresse.com/network.
12 Tra le prime azioni di ricerca l’OPI ha realizzato un censimento delle persone
che si stabilirono nel campo Panareo.
13 L’Associazione si è costituita nel 2004 e si propone di favorire la solidarietà
tra i popoli, in particolare con quelli più poveri, attraverso la conoscenza della loro
cultura, la condivisione dei loro progetti per un futuro migliore e la promozione di
azioni sociali. In particolare, l’Associazione Popoli e Culture ha realizzato diversi
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Insomma nel 1998, quando le prime famiglie di Rom montenegrini furono trasferite al campo-sosta Panareo, erano attive da circa
un decennio diverse realtà sia laiche che d’ispirazione religiosa che,
con obiettivi diversi e differenti modalità di lavoro, hanno fatto fronte
comune in difesa e per la promozione del diritto ad esistere di persone
che non avevano, e tuttora non hanno, cittadinanza nel nostro Paese.
Un fronte associativo così compatto, tanto da strutturarsi, nel 2000, in
un coordinamento di Associazioni14 denominato Lecce Accoglie.
4.2.2 Sulla strada, al di là del recinto
È su questo terreno associativo, altamente interconnesso, che si innesta il percorso d’inclusione sociale che faticosamente si sta portando avanti al campo Panareo. Un percorso che, dal lato delle istituzioni
locali, ha avuto in Rosalba Bove D’Agata uno snodo fondamentale.
La sua è una storia personale e professionale contrassegnata da profonda umanità e forte senso civico, portandola in alcuni casi ad andare oltre le sue responsabilità lavorative. Lei è stata vicina alle famiglie
montenegrine, che oggi vivono al campo Panareo, fin dai tempi del
loro arrivo a Lecce. Il suo impegno sociale in favore dei Rom, e per
gli immigrati in generale, si è indirizzato negli anni al riconoscimento
e alla difesa dei loro diritti.
L’ottenimento del permesso di soggiorno è stata la prima tappa
obbligata di un percorso che mira a far uscire gli abitanti del campo
Panareo da una condizione di vera e propria segregazione socio-abitativa. L’acquisizione del permesso di soggiorno per i Rom di Panareo
è stata possibile grazie all’ottenimento di due requisiti essenziali: la
possibilità di indicare un domicilio certo e il fatto di svolgere un’attività lavorativa. In quest’ultimo caso, occorre sottolineare che la maggior parte dei Rom è in possesso di un permesso di soggiorno per
motivi di lavoro. Si tratta di occupazioni soprattutto nel campo della
floricultura, vendendo piante nei mercati dei comuni limitrofi, e del
trasporto per conto terzi di autovetture dal Montenegro alla Germania
(attività svolte attraverso l’apertura di partite iva presso la Camera di
progetti di cooperazione internazionale in Ecuador, Brasile e Colombia. http://nuke.
popolieculture.org/Home/tabid/466/Default.aspx.
14 Fanno parte del coordinamento: la Comunità Emmanuel, l’Associazione Guy
Gi, il Comitato per la difesa dei diritti degli immigrati, il Consiglio italiano per i
rifugiati e l’Ufficio diocesano Migrantes.
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Commercio di Lecce). La possibilità di svolgere un lavoro autonomo
è passata per la frequentazione di corsi di formazione organizzati dalla Regione rivolti agli immigrati:
Ho sentito che c’erano dei corsi di formazione per immigrati e allora
ho detto a queste persone che organizzavano i corsi “I Rom vanno
bene lo stesso?” “Sì, basta che ce li mandi”. Tutti i Rom di Lecce
hanno fatto i corsi di formazione. Addirittura corsi di alta specializzazione… La legge italiana cosa vuole per rinnovare il permesso
di soggiorno? Quali sono i requisiti? Identificazione della persona
attraverso il passaporto, fonti lecite di sostentamento (traduciamo
lavoro) residenza (traduciamo casa). Se questi non hanno il documento vediamo come fare per farglielo avere. Se non hanno lavoro
mi devi aiutare tu commercialista. Se non hanno la casa chiediamo
al Comune che gli diano la residenza nel campo. Li ho messi in contatto con un vivaio di floricoltura, hanno la partita iva, sono iscritti
alla Camera di Commercio [Rosalba Bove D’Agata, responsabile
Ufficio Immigrazione Provincia di Lecce].
Tramite delle piccole forzature amministrative si è superato un
problema che sembrava irrisolvibile. Anche la collaborazione di funzionari e professionisti è stata fondamentale, confermando i margini di discrezionalità che i dirigenti pubblici hanno nella risoluzione
positiva delle questioni riguardanti l’iter amministrativo per l’ottenimento del permesso di soggiorno15.
Se già prima dell’arrivo al campo Panareo (1998) si era avviato un
percorso per il riconoscimento del permesso di soggiorno, per quanto
riguarda la casa, la situazione abitativa delle famiglie rom, all’indomani dell’apertura del campo Panareo, restava alquanto precaria con
la presenza di abitazioni provvisorie.
La situazione inizia a migliorare a partire dal biennio 2005-2006:
un periodo questo che, come avvenne nel 1998 per le associazioni,
segna un punto di svolta nella gestione dei rapporti tra gli attori pubblici e le associazioni del privato sociale che operano all’interno del
campo Panareo. Nel 2005, Rosy D’Agata lascia gli uffici del Comune
per realizzare il progetto “Servizi Immigrazione Salento16”, promosso dalla Provincia di Lecce. Il progetto prevede la costituzione di uno
15 Sull’uso del potere discrezionale dei funzionari nella pubblica amministrazione, si veda il contributo di Micheal Lipsky (1980).
16 Cfr. http://www.sportelloimmigrazione.net/blog/.
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sportello immigrazione in cui vengono erogati un ventaglio di servizi
allo scopo di sostenere l’integrazione degli immigrati nel territorio.
Inoltre, lo sportello immigrazione mira a valorizzare, attraverso un
lavoro di rete, le risorse presenti nella provincia salentina, facilitando
i collegamenti tra i diversi attori locali.
Ho lavorato nel Comune ma sempre nel settore interculturale,
nell’Ufficio famiglia, Tribunale dei Minori eccetera. Nel 2004 alla
provincia vince Giovanni Pellegrino [candidato del centro-sinistra
alla presidenza della Provincia di Lecce – N.d.R.], mi presento e ho
detto: “secondo me questa provincia non fa un cavolo di niente per
gli immigrati, né per gli italiani che hanno contatti con loro. Io ho
pensato a un progetto. Pellegrino mi squadra e mi fa: “ma lei non
è la Rosy D’agata che sta sempre con gli immigrati nelle Giravolte
(quartiere nel centro storico di Lecce ad alta concentrazione di immigrati, N.d.R.)? Allora signora mi scriva due parole su quello che
vorrebbe realizzare!” e io ho scritto un progetto che si chiama “Servizi immigrazione Salento” [Rosalba Bove D’Agata, responsabile
Ufficio Immigrazione Provincia di Lecce].
L’anno successivo viene costituita l’Istituzione servizi sociali: un
organismo strumentale del Comune di Lecce per le gestione dei servizi sociali, dotato di autonomia gestionale, diretto da Antonio Carpentieri il quale, come ha avuto modo di precisare nel corso dell’intervista, si è reso da subito artefice di una riorganizzazione delle risorse
umane del Comune:
Si è proceduto immediatamente a una riallocazione del personale distribuendolo secondo le varie esigenze, rilevate da un monitoraggio
preventivo, del territorio. Appena arrivato ho iniziato a costituire un
gruppo di lavoro e a interfacciare tutti gli altri uffici per cercare di
capire la situazione reale, vuoi perché questa è un’impresa e non
solo un ente locale, ma come un ente privato, naturalmente, dovevo
cercare di razionalizzare e l’organico e la spesa e il servizio cercando di renderlo confacente alle esigenze dell’utenza e del territorio.
Da una prima indagine è emerso che i vari uffici comunali lavoravano ognuno per sé e comunque in emergenza tanto da non produrre
effetti immediati e un ritorno immediato; e nello stesso tempo uno
spreco enorme di denaro [Antonio Carpentieri, Direttore Istituzione
Servizi Sociali Comune di Lecce].
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Nel giro di pochi mesi, la riorganizzazione dei servizi voluta da Carpentieri porta a miglioramenti sostanziali nella gestione della moltitudine di problemi legati alla vita di tutti i giorni all’interno di un campososta. Da questo punto di vista, Katia Lotteria17 mette in luce proprio il
cambiamento in positivo dei rapporti fra l’ente locale e le associazioni
che operano nel campo, soprattutto per quanto riguarda questioni attinenti all’istruzione e alla tutela dei minori presenti nel campo:
In questo momento c’è una maggiore collaborazione col Comune,
una maggiore attenzione al campo rom tanto che alcune unità che
lavorano al Comune sono state destinate esclusivamente alla gestione del campo, e questo ha permesso un maggiore ordine rispetto
alla questione. C’è una équipe comunale che è formata da un’assistente sociale e una pedagogista. Poi da pochi anni è stato assegnato
l’incarico a una persona di occuparsi di questo, che è Carpentieri,
e quindi ha messo su questa équipe. La pedagogista fa un lavoro
splendido dal punto di vista scolastico, dove i bambini hanno un
sacco di problemi [Katia Lotteria, Comitato di Difesa dei Diritti degli Immigrati].
L’ampia autonomia gestionale dell’Istituzione servizi sociali ha
consentito la realizzazione di una serie di interventi volti al miglioramento delle condizioni abitative dei Rom di Panareo. L’Istituzione
servizi sociali, nella figura del Direttore, è responsabile, fra le altre
cose, del campo Panareo. In base al regolamento del campo-sosta,
il direttore presiede il Comitato Interistituzionale a cui partecipano
i dirigenti che a vario titolo sono implicati nella gestione del campo
(servizi sociali, educazione e formazione, lavori pubblici, etc.) e un
membro della comunità rom. La scelta del rappresentante della comunità rom è avvenuta attraverso una votazione a scrutinio segreto che
ha visto la partecipazione di tutte le famiglie che vivono al Panareo.
Il Comitato Interistituzionale decide sugli aspetti riguardanti l’organizzazione e la gestione dell’area di sosta e sulle questioni di carattere socio-assistenziale. In particolare, l’Istituzione servizi sociali
ha gestito, insieme agli assessorati competenti, il piano di intervento
realizzato dal Comune di Lecce che ha previsto una serie di opere di
urbanizzazione primaria, tra cui un impianto di fognatura e la realiz17 Fa parte del Comitato di Difesa dei Diritti degli Immigrati. Segue la realtà dei
Rom di Lecce da molti anni. Ha fatto parte dell’Osservatorio Provinciale sull’Immigrazione. Ha collaborato alla ricerca sul campo.
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zazione di 26 alloggi da destinare ad altrettante famiglie presenti nel
campo18. L’intero processo di assegnazione delle case è stato definito
e condotto dalla stessa comunità rom, individuando criteri che hanno
tenuto in debita considerazione sia lo stato di bisogno abitativo delle
diverse famiglie del campo sia la configurazione clanica delle stesse:
Per i prefabbricati è stato molto interessante come è avvenuta l’assegnazione, nel senso che se la sono autogestita, cioè i portavoce hanno concordato con i capifamiglia dei criteri, le famiglie più povere
e numerose, se li sono assegnati da soli. Anche perché a differenza
degli altri anni che il referente aveva maggiore potere e facilità di relazionarsi con le istituzioni, questa volta invece ci sono state elezioni democratiche con tanto di urna per queste due persone, un uomo
e una donna. È anche questo un elemento innovativo e significativo,
la scelta di una donna come vicerappresentante. Un altro criterio era
quello di almeno una famiglia per gruppo clanico presente al campo.
[Katia Lotteria, Comitato di Difesa dei Diritti degli Immigrati].
Gli interventi promossi e realizzati dalle istituzioni locali, con
il concorso delle associazioni di volontariato, hanno consentito di
migliorare le condizioni di vita dei Rom. A tal proposito, sul fronte
socio-sanitario va menzionata l’attività dei medici dell’Associazione
Salva che nel loro poliambulatorio fanno fronte alle patologie diffuse
fra gli abitanti del campo-sosta Panareo:
La maggior parte dei Rom che vengono qui vengono per i bambini,
per faringiti, febbre, perché non sono coperti bene e nei mesi invernali si vedono bronchitelle, faringiti. Gli adulti invece vengono
18 La realizzazione degli alloggi è stata attuata in due fasi successive: il primo
lotto di 16 casette in muratura è stato approvato con Delibera n. 797 del 2005; la
costruzione del secondo lotto per complessivi 10 container è stato approvato con
la Delibera n. 488 del 2006. Gli alloggi sono stati finanziati sia attraverso fondi
Comunitari sia con risorse del Comune e della Provincia di Lecce. Il 14 marzo del
2007 è stata consegnata l’ultima delle 26 case previste dal piano. In quell’occasione
l’Assessore agli immigrati Francesca Mariano sottolineò l’impegno dell’amministrazione di proseguire sulla strada dell’integrazione della popolazione rom: “Fornire una risposta di questo tipo all’emergenza abitativa della popolazione rom del
campo-sosta significa anche continuare la nostra opera di integrazione di questa
fascia della popolazione, che, vorrei ricordare ancora una volta, è una comunità
ormai stanziale, verso la quale da sempre questa amministrazione comunale riserva
grande attenzione” [Comunicato stampa del 14/03/2007].
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per malattie micotiche dovute alla scarsa igiene, poi vengono qui
ed è facile trasmettere queste patologie. Poi ci sono anche le solite
patologie per gli adulti, malattie gastrointestinali e nevralgiche. Ma
i bambini hanno malattie dell’apparato respiratorio alto. [Fortunato
De Fortunatis, medico Caritas “Migrantes”, dell’Associazione cattolica “Salva”].
Va altresì menzionato il lavoro del Comitato di Difesa dei Diritti
degli Immigrati che, mosso dall’obiettivo di chiudere definitivamente
l’esperienza del campo, con l’inserimento dei cittadini rom nella società salentina, sta concentrando i propri sforzi su un duplice livello
d’intervento.
Un primo livello riguarda la dimensione più propriamente operativa connessa alla progettazione e all’erogazione di servizi per il
miglioramento delle condizioni di vita e sociali delle persone che vivono nel campo. Nella sostanza, sono stati realizzati interventi che
hanno interessato i diversi ambiti della vita: dalla scolarizzazione dei
bambini, con l’attivazione all’interno del campo di un servizio di doposcuola; all’acquisizione da parte degli adulti delle competenze linguistiche di base, realizzando corsi di alfabetizzazione per le donne;
dall’attivazione di un programma di sensibilizzazione sui temi della
prevenzione sanitaria; alla realizzazione di un percorso d’inserimento lavorativo in grado di stimolare presso la comunità rom forme di
auto-imprenditorialità, con la costituzione di cooperative di lavoro.
Un secondo livello, concerne una serie di iniziative e proposte,
messe in campo dal Comitato migranti, che si collocano su un piano
d’interlocuzione politico-istituzionale. Si tratta di progetti che mirano
a superare la condizione di isolamento ambientale e sociale determinata dal vivere confinati all’interno di un campo-sosta. Entrando nello
specifico, il Comitato migranti intende portare ai tavoli inter-istituzionali, che stanno lavorando all’aggiornamento dei piani di zona, la
proposta che i 97 comuni della Provincia di Lecce si facciano carico,
“adottino”, almeno una famiglia rom, accompagnandoli nella ricerca
di una sistemazione e di un lavoro. Una proposta questa supportata da
due considerazioni di fondo: innanzitutto, dalla consapevolezza che
la “questione Rom” risulta più agevole da gestire, dando dei risultati
più efficaci, quando l’ordine di grandezza del “problema” è limitato a
poche famiglie bisognose di aiuto. Ciò, peraltro, sollecita la seconda
considerazione, ovverosia che la capacità delle istituzioni locali di
dare effettivo corso ad un processo finalizzato all’integrazione socia116
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le di queste persone passa da una maggiore disponibilità degli stessi
enti locali a condividere il problema rom, andando oltre le logiche
securitarie, che di fatto rappresentano il sostrato ideologico di cui si
alimenta e che giustifica il perpetuarsi del separatismo socio-abitativo
di cui sono vittime le comunità rom.
In conclusione, al campo Panareo vivono, da ormai una dozzina
di anni, 224 persone. Da quando sono sbarcati nel Salento, nel 1987,
pochi sono riusciti a liberarsi dalla condizione di precarietà abitativa,
economica e sociale. Da oltre vent’anni questi nuovi residenti – molti
di loro sono nati nel Salento – vivono in uno stato di sospensione giuridica ed esistenziale: confinati all’interno di un recinto, lontani dalla
città. Di recente, le istituzioni locali hanno intrapreso un reale percorso d’integrazione delle famiglie del “Panareo”, consapevoli della
necessità di rintracciare una soluzione il più possibile condivisa che
porti allo smantellamento del campo: da due anni abbiamo un obiettivo […] noi siamo orientati verso la chiusura (Antonio Carpenteri).
La chiusura del campo resta ancora un obiettivo, che difficilmente
sarà raggiunto in tempi brevi. Molte sono le resistenze e i pregiudizi
da scardinare, eppure basterebbe entrare nel campo, guardare negli
occhi questa “minaccia” per rendersi conto che in realtà si tratta di
gente a cui viene negato il diritto ad aspirare ad una vita normale,
come qualsiasi altro cittadino. Questa testimonianza aiuta a comprendere il livello di aspirazione ad una vita “normale” che nutrono i Rom
del campo Panareo:
Non si accorgono che sono una Jugoslava! In Germania la terza
media ce l’ho tutta, poi ho fatto un corso di formazione professionale da elettricista. Però mi sono divertita un casino, era bellissimo!
100 ore se non sbaglio. Stavo benissimo. Erano ragazzi senegalesi,
albanesi, serbi, rom… Ti permetteva di conoscere tanta gente, senza
giudicare. Mi piacerebbe fare anche un piccolo ristoro, anche se una
piccola cazzata, anche se solo un tavolino! Però voglio averlo col
sudore mio, voglio affrontare, col mio rischio […] io vendo le piante
e mi sto divertendo un casino! I paesi sono i miei preferiti, ma vorrei
poter fare qualcosa di più nella vita, avere un obiettivo! [Saljaj Mervetva, rappresentante della comunità rom del “Panareo”].
Lavorare per un obiettivo: uscire prima di tutto dall’idea del campo, da una condizione di segregazione che non fa che alimentare intolleranza e devianza, rafforzando l’ideologia del separatismo socio-abi117
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tativo. A Lecce si prova ad andare oltre il campo, rompendo i recinti
con altre reti, quelle della solidarietà e della conoscenza reciproca.
4.3 Foggia. Buone pratiche sanitarie e problemi d’integrazione
La presenza dei Rom nel foggiano è radicata da decenni, e numerosa è la presenza di Rom italiani nel capoluogo e nella provincia. Da
un primo sondaggio effettuato nel settembre del 2009, vi sono oltre
50 famiglie nel capoluogo e quasi 70 famiglie tra San Severo, Lucera, Torre Maggiore, Apricena e Carapelle19. Sono in gran parte Rom
pugliesi, anche se negli ultimi quarant’anni vi è stato un progressivo
ingresso di Rom abruzzo-molisani nell’Alto foggiano. Sono italiani
a tutti gli effetti, i loro cognomi sono italiani, il livello di scolarizzazione è relativamente elevato. Nondimeno, la loro condizione sociale
è ancora inferiore al resto della popolazione locale, e l’emergenza
occupazionale è più grave che in altri contesti del Meridione.
Per quanto attiene al tema dell’accesso ai servizi sanitari, esso riguarda più propriamente i Rom giunti da oltremare. Sono infatti i
Rom immigrati ad aver vissuto negli anni condizioni sanitarie precarie e difficoltà di accesso alle cure mediche. Negli ultimi vent’anni, contestualmente alla crescita della loro presenza nel foggiano,
si è assistito ad una presa in carico nell’assistenza medica da parte
dell’associazionismo e, successivamente, del sistema sanitario nazionale. Tutto ciò è stato facilitato da un quadro giuridico via via più
favorevole, a partire dalla legge Martelli che rendeva possibile le cure
sanitarie di emergenza per gli immigrati, fino a giungere alla legge
Turco-Napolitano che permetteva loro l’accesso anche ad alcune cure
continuative. Certamente, la questione sanitaria dei Rom a Foggia è
ancora lungi dall’essere risolta e, accanto a buoni risultati sul fronte
dell’educazione sanitaria e della normale profilassi medica delle famiglie rom, permangono condizioni ambientali e abitative fortemente
inadeguate, tali da rendere ancora oggi necessari interventi di emergenza sanitaria. Buone pratiche sanitarie convivono con “cattive”
pratiche abitative, creando un cortocircuito di difficile risoluzione. È
19 Si ringrazia l’Opera Nomadi per i dati e le informazioni fornite riguardo agli
stanziamenti; si ringrazia inoltre la direzione della Caritas diocesana di Foggia e
don Tonino Intiso (ex-direttore dell’Opera e della Caritas) per le considerazioni di
carattere storico; si ringrazia infine il dr. Scopelliti per tutti gli approfondimenti di
carattere sanitario presenti nel paragrafo.
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la conferma che la questione sanitaria è superabile solamente quando
la questione abitativa e quella lavorativa saranno messe al centro dei
progetti di intervento per l’inclusione sociale dei Rom.
4.3.1 L’indifferenza: l’afflusso dei Rom macedoni a Foggia e la stabilizzazione di una comunità. Anni: ’80-’90
Come detto, la crescita della presenza rom nel foggiano ha stimolato una crescita nei servizi di medicina per gli immigrati. Negli anni
Ottanta, la presenza dei Rom era modesta: vivevano sulla strada per
san Severo due comunità di Rom jugoslavi, in maggioranza macedoni
(Manjup khorakhanè, musulmani), oltre a Rom Crna Gora, bosniaci.
All’inizio degli anni Novanta, un primo censimento effettuato dalla
Caritas diocesana rilevava come la presenza dei Rom stranieri fosse
salita a circa 70 famiglie, in cui 133 adulti vivevano assieme a quasi
200 bambini. Ai Macedoni e ai Bosniaci, si erano aggiunti anche i
Croati provenienti dalle zone di guerra. Poveri di mezzi e spesso privi
di documenti, vivevano in particolare negli insediamenti abusivi di
via Trinitapoli e di viale Fortore, oltre che in insediamenti spontanei nei dintorni di Foggia. Si trattava evidentemente di sistemazioni
d’emergenza e le condizioni abitative e sanitarie non potevano garantire una qualità di vita dignitosa.
A causa della crescita dell’immigrazione nel territorio – non solo
rom, ma di tutte le etnie – l’AMCI (Associazione Medici Cattolici
Italiani), sezione di Foggia, si organizzò per garantire anche l’assistenza agli immigrati che non avevano la possibilità di accedere regolarmente ai servizi sanitari pubblici. In gran parte, si trattava di immigrati che lavoravano stagionalmente nei fondi agricoli, spesso con
rapporti di lavoro irregolari e senza permesso di soggiorno. Nel 1992
furono quindi aperti quattro ambulatori rurali, a Segezia, Incoronata,
Arpinova e Foggia. Del resto, tali ambulatori funzionavano durante
le stagioni in cui gli immigrati lavoravano, ma non nei restanti mesi
dell’anno. Pertanto, nel 1993 l’AMCI decise con la Caritas di portare l’assistenza sanitaria dentro la città di Foggia, in un ambulatorio
aperto tutto l’anno. Gli immigrati che abitavano in città potevano in
tal modo accedere alle prime cure sanitarie, con le risorse che l’organizzazione di volontariato riusciva a mettere a disposizione.
Nel frattempo, le 70 famiglie rom, che nei primi anni Novanta si
stabilirono nella città di Foggia, erano diventate 185 – circa settecen119
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to Rom, in maggioranza Manjup khorakhanè. Le cattive condizioni
igieniche e sanitarie degli insediamenti spontanei indussero il Comune di Foggia – sollecitato dalle organizzazioni caritative locali – ad
attrezzare un campo in via San Severo. I bagni erano in comune, ma
molte famiglie iniziarono ad abitare in roulotte, prefabbricati e in taluni casi in baracche. Vivevano vendendo fiori o manufatti di carta
presso i semafori, e nei casi peggiori, di elemosina. Tuttavia, molti
di loro nei Paesi d’origine erano artigiani, muratori, autisti, musici e
ballerini e cercarono per quanto possibile di dare continuità alla loro
attività professionale anche nel Paese di accoglienza.
Con i Rom del campo attrezzato provvisti di regolare permesso di
soggiorno il Comune stipulò un accordo corrispondendo ad alcuni di
essi un salario sociale, dietro prestazione di servizi di manutenzione
pubblica del Comune – esercitati in prevalenza all’interno del campo
stesso. Si andavano così a saldare alcune condizioni che avrebbero
permesso un relativo miglioramento delle loro condizioni di vita: il
passaggio da sistemazioni d’emergenza ad un campo attrezzato, o
quantomeno monitorato dalle istituzioni; la possibilità di accedere ad
alcuni servizi sanitari, dai quali erano in precedenza esclusi, direttamente in città; una prima forma di sostentamento economico che
permetteva ad alcuni Rom di lavorare e fare fronte a talune spese
domestiche.
L’anno 1995 fu un anno importante anche dal punto di vista legislativo. Fu promulgata infatti la cosiddetta legge Martelli, che introdusse in Italia la possibilità di assistenza medica pubblica agli irregolari, almeno per le prestazioni giudicate urgenti: interventi di pronto
soccorso, assistenza materno-infantile e profilassi internazionale delle malattie infettive. In effetti, fu il primo di una serie di atti legislativi
finalizzati a realizzare nel tempo una progressiva copertura sanitaria
per gli immigrati, qualunque fosse la loro condizione amministrativa
e il loro status giuridico.
Il favor legis dettato dal nuovo quadro giuridico, permise all’Opera Nomadi di costituire un osservatorio epidemiologico all’interno
del campo di via San Severo. A tal fine, venne avviata una collaborazione con la Clinica di malattie infettive dell’ospedale di Foggia,
che supportò materialmente il progetto. Si trattava di effettuare periodicamente uno screening sanitario per monitorare la condizione di
salute delle popolazioni insediate e di intervenire qualora se ne fosse
riscontrata la necessità. I prelievi e le vaccinazioni vennero effettuati direttamente nel campo, con l’ausilio di un’ambulanza attrezzata
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messa a disposizione dalla Croce Rossa Italiana. Il contatto frequente con gli animali e le precarie condizioni igieniche (molte famiglie
risiedevano in roulotte) favorivano l’insorgere di casi di tubercolosi e di parassitosi intestinale. Per esigenze di medicina generale, i
Rom continuavano a rivolgersi all’ambulatorio Caritas; invece per le
cure specialistiche potevano iniziare a usufruire dei servizi sanitari
dell’ospedale di Foggia.
Parallelamente all’assistenza sanitaria, le associazioni di volontariato portarono avanti un dialogo con le istituzioni, al fine di estendere
ai Rom e agli altri immigrati non regolari l’intera copertura sanitaria
destinata ai cittadini italiani, e non solo le prestazioni autorizzate dalla legge Martelli.
Alla fine degli anni Novanta vi fu un ulteriore innalzamento del livello di complessità nella gestione dell’immigrazione locale. Giunse
nella provincia foggiana un nuovo flusso di rumeni e bulgari, alcuni
dei quali di origine rom. Si trattava in prevalenza di persone che nei
Paesi d’origine lavoravano come muratori o braccianti agricoli, che
cercarono e talvolta trovarono occupazione nel settore edile e agricolo; settori con una buona capacità di assorbimento occupazionale nel
foggiano, sebbene in condizioni lavorative precarie. Le donne rom,
anche se in forma marginale, iniziarono a trovare lavoro come badanti, colf e in alcuni casi come braccianti agricole. In tutti i casi, l’accesso all’abitazione e al lavoro venne realizzato a costo di una forte
mimetizzazione etnica dei Rom bulgari e rumeni, celando la propria
origine. Tra l’altro, a differenza delle comunità già presenti sul territorio, le modalità di insediamento dei nuovi gruppi furono di tipo
dispersivo e abitativo. Dispersivo, perché non si concentrarono in insediamenti spontanei di tipo comunitario, ma si stabilirono in tutta la
provincia; abitativo, perché cercarono progressivamente di prendere
in affitto case dagli italiani o, nelle ipotesi peggiori, di occupare case
rurali abbandonate. Solo una piccola parte di essi si insediò in campi
spontanei20. Per contro, molti Rom bulgari e rumeni si sono dovuti muovere nella provincia, spinti da esigenze di lavoro stagionale e
20 È importante considerare le modalità di insediamento, perché si è visto come
esse influenzino le condizioni sanitarie dei Rom immigrati nelle possibilità di accesso e nella tipologia di trattamento sanitario. Vivere in abitazione offre una condizione sanitaria differente dal vivere all’addiaccio o in casali abbandonati. Sebbene
precari nel lavoro, vivere in appartamento ha permesso agli immigrati balcanici di
mantenere uno standard di vita al di sopra della soglia di sopravvivenza, al riparo
dai rischi sanitari derivanti da una sistemazione di fortuna.
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talvolta dall’irregolarità della condizione giuridica. Hanno dimorato
in abitazioni di fortuna, casali di campagna, a contatto con animali
randagi, e il rischio di malattie infettive è aumentato. Tale mobilità, più che vero e proprio nomadismo, dato che nel Paese d’origine
erano stanziali, ha reso particolarmente problematico il monitoraggio
delle loro condizioni di salute, e a distanza di anni non sembra essersi trovata una soluzione definitiva. Certamente, l’evoluzione della
legislazione in materia di permesso di soggiorno e l’ingresso della
Romania nella UE può aver creato le condizioni di emersione dalla
irregolarità per quei rumeni che si sono trovati nel frattempo a vivere
in condizioni di nomadismo o di semi-nomadismo, ma la difficoltà di
individuazione e di interazione con essi non ha permesso di avviare
un percorso di inclusione continuo nel tempo.
4.3.2 Cambiamenti dall’alto: la progressiva estensione dei servizi in
favore dei gruppi rom
Sempre in tema di evoluzione legislativa, nel 1998, la legge Turco-Napolitano ampliò ulteriormente le possibilità di cura per gli immigrati irregolari, introducendo l’assistenza per cure continuative ed
essenziali attraverso lo stato di straniero temporaneamente presente21 (STP). Approfittando dell’ampliamento del quadro giuridico, nel
2000 l’ambulatorio della Caritas fece pertanto una convenzione con
la ASL di Foggia ed ebbe la possibilità di utilizzare il ricettario regionale, di richiedere accertamenti e di prescrivere farmaci; farmaci sino
ad allora offerti agli immigrati grazie a campioni gratuiti concessi da
medici privati e dal servizio di un banco farmaci. Si apriva dunque
una nuova stagione, in cui avrebbero assunto un ruolo crescente gli
ambulatori pubblici.
In effetti, la svolta dell’intero processo di inclusione sanitaria dei
Rom vi fu nel 2002, quando il loro accesso ai servizi sanitari fu rafforzato con l’apertura di un poliambulatorio interetnico di medici21 Si trattò di un passo importante in termini di accesso ai servizi sanitari degli
immigrati, perché si superava la logica dell’intervento emergenziale e si introduceva la logica della normale profilassi sanitaria. Non solo: lo stato di STP permetteva
di superare, seppure parzialmente, l’impasse giuridico a cui si era giunti, giacché
estendeva le cure sanitarie anche agli immigrati arrivati in Italia in modo irregolare.
I rumeni irregolari e i bosniaci privi di passaporto a causa della guerra avevano ora
una possibilità di curarsi in modo continuativo.
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na generale, ostetricia e ginecologia, ortopedia e malattie infettive,
all’interno dell’ospedale di Foggia; servizio peraltro rafforzato dalla
presenza di una mediatrice culturale. L’apertura del poliambulatorio
rispondeva all’esigenza di soddisfare i molteplici bisogni sanitari che
erano emersi con più evidenza nel corso del tempo. Nata in ambito
volontaristico e strutturata in una forma embrionale dall’associazionismo di settore, l’assistenza sanitaria vedeva per la prima volta una
presa in carico diretta degli immigrati e dei Rom da parte dell’istituzione pubblica. Si trattava di un passo importante, perché avrebbe
condotto a quella continuità di intervento sanitario che in passato era
venuto a mancare e avrebbe successivamente portato ad alcuni benefici di lungo periodo.
Infatti, nonostante le difficili condizioni ambientali, la nascita
del poliambulatorio pubblico e l’accesso ai servizi sanitari per alcune cure continuative permise l’instaurarsi di un rapporto tra i medici
italiani e la popolazione rom che andava oltre la logica dell’emergenza sanitaria. Il consolidarsi di un rapporto stabile è testimoniato
da alcuni numeri forniti dal poliambulatorio. Dalle 146 prestazioni
ambulatoriali del 2003 si è passati alle 490 prestazioni del 2006, per
giungere alle 613 visite del 2009, senza distinzioni etniche, ma con
una prevalenza di macedoni (leggi: via di San Severo) su rumeni, polacchi e bulgari. Un dato evidentemente significativo, alla luce della
consistenza numerica relativamente bassa dei Rom sul totale della
popolazione foggiana.
In particolare, l’esperienza del poliambulatorio è stata positiva,
per le giovani donne rom, le più ricettive all’apprendimento delle
nozioni fondamentali di educazione sanitaria. Il punto di partenza
non era certo favorevole. Affrontavano gravidanze e parti con elementi di particolare criticità, legati al disagio, alla marginalità sociale, alla denutrizione e alle non rare infezioni dell’apparato genitourinario. Una scarsa educazione sanitaria durante la gravidanza e
uno scarso accesso ai servizi facevano il resto. Ciò si traduceva in
un maggior tasso di mortalità neonatale, di parti pre-termine e di
bambini con basso peso alla nascita rispetto alla popolazione locale.
Dall’apertura del poliambulatorio permane tuttora il maggior tasso
di parti pre-termine e la bassa media di peso alla nascita, perché le
condizioni di vita e di nutrizione rimangono comunque inferiori alla
media della popolazione foggiana. Sono condizioni esterne all’assistenza sanitaria ospedaliera, su cui il personale specializzato può
fare ben poco.
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Nondimeno, l’apertura del poliambulatorio ha migliorato soprattutto la componente di educazione sanitaria dei Rom, come mostrano i
dati in crescita dell’attività ambulatoriale. È pur vero che nell’accesso
ai servizi sanitari si è dovuto tenere conto anche di problemi specifici,
causati da un mix di condizioni ambientali e di fattori culturali. In generale, le donne rom hanno difficoltà ad accettare i trattamenti sanitari
invasivi, come ovuli e lavande; gli ovuli, perché preferiscono le terapie orali (anche se poi, quando si fa loro presente l’efficacia e il minor
nocumento della terapia locale, iniziano ad accettare quest’ultima); le
lavande perché, ad esempio, fino alla fine del 2008 i bagni pubblici
dei campi rom rendevano le terapie ginecologiche particolarmente
difficoltose. Come si vedrà nel paragrafo successivo, con il passaggio dalle roulotte ai prefabbricati con il bagno interno, l’effettuazione
delle terapie locali è stata resa più agevole. Se c’è una morale da trarre
in situazioni del genere è che, nell’ottica di una migliore fruizione dei
servizi, occorre tenere conto delle condizioni abitative in cui versano
i pazienti che si presentano negli ambulatori – abitazioni in affitto
piuttosto che campo attrezzato piuttosto che casolare abbandonato;
condizioni che dipendono a loro volta dalla disponibilità di reddito
della famiglia e dall’accesso al mondo del lavoro.
Come detto, in relazione ai settori di intervento l’assistenza principale ha riguardato l’accompagnamento durante la gravidanza, non
solo il parto. Assieme alle gravidanze, vengono seguite in questi anni
le interruzioni volontarie di gravidanza (il tasso di abortività è triplo
rispetto al resto della popolazione locale) e recentemente si sono iniziati ad effettuare gli screening del paptest, per la diagnosi precoce
dei tumori del collo dell’utero.
Sul fronte della prevenzione, oltre alle vaccinazioni previste dalla
legge, a partire dal 2009 sono state effettuate anche le vaccinazioni
antinfluenzali ai Rom macedoni (grazie alla presenza concentrata nei
campi, uno dei pochi vantaggi che tale soluzione offre) e si è iniziato
un percorso con i Rom rumeni, sebbene quest’ultimi siano più difficili da rintracciare, data la loro tendenza a disperdersi nella provincia
foggiana. Infine, accanto al lavoro del pronto soccorso, all’assistenza
ginecologica e agli screening legati alle malattie infettive, si effettua
oramai da anni il lavoro di ortopedia. Esso riguarda soprattutto gli
infortuni sul lavoro e gli incidenti automobilistici. I problemi di carattere ortopedico spesso presentano una terapia continuativa da seguire
nei mesi successivi alla dimissione e questo ha posto dei problemi
fino al 1998. Infatti, le lungo-degenze e le riabilitazioni ortopediche
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non rientravano nelle terapie per gli immigrati irregolari, per cui si
giungeva al paradosso che veniva prestata la terapia d’urgenza ma
non la riabilitazione. Con l’introduzione della possibilità di effettuare
le cure continuative per gli immigrati, hanno iniziato ad essere assegnate anche la fisioterapia riabilitativa e le protesi ortopediche, allargando perciò ulteriormente il ventaglio dell’assistenza sanitaria nei
confronti della popolazione rom.
4.3.3 Nel campo di Borgo Arpinova la città è distante
Tornando alla storia dei Rom a Foggia, il campo autorizzato di
via San Severo mostrava nuovamente alcuni problemi. Le scarse risorse economiche dedicate ad esso e i rapporti con la cittadinanza
non improntati alla pacifica convivenza (episodi di microcriminalità
nei dintorni del campo; il diffondersi di un atteggiamento ostile nei
confronti dei Rom della città) fecero sì che le condizioni del campo
andavano progressivamente peggiorando, così come le condizioni di
inserimento lavorativo. Nel 2005, il campo subì un incendio e i suoi
abitanti si trovarono in condizioni ancor più precarie. Il Comune di
Foggia stanziò allora oltre un milione di euro per sistemare i Rom
in un altro campo autorizzato, ad Arpinova, a tredici chilometri di
distanza dal primo, destinato originariamente non ai Rom ma ai rifugiati e alle altre popolazioni extracomunitarie. Centosedici famiglie
rom khorakhanè si trovarono a convivere con diverse decine di extracomunitari già insediati nel campo di Arpinova. Ad una rilevazione
effettuata l’anno successivo, risultavano regolarmente insediate 103
famiglie rom, composte da 218 adulti e 185 minori, di cui 80 scolarizzati. Di essi, 256 erano nati in Macedonia, 147 in Italia, di cui 145
a Foggia. La stanzialità quasi decennale dei Macedoni stava oramai
portando al consolidamento della seconda generazione di Rom, per
la quasi totalità nata in Italia, e in parte scolarizzata, grazie al lavoro
svolto nel precedente campo rom di Foggia.
Gli anni successivi sono stati importanti dal punto di vista dell’educazione sanitaria dei Rom di Arpinova, anche se le condizioni ambientali hanno riproposto nuovamente il tema dell’emergenza sanitaria. Negli ultimi tre anni, il campo ha presentato casi di infezione
sia di uomini che di animali, tanto che dal 2007 l’Opera Nomadi in
collaborazione con la Clinica di malattie infettive dell’Azienda Sanitaria Mista Ospedaliero-Universitaria “Ospedali Riuniti” di Foggia e
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la Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Foggia ha intrapreso un’azione di screening con esami del sangue e delle feci, sugli
uomini e sugli animali, per le zoonosi – malattie che si trasmettono
dagli animali all’uomo. La situazione riscontrata ha sollecitato la richiesta di interventi di ristrutturazione dei servizi igienici, delle fogne
e delle roulotte fatiscenti, interventi che purtroppo sono stati effettuati solamente dopo l’incendio del 19 dicembre 2008, dove quindici
tra roulotte e case prefabbricate hanno preso fuoco e ha perso la vita
un bambino di tre anni. Il campo è stato posto sotto sequestro dalla
Procura della Repubblica di Foggia, che lo ha dissequestrato soltanto
nel 2009, dando via libera al Comune per la ricostruzione. Stando ai
dati forniti dall’Opera Nomadi del 2008 e del 2009, delle oltre 100
famiglie del 2005 sono rimasti 60 nuclei familiari che abitano in 40
nuovi prefabbricati e in 20 baracche. Certamente non si fuoriesce dalla logica del campo, ma i prefabbricati hanno il bagno, garantiscono
le utenze essenziali e quantomeno le condizioni igienico-ambientali
sono migliorate.
4.3.4 L’incerto intreccio tra crescita della popolazione rom e sviluppo dei servizi socio-sanitari dedicati
Al termine di questo breve excursus sull’assistenza sanitaria dei
Rom nel foggiano, è utile concludere con qualche breve riflessione.
Volendo fare un bilancio, si può affermare che l’assistenza sanitaria
sia oggi maggiormente articolata di quanto lo fosse solo pochi anni fa.
Alcuni anni or sono, la medicina garantiva l’assistenza agli immigrati
irregolari solamente in situazioni d’emergenza. In aggiunta, le condizioni dei campi rendevano obbligatori gli screening sanitari per evitare l’insorgere dei focolai infettivi e procedere in tal modo a forme di
vaccinazione obbligatoria. Tuttavia, si restava nell’alveo delle ragioni
di sicurezza pubblica. L’evoluzione del quadro giuridico e una rinnovata coscienza del personale sanitario ha trasformato un rapporto “di
pronto soccorso” in un rapporto di educazione sanitaria, dove a beneficiarne sono state soprattutto le donne. In particolare, l’esperienza di
questi ultimi anni, infatti, è stata positiva per le giovani donne rom,
che hanno dato prova di una buona reattività ad assumere un nuovo
stile di vita in materia sanitaria.
In generale, i Rom stanziatisi nel foggiano nel decennio scorso
sono oramai in gran parte residenti, e la seconda generazione è nata
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in Italia. Molti di essi hanno cittadinanza italiana, e si avvalgono delle
strutture ospedaliere e ambulatoriali a disposizione della popolazione
italiana. A onor del vero, c’è da dire che l’ambulatorio dedicato ai
Rom è ancora attivo, perché gli irregolari ci sono sempre. Nondimeno, solo la metà degli utenti del poliambulatorio sono macedoni, e il
dato è in diminuzione, a testimonianza di come il passaggio nel circuito dell’integrazione si stia realizzando, sebbene con tempi lenti e
con molta fatica. Permane uno stato di emergenza per quanto riguarda
una parte dei Rom bulgari e dei rumeni, emergenza che solamente un
approccio sistematico al problema può risolvere.
In altre parole, le esperienze positive di integrazione dei Rom nelle realtà territoriali locali passano per quello che don Tonino Intiso
(ex-direttore di Caritas Foggia e di Opera Nomadi) chiama un progetto completo. I quattro snodi fondamentali per l’integrazione dei
Rom riguardano la scuola, il lavoro, la sanità e la casa, e non si può
sciogliere un nodo senza sciogliere contemporaneamente gli altri. Un
esempio, in tal senso, è chiarificatore, e riguarda la scolarizzazione. Il
Comune di Foggia e le associazioni coinvolte sono riusciti a portare
a scuola, in questi anni, centoventi bambini rom. Perché ciò avvenga
è necessario che abbiano fatto le vaccinazioni previste dalla legge, e
che le condizioni igienico-sanitarie dei bambini rom non costituiscano un rischio per gli altri bambini. Di conseguenza, per mantenere
un buon livello d’igiene occorre che i campi in cui vivono abbiano a
loro volta condizioni igienico-sanitarie idonee, con fognature e bagni
funzionanti, accesso all’acqua, alla corrente, ecc; altrimenti, i bambini tornano a scuola in condizioni igieniche non idonee, e si ripresenta
dunque la questione del loro accesso a scuola. Quindi, se l’ambiente
dove abitano è mantenuto in condizioni buone, anche la scolarizzazione dei bambini è possibile; viceversa, se ciò non è possibile, si
presentano difficoltà oggettive: in sostanza, l’una garanzia è legata
alle altre. Pertanto, parlare di progetto completo significa prendere
coscienza della natura sistemica del problema, individuare i fattori
che lo compongono e cercare di risolvere la situazione nella sua globalità.
Ciò significa tirare in ballo il ruolo strategico dell’interlocutore
pubblico. Una visione sistemica è pertinenza del mondo politico.
Sotto questo profilo, non si può parlare di integrazione dei Rom nei
territori, se non c’è una presa in carico seria e costante da parte delle
amministrazioni locali. Quale che sia il modello di intervento pubblico adottato – intervento diretto dell’ente locale o ruolo di regia – di127
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venta fondamentale il coordinamento di tutti i soggetti coinvolti e il
reperimento dei fondi necessari a finanziare le attività. Tra le parole di
alcuni dirigenti di terzo settore intervistati, affiora la difficoltà a coordinare enti pubblici, enti del privato sociale e talvolta enti privati che
sono coinvolti nei servizi ai Rom. Si ha come la sensazione che taluni
soggetti vogliano in qualche modo valorizzare il proprio contributo
senza tener conto del contributo fornito dagli altri, per una necessità primaria di visibilità. Ciò rende ancora più evidente nel contesto
foggiano l’esigenza di un ruolo forte del soggetto pubblico, quanto
meno nell’indicare una prospettiva unitaria ai diversi interventi da
effettuare e nell’attribuire deleghe chiare e circoscritte ai vari soggetti
interessati.
Ora, l’atteggiamento della pubblica amministrazione a riguardo è
condizionato dalla disponibilità di fondi utilizzabili per progetti specifici, come i campi rom o i servizi per la scolarizzazione. A tal proposito, il Comune di Foggia non sempre si è trovato nelle condizioni
migliori per dare seguito a progetti di intervento, e ciò ha comportato
l’adozione di una strategia, per così dire, a singhiozzo: così, nei primi
anni Novanta la giunta comunale è riuscita a trovare le risorse per
realizzare il campo attrezzato di via San Severo – e strappare così le
oltre cento famiglie rom insediatesi in città da una condizione di forte
indigenza; nondimeno, la mancanza di risorse per gli anni successivi
ha comportato il progressivo degrado del campo e la fuoriuscita dallo
stesso di numerose famiglie, sostituite progressivamente da famiglie
provenienti dalle zone di guerra, senza quella continuità di intervento
che avrebbe quantomeno favorito un migliore inserimento della seconda generazione; così, il progressivo degrado del campo di via San
Severo è culminato con l’incendio del campo stesso, nel 2005, e il
trasferimento delle famiglie al campo di Borgo Arpinova, vanificando
in tal modo quanto costruito con fatica nel precedente campo rom – in
termini di rapporto con le scuole, con la popolazione locale, con i servizi. Vi è da dire che sotto il profilo sanitario c’è stata una continuità
d’intervento, già a partire dai primi anni Novanta, grazie alla presenza
di personale medico e paramedico che ha dato vita a strutture via via
più attrezzate di medicina per gli immigrati. Oggi si è giunti ad una
presa in carico diretta dell’interlocutore pubblico e a forme mature di
collaborazione tra associazioni e enti sanitari pubblici, come nel caso
degli screening sanitari effettuati da medici-volontari di associazioni,
in collaborazione con la clinica delle malattie infettive dell’ospedale di Foggia. Tutto ciò è stato possibile perché le risorse destinate
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all’assistenza sanitaria lo hanno permesso. È chiaro che la continuità di intervento in materia socio-assistenziale è garantita solo dalla
continuità di fondi disponibili, fondi che non sempre sono rintracciabili, per varie ragioni: il progressivo aumento della spesa pubblica;
una maggiore razionalizzazione dei trasferimenti dallo Stato agli enti
locali; probabilmente, un’agenda politica locale che privilegia altri
aspetti che non il tema dell’immigrazione. Fatto sta che il successo di iniziative di accesso ai servizi e ai diritti di cittadinanza delle
minoranze etniche dipende dalla continuità degli interventi posti in
essere, all’interno di una visione di sistema del problema e di un coordinamento dei soggetti interessati, punti che possono essere realizzati
attraverso una continuità di risorse finanziarie dedicate.
In definitiva, se non si guarda al problema rom in una prospettiva
sistemica, sviluppando interventi integrati e in rete, si corre il rischio
di produrre azioni che non incidono in modo rilevante sul processo di
inclusione dei Rom e, in generale, di coloro che vivono una condizione di forte esclusione sociale.
4.4 Conclusioni
Panareo e Arpinova sintetizzano un’idea di gestione della “questione Rom” che ha visto proliferare in tutto il territorio nazionale
campi-sosta, più o meno autorizzati. In questi luoghi quotidianamente
si intrecciano vissuti di degrado ed emarginazione sociale con storie
in cui la dignità e la speranza per un futuro migliore contrastano con
la miseria, in primis relazionale, che determina il vivere segregati. Al
Panareo, così come ad Arpinova, si trova tutto questo: un impasto di
dolore e speranza che alimenta le giornate di gran parte delle famiglie.
Nei campi-sosta la città è lontana: i bambini escono dal campo per
andare a scuola; i loro genitori, invece, per assicurarsi un minimo di
sostentamento economico. Le relazioni tra noi e loro sono ridotte al
minimo, il campo è funzionale ad assicurare una “pacifica” convivenza tra Rom e gagè, relegando i primi in una condizione di isolamento,
spaziale e sociale, e tranquillizzando i secondi sul rischio che questa presenza minacciosa possa essere un fattore di destabilizzazione
dell’ordine pubblico.
Del resto Arpinova e Panareo non sono che gli ultimi approdi, in
ordine di tempo, di un viaggio fatto di trasferimenti di intere famiglie
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da un luogo all’altro della città, spesso accolte da un clima di ostilità
che di fatto prepara il campo per nuove partenze in altri luoghi. Così,
da un trasferimento all’altro, i Rom si allontanano dalla città, confinati in strutture che di fatto restringono le opportunità di entrare in
relazione con loro.
Allora, in una situazione del genere, a fare da spartiacque tra la
disperazione di un presente consumato ai margini della città e la speranza di un futuro più dignitoso è la presenza o meno di una rete di sostegno, composta da organizzazioni del privato sociale, da istituzioni
locali e da semplici cittadini.
Dei ponti che non siano solo funzionali a dare risposte agli innumerevoli problemi legati all’organizzazione e alla gestione della vita
all’interno dei campi-sosta, ma anzi che consentano di creare opportunità di scambio e momenti di conoscenza reciproca, presupposto
indispensabile affinché la “questione Rom”, da problema di ordine
pubblico possa diventare un’opportunità d’inclusione sociale e sviluppo democratico di un intero Paese.
Ciò non significa soltanto enunciare la necessità di incentivare
forme di maggiore collaborazione tra i diversi attori locali, ma sostenerle realmente con una chiara volontà di tutti a non chiudersi dentro
atteggiamenti e visioni autoreferenziali. Nel caso di Lecce affiora con
evidenza questa volontà, con la costituzione di forme organizzative
quali il Comitato di Difesa per i Diritti degli Immigrati e il Centro
Migrantes, che pur nella loro diversità, si muovono entrambi sul terreno della tutela e della promozione dei diritti degli immigrati. La
configurazione reticolare di queste associazioni rappresenta, oltre ad
un mezzo per rispondere in modo più efficiente ad una domanda che,
soprattutto agli inizi degli anni Novanta, è andata via via crescendo,
anche una cassa di risonanza, per rendere ancor più incisiva l’opera
di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle istituzioni sui temi
connessi al rispetto dei diritti degli immigrati.
Nondimeno, queste reti associative hanno rappresentato anche dei
luoghi di confronto “informale” tra operatori degli enti locali e i volontari delle associazioni: dei laboratori in cui sperimentare, senza
vincoli d’ufficio, la personale spinta altruistica; luoghi di discussione
dove mettere in circolo informazioni, idee e proposte. Spazi di condivisione che hanno preparato il campo allo sviluppo, all’interno delle
istituzioni locali, di una cultura del servizio fondata sulla partecipazione e la collaborazione tra i diversi attori locali. Sotto questo profilo
è possibile leggere il percorso personale e professionale intrapreso
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dalla responsabile dell’Ufficio immigrazione della Provincia di Lecce. La sua personale storia di vicinanza e sostegno alle famiglie rom
filtra nel modo di concepire e svolgere il suo lavoro presso gli uffici
del Comune di Lecce prima e, successivamente, presso le strutture
della Provincia salentina. Il progetto “Servizi Immigrazione Salento”
sintetizza un’idea d’intervento che fa dell’organizzazione a rete degli
attori coinvolti l’elemento centrale.
In tal senso, Rosalba D’Agata è stata per certi versi una testa ponte
all’interno delle istituzioni locali, introducendo un modo d’intendere
il servizio, maturato in spazi di discussione e di confronto che hanno
visto la partecipazione libera di molte persone, provenienti da realtà
talvolta assai distanti fra loro, accomunate dalla necessità di sviluppare interventi sul territorio di promozione sociale delle famiglie rom.
Un contrassegno fondamentale di questo processo è stata la programmazione e il coordinamento delle attività in vista di un obiettivo comune, rappresentato dalla chiusura del campo di Panareo. Insomma
un’idea per certi versi nuova rispetto al consueto modo di approcciare
alla questione Rom, fuoriuscendo dalle secche di un assistenzialismo
senza prospettive. Un approccio quest’ultimo che è presente nel caso
di Foggia in cui si evidenzia l’assenza di prospettiva negli interventi
realizzati nel campo di Arpinova. A differenza di Lecce, nel campo di
Arpinova l’associazionismo non è riuscito a dar vita a forme di collaborazioni miste (operatori pubblici e del privato sociale) in grado
sia di elaborare strategie di fuoriuscita da una situazione di costante
emergenza, sia di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di
ricercare delle soluzioni alla questione Rom che esulino da una concezione avvitata sul binomio ordine pubblico e consenso politico.
Eppure anche a Foggia, come a Lecce, le motivazioni di chi si
spende quotidianamente per il miglioramento delle condizioni di vita
dei Rom sono altrettanto elevate. Tuttavia, nel capoluogo foggiano
queste spinte personali non hanno trovato un adeguato terreno – istituzionale e sociale – di condivisione e partecipazione, rimanendo
imbrigliate all’interno di prassi focalizzate sulla contingenza del momento e sulla delega istituzionale.
In conclusione dunque le esperienze di Lecce e di Foggia, lette in
modo trasversale, portano alla luce l’importanza di creare sul territorio spazi che incentivino il confronto tra i diversi attori coinvolti dal
problema Rom, sviluppando presso gli operatori e i tecnici, in generale, un’idea del servizio che sappia guardare avanti: ad un domani in
cui il campo-sosta cesserà di esistere.
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Capitolo 5
Calabria: luci e ombre nelle politiche
pubbliche in favore dei gruppi Rom
ANGELO PALAZZOLO, GIANFRANCO ZUCCA1
5.1 In fondo alla penisola: la geografia degli insediamenti rom
in Calabria
Come in altre regioni italiane la presenza dei Rom in Calabria
è antica. Pur mancando ricostruzioni circostanziate, la storia sociale delle popolazioni romaní nella regione è il risultato di una serie
di mutamenti sociali caratterizzati da una mobilità quasi mai liberamente scelta [Piasere, Pontrandolfo 2002]. Gli insediamenti rom presenti oggi sono l’effetto di molteplici cause: la mobilità economica
che ha portato le comunità a stanziarsi laddove erano relativamente
migliori le opportunità di sostentamento; la diaspora innescata dalle
guerre balcaniche; i cambiamenti urbanistici che hanno trasformato
aree di scarso interesse abitativo in luoghi di valore immobiliare; le
politiche sociali che in modo a volte contraddittorio hanno tentato
di coniugare sicurezza e diritti. Radicamento e circolazione in altri
termini sono fenomeni ambigui [Pontrandolfo, Trevisan 2009]: come
nei secoli passati, per i Rom il nomadismo non è un archetipo culturale, ma una forma di adattamento al contesto socio-economico nel
quale si vive.
In Calabria, la geografia romaní si esprime dunque sotto forma
di una presenza stratificata, nel tempo e nello spazio: accanto a si1 Angelo Palazzolo ha redatto il paragrafo 5.2 e 5.5 mentre Gianfranco Zucca
ha scritto i paragrafi 5.1, 5.3 e 5.6; il paragrafo 5.4 è una rielaborazione della sezione 3.3, a cura di Roberto De Angelis e Marco Brazzoduro, disponibile in IREF
2010b.
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tuazioni di lungo insediamento e penetrazione nel tessuto urbano, ci
sono casi di recente consolidamento, per lo più caratterizzati dai ben
conosciuti fenomeni di marginalizzazione spaziale.
Stando ai dati raccolti con la mappatura multi-metodo (cfr. cap. 2),
a primavera del 2010 gli insediamenti rom presenti in Calabria erano
ventisei. Come richiamato in altre parti del volume, determinare la
consistenza dei gruppi romaní è un’operazione che deve procedere
per approssimazione. Soprattutto per quel che riguarda gli insediamenti più precari e provvisori, la mobilità (spesso imposta, qualche
volta agita) delle famiglie e dei gruppi rom non permette di giungere
a mappe definitive.
In Calabria (vedi cartina 5, p. 221), gli insediamenti censiti risultano localizzati in diciotto comuni: Cosenza, Praia a Mare, Reggio Calabria, Cassano Ionio, Spezzano Albanese, Crotone, Lamezia Terme,
Catanzaro, Riace, Laureana di Borrello, Rosarno, Gioia Tauro, Gioiosa Ionica, Locri, Siderno, Bovalino, Brancaleone, Melito di Porto
Salvo. In queste aree vivono circa novemila persone. I rom autoctoni
presenti nella regione sono invece più o meno 6.000, dislocati nelle
diverse province. In particolare, negli ultimi anni si sono consolidate due comunità di Rom Shiftarija (circa 70 famiglie), provenienti
dal Kosovo e dal Montenegro, nella Sibaritide, in case rurali, ed a
Crotone, in casette mononucleari autocostruite. A Reggio Calabria,
alcune decine di Rom Shiftarija vivono in case in affitto, collegati
parentalmente agli omologhi gruppi siciliani. La presenza stagionale
di un centinaio di famiglie di Sinti giostrai è di origine antica, mentre
risulta meno significativa la presenza, perlopiù estiva, di alcune decine di famiglie di Rom jugoslavi a Gioia Tauro e circondario. Su tutto
il territorio regionale è invece generalizzata la presenza di Rom romeni, molti dei quali ubicati in baraccopoli ed edifici fatiscenti. Campi
in condizioni di estremo degrado sono inoltre presenti a Cosenza e
Crotone, anche se la situazione più difficile appare essere quella della
provincia reggina, con le casette precarie in muratura di Melito, Gioiosa, Brancaleone, Gioia Tauro e Bovalino. Nel cosentino e a Rosarno
diverse famiglie Rom romene vivono in case in affitto2.
Ad uno sguardo d’assieme la situazione calabrese appare alquanto
frammentata: non sono presenti significative concentrazioni territoriali se non in corrispondenza dei capoluoghi, dove in alcuni casi si
2 Si ringraziano Massimo Converso e Giacomo Marino dell’Opera Nomadi per
le informazioni sulle condizioni abitative dei Rom nelle diverse aree della Calabria.
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hanno due o tre insediamenti. Inoltre, il fatto che non ci siano campi
nell’entroterra sembra essere legato alla geografia umana calabrese
che vede i centri dell’interno tendenzialmente poco abitati, soprattutto nella stagione invernale. Al di là della conformazione geografica, occorre ricordare che la situazione attuale si è originata dalla
giustapposizione tra comunità di antichissimo insediamento e gruppi
neo-immigrati provenienti dall’Albania, dall’ex-Jugoslavia e dalla
Romania.
Nei secoli, la Calabria ha rappresentato il principale snodo della
cosiddetta “diaspora albanese”. Il cosentino è una delle aree dove, a
partire dalla seconda metà del ’4003, più forte è stato l’insediamento
di comunità di origine albanese. Tra i diversi centri arberesh, Spezzano Albanese rappresenta un caso interessante poiché, accanto alla
presenza secolare della comunità albanese, si attestano insediamenti
rom risalenti al XVII secolo. In anni recenti in questa zona hanno
cominciato a trasferirsi in modo più o meno stabile anche gruppi di
Rom slavi.
Al di là delle coincidenze storiche, le comunità di maggior rilievo
si trovano nei capoluoghi di provincia dove, a partire dal secondo
dopoguerra, i gruppi rom – anticamente impegnati in percorsi circolatori di tipo trans-regionale (lungo tutto l’arco jonio) al seguito dei
lavori stagionali – tendono a sedentarizzarsi. Secondo l’antropologo
calabrese Mauro Minervino [1995]:
I rom calabresi da lungo tempo oramai non possono più essere considerati nomadi in senso stretto; rappresentano piuttosto una fascia
di popolazione marginale con caratteri distintivi presente in ambiente urbano, formatasi nel secondo dopoguerra dopo un lungo processo di nomadismo ristretto sempre più limitato intorno ai centri locali e alle città capoluogo come Cosenza, Lamezia Terme-Nicastro,
Catanzaro e Reggio Calabria. Città scelte dai Rom come nuove basi
insediative della loro presenza dopo che la guerra e la crisi delle
campagne con il conseguente esodo migratorio delle popolazioni
rurali proprio verso i centri urbani maggiori, impedivano loro di
3 A seguito dell’occupazione ottomana (seconda metà del 1400), avvenuta dopo
una resistenza di 25 anni (guidata dall’eroe nazionale Giorgio Castriota “Skanderbeg”), centinaia e centinaia di albanesi lasciarono la patria per rifugiarsi nelle terre d’oltre Adriatico ed essere accolti dagli Aragonesi. Sulla presenza albanese nel
Meridione cfr. Giura 1988 e 2008; di questi eventi riferisce anche Fernand Braudel
[1953] nella sua ricostruzione delle civiltà del mediterraneo.
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svolgere pressoché definitivamente le tradizionali attività produttive
come l’allevamento, il piccolo commercio ambulante e l’artigianato
a supporto dell’economia rurale. Processi di mutamento che hanno
giocoforza riconfigurato la loro presenza nel nuovo assetto sociale
e insediativo tipico di una regione ad economia dipendente come la
Calabria, amplificandone conseguentemente i caratteri di recessione
sociale e di disagio sulla via di una difficile e caotica modernizzazione che ha respinto progressivamente i Rom calabresi al bordo più
estremo della società locale.
I processi di inurbazione e le migrazioni interne che interessano la
Calabria nel corso degli anni Sessanta hanno contribuito a modificare
radicalmente la condizione dei rom calabresi. Venendo meno il circuito dell’economia stagionale agricola e dell’artigianato ambulante, la
sedentarizzazione e la riconversione ad attività “urbane” hanno messo in moto un processo che con il tempo si è dimostrato sempre più
problematico.
Accanto a questi fenomeni, a partire dall’inizio degli anni Novanta, anche la Calabria ha iniziato ad essere meta dei flussi migratori
originatisi con le ricorrenti crisi balcaniche. Crotone ha rappresentato una delle porte di ingresso in Italia, prima per i migranti in fuga
dall’implosione del regime albanese; poi per i profughi e i rifugiati
delle guerre jugoslave. L’arrivo di gruppi di Rom Khorakhané e Shiftarija (musulmani e provenienti per lo più da Kosovo e Macedonia),
Cergarija (Serbi) e poi ancora dei gruppi di origine romena ha creato una situazione nella quale la Calabria è diventata uno dei tanti
crocevia migratori: per alcuni è solo una tappa provvisoria, per altri
un punto d’arrivo. C’è da ribadire che i flussi attivatisi negli anni
Novanta hanno coinvolto popolazioni stabilmente sedentarie e che,
prima della guerra, presentavano livelli di integrazione sociale relativamente elevati (per intendersi: casa, lavoro, scuola). Per questi
gruppi, l’emigrazione ha rappresentato una marcata perdita di status:
da una condizione di vita dignitosa, anche se non florida, sono stati
sbalzati verso la più completa indigenza e costretti, quindi, a spostarsi
all’estero, riscoprendo le rotte del nomadismo.
Cosicché negli ultimi decenni in alcune città calabresi si sono andate formando delle sacche di marginalità sociale dalla composizione
inedita: Rom italiani e Rom stranieri che, in alcuni casi, si sono trovati a dover convivere. Il risultato è che spesso questi due gruppi sociali
sono in competizione per risorse come il controllo di pezzi di econo136
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mia informale o di aree di insediamento segregate. Un caso esemplare
è la situazione che si è andata creando lungo il fiume Crati a Cosenza
dove, sulle due sponde, si sono stratificati insediamenti spontanei, costruzioni in muratura, baracche e rifugi di fortuna che ospitano tanto
gruppi storici di Rom cosentini (nelle case di muratura di via Popilia)
quanto i nuovi arrivati (nelle baracche lungo il fiume). Questa concentrazione eterogenea non è responsabilità esclusiva delle comunità
rom: a partire dagli anni Sessanta in quest’area si sono susseguiti una
serie di progetti abitativi rivolti ai Rom italiani. Questi interventi, pur
segnando un progresso relativo delle condizioni di vita, non hanno
risolto la questione della qualità abitativa.
La Calabria è, dunque, un punto d’osservazione particolarmente
interessante della situazione dei Rom poiché sul suo territorio si sovrappongono gruppi con storie ed esperienze diverse: tale caratteristica permette di ragionare in termini comparativi e di evidenziare le differenze. Infine, un ulteriore motivo di interesse è dato dalle politiche
pubbliche che nel corso degli anni sono state realizzate sul territorio
regionale. Si è trattato di interventi nei quali sono stati sperimentati
approcci e soluzioni inediti: i risultati, come si avrà modo di valutare,
sono stati tuttavia altalenanti.
5.2 Oggi come ieri, la casa. I bisogni dei rom calabresi dopo
cinquanta anni di politiche sociali
Con il venir meno delle tradizionali forme di lavoro, la componente
romaní stanziata in Calabria ha iniziato a stabilirsi nelle città maggiori, laddove era possibile inserirsi negli interstizi della nascente economia urbana. Parallelamente alla modernizzazione, la società calabrese
ha iniziato a porsi la questione di come offrire ai gruppi rom delle
occasioni di integrazione e di consolidamento della propria posizione
sociale [Minervino 1995]. I primi interventi in questa direzione risalgono addirittura agli anni Sessanta, quando in alcune città capoluogo
le amministrazioni dell’epoca decidono di intervenire sulla questione.
A riguardo è interessante far riferimento al caso di Cosenza.
Negli anni Quaranta i Rom cominciano a stabilirsi in città, in via
Panebianco, dove vanno ad occupare delle baracche di legno dismesse dall’esercito. Dal momento che le scelte abitative vengono prese
sempre in un’ottica comunitaria, il primo insediamento cosentino inizia ad allargarsi per l’arrivo dei parenti delle famiglie già insediatesi.
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Dalla ricostruzione di Franca De Bonis [1996], realizzata con archivi dell’epoca, si legge che il sindaco in carica nel 1945 chiese alla
Prefettura un contributo di un milione di lire per la realizzazione dei
servizi igienici in queste baracche. De Bonis, peraltro, precisa che
nei documenti dell’epoca non si faceva distinzione tra zingari e non
zingari, poiché queste persone vennere genericamente identificate
con il termine “sinistrati”, famiglie rimaste senza alloggio. Negli anni
Cinquanta, l’Ente Comunale Assistenza costruisce in via Gergeri, al
di là del fiume Crati, delle casette monofamiliari in muratura per le famiglie bisognose. Nel frattempo, l’amministrazione decide di espropriare i terreni di via Panebianco e di trasferire i Rom a via Gergeri in
baracche di legno senza servizi nei pressi delle nuove case popolari.
Negli anni Sessanta si inizia la costruzione di nuove case popolari
in Via Popilia: gli assegnatari (non Rom) delle case popolari di via
Gergeri passano nelle nuove costruzioni, mentre i Rom si stabiliscono
nelle casette lasciate libere da questi ultimi. Sempre in quegli anni,
il Comune riconosce ufficialmente la presenza dei Rom concedendo
loro la residenza.
L’iscrizione in anagrafe permette ai Rom di partecipare ai bandi
per l’assegnazione degli alloggi popolari, così agli inizi degli anni
Settanta alcune famiglie residenti in via Gergeri si trasferiscono a via
Popilia, mentre altre non risultate assegnatarie dell’alloggio decidono
di occupare le case (in città questo episodio è noto come “la rivolta
degli zingari”)4. Dopo questi avvicendamenti alcune famiglie decidono di costruire delle baracche in via Lungo Crati Palermo, vicino alle
nuove case popolari.
La storia dei Rom di Cosenza pone in evidenza almeno due questioni fondamentali per comprendere il nesso tra politiche pubbliche
e integrazione sociale dei Rom. Prima che diventasse un campo minato, non vi erano dubbi che la questione abitativa fosse un punto
dirimente: evitare il separatismo abitativo attraverso l’inserimento
dei rom in progetti di edilizia popolare era la priorità delle amministrazioni locali cosentine. Nel primo dopoguerra sembrava essere già
ampiamente diffusa la consapevolezza che la mobilità delle comunità
rom non fosse un attributo culturale: venute meno (o ristrettesi) le
forme di circolazione legate al commercio, le famiglie rom – come
quelle degli altri “sinistrati” – avevano l’esigenza di abbandonare gli
4 Per altri dettagli su queste vicende si veda De Bonis [1996: 23-25] e IREF
2010b.
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insediamenti precari e di poter godere di abitazioni migliori. Quella
che negli anni Cinquanta era un’acquisizione stabile è oggi il grande
tabù delle politiche sociali.
Dalla storia dei Rom cosentini si può trarre anche un secondo insegnamento: l’instabilità e la provvisorietà delle soluzioni. Sebbene
le amministrazioni locali del secondo dopoguerra avessero le mani
più libere sul fronte delle politiche abitative, i Rom sono sempre stati
considerati un gruppo sociale che può essere spostato a piacimento.
In poco meno di quindici anni, i Rom cosentini (alcune centinaia di
famiglie) sono stati più volte dislocati, andando a rimpiazzare quelle famiglie in posizione superiore in una ipotetica gerarchia sociale
dei bisogni. È singolare che questo trattamento differenziale coincida proprio con il riconoscimento dei Rom come minoranza (all’atto
dell’iscrizione in anagrafe): nel momento in cui da famiglie in situazione di bisogno si passa ad essere “famiglie rom” le sistemazioni si
fanno, se possibile, ancor più provvisorie.
Queste vicende restituiscono le luci e le ombre di interventi pubblici per altri versi innovativi. Tuttavia occorre precisare che gli interventi summenzionati presero forma in un periodo storico nel quale
l’edilizia pubblica era un pilastro del sistema di assistenza: quando
negli anni Novanta, con il crollo dei regimi comunisti e le guerre
balcaniche, si misero in moto ingenti flussi di profughi e rifugiati, la
casa popolare si era già trasformata in una risorsa scarsa per la quale
la competizione tra soggetti in stato di bisogno era molto forte.
Senza voler necessariamente proporre una relazione diretta, occorre comunque notare che attualmente gli interventi sviluppati in
favore dei Rom hanno cambiato approccio. I risultati della mappatura
dei progetti attivi in Calabria5, evidenziano la presenza di iniziative
di taglio settoriale, centrate soprattutto sull’accesso ai servizi (sanità
e scuola) e rivolti ai soggetti più deboli dei gruppi rom (donne e bambini). In alternativa, un approccio diffuso è quello sviluppato all’interno di progetti che per comodità possono essere definiti facendo riferimento alla nozione di empowerment6: in questa macro-categoria
rientrano sia interventi più tradizionali (formazione e avviamento al
lavoro) sia azioni più complesse che prevedono il lavoro autonomo o
in forma cooperativa. Significativa è infine la scelta fatta, di recente,
5
Per la metodologia usata nel corso della mappatura cfr. par. 2.2.
L’empowerment è una categoria della psicologia di comunità usata in ambito
di progettazione sociale per sviluppare interventi centrati sull’efficacia individuale.
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a Reggio Calabria dove il Comune ha deciso infatti di puntare su un
progetto a carattere socio-abitativo7.
Questi diversi orientamenti possono essere meglio apprezzati facendo riferimento a due tra i principali progetti realizzati negli ultimi
anni sul territorio calabrese. Il progetto Assi – finanziato con fondi del
Ministero dell’Interno – è stato finalizzato all’inclusione degli immigrati attraverso azioni di integrazione linguistica e culturale, di formazione professionale, di avviamento al lavoro e, infine, di sostegno
socio-assistenziale. Si tratta di un progetto caratterizzato da un’ampia
e diversificata partecipazione di attori pubblici e del privato sociale.
Assi è un caratteristico esempio di progetto basato sul potenziamento delle capacità del singolo e della sua rete relazionale. Analogo al
precedente, sia per il soggetto finanziatore (Ministero dell’Interno)
sia per gli obiettivi che si pone è il progetto denominato la “Strada
del lavoro” che vede il Comune di Reggio Calabria partner operativo
nella realizzazione degli interventi8.
Non sfugge la differenza che intercorre tra una logica operativa
basata sul preliminare accesso al bene casa (nell’ipotesi che da questa
normalizzazione discenda un’autonoma tensione verso l’integrazione) e una logica che invece pone la casa come un punto di arrivo,
a seguito di una insistita azione di sostegno e motivazione. Al di là
delle mutate condizioni del welfare italiano, è chiaro che si tratta di
strategie di intervento molto distanti tra loro.
5.3 Da Cosenza a Reggio: passato, presente e (forse) futuro dei
Rom in Calabria
Scegliere Cosenza e Reggio Calabria per approfondire la situazione calabrese è un modo per fare i conti con la storia. In entrambe le città sono presenti folte comunità di Rom calabresi che ora si
trovano a convivere con gruppi di recente immigrazione. Se sotto il
profilo dell’ecologia delle relazioni etniche ciò sarebbe sufficiente a
7
Cfr. par. 5.5.
Sempre in Calabria è attivo il progetto City to City, finanziato con fondi
dell’Unione Europea e attuato tramite un partenariato composto tanto da enti locali
e ASL quanto da attori del terzo settore. Il progetto ha come obiettivo l’integrazione linguistica degli immigrati quanto la realizzazione di strumenti di condivisione
di esperienze positive di integrazione sociale. Gli ambiti territoriali interessati dal
progetto sono le province di Vibo Valentia e Catanzaro.
8
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giustificare l’interesse per questi due casi, occorre aggiungere che
l’attenzione per Cosenza e Reggio Calabria è pienamente giustificata
anche in termini di articolazione e complessità delle politiche realizzate nelle due città. Pur trattandosi di situazioni molto diverse9, per
diverse ragioni condividono alcuni tratti. Innanzitutto una presenza
Rom stabile sulla quale si sono innestati nuovi flussi; in seconda battuta, in entrambe le città vi sono delle aree fortemente etnicizzate e
riconosciute come veri e propri ghetti. Se poi si prendono in considerazione le progettualità messe in campo dalle istituzioni per far
fronte alle esigenze dei gruppi rom si notano altre coincidenze. Sia
che si tratti di veri e propri progetti che di pratiche di accoglienza,
si è trattato di processi complessi, contraddittori, conflittuali, ma pur
sempre multi-attore, basati sul coinvolgimento di diversi soggetti. In
prima approssimazione tutto ciò dovrebbe suggerire che sul tema è
pressoché impossibile intervenire senza un’ampia e trasparente convergenza di interessi ed energie. Il fatto che tali processi siano poi
conflittuali e vadano avanti per tentativi ed errori è spesso legato alla
complessità della situazione e alla coltre di pregiudizi e stereotipi (in
particolare nel caso di Cosenza) che occorre diradare quando si decide di intervenire sul versante dell’inclusione sociale dei Rom.
5.4 Cosenza tra accoglienza e conflitto: la baraccopoli di Rom
romeni lungo il fiume Crati
A partire dal 2004 su un argine del fiume Crati si è sviluppato un
nuovo insediamento, abitato da Rom romeni. Nella stessa zona, nei
pressi della stazione ferroviaria di Cosenza, c’è anche un altro campo, sempre occupato da Rom di origine romena. L’area è tutt’altro
che periferica e disabitata: vicino ai campi ci sono gli uffici di una
banca, la sede della Provincia, la Motorizzazione civile e anche il
quartiere di via Popilia, un’area popolare con un’alta densità abitativa che sorge a meno di un chilometro dal centro cittadino e dove
tra alterne vicende, si è consolidata una baraccopoli di Rom italiani.
I Rom che vivono vicino al fiume sono quasi tutti provenienti dalle
9 A Cosenza si prenderà in analisi un caso di gestione dell’emergenza; mentre
a Reggio si esaminerà la questione dell’accesso ai servizi socio-sanitari, tenendo
sullo sfondo i risultati di un progetto pluriennale.
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zone centro-settentrionali della Romania10. Nel complesso si tratta di
circa novanta famiglie (per un totale di 287 persone). Si tratta di famiglie che hanno lasciato la Romania perché la situazione era diventata
insostenibile: pur disponendo di un’abitazione e di un lavoro, erano
ridotte alla fame. Questa testimonianza raccolta nel campo aiuta a
comprendere la situazione:
Che posso fare a Romania co’ famiglia di 5-6 persone? Non posso
fare niente. Tutta terra ora privata. Io lavoravo la agricoltura, ora
non posso fare niente! Altro lavoro niente o pochi pochini soldi che
no puoi mangiare. Ogni bambino che a scola danno 10 euro al mese.
Che puoi fare? Non poi comprare libri, penne, niente co’ 10 euro!
Italia bono! Come posso trovare per fare vita a bambini? Tutto c’è a
Romania si c’ha soldi. Si no soldi no c’è niente! Ospedale c’è si c’ha
soldi. “Dottore mi’ padre sta male!”. E lui: “Dammi 200 euro!”. Allora in cinque minuti visita, fa pure operazione. Un poco devi dare
anche a infermiere; anche no soldi, ma regalo sì!11.
Sul finire del 2007 queste famiglie sono state coinvolte in una
drammatica e repentina evacuazione: a causa delle forti piogge autunnali, la baraccopoli era a rischio di inondazione. La ricostruzione
di quanto avvenuto in quella situazione aiuta a comprendere le complesse implicazioni degli interventi a sostegno delle comunità rom.
5.4.1 Autunno 2007: a Cosenza è emergenza Rom
I Rom romeni degli insediamenti sul fiume Crati avevano cercato
l’“invisibilità” per non incappare in quanto successo ad altri connazionali. Erano quelli i giorni del controverso Decreto “espulsioni”
emesso sull’onda dell’omicidio Reggiani a Roma.
10 I Rom dei due campi limitrofi provengono dai distretti di Bistrita-Nasaud
e di Cluj-Napoca. Bistrita è la città più importante del Distretto con quasi 90.000
abitanti; Cluj, 320.000 abitanti, è una delle più importanti città della Romania dal
punto di vista storico, economico e culturale. La provenienza da Cluj dimostra che
anche le zone più dinamiche dal punto di vista economico non offrono alcuna opportunità per i Rom.
11 Il presente paragrafo è una rielaborazione della sezione 3.3, a cura di Roberto
De Angelis e Marco Brazzoduro, disponibile in IREF 2010b.
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Tutto comincia nel settembre 2007, quando in una scuola elementare frequentata da una ventina di minori rom si verifica una piccola
sollevazione da parte dei genitori. Le mamme temono per la salute dei
figli in quanto i bambini rom non hanno eseguito le vaccinazioni. La
mobilitazione non ha intenti xenofobi e ben presto si trasforma in una
manifestazione presso la ASL affinché i bambini vengano vaccinati;
in quell’occasione si ribadisce che “i bambini rom devono continuare
a frequentare la scuola di via Giulia”. Nel successivo Consiglio provinciale, alla presenza anche del Prefetto, le istituzioni locali decidono di costituire un coordinamento inter-istituzionale sui Rom romeni12. Nonostante le posizioni allarmate di alcuni sindaci della zona13,
a ottobre si realizza un censimento dei Rom. L’assessore alla società
multiculturale della Provincia di Cosenza, Matilde Ferraro, ritenendo
che l’iniziativa dovesse essere volontaria e non coercitiva, sollecita
personalmente le persone con l’aiuto di assistenti sociali e mediatori
linguistici. Vengono anche distribuiti volantini in lingua romena che
riportano indicazioni su come comportarsi qualora il livello del fiume
cresca ancora. Vengono censite 244 persone.
Il 10 novembre il sindaco di Zumpano ordina la distruzione della
baraccopoli prossima al suo territorio, sotto il ponte della strada 107,
sconfinando nel territorio del comune di Cosenza ed eseguendo interventi sull’alveo del fiume, zona di competenza dell’amministrazione
provinciale. Le reazioni al blitz sono molto forti: esponenti della politica e Opera Nomadi esprimono una posizione di dura protesta per
l’accaduto. Le ruspe spianano anche delle baracche abitate, mentre la
rimozione di un canneto toglie un riparo naturale dalla pioggia e dal
vento, scatenando anche un’invasione di topi; infine, aumenta anche
il rischio di esondazione poiché il passaggio delle ruspe livella in più
punti gli argini del fiume.
Intorno ai Rom comincia ad allargarsi la solidarietà. In una conferenza stampa del 12 novembre, il Comune, alcuni partiti e movimenti della sinistra locale assieme all’Opera Nomadi auspicano una
12 Le riunioni sull’emergenza coinvolsero anche i comuni fuori dell’hinterland
cosentino. Convennero in Prefettura i comuni di Cassano, Corigliano, Diamante
oltre a Rende, Rovito, Trenta, Zumpano, San Pietro in Guarano, Montalto.
13 Ad esempio, il sindaco di Zumpano all’epoca dichiarò che la presenza dei
Rom era da considerare socialmente pericolosa per l’aumento della micro-criminalità e della prostituzione minorile. Si agitarono anche questioni culturologiche,
secondo le quali i Rom romeni erano “nomadi duri e puri, non disposti ad accettare
le regole della normale convivenza”.
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filiera istituzionale e sociale che porti ad una sistemazione di civiltà
per i Rom. Sempre negli stessi giorni, il vescovo accoglie una nutrita delegazione di Rom. La locale Rete antirazzista rilancia invece
una proposta di accoglienza, condivisa da tempo da tutto il versante
dell’associazionismo: l’auto-recupero di edifici e siti abbandonati.
L’assessore al welfare della Provincia dice di essere disposto a cercare dei finanziamenti ad hoc.
Il 14 novembre, a causa delle forti piogge che stanno gonfiando il
fiume, la Protezione civile dà l’allarme e il Prefetto riunisce gli organi
preposti alla sicurezza, ordinando l’evacuazione dei campi a rischio.
La situazione lungo il Crati è concitata. Sotto la pioggia vengono
evacuati e demoliti gli accampamenti; le famiglie Rom sono impaurite dalla vista degli autobus poiché pensano che verranno rimandate in
Romania. La presenza dell’assessore Ferraro accanto ai Rom facilita
però le operazioni. La sinergia tra le istituzioni sembra funzionare.
Sul Crati quel giorno lavorano assieme l’Assessorato alle Politiche
sociali della Provincia, i vigili del fuoco, i volontari della Protezione
civile provinciale, la Protezione civile regionale, le forze dell’ordine
e la polizia municipale.
Per la sistemazione nell’immediato, Ferraro e Aiello, l’assessore
regionale all’urbanistica, si rivolgono all’associazione Stella cometa.
Il presidente, don Antonio Abbruzzini, mette subito a disposizione il
grande hangar nell’area dei magazzini dell’ex ferrovia Calabro-Lucana. Questa area su via Popilia da anni ospita associazioni cattoliche
particolarmente impegnate nell’accoglienza ai migranti. All’hangar
arrivano ottanta Rom, circa venti famiglie che vengono alloggiate in
tende montate dai bersaglieri e dai Rom stessi.
La Stella cometa riceve in quei giorni numerose testimonianze
di solidarietà. Lo stesso Salvatore Nunnari, arcivescovo di CosenzaBisognano, incontra gli evacuati ed elogia il comportamento tenuto
dalle istituzioni. Il tutto mentre a livello nazionale prosegue la campagna di criminalizzazione dei Rom14.
Una volta preservata l’incolumità, occorre passare alla fase due:
trovare una sistemazione adeguata per le famiglie dell’hangar. L’assessore Ferraro, anche a seguito del dibattito con le associazioni avvenuto nei giorni precedenti, propende per l’inserimento dei Rom in
abitazioni. La ricerca delle abitazioni comprende tutto l’hinterland di
14 Altro risultato di rilievo è che l’operazione non ha avuto alcuna conseguenza
sulla scolarizzazione dei bambini evacuati.
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Cosenza. Le associazioni garantiscono una malleveria e in molti casi
procurarono anche i mobili necessari ad arredare le case. L’assessore
al welfare della Provincia Aiello s’impegna, tra l’altro, a sostenere
le spese per la mensa. Il Vescovo trova due appartamenti destinati
a famiglie rom con un membro disabile. Il clima di forte solidarietà
coinvolge anche i cittadini di Cosenza: alcuni mettono a disposizione
le loro seconde case per ospitare i Rom.
Al termine di questa mobilitazione, la metà degli evacuati, quaranta Rom, vengono inseriti in vere e proprie case. Gli altri quaranta
sono purtroppo costretti a ritornare in nuove baracche, edificando un
nuovo campo prossimo all’unico non evacuato in quanto posto in alto
e non in pericolo.
Il progetto di sostegno produce tuttavia anche reazioni negative.
Un’associazione di cittadini all’epoca scrisse un duro documento nel
quale ribadiva che l’attenzione verso i problemi dei Rom andava a discapito dei cittadini bisognosi di Cosenza15. La solidarietà comincia
così ad incrinarsi. Alcuni locatori alle prime rimostranze dei vicini
per la presenza dei Rom interrompono il contratto di affitto.
Nel giro di qualche mese si verificherà che la maggior parte dei
Rom inseriti in abitazioni ritornerà a vivere nella nuova baraccopoli,
dove erano stati preceduti dai connazionali che non avevano avuto la
possibilità di sperimentare l’accesso ad una vera casa.
Gianfranco Sangermano del Mo.c.i. (Movimento di cooperazione
internazionale), un’associazione in prima linea nei giorni dell’emergenza, racconta così l’esperienza:
[…] il problema sono state le soluzioni abitative, perché quelle si
tentava di trovare. I Comuni non vi dico, nessuno ha dato la disponibilità. Dove abbiamo trovato noi delle soluzioni c’è stata la rivolta
15 Ecco alcuni passi della lettera: “Se un solo appartamento, se un solo posto
di lavoro sarà dato ai Rom romeni a scapito di migliaia di disoccupati cosentini senzatetto e sfrattati, non ci resta che accamparci sulle sponde del Crati per
ottenere rispetto di diritti inalienabili sanciti dalla Costituzione italiana. […] Il
fatto di stare in dignitoso silenzio non significa assolutamente acconsentire che
agli ospiti siano garantiti gli stessi diritti che lo Stato e gli enti locali dovrebbero
garantire ai propri cittadini. Diritti, com’è noto, che ai cosentini e ai calabresi
vengono sistematicamente violati come la casa, il lavoro, la possibilità di vivere
dignitosamente. Se il Governo, la Regione, il comune di Cosenza e la Provincia
intendono favorire la comunità rom, facciano pure, ma dopo aver esaurito la lunga lista d’attesa che da anni aspetta una casa anche a fitto agevolato e un lavoro
degno di essere tale”.
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popolare: due famiglie a Rogliano e il paese in piazza! Abbiamo
dovuto lottare con queste cose. Solo il sentire parlare che arrivavano i Rom e le popolazioni… comunque, come associazioni ci siamo messi sotto e dovevamo trovare le case, parenti, amici, amico
dell’amico, la casa da affittare. Ci siamo sbattuti e abbiamo trovato
sistemazioni per 40 persone, la metà. Li abbiamo attrezzati di tutto.
Negli appartamenti ci abbiamo messo i mobili, abbiamo pagato l’affitto per tre mesi, ma eravamo disposti, perché la Provincia ci aveva
dato la disponibilità economica a pagare fino a sei mesi l’affitto.
Noi davamo garanzie ai proprietari di casa: “Se non ti pagano loro ti
paghiamo noi!”. Dopo un mese avevamo solo una famiglia in appartamento. Erano ritornati tutti al campo. Con esperienze devastanti
di persone che avevano accolto senza pregiudizi, veramente… Una
signora aveva lasciato la sua casa spostandosi all’appartamento di
sotto perché più piccolo e lasciando quello dove attualmente viveva,
noi siamo dovuti correre il 31 dicembre lì perché stava succedendo
il putiferio, e in quella casa non vi dico, 3.000 euro di danni abbiamo dovuto pagare! C’erano situazioni così!
5.4.2 Ritorno alla “normalità”: il ruolo di supplenza del volontariato
È complesso determinare perché le amministrazioni locali abbiano tirato i remi in barca. Le pressioni dell’opinione pubblica, le convenienze politiche, le dimissioni di figure cardine sono tutte cause
possibili. Venendo meno l’intervento pubblico, le forze della società
civile sono rientrate nei ranghi, assumendo nuovamente un ruolo di
supplenza. È questa una dinamica frequente in uno scenario di emergenza: solo gli attori dotati di maggiore carica ideologica continuano
nella loro azione anche quando l’emergenza è terminata.
Sebbene quanto accaduto nell’autunno 2007 dimostri la validità di
un approccio ai problemi basato sulla cooperazione, nel caso cosentino si ripropone il problema della sistemazione abitativa. All’indomani della mobilitazione, l’impegno sui Rom è diventato appannaggio
esclusivo delle associazioni di volontariato. Anche su sollecitazione
dei Rom, l’arcipelago del volontariato ha iniziato a portare avanti
l’idea di realizzare un campo attrezzato. L’ipotesi “campo” non è stata determinata da stereotipi ghettizzanti, ma dalla necessità di tener
conto della reale situazione di deprivazione dei Rom romeni, impossibilitati a far fronte per mancanza di reddito alle spese per un’abita146
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zione. A questa scelta contribuisce senz’altro il fatto che i Rom romeni provenivano da una condizione di vecchia sedentarizzazione: nel
loro Paese vivevano in case normali, in villaggi e talvolta anche in
appartamenti di condomini della periferia urbana.
Nell’autunno 2009 si determina una seconda emergenza. In ottobre, la Procura della Repubblica entra nel secondo campo rom, emanando novanta provvedimenti di espulsione. Le associazioni di volontariato, tramite loro avvocati, impugnano i provvedimenti e vincono
tutti i ricorsi. La Procura ribadisce di aver agito proprio nell’interesse
dei Rom, perché si provvedesse a farli uscire da una situazione di indigenza e pericolosità per la loro salute. Le associazioni controbattono che da anni, con altri mezzi, hanno cercato di denunciare la stessa
situazione. La Procura sottolinea che in quella situazione i Rom non
possono più stare, che bisogna trovare delle soluzioni alternative. In
abitazioni o in campi attrezzati. Il tempo concesso prima dello sgombero dell’area era sino al primo marzo 2010. Il prefetto, che come
privato cittadino era stato nei campi e aveva discusso con i Rom, ritenendo inopportuno ogni sgombero coatto, ha sollecitato gli enti locali
ad individuare soluzioni, come ad esempio località per campi attrezzati, in modo tale da chiedere, con ragione, una sospensione temporanea dell’ordinanza. Il volontariato ha individuato undici siti nei quali
realizzare campi di accoglienza. Il 28 febbraio le associazioni hanno
fatto la veglia per impedire lo sgombero che poi non si è verificato.
Stando alle notizie più recenti la situazione è in fase di stallo: il campo
non si è ancora fatto e la comunità rom e le associazioni continuano a
manifestare e a chiedere una soluzione; nel frattempo, proseguono le
espulsioni di Rom trovati soggiornanti irregolari.
Questa situazione ha prodotto un netto restringimento del cerchio
di solidarietà che si era costituito attorno ai rom a partire dall’autunno
2007. Tre anni dopo sono ancora attive nel campo solo alcune organizzazioni cattoliche e un paio di associazioni di volontariato. Anche
le prospettive di intervento si sono ridotte: attualmente le azioni più
significative riguardano la scolarizzazione. Da poco è stata costruita
nel primo campo una baracca chiamata la “Scuola del vento”, uno
spazio di sostegno alla scolarizzazione, in particolare per le attività
di doposcuola.
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5.4.3 Dialogo e cooperazione: un approccio realista alle politiche
per i Rom
Il tentativo di offrire una sistemazione abitativa ai Rom che vivevano sul Crati purtroppo è fallito. Le forze sociali che si erano coagulate a seguito dell’emergenza dell’autunno 2007 hanno ammesso la
sconfitta, ma allo stesso tempo hanno rilanciato l’esigenza di trovare
una soluzione che contribuisse ad un miglioramento delle condizioni
di vita delle famiglie rom. Il campo attrezzato è l’unica soluzione
possibile, almeno per ora.
Sono vari gli elementi di interesse in questa vicenda. Innanzitutto,
occorre notare che la compagine sociale mobilitatasi attorno alla questione ha subito nel corso del tempo dei cambiamenti. Le istituzioni
locali, sull’onda dell’emergenza per la possibile inondazione, avevano offerto una risposta tempestiva ed organizzata. In questa prima
fase, anche il contributo della società civile era stato determinante:
al punto che partendo da una situazione drammatica si era riusciti
a mettere in piedi un progetto ambizioso come quello di offrire ai
Rom delle abitazioni. Quello che colpisce è che, successivamente, la
coesione tra le diverse articolazioni della società locale viene meno e
si ritorna in una situazione non cooperativa, nella quale politica e società civile lavorano su due piani differenti; da una parte, i Rom ritornano ad essere una questione di ordine pubblico; dall’altra si assiste
ad una dinamica di frammentazione tra i soggetti del sociale; questi
ultimi in alcuni casi fanno addirittura un passo indietro concentrandosi su progetti settoriali, per poi riaggregarsi quando si prospetta la
crisi dell’ottobre 2009.
Il caso di Cosenza suggerisce alcune considerazioni. La governance locale della questione rom necessita di compagini sociali ampie,
articolate ed eterogenee. È necessario il supporto del mondo dell’associazionismo soprattutto per sensibilizzare la cittadinanza e attivare
quei processi di solidarietà e trasmissione di fiducia che rappresentano una base di partenza imprescindibile. In poche settimane le associazioni sono state in grado di reperire, sul mercato privato si badi,
alloggi per quaranta famiglie. Al di là delle proteste dei vicini, il progetto sembra essere fallito per l’impossibilità da parte delle famiglie
rom di pagare l’affitto.
Le chiavi di lettura a riguardo sono almeno due: da una parte un
imperfetto calcolo costi-risorse; dall’altro, l’assenza di un piano integrato di accompagnamento al lavoro e all’autonomia economica.
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Questo limite è chiaramente imputabile alla situazione di emergenza
nella quale si è dovuto operare. Tuttavia, si può suggerire che in condizioni normali, ovvero senza la pressione di una situazione critica,
in questo genere di interventi vada usato un approccio incrementale
e integrato [Vitale 2009]: offrendo soluzioni via via più complesse e
rispetto alle quali di volta in volta rinnovare l’accordo di cooperazione tra i soggetti coinvolti. Questo genere di soluzione è promettente
anche sotto il profilo del sostegno della cittadinanza. La presenza dei
Rom suscita chiusure, per lo più stereotipate se non apertamente razziste. Questi atteggiamenti possono essere legittimamente combattuti
attraverso la stigmatizzazione e le proteste delle organizzazioni antirazziste; tuttavia, in termini operativi è consigliabile usare un approccio realista: attraverso la negoziazione e il dialogo si possono
scardinare i pregiudizi. È un’operazione lenta e che richiede l’intermediazione di soggetti credibili: si pensi al caso delle associazioni
che hanno reperito gli alloggi, senza la loro intercessione ciò non sarebbe stato possibile16. Purtroppo questo patrimonio si è esaurito con
il fallimento del progetto e ci vorrà del tempo prima che si accumuli
nuovamente una sufficiente riserva di fiducia.
Un’altra suggestione che si può trarre dal caso cosentino – e che
rientra appieno nella prospettiva realista sopra suggerita – riguarda
la necessità di un confronto diretto con i Rom stessi. Nell’indagine sul campo, i Rom hanno espresso opinioni lucide e precise sulla questione casa: non vengono richieste abitazioni vere e proprie
non perché non se ne desidererebbe una, ma per senso della realtà.
I Rom sono consapevoli di dover prima acquisire una minima capacità di accumulazione di risorse. In alcuni casi, nelle risposte si è
invece evidenziata la preoccupazione per le reazioni negative nella
cittadinanza in quanto si ha la consapevolezza del disagio abitativo
scontato da una parte non trascurabile di cosentini. Tra i motivi che
portano a preferire un campo attrezzato ad abitazioni vere e proprie
ricorre spesso la paura di sollevare reazioni razziste da parte della
popolazione locale.
Al di là degli stereotipi multiculturalisti, il campo attrezzato rappresenta una soluzione realista, che potrebbe essere ben accettata da
tutti: dai Rom che vedrebbero così la propria condizione migliorare,
dalla cittadinanza che manterrebbe un minimo di separazione. Tut16 Sotto questo profilo, si pensi all’episodio della signora che decide di trasferirsi in un appartamento più piccolo per cedere il proprio ad una famiglia rom.
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tavia occorre ribadire che si tratterebbe di una soluzione transitoria,
sulla quale occorrerebbe continuare a lavorare in modo sistematico
e meticoloso, pianificando il superamento del campo attraverso una
serie di tappe intermedie, sollecitando la popolazione locale ad una
maggiore e migliore comprensione della questione Rom; pensando
servizi e interventi nei quali i bisogni sociali delle famiglie rom non
vengano affrontati separatamente. In altre parole, occorre che l’impegno rispetto all’integrazione dei Rom sia continuo nel tempo: non ci
si può ricordare di loro solo in autunno.
5.5 Reggio Calabria: dalla casa all’accesso ai servizi
Quella dei Rom di Reggio Calabria è una storia lunga e controversa. Come in altre aree della regione, la presenza di gruppi romaní è
un dato da tempo acquisito. Anche nel reggino, negli anni Cinquanta
i gruppi rom che vivevano di commercio ambulante e di piccolo artigianato tendono a diventare sedentari insediandosi ai margini della
città. Di lì parte una storia lunga sessanta anni, un periodo nel quale si
sono alternate diverse fasi: dagli insediamenti precari lungo il fiume,
più volte allagatisi a causa delle piene, si è passati all’occupazione
di edifici dismessi in vari quartieri della città. Nel corso degli anni
le condizioni dei Rom di Reggio hanno subito relativi miglioramenti
seguiti da repentini peggioramenti. Sono stati sviluppati progetti di
edilizia sociale, ipotesi di riqualificazione dei siti, spostamenti e sperimentazioni urbanistiche spesso senza tenere conto delle esigenze
delle famiglie.
Di recente la locale Opera Nomadi ha pubblicato un volume nel
quale si ripercorrono le vicende di quella che può essere considerata
una tra le sperimentazioni più ardite nel campo delle politiche di inclusione delle comunità romaní, ossia il progetto di equa dislocazione
abitativa [Cammarota et al. 2009]17. Leggendo la ricostruzione storica proposta da Marino e Sgreccia [2009] colpisce innanzitutto un fatto: per far andare in porto il progetto è stato necessario che la società
civile, l’associazionismo e i Rom stessi si coalizzassero in una sorta
di gruppo di pressione. Si è trattato di una vicenda che ha abbracciato
17 Il volume citato rappresenta una buona ricostruzione della vicenda, anche se
non appare sufficientemente obiettivo nel riportare il punto di vista dell’amministrazione locale. Per un resoconto che integri entrambi i punti di vista si veda IREF
2010a, pp. 73-108.
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quasi venticinque anni di storia reggina: in questo arco di tempo la
questione dei Rom si è intrecciata con cambi di maggioranza politica, interessi immobiliari, contraddizioni della pianificazione urbana e
dell’edilizia popolare. A ciò va aggiunta un’opinione pubblica spesso
mal informata se non addirittura istigata da una stampa locale che
non di rado ha preferito indulgere nel sensazionalismo. In altre parole i risultati ottenuti a Reggio Calabria sono maturati in un contesto
difficile: senza l’ostinazione dell’Opera Nomadi e della compagine
sociale riunitasi attorno ad essa i risultati probabilmente sarebbero
stati differenti. La vicenda dell’equa dislocazione, soprattutto nella
sua fase finale (quella che va dal 2003 al 2007), ha comunque visto una forte volontà da parte dell’amministrazione locale di Reggio
Calabria di portare avanti l’iniziativa. Questo forte input politico ha
permesso di concretizzare il progetto. I risultati della sperimentazione
reggina sono di sicuro rilievo:
Oggi il 30 per cento delle famiglie Rom di Reggio Calabria abita
insieme ai non Rom, equamente dislocate nel tessuto urbano, in un
habitat che favorisce la loro inclusione sociale, e le altre famiglie
ancora ghettizzate possono sperare nel prossimo futuro di ottenere
la stessa sistemazione abitativa. [Marino 2008: 34].
La sperimentazione sull’equa dislocazione offre lo sfondo per meglio comprendere la situazione reggina soprattutto rispetto allo specifico accesso ai servizi socio-sanitari. Il caso di Reggio Calabria è stato
difatti studiato da due diverse prospettive: innanzitutto sono state ricostruite, attraverso le voci e le opinioni dei protagonisti, le vicende del
progetto di equa dislocazione; in seconda battuta, è stato approfondito il tema dell’accesso ai servizi socio-sanitari. Di seguito si intende
affrontare proprio questo secondo tema, non mancando comunque di
fare riferimenti alle implicazioni con la questione abitativa18.
5.5.1 La presenza Rom a Reggio Calabria e le implicazioni sul versante dell’accesso ai servizi
Storicamente, nella geografia urbana di Reggio Calabria, le aree
dove abitavano (e in alcuni casi continuano ad abitare) gruppi di fa18 Per una trattazione puntuale dell’esperienza di equa dislocazione si veda
IREF 2010a, pp. 83-92.
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miglie di origine Rom erano l’ex caserma militare “208” (un insediamento nato a seguito dell’inondazione del torrente Sant’Agata del
1971); Arghillà nord (dal 1990 il Comune ha iniziato ad assegnare
alloggi popolari ad alcune famiglie rom in questo quartiere); Modena
Palazzine (un complesso di case popolari nato nel 1981)19; Modena
Ciccarello (una baraccopoli sorta all’inizio degli anni Sessanta). Accanto a queste concentrazioni storiche, alcune delle quali sono attualmente in fase di dismissione, ci sono invece casi di famiglie rom che
vivono dislocate all’interno della città20.
A Reggio convivono dunque due differenti realtà: da una parte ci
sono i Rom spazialmente concentrati, dall’altra famiglie inserite nel
tessuto urbano. Ciò implica che le strategie per incentivare l’accesso
ai servizi debbano essere diverse. In poche parole, ci si trova a dover
fare i conti con un paradosso: è più semplice offrire un’assistenza di
base a gruppi fortemente segregati; mentre, risulta decisamente meno
agevole seguire e accompagnare soggetti distribuiti sul territorio. Con
la parziale applicazione dei principi dell’equa dislocazione sono state
disperse alcune concentrazioni particolarmente problematiche, anche
e soprattutto sotto il profilo sanitario. Tuttavia, avendo inserito nuclei
familiari rom in quasi tutte le zone della città, si pone la questione di
come offrire a tutti un servizio socio-sanitario adeguato. Come ricorda Trevisan [1996], il rapporto dei Rom con l’assistenza sanitaria è
19 Inizialmente vennero assegnati 25 alloggi popolari ad altrettante famiglie
rom. Il numero delle famiglie rom negli anni è aumentato (fino ad arrivare a 49) a
causa dell’occupazione abusiva di Rom non assegnatari impossessatisi degli alloggi lasciati liberi dalle famiglie non-Rom che si rifiutavano di vivere in quel posto
a causa delle gravi condizioni di degrado raggiunte. Sull’argomento cfr. Marino,
Sgreccia 2009.
20 Secondo i dati di Opera Nomadi, ci sono presenze anche nel Quartiere Archi (nove famiglie dagli anni Ottanta); a Piazza Milano (sette famiglie dagli anni
Ottanta); nel Rione Marconi (undici famiglie dal 2003) e in Quartiere Gallico (otto
famiglie dal 2003). Si tratta in tutti e quattro i casi di alloggi popolari. C’è tuttavia
una rilevante differenza tra le sistemazioni avvenute negli anni ’80 e le più recenti assegnazioni del luglio 2003. Mentre nel quartiere di Archi e in piazza Milano
l’insediamento delle famiglie rom è avvenuto spontaneamente, cioè senza un intervento progettuale del Comune, nel rione Marconi e nel quartiere Gallico i nuclei familiari sono stati sistemati in quei luoghi proprio per ottemperare al progetto
dell’equa dislocazione attuato dal Comune. Per completare la mappa delle presenze
Rom a Reggio, occorre menzionare altri 23 nuclei familiari che vivono in una condizione di dislocazione ancora più diffusa: sei famiglie in alloggi popolari assegnati
dal Comune nelle zone di Arangea, Modena, Pellaro, viale Europa e via Pio XI. I
rimanenti 17 nuclei hanno privatamente preso in locazione delle abitazioni.
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improntato alla diffidenza. La tendenza è quella di rivolgersi al pronto
soccorso e solo nel momento in cui il disturbo si presenta in forma
acuta. Risulta particolarmente difficile far comprendere la necessità
di prevenire l’insorgenza di malattie, soprattutto qualora non si abbia
la necessaria confidenza e fiducia.
È pur vero che, con il miglioramento delle condizioni abitative, si
abbassa l’insorgenza delle cosiddette malattie della povertà [Monasta
2010]. Il nesso tra salute e condizioni abitative è evidente. Come fa
notare l’epidemiologo Lorenzo Monasta [2005: 45]:
La mancanza di ventilazione e il sovraffollamento, così come materiali di costruzione scadenti e la mancanza di manutenzione, possono aumentare il livello di umidità e generare problemi di muffe.
È molto complesso studiare il microclima dell’abitazione perché si
devono considerare molti fattori come i materiali da costruzione, la
ventilazione, il contenuto d’acqua e gli effetti del riscaldamento e
del raffreddamento. Tuttavia, è stato dimostrato che la presenza di
umidità e muffe è associata alla prevalenza di fischi respiratori, mal
di gola, rinite, tosse, febbre e cefalea nei bambini. Sono state anche
osservate relazioni dose-risposta tra l’aumento di umidità e muffe,
la frequenza media dei sintomi (per tutti e per ogni bambino), e lo
stato generale di salute dei bambini.
In generale, i fattori ambientali assieme agli stili di vita e a fattori
psico-sociali (ad esempio, nel caso dei Rom, la percezione di marginalità) sono delle “determinanti prossimali” della salute; in altre
parole, la posizione sociale e le disparità di risorse influenzano la
probabilità e l’esposizione ai fattori di rischio per l’insorgenza di un
problema di salute [CIES 2007: 243]. Le determinanti della salute,
inoltre, non sono necessariamente concomitanti, anzi intervenendo su
una di esse non si può essere sicuri che vengano meno le altre. Nel
caso delle famiglie rom che hanno avuto un miglioramento delle condizioni abitative, ciò non implica che vengano meno fattori di rischio
legati ai comportamenti e agli stili di vita. Sia secondo le poche indagini epidemiologiche realizzate, sia stando ai dati di contatto (ossia,
i ricoveri) i maggiori problemi nascono dal fumo e dal consumo di
alcolici, caffè e comfort food (come gelati, patatine e cioccolato), così
come dall’eccessivo consumo di cibi ricchi di grassi e sale [Geraci,
Motta, Rossano 2002]. Questi comportamenti a lungo andare possono
provocare problemi di notevole portata, a partire dai disturbi colle153
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gati all’ipertensione arteriosa (infarti e ictus). È dunque abbastanza
intuitivo che la dispersione territoriale dei soggetti a rischio rappresenti un problema soprattutto in termini di strategie di prevenzione
e sensibilizzazione: per fare un esempio banale, in una situazione di
concentrazione è sicuramente più agevole monitorare in modo sistematico la pressione sanguigna dei maschi adulti di un determinato
gruppo di Rom.
Queste considerazioni risultano particolarmente pertinenti rispetto alla questione della salute femminile. Come è noto, le donne rom
hanno un tasso di fecondità particolarmente alto: molti progetti di
assistenza socio-sanitaria affrontano il tema della salute riproduttiva
e del rispetto del corpo. Su questo terreno è fondamentale l’adozione
di una serie di comportamenti atti a scongiurare l’insorgenza di gravidanze a rischio. Strettamente collegato è anche il problema della salute infantile: natimortalità molto alta, malnutrizione, nascite sottopeso,
sindromi bronchiali e asmatiche, malattie dermatologiche, diarree e
altre patologie gastrointestinali, nonché problemi di sviluppo motorio
e disabilità sono tutti fenomeni che interessano in particolar modo i
bambini rom21.
In sintesi, i termini della questione sono i seguenti: la concentrazione facilita la realizzazione di interventi preventivi di massa (ad
esempio, vaccinazioni) anche se, allo stesso tempo, implica una marginalizzazione foriera di altre problematiche. Al contrario la dispersione territoriale impone l’attuazione di interventi ad personam che
hanno come presupposto la collaborazione degli individui. In generale, questo genere di situazione chiama in causa la capacità delle
strutture sanitarie locali di offrire un servizio in grado di intercettare
tutti i segmenti dell’utenza, Rom compresi.
5.5.2 L’assistenza socio-sanitaria per i Rom di Reggio Calabria: alcune questioni aperte
Alla luce di queste considerazioni è fondamentale avere una
preliminare conoscenza dell’offerta sanitaria presente sul territorio.
21 Peraltro tali questioni rappresentano solo un versante della sfida: l’alto numero di bambini e adolescenti rom che abitano nel territorio di Reggio Calabria
richiede lo sforzo congiunto anche da parte dei servizi sociali.
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L’Azienda Sanitaria di competenza a Reggio Calabria è l’ASP22. Il
territorio dell’Azienda è diviso in 4 Distretti Socio-Sanitari. Ad ogni
distretto afferiscono diversi comuni e circoscrizioni della provincia
di Reggio Calabria. Nel complesso, l’offerta sanitaria pubblica nella
provincia di Reggio Calabria è articolata: sono presenti sette ospedali,
ventiquattro poliambulatori e quindici consultori familiari23.
Tra le diverse strutture presenti nel capoluogo l’Azienda Ospedaliera “Bianchi-Melacrino-Morelli”, sita in via Giuseppe Melacrino
(una zona centrale della città, accanto alla sede del Consiglio Regionale) ha un valore particolare poiché le vicende che hanno condotto
alla costruzione di questo ospedale si sono intrecciate con il percorso
dell’equa dislocazione dei Rom di Reggio. La struttura sorge proprio
nell’area che ospitava il campo ex 208, uno degli insediamenti storici
dei Rom reggini. Il tira e molla politico che ha preceduto l’apertura
dell’ospedale ha costretto i Rom a ripetuti spostamenti: nel momento
in cui la costruzione procedeva i rom venivano dislocati in altre parti
della città, quando i lavori si interrompevano il campo si ripopolava e
il progetto di equa dislocazione veniva accantonato.
Stando alle informazioni fornite dagli operatori di un’ambulanza
del 118 operanti all’interno della struttura, i problemi per cui i Rom
chiedono maggiormente assistenza medica sono di ordine ginecologico per le donne e ortopedico per gli uomini24. Sono trasversali, invece, i disturbi di natura dermatologica (si tratta per lo più di dermatiti
e, in alcuni casi, di scabbia).
Mariangela Corrente, una mediatrice culturale che da anni svolge
le sue attività nel comune di Reggio Calabria, invece, ha dichiarato
che nelle strutture dove ha lavorato non si sono riscontrati problemi
relativi al rispetto delle indicazioni o delle prescrizioni date ai Rom
dai medici. La disciplina con la quale gli assistiti seguono le cure
evidenzia il buon grado di interazione tra sistema sanitario locale e
comunità rom. In questo senso, il ruolo del mediatore culturale è fondamentale poiché rappresenta una figura di raccordo in grado di sol22 Per effetto dell’entrata in vigore della Legge Regionale 11 maggio 2007 n.
9 (art.7). Dal 22 maggio 2007 è istituita l’Azienda Sanitaria Provinciale di Reggio
Calabria che comprende le disciolte ASL 11 di Reggio Calabria e ASL 10 di Palmi
(www.asp.rc.it).
23 Sono state conteggiate anche centoquarantasei farmacie, trecentocinque medici di famiglia e sessantasei pediatri di libera scelta. Infine, presso la sede del Coordinamento dei Servizi Socio-Sanitari è attivo il Punto di counseling psicologico
per cittadini stranieri, coordinato dalla psicologa Maria Elena Ferreri.
24 Spesso i disturbi sono derivati da incidenti sul lavoro.
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lecitare un cambiamento di atteggiamento nei confronti della salute.
Queste figure rappresentano un chiavistello essenziale per entrare in
contatto con gli utenti. Le incomprensioni linguistico/culturali con i
medici, infatti, possono alla lunga deteriorare la relazione medicopaziente e portare all’abbandono del trattamento. Una figura professionale ingaggiata per facilitare lo scambio comunicativo tra medici e
pazienti è, di per sé, garanzia di un’attenzione maggiore, anche verso
altre utenze. “Ma non è soltanto una questione di comprensione linguistica – sottolinea Mariangela Corrente – ci sono questioni che solo
un mediatore o una mediatrice culturale riescono a comprendere e a
porvi rimedio”.
Corrente sta facendo riferimento alla conoscenza e familiarità con
la cultura sanitaria delle persone che si rivolgono ad una struttura
pubblica. Senza entrare nel merito di discorsi complessi sul concetto
di salute, è abbastanza agevole identificare un primo livello d’intervento della mediazione culturale in ambito sanitario. È difatti necessario che gli utenti comprendano come si articola la sanità pubblica
italiana. Dal momento che spesso le precedenti esperienze sono state
limitate al contatto con il pronto soccorso, è legittimo che prassi come
le visite su appuntamento o i controlli periodici possano essere ritenute una perdita di tempo, soprattutto nel caso in cui non si sia affetti
da un disturbo specifico.
Nel complesso, i Rom tendono ad accedere in modo intempestivo
alle prestazioni sanitarie, imponendo di fatto ai servizi sanitari che
li prendono in carico di adottare un approccio curativo piuttosto che
preventivo. Un’altra questione, riguarda la soglia di malessere; ovverosia la tendenza dei Rom a sopportare il dolore dovuto a traumi
o patologie per lunghi periodi, tutt’al più alleviandolo con farmaci di
auto-somministrazione, fino a quando il problema non si cronicizza.
Infine, il ricorso al medico è qualitativamente diverso: anche in caso
di problemi specifici si tende a consultare un medico di base e non
uno specialista25. Al riguardo, è paradigmatico quanto riferisce un’assistente sociale del Comune di Reggio Calabria da anni impegnata
con i Rom, resasi conto che un bambino rom aveva problemi di udito
e che la famiglia non lo avrebbe mai portato da uno specialista: “ve25 I Rom hanno una grande resistenza nei confronti dell’ospedalizzazione perché il ricovero implica una perdita di controllo sul proprio corpo, come d’altronde gli interventi chirurgici, che vengono affrontati solo quando il malato e la sua
famiglia si convincono della gravità della situazione, ossia del pericolo di morte
[Trevisan 1996 e 2005].
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dono la cosa come una vergogna. Pur avendo i soldi per le visite, per
loro era più importante che gli altri nuclei familiari del campo non sapessero che il loro figlio era sordomuto” (Nicoletta Latella, assistente
sociale). La donna decide di prendere in mano la situazione e porta,
personalmente, il bambino a visita da uno specialista: “io andavo e
me lo prendevo di forza. Potevo permettermi questo perché c’era un
rapporto confidenziale. Ad un altro non lo avrebbero mai permesso”
(Nicoletta Latella, assistente sociale).
Il rapporto tra la giovane assistente sociale e le famiglie rom era
consolidato. Risale al 2003 l’istituzione, da parte del neo sindaco
Scopelliti e dell’assessore Minasi, di un ufficio comunale deputato
ad occuparsi del progetto di equa dislocazione. All’epoca, le giovani
neo-assunte vennero incaricate di facilitare il trasferimento delle famiglie rom in appartamento. In particolare, le assistenti sociali dovevano avvertire e rassicurare i residenti dei condomini in cui si sarebbe
trasferita una famiglia rom. Altro passaggio cruciale, affidato alle assistenti sociali di Reggio, è stato l’accompagnamento delle famiglie
rom negli alloggi a loro affidati. Così Latella ricorda quel momento:
Era un impatto forte come a dire “arrivano gli zingari”, loro arrivavano con i vigili, li accompagnavamo anche noi, però, insomma,
non era un trasloco normale, i Rom arrivavano con migliaia di pacchi, non volevano lasciare o buttare nulla, spesso gli davamo anche
una mano a sistemare casa, perché loro non avevano idea di come
sistemare le cose, di come utilizzare gli spazi.
Nel concreto, alle assistenti sociali è stata richiesta una presa in
carico completa del nucleo familiare. Ciò ha comportato anche l’attenzione agli aspetti sanitari. A questo proposito, i maggiori problemi sono apparsi al momento di iscrivere i bambini rom agli asili. Le
scuole materne non accettavano i bambini se prima questi non avevano tutte le vaccinazioni necessarie; si è così colta l’occasione per
vaccinare ogni bambino rom (anche quelli più grandi, di 4-5 anni), ad
ogni bambino è stato inoltre assegnato un pediatra di riferimento.
Come si vede, l’attività di mediazione è alquanto impegnativa e
richiede tempi lunghi, necessari per acquisire la fiducia delle persone
e poter rientrare nel ristretto novero delle figure autorevoli alle quali è
dovuto ascolto. Per mettere in moto questo circuito positivo è tuttavia
necessario che i mediatori siano nelle condizioni di poter dedicare
tempo alla costruzione dei legami di fiducia; ciò nella sanità italiana
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non è sempre possibile per cui la mediazione culturale in ambito sanitario tende ad essere usata con funzioni di prima accoglienza o di
consulenza, tipologie di servizio che con l’utenza rom non sempre
funzionano. Il caso di Reggio evidenzia comunque che i buoni risultati ottenuti non sono casuali. La locale struttura sanitaria, potendo
fare affidamento sul credito di fiducia costruito nel corso del progetto
di equa dislocazione, ha sviluppato una relazione abbastanza stabile
con un buon numero di famiglie rom.
Tornando al tema generale dell’informazione e sensibilizzazione,
come è facile immaginare, il canale di informazione maggiormente
usato dai Rom è il passaparola. Le ragioni di ciò sono molteplici. I
canali di informazione istituzionali (opuscoli, campagne di pubblicità
sulla carta stampata o sulla televisione) non attecchiscono su questo
tipo di target, sia per problematiche prettamente linguistiche26 che
culturali. Secondo quanto riferito dagli operatori dell’ex ASL 11, i
Rom preferiscono ascoltare i consigli e le informazioni di un parente
o di un amico anziché le raccomandazioni di un medico non-rom o di
un qualunque altro italiano.
Nelle conversazioni avvenute nel corso dello studio a Reggio Calabria, si è sentito più volte parlare di un medico (da alcuni chiamato
“il dottore dei Rom”) che ha dato la propria disponibilità alle famiglie
rom, guadagnandone la fiducia e ottenendo (anche se non volontariamente) che la stragrande maggioranza dei Rom si affidasse completamente a lui, e solo a lui:
Hanno un medico di base che è per tutti lo stesso, lo scelgono in
massa, o perlomeno, tutte e 25 le famiglie che io ho avuto in carico
andavano da lui. Poveretto, proprio una bravissima persona. Lui ricopriva tutti i ruoli: il medico della ASL, l’assistente sociale, il neuro psichiatra, lui faceva tutto! (Nicoletta Latella, assistente sociale).
Nonostante la rilevanza che avrebbe avuto un’intervista con questa
persona, il medico ha espressamente chiesto di non rilasciare dichiarazioni, chiedendo anche di rimanere nel più completo anonimato.
Nel rispetto della volontà della persona si è deciso di non diffondere
informazioni utili all’individuazione del medico in questione. Tutta26 La percentuale di Rom analfabeti è molto alta. Basti pensare che a Reggio
Calabria, secondo i dati di Opera Nomadi [Cammarota et. al. 2005: 101], la percentuale di capifamiglia rom senza alcun titolo di studio o con solo la licenza elementare oscilla tra l’85 e il 90%.
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via la presenza e il ruolo di questa figura suggeriscono la centralità
dell’intermediazione tra servizi sanitari e gruppi rom. Ritorna dunque
il tema della fiducia in questo caso però con un’accezione personalista: sembra difatti che il dottore sia un punto di riferimento anche per
richieste al di fuori delle sue funzioni. Oltre alle sue capacità professionali, il “medico dei Rom” sembra avere anche una sensibilità personale tale da rassicurare su tutti i fronti le famiglie rom. La dedizione
e lo spirito di servizio che dimostra questo medico sono encomiabili;
tuttavia, sarebbe probabilmente il caso di incardinare l’attività del
medico all’interno di una struttura più articolata, dove il dottore possa
fungere da garante nei confronti di un gruppo di collaboratori e sovraintendere all’attuazione di un programma d’intervento più ampio.
5.5.3 Dislocare e sostenere: un percorso tra equità e salute
Il caso di Reggio Calabria restituisce un’immagine di una città
nella quale la questione Rom sembra giunta ad un punto di svolta.
Dopo decenni di alterni impegni sul terreno dell’abitazione, si sono
raggiunti risultati che in altri contesti sono impensabili. Sicuramente rimane ancora da lavorare per completare al meglio il progetto di
equa dislocazione; tuttavia al contempo occorre pensare anche ad una
seconda fase.
Dalla casa alla compiuta cittadinanza. Potrebbe essere questa
un’adeguata sintesi della situazione reggina. Prendendo come punto
di riferimento la questione dei diritti di salute, è utile che le risorse e
i successi sinora ottenuti siano messi a sistema, consolidando quella
rete che già, in modo più o meno strutturato, si occupa di intercettare
l’utenza rom. L’esempio del “dottore dei rom” è a riguardo particolarmente pertinente. Si tratta difatti di una risorsa preziosa, forse non
adeguatamente sfruttata. L’accesso ai servizi rimane, assieme al lavoro27, uno dei pilastri fondamentali sui quali edificare un’ipotesi di
cittadinanza per i gruppi rom presenti in Calabria e in Italia.
27 A Reggio Calabria sul fronte del lavoro sono stati compiuti esperimenti particolarmente riusciti. È il caso della cooperativa sociale “Rom 1995”. La cooperativa,
che opera nel territorio reggino da più di 15 anni (è nata nel 1995), offre lavoro a
decine di capifamiglia rom nel settore dello smaltimento dei rifiuti ingombranti e
della raccolta differenziata. Per una ricostruzione più puntuale di questa esperienza
si veda IREF 2010a: 93-99.
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Sullo sfondo rimane un’ultima questione da menzionare. Si tratta
di un fenomeno che non è improprio collegare ai sentimenti di antiziganismo che serpeggiano in diverse componenti della società italiana (non esclusa la politica).
Secondo quanto riferito dagli operatori dell’ex-ASL 11, uno dei
problemi con i quali occorre fare i conti quando si parla del rapporto
tra gruppi rom e servizi sanitari è l’idea, sempre più diffusa, che andando all’ospedale o al pronto soccorso si venga identificati e se trovati senza documenti di soggiorno successivamente espulsi dall’Italia. La mediatrice Corrente a riguardo si esprime in modo esplicito:
Le leggi sull’immigrazione, ad esempio, sono un disincentivo a rivolgersi all’ospedale; i media hanno fatto passare quest’idea che se
vieni in ospedale e non sei in regola per qualcosa, i medici possono
chiamare la polizia. Ma non è così assolutamente, solo che loro non
lo sanno! E molti hanno paura a venire qua.
Il problema evidenziato nel brano di intervista è controverso. Probabilmente la risposta ai quesiti sollevati va trovata nel modo in cui si
pone la domanda. In altre parole, la priorità non deve essere la sicurezza (esigenza pur legittima, ma secondaria in questo caso) quanto
invece il rispetto della persona. Altrimenti si sarebbe costretti ad accettare il principio per il quale, in assenza dei requisiti amministrativi,
vengono meno i diritti fondamentali.
5.6 Lezioni dalla Calabria
La Calabria ha innanzitutto un merito: porre la questione Rom
all’ordine del giorno. Anziché rimuovere il problema, assecondando
la tendenza all’auto-ghettizzazione o attivando massicci interventi di
sgombero, nei due casi analizzati si è cercato di realizzare soluzioni che riportassero dentro i confini della città i Rom, interventi che
rappresentassero una rottura con un passato di separatismo spaziale
e sociale. In termini di politiche pubbliche, dire che la Calabria ha
imboccato una strada promettente non equivale a dire che alla guida
di questo processo ci siano le amministrazioni locali. Gli organi di
governo hanno dato dimostrazione di essere in grado di agire in un
contesto così difficile, ma hanno peccato di continuità (soprattutto
nel caso di Cosenza). Lo scenario presenta elementi positivi perché
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le compagini sociali che si muovono attorno al mondo dei rom sono
vitali e capaci di pressare i decisori pubblici. Purtroppo la forza di
persuasione della società civile può poco in assenza di un impegno
continuato della politica: in questi casi non rimane che ritirarsi su
posizioni meno ambiziose e riprendere con i micro-progetti (come è
accaduto a Cosenza). A Reggio Calabria, dopo la grande esperienza
dell’equa dislocazione, occorre dirigere l’attenzione verso la questione dei servizi, cercando formule nuove e in grado di valorizzare il
patrimonio di relazioni creatosi in questi anni.
La situazione calabrese presenta comunque un elemento di differenza molto marcato. L’inclusione sociale passa per la casa. Probabilmente si tratta di una consapevolezza suggerita dalle decennali esperienze con i Rom calabresi; comunque sia, la soluzione dell’emergenza abitativa è un elemento imprescindibile. Si tratta di una scelta
ancor più coraggiosa, se si pensa che il disagio abitativo in queste
zone tocca in maniera marcata anche i cittadini italiani. Era dunque
prevedibile che alcuni provvedimenti avrebbero incontrato l’ostracismo della popolazione locale. Tuttavia, occorre rimarcare che il tentativo e ovviamente anche i risultati raggiunti sono degni di attenzione.
Rimane sempre il problema del sostegno alle iniziative. Le amministrazioni locali, così come la società civile, non veicolano i propri
messaggi in modo efficace. Più l’intervento è complesso più si ha bisogno di una comunicazione sociale che enfatizzi i successi e spieghi
con dovizia di particolari gli insuccessi [Vitale 2009].
Al di là del metodo, che va certamente affinato, preme sottolineare nuovamente la scelta di approcciare il tema dell’inclusione dei
Rom dal versante più aspro, quello dell’abitazione. Questo genere
di interventi necessitano anche di essere pensati in modo migliore,
valutando con cura i possibili ostacoli e le necessarie contromisure. Il
caso di Cosenza è esemplare: anche se sviluppatosi in una situazione
di emergenza, l’iniziativa non ha colto nel segno perché ha tralasciato
un elemento basilare come il lavoro. In questo senso, anche se il tema
è stato trattato in modo incidentale, fa scuola l’approccio adottato a
Reggio con la costituzione di una cooperativa di lavoro e la parallela
acquisizione di una commessa duratura per assicurare una certa stabilità dell’impresa.
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Capitolo 6
I Rom in Sicilia: i confini degli spazi di inclusione
ALICE RICORDY1
6.1 Camminanti e Rom in Sicilia
La presenza di gruppi rom in Sicilia è attestata sin dalla seconda
metà del 1400. Le notizie riportate da testimonianze scritte e fatti di
cronaca narrano di gruppi zingari stanziatisi a Palermo e in altri centri
della regione (quali Caltanissetta e Agrigento) definiti forgiatori, ossia
artigiani e lavoratori del ferro [Piasere, Pontrandolfo 2002]. Nel corso
del tempo, questi primi gruppi sono stati in parte assorbiti dalla società siciliana, andando a confondersi con le culture locali in un intreccio
di tratti originali e sincretici, di cui è sempre arduo sciogliere i nodi.
Attualmente sono numerose le anime romanì che popolano la Sicilia: gruppi molto diversi fra loro per nazionalità, storia e aspetti
culturali. A seguito della mappatura, in Sicilia sono stati complessivamente riscontrati insediamenti di Rom e Camminanti, di diverse
nazionalità, nella provincia di Catania (oltre al comune di Catania, a
Paternò, Adrano, Bronte, Traino, Giarre), di Agrigento (Canicattì, Castrofilippo), di Siracusa (Noto, Priolo Gargallo), di Messina (Mirto,
Oliveri, Meri, Messina capoluogo), di Enna (Troina), nonché nei comuni di Palermo, Ragusa, Trapani e Mazzara del Vallo (vedi cartina
6, p. 222). Quello di più antico stanziamento, e ancora oggi il più consistente numericamente, è costituito dai Camminanti, o Caminanti2,
sino ad alcuni decenni fa ben inseriti nel tessuto economico siciliano
attraverso l’esercizio di attività ambulanti quali arrotini, giostrai, im1 Il capitolo è di Alice Ricordy, tranne l’introduzione del paragrafo 6.5, che è
una rielaborazione della sezione 3.3, a cura di Roberto De Angelis e Marco Brazzoduro, disponibile in IREF 2010b.
2 Il nome “Caminanti” deriva dal dialetto siciliano ed è l’appellativo con cui i
siciliani indicavano questo gruppo di persone nomadi.
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pagliatori di sedie e calderai. Ancora oggi i Camminanti praticano una
forma di semi-nomadismo definito “a breve raggio”, spostandosi sul
territorio siciliano secondo il calendario delle feste popolari, che offrono loro maggiori occasioni lavorative, come la vendita ambulante di
giocattoli e – soprattutto nel catanese – di carne equina. Alcuni gruppi,
tuttavia, effettuano rotte commerciali a lungo raggio, spingendosi fino
al Nord Italia (nel periodo che va dalla primavera all’autunno).
Questi girovaghi sono un gruppo etnico fortemente radicato nel
territorio siciliano, che cerca di far valere la propria identità culturale, conservando antiche tradizioni incentrate sulla parola, il canto
e le leggende. I “siciliani erranti” sono gli ultimi eredi di una cultura
fondata sul movimento, ma hanno fatto proprie le tradizioni locali,
favorendo la nascita di una mescolanza variopinta di usi e costumi.
Nonostante siano cittadini italiani e la maggior parte di loro risieda
in abitazioni comuni, i Camminanti siciliani sono tutt’ora vittime di
esclusione sociale dovuta in parte al nomadismo e in parte alle differenze linguistiche (anche se parlano un idioma molto più simile al
dialetto siciliano che non al romanès)3 e più in generale a tratti identitari che, secondo il senso comune e i pregiudizi diffusi, sono incompatibili con il modus vivendi della società italiana.
Oggi la comunità più numerosa di Camminanti si trova a Noto,
dove sono circa 2000 (quasi il 10% della popolazione); altri gruppi
sono presenti nella punta Sud-orientale dell’isola, nel territorio tra
Modica e Avola. Altre comunità più piccole si riscontrano nella provincia agrigentina (Canicattì e Castrofilippo), nei capoluoghi di Palermo, Messina e Ragusa, nonché a Catania e nel territorio circostante
(Adrano e Bronte – vedi cartina 7, p. 223).
Sul territorio siciliano sono attualmente presenti anche comunità
di Rom stranieri, più propriamente Rom emigrati dal paese natio per
ragioni politiche ed economiche nel corso degli ultimi 30 anni. Tra
questi gruppi, i più numerosi sono Rom provenienti dai paesi della ex
Jugoslavia, dalla Bulgaria e dalla Romania.
Per quanto riguarda i primi, i due gruppi maggiormente rappresentati sono i Rom khorakhanè (detti shiftarija) originari del Kosovo/
3 La lingua parlata dai Camminanti è probabilmente un siciliano arcaico con alcuni vocaboli e tratti linguistici mutuati dal romanès. Le poche informazioni disponibili sono rintracciabili nelle ricerche condotte da G. Soravia e pubblicate in Manuale
di lingua romani, Bonomo Libreria, Bologna, 2009; dalle sue recenti considerazioni,
in Breve storia dei dialetti rom e sinti in Italia, Pacini, Pisa, 2010; e, infine, dal testo
di T. Schemmari, I Caminanti. Nomadi di Sicilia, Firenze Atheneum, Firenze, 1992.
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Montenegro e i Rom dasikhanè della Serbia, entrambi presenti nel
campo de La Favorita di Palermo.
Del migliaio di Rom shiftarija, giunti in massa a seguito del conflitto in Kosovo, distribuiti tra Catania città e il comune di Paternò
(dove era sorta un’immensa baraccopoli su un terreno agricolo), oggi
non restano che poche famiglie. La maggior parte è infatti emigrata
in massa verso i paesi del Nord Europa (Germania, Belgio, Francia)
nella speranza di ottenere lo status di rifugiato politico.
Se i camminanti, nonostante le difficoltà, fanno comunque parte
a tutti gli effetti della società italiana, in quanto storicamente appartenenti al territorio, la situazione in cui si trovano i rom slavi è estremamente differente. Questi ultimi infatti, in Italia da oltre tre generazioni, non sono riconosciuti a livello giuridico se non come extra
comunitari. In molti casi sono addirittura privi di una cittadinanza,
poiché raramente sono riusciti ad ottenere lo status di apolidia. Inoltre, nonostante non possano essere definiti nomadi, in quanto nel paese di origine vivevano stabilmente in case private, continuano ad essere indebitamente etichettati come tali. Di conseguenza da trent’anni
risiedono in insediamenti abusivi, o campi-sosta semi attrezzati, in
condizioni socio-sanitarie drammatiche e altamente degradate.
Diversa ancora la situazione dei Rom bulgari e rumeni, giunti in
Italia a partire dalla fine degli anni ’90. La loro situazione è più simile
alle altre comunità di migranti, in quanto hanno lasciato la Romania
o la Bulgaria essenzialmente per ragioni di indigenza. Si tratta per lo
più di coppie giovani che a volte lasciano i figli nel Paese natio, dove
periodicamente fanno ritorno.
Se la presenza dei Rom bulgari è nel complesso molto contenuta,
i Rom rumeni costituiscono invece una comunità ben più numerosa.
Questi tendono a distribuirsi in gran parte nelle zone urbane (ma non
mancano piccoli accampamenti in aree rurali), spesso in insediamenti spontanei composti da baracche costruite con materiali di fortuna.
Nonostante siano ormai cittadini comunitari, incontrano enormi difficoltà per inserirsi in circuiti lavorativi che garantiscano loro possibilità di sostentamento.
6.2 La Sicilia e le politiche sociali per l’inclusione: l’esempio di
Noto
Dai cenni storici sopra riportati, risulta evidente quanto, anche in
Sicilia, sia variegato l’universo di Rom, Sinti e Camminanti: gruppi
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diversificati, testimoni di percorsi, tradizioni e influenze culturali assai distanti tra loro che, come pezzi di un unico mosaico, trovano la
loro ricomposizione storica nella comune origine di un popolo che
partì dall’India più di mille anni fa [Liégeois 1994]. Di questa matrice
rimane, oggi, ben poco. Lo stesso nomadismo proprio delle comunità
di Camminanti non è più un tratto distintivo dei Rom slavi o rumeni, abituati da generazioni alla vita sedentaria in abitazioni. Ciò che
oggi accomuna questi gruppi umani, oltre ad alcune caratteristiche
socio-cognitive, quali il ceppo linguistico o l’organizzazione sociale,
sono le condizioni di emarginazione politico-sociale in cui da sempre
vivono in tutto il mondo.
In generale, le politiche e gli interventi in favore di Rom, Sinti e
Camminanti, realizzati dai governi locali a partire dagli anni ’60 a
oggi, pur essendo finalizzati alla promozione di forme di integrazione, sono risultati spesso inadeguati nella formulazione stessa degli
obiettivi e delle strategie, innanzitutto a causa di una conoscenza distorta e stereotipata dei destinatari4.
Anche in Sicilia, dove tra l’altro non esiste una legge regionale di
riferimento, il compito di provvedere a regolare la permanenza delle
popolazioni di Rom Sinti e Camminanti sul territorio, e di sostenere
o promuovere le eventuali iniziative sociali in loro favore, è stato
automaticamente affidato ai governi locali.
D’altra parte, la localizzazione degli interventi ha il potenziale
vantaggio di definire strumenti e strategie di azione adeguate alle
necessità specifiche del contesto, secondo i bisogni e le risorse del
territorio. Il problema consiste nel saper sfruttare questa opportunità,
favorendo il dialogo e la collaborazione tra tutti gli attori coinvolti, in
primis le stesse comunità di Rom, Sinti e Camminanti.
Nonostante ciò, anche in Sicilia le politiche sociali messe in atto
risentono delle difficoltà e dei limiti frequenti in molte altre realtà
italiane: le amministrazioni locali sono per lo più assenti, spesso rispondono solo quando viene sollevata l’emergenza con sgomberi totali o parziali degli insediamenti, senza offrire soluzioni alternative
adeguate; di fatto preferiscono affidare al terzo settore l’incarico di
sciogliere i nodi della questione integrazione, senza necessariamente
garantire un supporto in termini politici. Questa situazione ha portato
a innescare un processo per cui sono quasi sempre le associazioni o
4 Mancando una legge che tuteli a livello nazionale questa minoranza etnica e
linguistica, alcune Regioni hanno emanato leggi locali che supplissero a tale carenza istituzionale (cfr. cap. 1).
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le istituzioni legate ai servizi, quali la scuola e la sanità pubblica che,
vivendo il problema da vicino attraverso la quotidiana relazione con
le persone, si attivano e tentano di riportare tali problematiche all’attenzione dei governi territoriali.
In questo senso oggi sono diversi gli esempi di esperienze locali
che hanno portato a intraprendere percorsi virtuosi di inclusione a
partire dal bisogno concreto e particolare dei destinatari.
Nel corso del presente capitolo ci si soffermerà sui casi di Catania
e Palermo, cercando di evidenziare le ambivalenze degli interventi di
integrazione sociale e accesso ai servizi sanitari. Prima di entrare nel
merito dei singoli casi di studio può essere utile ricostruire le vicende di un intervento paradigmatico per metodologia e risultati, ovvero
il progetto di istruzione a distanza (IaD)5 pensato per permettere la
frequenza scolastica anche ai bambini camminanti di Noto assenti
per lunghi periodi dalla città. Ricordiamo infatti che parte della popolazione camminante nei mesi di gennaio-febbraio lascia il Paese per
ragioni economiche e commerciali, per poi tornare solo a primavera
inoltrata.
Il progetto di integrazione scolastica dei camminanti di Noto, finanziato con i Fondi Sociali Europei, fu avviato nel 1995 da un’iniziativa di Opera Nomadi, insieme al Ministero della Pubblica Istruzione,
Direzione Generale Scambi Culturali, in partenariato con Irlanda e
Spagna.
La sperimentazione, della durata di tre anni, partì nel 1995 nell’istituto comprensivo “Francesco Maiore” (scuola primaria e secondaria
di primo livello) grazie alla spinta di alcune insegnanti che si fecero
ferventi promotrici del progetto e che riuscirono ad ottenere l’appoggio del Sindaco.
Il progetto inizialmente prevedeva che nei momenti dell’anno scolastico in cui i Camminanti tornavano a Noto, i bambini camminanti
e i bambini paesani seguissero le lezioni assieme. Quando invece le
famiglie dei Camminanti partivano, i bambini continuavano a svolgere a distanza i compiti assegnati loro dalle maestre, le quali si impegnavano ad adeguare la didattica e gli strumenti di valutazione a
questo modello di insegnamento, secondo la logica del piano formativo individualizzato.
5 Si ringrazia Angelo Palazzolo per i dati relativi al progetto IAD raccolti sul
campo.
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Alla fine dei tre anni di sperimentazione, tutto il materiale ricevuto
dai bambini camminanti6 venne raccolto e dato all’Università Tor
Vergata di Roma per monitorare e valutare lo stato di avanzamento
del progetto, confermandone l’esito positivo.
Da quel momento non si è più tornati indietro: il numero di Camminanti che si sono avvicinati all’istituzione scolastica di Noto è aumentato sempre di più e oggi la quota dei minori camminanti iscritti
all’istituto comprensivo “Maiore” del piccolo comune siracusano è
pari a circa il 30% del totale degli studenti.
Il progetto IaD da quindici anni offre un’alternativa e una possibilità di conciliazione tra il sistema scolastico italiano e le diverse esigenze e abitudini di una comunità semi-nomade come quella dei Camminanti. Al buon esito dell’intervento hanno in questo senso contribuito
la stretta collaborazione tra l’ufficio dei servizi sociali del Comune
e l’istituto “Maiore” e il coinvolgimento dei genitori nel processo di
scolarizzazione dei propri figli, fattori che hanno permesso di trovare
uno spazio di mediazione tra culture e regole sociali differenti. L’insegnante Anna Maria Biondani, promotrice del progetto, da quindici
anni lo sostiene strenuamente ed è tuttora tra le maestre che, con il loro
quotidiano ed appassionato lavoro, garantiscono ai bambini camminanti di Noto la possibilità di ricevere un’istruzione di base che consenta loro non tanto di avere un futuro differente da quello dei propri
genitori, quanto di avere la possibilità di scegliere il proprio futuro.
L’esperienza positiva di Noto induce a riflettere sulla necessità di
fare un passo verso le comunità romanì, tarando l’intervento sui bisogni specifici e concreti di questo gruppo umano al fine di renderli
autonomi. Il limite che si intravede risiede piuttosto nella dipendenza del risultato dall’abnegazione e dalla professionalità dei docenti
dell’istituto scolastico, che in questo caso ha garantito la continuità
negli anni di un processo che per sua natura richiede tempi molto
lunghi. Ci si chiede allora se sia possibile trasferire un tale modello
d’inclusione scolastica in contesti dove il livello motivazionale sia
differente. Esiste, infatti, il rischio che la buona pratica di inclusione
scolastica dei Camminanti di Noto sia dovuta più a questo fattore
contingente (la qualità del corpo docente del “Maiore”) che non ad
un’efficiente ed efficace struttura organizzativa. Il fattore umano nel
caso dell’Istituto scolastico “Maiore” ha un peso rilevante nel buon
6 Il materiale veniva spedito per posta dai Camminanti o portato direttamente
a scuola al loro ritorno.
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esito del progetto e ogni ipotesi di trasferibilità di tale pratica dovrà
tenerne conto. Questi dubbi sono confermati dal fatto che, nonostante
la città di Noto conti quattro istituti comprensivi, la politica di inclusione scolastica dei Camminanti è portata avanti solo dalla scuola
“Francesco Maiore”.
Come si vedrà nei successivi paragrafi, attraverso l’analisi degli
interventi realizzati in altre due città siciliane, Palermo e Catania,
l’elemento motivazionale degli operatori (siano essi insegnanti, medici, volontari o anche impiegati della pubblica amministrazione) è
condizione necessaria ma non sufficiente affinché un progetto sia sostenibile sul lungo periodo e i risultati positivi si rivelino duraturi.
Il ruolo politico dell’amministrazione rimane decisivo, specialmente
laddove si impone l’integrazione dei livelli di inserimento, casa, lavoro, scuola, per un’idea di inclusione globale della persona.
6.3 Palermo e Catania: due esperienze, due progettualità
La scelta di descrivere e analizzare la situazione dei Rom a Palermo e a Catania è dovuta alla portata esemplificativa di due realtà
molto diverse fra loro, sia per quanto riguarda le caratteristiche dei
gruppi rom presenti, sia per la natura degli interventi di inclusione
sociale ad essi rivolti.
A Palermo ci si soffermerà sui Rom slavi residenti nel campo semi-attrezzato de La Favorita: insediatisi sul territorio circa trent’anni
fa come profughi e rifugiati, queste persone versano ancora oggi in
condizioni precarie sia da un punto di vista socio-economico sia da
quello abitativo.
I Rom presenti a Catania, invece, sono per lo più Rom rumeni
giunti in Italia negli ultimi anni, in cerca di fortuna, le cui aspettative
di lavoro e benessere sono state ben presto disattese. Vivono in insediamenti abusivi, ai limiti della sopravvivenza, cercando di barcamenarsi nelle pieghe del lavoro nero e dell’accattonaggio.
In tali contesti, sono state sperimentate metodologie di intervento
altrettanto differenti, ma con il comune obiettivo di sanare il divario
esistente tra comunità rom e tessuto socio-economico delle rispettive
città, e di avviare un processo di inclusione reale in un’ottica di empowerment.
Nel caso di Palermo alcuni operatori sanitari della AUSL 6, spinti
e sostenuti da una forte motivazione personale, hanno iniziato a visi169
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tare periodicamente il campo de La Favorita, fino ad ottenere la presa
in carico della comunità rom da parte dell’azienda di sanità pubblica e determinando l’attivazione di una rete di collaborazione tra enti
pubblici e privati coinvolti a vario titolo nella questione. Lo studio di
caso, condotto sul campo a marzo 2010, ha permesso di approfondire la conoscenza dei vari aspetti dell’intervento, attraverso interviste
semi-strutturate rivolte a operatori sanitari (medici, psicologi e infermieri, etc.) e del privato sociale e ad alcuni referenti istituzionali.
L’indagine etnografica, realizzata a Catania nello stesso periodo,
ha avuto come oggetto la giovane esperienza della Caritas diocesana
che nel corso di quest’anno, insieme ad altre realtà associative, ha
avviato un progetto di inclusione rivolto alla comunità di Rom rumeni, articolato su più livelli di integrazione e teso a favorire il riconoscimento dei diritti fondamentali dei Rom in più ambiti: educativo,
sanitario e sociale. L’aspetto qualificante del progetto è ravvisabile
nella costituzione di un partenariato specializzato ed eterogeneo. Per
questo studio di caso, sono stati intervistati sia gli operatori della Caritas di Catania e dell’Opera Nomadi locale, sia alcuni capifamiglia e
donne rom, così da ottenere uno spaccato significativo delle condizioni di vita, dei percorsi e delle prospettive proprie di questa comunità.
Più avanti si vedrà come i casi descritti propongono due modelli di
intervento diversi sia nella genesi che nell’evoluzione, ma che giungono alla messa a punto di strumenti simili, quali la continuità della
presenza sul campo, la centralità della relazione personale operatorefamiglia rom, il lavoro di rete e la sinergia tra enti pubblici e privati.
6.4 Palermo: diritto alla salute e accesso ai servizi socio-sanitari,
un primo passo verso l’inclusione
6.4.1 Breve storia del campo rom La Favorita
Negli anni ’90, un sostanzioso gruppo di Rom kosovari residenti
allo Zen, quartiere periferico di Palermo, venne trasferito in seguito
alle tensioni con la popolazione locale. Per rispondere all’emergenza
si concesse ai Rom di stanziarsi in un’area annessa al parco de La
Favorita, dando origine a quello che nel giro di pochi anni sarebbe
diventato il “campo rom” della città.
Il 10 marzo 1992, infatti, un’ordinanza comunale approntò un programma per munire l’insediamento dei servizi essenziali, quali wc
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chimici, box-doccia e lavabi, allacciamento di questi all’impianto
fognario più vicino, erogazione di acqua calda e fredda, pulizia del
campo e delle zone limitrofe, nonché ritiro giornaliero dei rifiuti solidi urbani. Ancora oggi però tali propositi sono stati realizzati solo in
parte, per cui non esiste un sistema fognario, lo smaltimento dei rifiuti
non è garantito in modo regolare, l’acqua è fredda e non potabile, poiché l’approvvigionamento idrico avviene tramite autobotti comunali
che riforniscono cinque silos installati “provvisoriamente” all’interno
dell’insediamento.
Nel corso del 1994, la popolazione del campo raggiunse le 500
presenze, poiché vi si stabilirono altri due gruppi rom, di nazionalità
serba e montenegrina, prima accampati su un tratto del lungomare di
via Messina Marine, nel quartiere Romagnolo. Lo spazio interno del
campo venne quindi suddiviso in tre zone separate, corrispondenti
ai tre differenti gruppi: montenegrini, serbi e kosovari. Le baracche,
in legno o in tufo, realizzate con materiali riciclati, vennero disposte
a ferro di cavallo per lasciare lo spazio agli incontri e ai giochi dei
bambini.
Nell’agosto dello stesso anno, come risulta dagli atti del Comune
di Palermo, l’amministrazione cittadina adottò un provvedimento per
regolamentare e disciplinare la gestione dell’insediamento (presidio
di vigilanza e sportelli di segretariato sociale), regolamento che fu in
seguito parzialmente annullato poiché faceva riferimento a un campo
autorizzato, fornito di strutture e servizi a norma, che di fatto non è
mai esistito. Infatti, non solo non furono mai installati i servizi previsti, ma non è stata neanche decretata l’ufficialità dell’insediamento,
che continua a essere abusivo da un punto di vista legale e quindi
passibile di sgombero.
Oggi, a distanza di quasi vent’anni dalla sua nascita, il campo continua a soffrire di queste gravi carenze costitutive, poiché i vincoli
ambientali cui è soggetta tale area, che è riserva naturale protetta,
hanno impedito alle autorità competenti qualsiasi intervento di tipo
strutturale. Ne deriva che le condizioni igienico-sanitarie del campo
sono drammatiche e hanno portato questa frangia della popolazione a
vivere in un degrado progressivo o ad abbandonare la città in cerca di
un’accoglienza migliore.
Nonostante non si possa parlare di emarginazione urbanistica, poiché l’area in cui il campo sorge è piuttosto centrale e risulta ben collegata con la città e i suoi servizi (caratteristica che ha favorito una serie
di iniziative co-intraprese con la comunità rom volte a promuovere la
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relazione con la popolazione autoctona), il campo è recintato da un
muro che lo sottrae alla vista dei passanti.
Come suggerisce una psicologa dell’Ufficio nomadi e Immigrati
del Comune di Palermo, da un punto di vista urbanistico, la sede attuale del campo all’interno del parco de La Favorita:
È un posto che funziona da zona rimozione, nel senso che tu vedi
gli alberi sopra, c’è un muro e non hai assolutamente idea di quello
che ci sta dietro, di come vivono i bambini… quindi come luogo di
rimozione sociale funziona perfettamente. E funziona anche il fatto
che hanno istituzionalizzato la precarietà di questo campo. Il fatto
che tanti se ne vanno è anche dovuto al fatto che nel tempo tutte le
contrattazioni che si sono provate non hanno partorito nulla di realmente significativo. [Int. 6 psicologa - Ufficio nomadi e Immigrati]
Sia la collocazione spaziale, che mantiene il problema nascosto
agli occhi della comunità civile, sia le condizioni abitative disagiate e
precarie che spingono i Rom a partire in cerca di un luogo migliore in
cui vivere, sembrerebbero dunque salvare le apparenze e rimuovere
forzosamente il problema.
Attualmente, secondo un censimento effettuato dagli stessi Rom
(giugno 2009) nel campo “nomadi” La Favorita si contano 165 persone (di cui 83 minori di diciotto anni). La maggior parte sono di
nazionalità kosovara, di religione musulmana, mentre poche famiglie
di cattolici e ortodossi provengono dalla Serbia e dal Montenegro. Tra
di loro, sono in pochi ad avere un permesso di soggiorno; molti hanno
fatto richiesta di asilo politico; altri hanno un permesso legato alla
licenza di commerciante; altri ancora hanno ottenuto un permesso di
soggiorno in attuazione del comma terzo dell’art. 31 del Testo Unico
sull’immigrazione7.
7 Art. 31 comma 3 del Testo Unico 286/1998 che così dispone: “Il Tribunale per
i minorenni, per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto
dell’età e delle condizioni di salute del minore che si trova nel territorio italiano,
può autorizzare l’ingresso o la permanenza del familiare, per un periodo di tempo
determinato, anche in deroga alle altre disposizioni del presente Testo Unico. L’autorizzazione è revocata quando vengono a cessare i gravi motivi che ne giustificano
il rilascio o per attività del familiare incompatibili con le esigenze del minore o
con la permanenza in Italia. I provvedimenti sono comunicati alla rappresentanza
diplomatica o consolare e al questore per gli adempimenti di rispettiva competenza”. Fare ricorso all’art. 31 è spesso un modo per non spezzare le unità familiari e
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6.4.2 La rete e gli interventi
Nel 1999, con determinazione della giunta comunale, è stato istituito l’Ufficio nomadi e Immigrati con lo scopo di favorire l’integrazione dei migranti e dei Rom. I compiti specifici di tale ufficio relativi alla popolazione rom sono stati attribuiti con delibera di giunta
soltanto nel 2002, quando venne ribadita l’importanza di intervenire
per l’inclusione dei “nomadi” e per garantire la regolare frequenza
scolastica dei minori. Dal 2004 l’amministrazione ha inserito nuovo
personale per dotare il servizio di un apparato più tecnico e operativo. Nello specifico, rispetto alla comunità rom di Palermo, l’Ufficio
nomadi e Immigrati sostiene un ruolo di mediazione tra i Rom e le
istituzioni, per cui riceve e raccoglie segnalazioni sullo stato di avanzamento e gli esiti dei progetti e delle attività che si realizzano in loro
favore, sulle condizioni igienico-sanitarie del campo, sulla situazione scolastica dei minori; informazioni che se necessario vengono poi
inoltrate al Comune o agli organi competenti.
Inoltre, gli operatori dell’Ufficio partecipano presso l’Ufficio Scolastico Provinciale alle riunioni periodiche sul tema della scolarizzazione dei bambini rom organizzate dalle scuole del distretto 13, che
attraverso un protocollo d’intesa si sono accordate per un’equa distribuzione degli alunni rom fra le diverse strutture scolastiche. Agli incontri, che hanno l’obiettivo di mettere in rete i diversi attori coinvolti
nella presa in carico della comunità rom e monitorare la frequenza e
l’andamento scolastico dei bambini, normalmente partecipano anche
i servizi sociali, le associazioni di volontariato e i referenti dei progetti finanziati dal Comune.
A proposito di questi ultimi, è bene ricordarne i due principali. Il
Comune con i fondi della legge 285 del 19978 ha sostenuto:
– un progetto di scolarizzazione dei minori e promozione degli
adolescenti e delle donne – che attraverso il servizio sociale
per i minorenni del Ministero della Giustizia è stato gestito
dall’Arci Sicilia;
– un’azione denominata “Ufficio rom per la promozione della
formazione professionale e del lavoro”, per due anni e mezzo
circa, nell’ambito del Piano di Zona.
garantire la continuità del progetto migratorio, in assenza di una legislazione più
inclusiva.
8 Legge 28 agosto 1997, n. 285 “Disposizioni per la promozione di diritti e
di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n.
207 del 5 settembre 1997.
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Tali progetti avevano una durata prevista di poche annualità e sono
stati sospesi essenzialmente per la mancanza di risorse, causando la
dispersione immediata dei risultati conseguiti. È anche vero che dalle
testimonianze raccolte si evince che il coordinamento di entrambi i
progetti è stato condotto con strategie poco efficaci, poiché sono stati
rilevati numerosi problemi dovuti alla percezione che i Rom avevano degli interventi e che sono diventati fonte di incomprensioni e di
scontri con gli operatori.
In questo senso, è stato ribadito da tutte le persone intervistate
come un’inadeguata gestione dei fondi, la mancata continuità dei progetti, oltre alla scarsa conoscenza del contesto di intervento nelle sue
peculiarità socio-culturali, alimentano il senso di sfiducia che i Rom
nutrono nei confronti delle istituzioni. Tale sfiducia è in parte dovuta
alla distanza tra ciò che l’amministrazione locale promette e quello
che effettivamente viene realizzato, ma soprattutto a un forte scollegamento tra gli interventi e i bisogni reali della popolazione rom (si
pensi solo all’uso improprio del termine “nomadi” che dà il nome
all’ufficio comunale):
Da parte dei Rom c’è una certa disillusione rispetto agli interventi
promossi dall’amministrazione comunale o da altri enti perché loro
hanno l’impressione che i fondi che sarebbero destinati a loro di fatto sono goduti da gagè, come dicono loro […] che fanno tante cose
in nome dei Rom ma senza che i Rom ne abbiano una reale ricaduta
positiva [Coordinatrice Ufficio Nomadi e Immigrati].
Da circa due anni nel campo La Favorita interviene anche l’associazione di volontariato Lega Missionaria Studenti (LMS), che si è
avvicinata alla comunità rom attraverso incontri mensili, con il pretesto di distribuire la merenda ai bambini. Le attività svolte dall’associazione, quali colonie estive, corsi di pre-scolarizzazione e di sostegno allo studio, hanno un duplice scopo: migliorare l’andamento
scolastico dei bambini, ma soprattutto mantenere un legame con la
comunità, per garantire una continuità negli incontri e coltivare le
relazioni al fine di definire lo spazio entro il quale sia possibile progettare insieme un percorso di inclusione.
Per quanto riguarda la frequenza scolastica dei minori, si tenga
presente che questa non è regolare, poiché, dopo l’ultimo progetto
promosso dal Comune, non sono stati portati avanti ulteriori interventi in tale ambito. Inoltre, l’interesse delle famiglie nei confronti
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dell’istruzione dei figli è molto scarso. A tale proposito è bene sottolineare come la percezione della scuola da parte dei Rom è da ricondurre al discorso di quali siano le priorità e i bisogni immediati di una
popolazione che vive ai margini. Di conseguenza, far comprendere
ai Rom l’importanza della scuola in quanto luogo di acquisizione di
competenze socio-culturali e degli strumenti necessari per inserirsi
nel mondo del lavoro richiede una strategia d’azione che vada oltre
il rispetto dei doveri del cittadino e l’adattamento unidirezionale al
sistema culturale della società accogliente.
Le scuole del circondario dal canto loro sono molto attive e hanno mostrato una grande disponibilità nel trovare soluzioni e favorire
l’inserimento e la frequenza di questi bambini. Ma la buona volontà
di insegnanti e operatori non è sufficiente se non è supportata dalle
istituzioni. Al contrario:
Le scuole non hanno le istituzioni dalla loro parte, quindi navigano contro corrente pure loro. Finché trovi la persona disponibile ad
andare avanti con le proprie forze […] Di interventi istituzionali
che abbiano un minimo di senso e di criterio non ce ne sono. Sono
scriteriate le politiche sui rom e l’analisi che si fa dei rom. [Volontario LMS].
In questo senso tra gli ostacoli principali che questa popolazione si
trova ad affrontare c’è quello dell’irregolarità giuridica che compromette tutti gli altri ambiti di inclusione, quali l’inserimento lavorativo
e un alloggio dignitoso, e che non permette loro neanche di usufruire
delle sovvenzioni per indigenza, fatto che contribuisce ad accrescere
la distanza socio economica dai gagè (non-rom).
Dalle testimonianze di operatori sanitari e del volontariato sociale,
che portano avanti progetti finora risultati efficaci, risulta evidente
come la strategia più idonea sia quella che mette al primo posto la
relazione interpersonale, per cui l’intervento viene identificato con
la persona e il rapporto che con questa le famiglie stabiliscono. Alla
crescente sfiducia nell’istituzione si accompagna una propensione a
valorizzare la fiducia nel singolo operatore.
A partire da questa constatazione si muove la metodologia adottata
dagli operatori sanitari della AUSL 6 di Palermo che per primi hanno
sperimentato con i Rom residenti sul territorio un approccio basato
sulla centralità della relazione. Relazione costruita attraverso l’offerta attiva, la presenza sul campo e un lungo lavoro di orientamento e
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avviamento di percorsi assistenziali, al fine di spingere la persona a
raggiungere la piena autonomia nella fruizione del diritto alla salute e
nell’utilizzo delle strutture sanitarie pubbliche.
6.4.3 Gli strumenti della salute: presenza sul campo e approccio
relazionale
Il Centro di Salute Immigrati e Nomadi della AUSL 6 di Palermo è
un servizio specifico rivolto a stranieri e Rom che ha sede all’interno
di una struttura ambulatoriale e di guardia medica in via Massimo
D’Azeglio, 6. All’interno, oltre all’ambulatorio per immigrati che rilascia la tessera STP/codice ENI ed effettua visite mediche, è anche
presente un centro vaccinale e un consultorio ginecologico, per cui
l’utenza complessiva è composta sia da stranieri sia da italiani.
La discreta affluenza dei Rom al Centro è il frutto di un’azione specifica portata avanti negli ultimi vent’anni da alcuni operatori sanitari.
Nato per rispondere a un’emergenza sanitaria, l’intervento
dell’équipe del Centro si è trasformato nel tempo in una vera e propria
presa in carico da parte del servizio pubblico della comunità rom, con
il fine ultimo di inserire anche questa fascia di popolazione nel circuito regolare della fruizione del diritto alla salute e garantirne l’accesso
alle strutture del Sistema Sanitario Nazionale.
I primi interventi sanitari nel campo La Favorita sono stati effettuati verso la metà degli anni Novanta a seguito di un caso di poliomielite di una bambina rom residente nell’insediamento, per iniziativa di un medico di medicina preventiva. La prima azione fu dunque
di igiene pubblica, una campagna vaccinale destinata ai bambini rom,
nonostante le forti resistenze espresse allora da parte di molti medici.
Come ricorda una delle dottoresse intervistate:
Nessuno voleva vaccinare i bambini. L’iniziativa è partita da noi
medici. Non c’è stata una direttiva aziendale, piuttosto è l’azienda
che ha subito la nostra iniziativa, in modo un po’ garibaldino. [Medico AUSL 6].
In seguito, a partire dal 1997, un gruppo di sanitari, guidati dallo
stesso medico e da una collega responsabile del Centro Salute Immigrati e Nomadi, decise di proseguire nel lavoro con i Rom allargando
l’intervento a tutti gli aspetti dell’assistenza sanitaria, nel tentativo
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di ridurre l’accesso improprio al pronto soccorso che fino a quel momento rappresentava l’unico punto di riferimento. In accordo con il
mandato del servizio pubblico, è iniziato un intervento che prevedeva
due visite al campo settimanali, con lo scopo di proporre, oltre all’offerta attiva di prestazioni sanitarie, l’orientamento ai servizi territoriali, gettando le basi per un processo di inclusione.
Di certo, l’imposizione dall’esterno dell’intervento, senza alcuna
attività di mediazione, sarebbe stata sicuramente destinata al fallimento. Per costruire un’immagine di credibilità e utilità del servizio è stato necessario coinvolgere attivamente i rappresentanti dei vari gruppi
rom presenti, prestando la massima attenzione alle gerarchie interne
al campo, ai rapporti tra le diverse etnie e agli equilibri di potere.
Il punto di forza di tale modalità di “aggancio attivo” è stato quello
di portare inizialmente il servizio all’interno del campo, adottando
un atteggiamento di apertura, curiosità ed ascolto dell’altro, atteggiamento che ha consentito di abbattere progressivamente le distanze e
di creare una relazione di fiducia con la popolazione residente.
L’altro elemento vincente, necessariamente legato al primo, è stato
la garanzia di continuità dell’intervento, ossia l’essere costantemente
presenti sul campo nei giorni e orari stabiliti in qualsiasi condizione
meteorologica, facendo in modo che le “buone intenzioni” divenissero agli occhi dei Rom prassi concreta. Infatti:
Conquistare la loro fiducia non è per niente facile. Si conquista la
loro fiducia mostrandosi costanti nell’intervento, non “toccata e
fuga”. Quello di cui loro non hanno assolutamente bisogno è l’illusione, il non tener fede, l’evanescenza. Queste sono le cose negative
che vedono nelle nostre amministrazioni. [Medico AUSL 6].
In tempi più recenti, il rischio che il programma di intervento sanitario fosse percepito dai Rom come mero assistenzialismo, senza
favorire un processo di emancipazione e di integrazione sul territorio,
ha condotto l’équipe di medici a diradare progressivamente le visite
al campo. In virtù dei forti legami personali instaurati con lo stesso
personale sanitario, l’effetto immediato è stato quello di incoraggiare
la popolazione rom ad accedere autonomamente all’ambulatorio dedicato. Ad oggi:
Definirei buona l’affluenza, per tutto il lavoro che è stato fatto a monte per instaurare un clima di fiducia con noi e, a cascata, con gli altri
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ambulatori, in particolare la ginecologia, ma anche altre strutture del
sistema sanitario nazionale… La relazione di fiducia è stata creata
nel corso degli anni con il nostro accesso al campo due volte alla
settimana, con il cosiddetto “aggancio attivo”. [Medico AUSL 6].
Ed infatti uno dei principali punti di forza dell’intervento è stato il
ruolo assolto dall’equipe medica dentro e fuori dal campo, caratterizzato da un approccio integrale all’utente rom che abbraccia non solo
l’aspetto sanitario, ma anche quello sociale, legale e psicologico e che
richiama alla mente la funzione del vecchio medico di famiglia, depositario della storia personale e familiare del paziente. In altri termini,
in virtù del rapporto privilegiato che si andava costruendo con la popolazione rom, i medici coinvolti nel progetto si sono di fatto trovati a
svolgere anche il ruolo di assistenti sociali, dovendo fronteggiare problematiche legate alle situazioni familiari, all’inserimento lavorativo,
alla scolarizzazione dei minori e perfino alla condizione giuridica.
L’esigenza di dare risposta alle diverse problematiche emergenti ha spinto gli operatori sanitari a coinvolgere una serie di soggetti
chiave presenti sul territorio, dapprima attraverso contatti personali,
in seguito con accordi sempre più formalizzati. Il lavoro decennale
svolto dalla AUSL 6 a favore dei Rom del campo La Favorita ha dato,
dunque, vita ad un’ampia rete di soggetti istituzionali e del privato
sociale9 che si sono fatti carico di diversi aspetti dell’intervento, organizzando strutture socio-sanitarie di primo e secondo livello.
Nell’attuale contesto, il ruolo principale dell’ambulatorio rimane
quello di “cuscinetto”, favorendo l’invio degli utenti rom a strutture
specialistiche, mediando i conflitti, facilitando il passaggio di informazioni ed intercettando le criticità. I medici sottolineano di essere
“un anello di una catena che una volta messa in moto è inarrestabile”,
anche se resta il dubbio di una eccessiva personalizzazione delle relazioni che non si traducono automaticamente nella presa in carico
da parte del servizio e delle istituzioni. Al di là di tali perplessità, la
capacità di attivazione dei diversi nodi della rete sembra essere molto
elevata, soprattutto considerando lo stato permanente di emergenza in
cui si è costretti a lavorare.
L’esperienza della AUSL 6 di Palermo e in particolare dell’équipe
del Centro di Salute Immigrati e Nomadi fornisce un utile spunto di
9 Ufficio nomadi del comune, Lega Missionaria Studenti, Caritas, Arci, oltre
alla partecipazione degli istituti scolastici di zona.
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riflessione sul quale possa essere un’adeguata strategia di intervento
con la popolazione rom, quali i rischi di un approccio eccessivamente
assistenzialista e quali i limiti legati alla carenza di un supporto, non
tanto economico quanto metodologico e progettuale, da parte delle
istituzioni. Risulta evidente come una strategia d’azione che metta
al primo posto la relazione e la costruzione di un rapporto di fiducia
reciproca con le persone e con le famiglie sia non solo efficace, ma
forse l’unica che possa portare a risultati concreti. L’esito positivo
sta nell’aver raggiunto l’obiettivo di normalizzare l’accesso dei Rom
ai servizi, fuori dal campo, a partire dall’offerta attiva dentro le loro
case. Come abbiamo visto, attualmente i Rom usufruiscono delle
strutture sanitarie autonomamente, poiché, non solo conoscono gli
operatori dei quali si fidano dato il rapporto di lunga data, ma hanno
sperimentato positivamente l’accoglienza del servizio e i percorsi assistenziali sono sempre giunti a buon fine.
In questo senso diventa necessaria la formazione degli operatori
per l’acquisizione delle competenze relazionali specifiche e un’adeguata conoscenza del contesto di intervento. Formazione che non può
limitarsi a un corso teorico, ma deve piuttosto fondarsi sulla pratica. Il
primo passo diventa quindi quello della presenza sul campo.
Il percorso affrontato dal personale sanitario della AUSL 6, iniziato portando la sanità pubblica dentro l’insediamento con lo scopo
di conoscere i rom e creare i presupposti per il processo di inclusione
fuori dal campo, è con molta probabilità riproponibile anche in altri
ambiti, come per esempio la scuola. Come con medici e infermieri
anche gli insegnanti, se non addirittura le classi, potrebbero entrare
davvero in contatto con il mondo rom attraverso uscite sul campo,
andare a vedere come e dove vivono queste persone, sperimentare
l’ospitalità presso le loro case. In tal senso è necessario che le istituzioni condividano, sostengano e promuovano una simile strategia,
affinché questa possa diventare la linea di intervento privilegiata.
6.5 Catania. Scuola, lavoro, salute: criticità e punti di forza di
un intervento integrato10
La periferia della città di Catania ospita diversi gruppi di Rom
rumeni dislocati in quattro insediamenti spontanei. Il più consistente
10 L’introduzione del presente paragrafo è una rielaborazione della sezione 3.3,
a cura di Roberto De Angelis e Marco Brazzoduro, disponibile su IREF 2010b.
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è quello situato in un’area adiacente al cimitero, nella zona di Librino,
in via Zia Lisa, dove abitano 41 famiglie, per un totale di circa 140
persone (di cui 70 minori) provenienti dalla città di Calarasi e appartenenti al gruppo degli spoitori11.
L’accampamento di via Zia Lisa sorge su di un terreno privato, in
una conca argillosa, cui si accede tramite un ripido sentiero sterrato
che rende l’insediamento invisibile ai passanti. I Rom che vi abitano
sono giunti in Italia nei primi anni del 2000 e molti di loro sono a
Catania in modo più o meno stabile, in relazione alla frequenza degli
sgomberi, da 2 o 3 anni. Come nella maggior parte degli insediamenti
spontanei, anche qui i Rom hanno costruito con materiali di fortuna
piccole baracche su palafitte che le sollevano di circa un metro dal
suolo per scoraggiare i topi che infestano l’area.
L’interno delle case è molto modesto, non più di 10 mq occupati
da un letto, dove in genere dormono sia i genitori che i figli, e da un
tavolino con un fornello alimentato da una bombola a gas. La corrente
elettrica è prodotta da un generatore a nafta utilizzato con estrema
parsimonia.
La mancanza di acqua e di servizi rende le condizioni igienico-sanitarie del campo estremamente precarie e dannose per la salute della
popolazione. Sono frequenti le infezioni dell’apparato respiratorio, le
malattie della pelle, i disturbi gastrointestinali. Inoltre l’impossibilità
di curare in modo appropriato l’igiene personale pesa gravemente su
processi di inserimento e socializzazione, già difficoltosi in partenza.
Il tasso di analfabetismo è molto elevato e sono pochi i bambini che
frequentano la scuola.
Come per quasi tutti i Rom romeni, anche il progetto migratorio di
questo gruppo è legato a motivi economici. In Romania infatti, nonostante molti di loro abbiano una casa, non riescono a sopravvivere per
11 Un secondo gruppo di circa 60 Rom, sempre spoitori di Calarasi, si è stabilito
nella periferia Sud-ovest della città, in via S. Giuseppe la Rena. In viale Kennedy
invece, nella struttura abbandonata di un vecchio campo sportivo, vivono circa 30
Rom provenienti dalla città di Suceava, appartenenti al gruppo dei barè balenghi.
Un ultimo insediamento è costituito da 20 famiglie di rom rumeni di recente immigrazione, sistemati in tende e baracche in un profondo avvallamento del suolo,
circondato da mura, in Corso Martiri della Libertà. In varie zone della città, inoltre, sono presenti Rom khorakhanè originari del Kosovo che vivono in abitazioni
in affitto povere e fatiscenti. Attualmente molti di loro hanno lasciato la città per
trasferirsi in Emilia. Nel presente lavoro ci soffermeremo sulla comunità di Rom
residenti in via Zia Lisa, destinatari privilegiati dell’intervento di inclusione sociale
promosso dalla Caritas diocesana.
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il costo della vita assai elevato rispetto alle possibilità di guadagno.
Queste persone arrivano in Italia convinte che le prospettive di una
vita migliore siano concrete e reali e si ritrovano invece costretti a
scegliere di vivere in baracche in condizioni insalubri, spesso oltre i
limiti della dignità umana, piuttosto che morire di fame nel proprio
Paese, come testimoniano gli stessi Rom:
D: Te l’aspettavi così l’Italia? Ti aspettavi che una volta arrivato
qua anziché vivere in una casa ti mandavano a vivere in un campo?
R: No. D: Che ti aspettavi? R: Io aspettavo che qua se arrivo posso
trovà una casa affittare, posso riuscire a pagarla anche con il lavoro,
posso mantenermi la famiglia… invece, è un altro modo… [S.M.
intervista n. 6].
R: Io pensi che è po’ meglio di qua perché qua è po’ bene… A casa
non c’è da mangiare, non c’è per i pannolini, non c’è che oggi quello
bambini piccoli de un anno e due mesi… quello bambini è bisogno
di pannolini e bisogno de mangiare e bisogno de latte, e dove prendere mia mamma ? Ché mia mamma non c’è posto de lavoro, sai?
(la madre in Romania tiene i figli – N.d.R.). [L., 27 anni, 2 figli,
intervista n. 18].
Le attività lavorative che questi rom riescono a svolgere sono saltuarie e poco redditizie per cui quasi tutte le famiglie sono costrette
a integrare gli introiti con la questua, che generalmente praticano le
donne. Tra le attività che svolgono gli uomini, la più diffusa è il commercio di rottami metallici (ferro, rame ed alluminio). Sono molti
i Rom che lavano i vetri ai semafori, o che vendono oggetti e abiti
usati, spesso raccolti dai cassonetti della spazzatura, al mercato delle
pulci ove, per conquistarsi un posto, si recano anche a mezzanotte del
giorno prima. Altri ancora lavorano saltuariamente come braccianti
agricoli (specialmente per la raccolta delle arance) o come manovali
nell’edilizia. Qualche Rom è impiegato nel carico e scarico di merci
e un ragazzo fa il badante a un anziano. Riportiamo ancora alcuni
estratti esemplificativi delle interviste:
D: Senti e che lavoro fai? R: A semaforo. D: Ai semafori? R: Sì. D:
Ma hai anche lavorato in campagna, nell’edilizia… R: Io ho cercato
lavoro però non ha trovato! Ha cercato 2 mesi e no ha trovato. [T.C.,
18 anni, 1 figlio, intervista n. 23].
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D: Senti e invece tu che lavoro fai? R: Prima c’han lavorato manovale. D: Sì. R: Manovale? D: Ma nell’edilizia? A costruire le case?
R: No, no! Solo manovale! D: Manovale in campagna ? R: In campagna, sì, con italiani. D: Sì, sì, che lavori facevi ? R: Si guadagnava
al giorno 25 euro, 30 euro al giorno, la mattina dalle 7 e mezza fino
alle 4. D: Fino alle 4 ? R: Sì. C’ho lavorato 5 mesi prima quando
vengo. Poi sono finito lavoro, sono andato anche al semaforo per
lavare la vetro. [L., 27 anni, 2 figli, intervista n. 18].
D: Che lavoro fai? R: Per fero vecchio. D: Ah! Ferro vecchio… E
come… che c’hai? Un’ape? Come lo trasporti il ferro? C’hai un
furgone? R: Furgone, sì. D: Furgone o camion? R: Furgone! D: Furgone. E quanto si fa al giorno col ferro? Quanto riesci a fare? R:
100 euro, 50 euro fai. D: E ti chiamano, ti telefonano per dire vieni
a prendere il ferro? Hai degli amici che ti chiamano o vai in giro tu?
R: Giro io per spazzatura. D: Giri tu per la spazzatura e prendi il
ferro? R: Sì! [S.C., 27 anni, 2 figli, intervista n. 29].
Di fatto, come molti dei Rom rumeni presenti sul territorio italiano, la mancanza di lavoro costituisce uno degli ostacoli principali per
riuscire a inserirsi nel tessuto socio-economico del nostro Paese. Non
disponendo di un reddito sufficiente per stabilirsi in Italia in modo
definitivo, o per avviare un’attività imprenditoriale in Romania, si
trovano a vivere in un limbo che permette loro unicamente di sopravvivere e inviare i pochi risparmi alla famiglia rimasta nel Paese di
origine.
Per queste persone, la difficoltà nel trovare un impiego è in larga
parte dovuta ai pregiudizi che inducono i datori di lavoro a diffidare
dei Rom, a meno che questi non nascondano la propria appartenenza
etnica.
Inoltre a Catania, come del resto in molte aree del Meridione, la
situazione è aggravata dalla presenza, in ampi strati della popolazione
etnea, di fenomeni d’indigenza e marginalizzazione sociale12; senza
contare che il campo di via Zia Lisa sorge all’interno del quartiere di
12 Nella Provincia di Catania, al 2009, il tasso di disoccupazione si è attestato
all’11,3%; mentre, l’incidenza della disoccupazione tra i 25 e i 34 anni è del 16,4%
[ISTAT 2010]. Alla mancanza di lavoro, nel Meridione, si sommano altri fattori di
criticità come ad esempio l’alfabetismo: secondo una ricerca condotta nel 2005 da
Saverio Avveduto, dal titolo “La croce del Sud”, nella sola città di Catania quasi un
residente su dieci (8,4%) era analfabeta o semi-analfabeta.
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Librino, zona fortemente colpita da alti tassi di dispersione scolastica, disoccupazione e delinquenza. Ciò produce frequentemente aspri
scontri per la difesa del territorio, come per esempio l’amara competizione esistente tra Rom e gagè che esercitano quei mestieri che in
altre parti d’Italia sono di esclusivo appannaggio dei primi (riciclaggio del ferro, vendita ambulante nei mercati, etc.), motivo in più per
alimentare il malcontento sociale e l’accanimento nei loro confronti.
6.5.1 Dal primo progetto di scolarizzazione a un’azione progettuale
trasversale
Gli interventi socio-sanitari nel campo di via Zia Lisa sono iniziati nel 2007 con un progetto pilota di scolarizzazione denominato
“Bimbi rom tutti a scuola”, promosso dalla Caritas di Catania. Prima di allora la Caritas aveva avuto contatti sporadici con qualche
Rom che ogni tanto si rivolgeva ai centri di ascolto e si era riusciti a
stabilire un buon rapporto con alcune famiglie tramite la Parrocchia
ortodosso-rumena. Di fatto il progetto di scolarizzazione costituiva
il primo intervento strutturato rivolto ai Rom presenti sul territorio,
fino a quel momento rimasti in uno stato di invisibilità e ignorati dalle
istituzioni.
Il progetto prevedeva l’accompagnamento dei bambini a scuola e
un doposcuola pomeridiano per tre giorni a settimana, presso il centro
Caritas. Durante tali pomeriggi si provvedeva al pranzo e alla merenda, all’igiene personale dei bambini e si svolgevano laboratori ricreativi e di sostegno allo studio.
Il progetto ebbe la durata di un anno e coinvolse 20 minori tra i
5 e i 14 anni di età. Dopo un primo momento di difficoltà, a causa
dell’ambiente nuovo e dell’ostilità mostrata dai compagni (tanto più
che le scuole si trovavano tutte nel problematico quartiere di Librino),
i bambini riuscirono a inserirsi positivamente nel gruppo classe e a
instaurare rapporti di amicizia.
Per il raggiungimento di questo obiettivo fu decisiva la relazione
con le famiglie, le quali, come spesso accade fra i Rom, nutrivano
una spiccata diffidenza nei confronti dell’istituzione scolastica. Con
il tempo, il bisogno di integrazione e la soddisfazione per i successi
scolastici dei bambini portarono gradualmente i genitori a interessarsi
direttamente al percorso didattico e sociale dei propri figli. Inoltre
furono promosse diverse occasioni di incontro e di scambio tra le
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famiglie rom e quelle dei bambini italiani, come le feste organizzate
dalle scuole alle quali le mamme rom parteciparono attivamente, a
volte cucinando alcuni piatti tipici della propria tradizione.
L’importanza del progetto, oltre ad essere legata alla rapida efficacia delle azioni messe in atto, stava nel fatto di rappresentare la prima
politica di accoglienza nei confronti della popolazione rom nel panorama del welfare locale pubblico e privato. Ciò nonostante, gli esiti
positivi dell’intervento non furono sufficienti a contrastare il clima
politico dominante, volto alla sicurezza e al decoro. In seguito a ripetute minacce di sgombero da parte delle forze dell’ordine, alla fine del
2008 molti Rom lasciarono la città e i rimanenti furono allontanati.
Le attività della Caritas vennero quindi interrotte e i risultati ottenuti
dispersi insieme ai Rom.
Dopo pochi mesi di assenza da Catania, alcune famiglie tornarono a stabilirsi in città. Ben presto anche il campo di via Zia Lisa si
ripopolò, di vecchi e di nuovi abitanti, raggiungendo le odierne 140
presenze.
Intanto, nel corso del 2009, la neonata Opera Nomadi locale aveva
portato avanti alcune attività con i Rom che progressivamente ricostruivano le proprie baracche nell’area adiacente al cimitero. In quel
periodo la Caritas sosteneva l’associazione, fornendo i locali e le attrezzature per riattivare il doposcuola per i minori.
Attualmente il programma di doposcuola è stato inserito all’interno di una nuova azione progettuale di più ampio respiro, finanziata
dalla CEI con i fondi 8x1000. Tale intervento, avviato all’inizio del
2010, ha lo scopo di sperimentare prassi di inclusione sociale a favore dei Rom, favorendo il riconoscimento dei diritti fondamentali
all’istruzione, alla salute, al lavoro e alla non discriminazione. A tal
fine la Caritas, come ente promotore e forte dell’esperienza acquisita
negli ultimi anni e del rapporto mantenuto con alcune famiglie rimaste più o meno stabili, sostiene un ruolo di mediazione interculturale
tra le comunità rom presenti sul territorio e il contesto di inclusione.
Avendo l’occasione e le risorse per avviare un nuovo progetto
strutturato si è ritenuto necessario pensare a un intervento che mettesse al centro la famiglia, predisponendo percorsi di accompagnamento
mirato ad un inserimento complessivo della persona. Al fine di garantire la continuità e l’efficacia dello stesso percorso di scolarizzazione,
nel corso dell’esperienza del 2007/08, era emerso infatti come fosse indispensabile intervenire in altri ambiti, quali la salute (insieme
all’iscrizione scolastica necessariamente si regolarizzò la copertura
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vaccinale di tutti i bambini), o le condizioni socio-economiche dei
genitori (si tentarono anche alcuni inserimenti lavorativi presso enti
privati di autolavaggio, carpenteria, edilizia).
Frutto di tale riflessione, insieme a una valutazione delle risorse
disponibili, è il modello progettuale attuale che punta alla presa in
carico globale delle persone, affinché possano raggiungere un’autonomia sufficiente, come nucleo familiare, ad uscire dalla condizione
di marginalità sociale ed economica in cui si trovano.
L’attuale progetto è quindi articolato su più livelli. Si continua a
dare priorità alla scolarizzazione dei minori, secondo una metodologia già collaudata e risultata valida, che tende a favorire il dialogo diretto scuola-famiglia. Il valore aggiunto consiste nell’aver coinvolto
direttamente l’istituto scolastico che mette a disposizione i locali per
le attività pomeridiane.
Come per l’avviamento dei percorsi educativi per i bambini (fino
ad ora il progetto vede la partecipazione di 15 minori), l’intervento
opera sugli altri settori, escogitando forme di accompagnamento della
persona nell’utilizzo autonomo dei servizi del territorio, quali avviamento al lavoro e all’assistenza giuridica e previdenziale, attraverso
uno sportello di ascolto e orientamento a cui i Rom possono rivolgersi in caso di bisogno; ma anche corsi di lingua italiana per adulti e
bambini, attività di animazione e socializzazione con le famiglie, con
lo scopo di educare alla legalità, all’integrazione socio-economica e
all’assistenza sanitaria e di orientamento alla rete di prestazioni differenziate con attenzione particolare alle fasce deboli, quali donne e
bambini.
Per la realizzazione di un progetto così complesso e che integra i
livelli di inserimento, è necessaria la collaborazione di tutti gli organi che possano assolvere alle rispettive funzioni che i diversi ambiti
richiedono. Con la Caritas infatti operano attivamente più enti del
privato sociale (fra cui Opera Nomadi Catania, Croce Rossa Italiana,
società di San Vincenzo de Paolis) ed istituzionale (circolo didattico
“Caronda” - XIII Distretto Scolastico), che contribuiscono a vario titolo alla realizzazione delle attività e al consolidamento della rete. In
tal senso, il progetto prevede anche la creazione di spazi di confronto
e cooperazione che promuovano la comunicazione e lo scambio di
buone pratiche tra le organizzazioni e le istituzioni che si occupano
delle comunità rom sul territorio.
A distanza di neanche un anno dal suo inizio, il progetto promosso
dalla Caritas di Catania ha già prodotto alcuni effetti positivi soprat185
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tutto per quanto riguarda l’inserimento scolastico dei minori, tanto
che si sta pensando di estendere le attività di scolarizzazione ad altri
gruppi rom presenti sul territorio. D’altra parte, dopo così poco tempo, si è ancora lontani dal raggiungere lo scopo di rendere i Rom
responsabili ed autonomi nello sviluppo dei percorsi avviati. A ciò si
aggiungano le difficoltà legate alla precarietà e al continuo stato di
emergenza in cui si interviene, che rendono estremamente complicata
la costruzione di progetti a medio e lungo termine.
Intanto però è possibile avanzare alcune considerazioni sull’impostazione dell’intervento, che ha il merito di affrontare il problema
nell’ottica di un’inclusione trasversale basata sull’integrazione delle
risorse di rete, al fine di promuovere progetti di inserimento della
persona in tutti gli aspetti della sua esistenza: giuridico, linguistico,
formativo, sanitario, lavorativo, etc.
L’intervento, oltre all’offerta attiva di accompagnamento e supporto nella realizzazione degli specifici progetti di vita, mira alla costruzione di relazioni consapevoli e di fiducia tra i cittadini, i Rom e le
istituzioni, promuovendo occasioni di incontro tra i Rom e la comunità locale (mostre fotografiche, laboratorio teatrale, feste). La sensibilizzazione del tessuto sociale è infatti necessaria per l’accoglienza dei
rom nei servizi, negli ambienti lavorativi e di socializzazione.
A tale proposito, è bene ricordare che per molti aspetti non è possibile disgiungere il ruolo e l’eventuale contributo dell’amministrazione locale dall’esito positivo di un progetto di inclusione. Se infatti
la Caritas e i suoi partner intervengono sui Rom, lavorando sull’acquisizione della conoscenza e della comprensione delle norme civili e
culturali di cittadinanza, d’altro canto sono costantemente impegnati
nella ricerca di un dialogo con le istituzioni e gli enti locali per l’inserimento della popolazione rom all’interno delle politiche di welfare.
In tal senso viene un’altra volta confermata la collaborazione attiva
degli istituti scolastici che, trovandosi quotidianamente a contatto con
il problema, sperimentano in modo diretto i vantaggi di un inserimento efficace degli alunni e delle famiglie rom.
Nello specifico, l’amministrazione comunale si è avvicinata solo
di recente al caso dei Rom a Catania, in seguito alle sollecitazioni da
parte della Caritas e dell’Opera Nomadi. Pur appoggiando l’operato
di tali organizzazioni, finora l’unica proposta che il Comune ha lanciato è la possibilità di costruire un campo attrezzato transitorio, o di
dotare di servizi gli insediamenti esistenti.
Per alcuni aspetti un simile progetto rappresenta una presa in cari186
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co da parte dell’amministrazione, poiché costituisce il riconoscimento di una situazione di degrado che non può perpetuarsi e predispone un piano di intervento alternativo alla soluzione dello sgombero
forzato. D’altro canto, se la dotazione di servizi può essere una risposta all’emergenza igienico-sanitaria, l’allestimento di un campo
attrezzato incorre in alcuni rischi difficili da scongiurare, in quanto
continua ad alimentare i luoghi comuni costruiti intorno all’idea che
i rom siano “nomadi” e che l’area di transito sia la soluzione più indicata e rispettosa della loro cultura. In tal senso, le istituzioni locali,
insieme alle organizzazioni del volontariato, sono chiamate a predisporre azioni di inclusione socio-abitativa in grado di andare oltre la
logica del campo-sosta, mettendo a disposizione risorse economiche
e di rete per l’attivazione di programmi d’inserimento lavorativo e
abitativi nel tessuto socio-economico cittadino.
Ad oggi questo obiettivo non è stato raggiunto, l’adesione informale dell’amministrazione comunale alle attività svolte dal privato
sociale non si è ancora tradotta in azioni concrete. Ci si augura che
l’intervento della Caritas diocesana e dei suoi partner possa gettare le
basi per un ripensamento generale delle politiche di inclusione socioabitativa delle comunità rom territoriali.
6.6 La strada del dialogo
Le esperienze della AUSL 6 di Palermo e della Caritas di Catania,
insieme all’originale progetto di scolarizzazione dei bambini camminanti di Noto, ci ricordano che nell’elaborazione di interventi in favore di Rom, Sinti e Camminanti non si può prescindere dalla specificità
del contesto e che la scelta del modello di azione può essere operata
all’interno di un ampio ventaglio di possibilità. In effetti sono state
sperimentate numerose soluzioni socio-abitative, di inserimento lavorativo, di promozione della salute, alternative e lontane dalle politiche
nocive degli sgomberi e dei campi attrezzati. Insieme ad un’adeguata
conoscenza dei contesti di intervento, si può attualmente contare su di
una grande varietà di strumenti collaudati e di esperienze positive che
rendono reale l’inclusione sociale dei Rom: dalla casa, alla scuola,
alla loro stessa partecipazione attiva in tutte le fasi di programmazione degli interventi [Vitale: 2009].
Naturalmente la realizzazione di un progetto non dipende solo dai
bisogni degli utenti, ma anche dalle risorse che il territorio offre in
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termini di competenze professionali, reti già attive, strutture e servizi. La condivisione del comune obiettivo di promuovere l’autonomia
delle persone rom, all’interno di un processo di inclusione globale, si
tradurrà quindi in un progetto esclusivo per ogni diversa realtà, tarato
sulla dimensione complessiva in cui si realizza.
In questo senso le differenze tra gli interventi di Palermo e Catania
sopra descritti risultano evidenti. La AUSL 6 di Palermo è portatrice
di un’esperienza decennale che ha visto l’iniziale spirito umanitario
di alcuni operatori sanitari concretizzarsi nella costruzione in itinere
di una metodologia di intervento efficace e ormai consolidata in gran
parte delle strutture sanitarie del territorio.
A Catania invece la Caritas, pur partendo da un progetto strutturato, con obiettivi ben definiti e da un discreto coinvolgimento dei
diversi attori locali, è appena all’inizio di un percorso che, nonostante
i primi risultati positivi, si presenta ancora lungo e faticoso.
Entrambi i casi di studio forniscono, inoltre, alcuni spunti metodologici utili. In primo luogo è ritenuta indispensabile la presenza sul
campo, che costituisce il primo passo per avvicinarsi alle persone e
conoscerle. È quindi auspicabile che tale conoscenza si trasformi con
il tempo in una relazione di fiducia, intesa come ascolto e rispetto
dell’altro e basata sull’impegno reciproco e sulla coerenza. A tale proposito è emblematica la testimonianza degli operatori sanitari della
AUSL 6 di Palermo.
Da un punto di vista della strutturazione delle attività è bene attivare percorsi di inserimento paralleli in più ambiti (giuridico, lavorativo, abitativo, scuola, salute), come proposto dall’équipe della
Caritas di Catania (ma che si è presto imposto come necessità anche
a Palermo). Ciò non solo favorisce l’integrazione a tutti i livelli, ma
permette anche di regolare e indirizzare le numerose richieste dei
Rom verso settori di competenza specifica. In questo lavoro di orientamento ai servizi è necessario fare iniziale riferimento alle strutture
(scuole, servizi sanitari, uffici amministrativi, etc.) più accoglienti e
disponibili, poiché garantire percorsi positivi all’interno dei servizi
pubblici consente di riqualificare il rapporto tra i rom e le istituzioni,
spesso caratterizzato da un forte senso di sfiducia.
Proprio per questo, sia dall’esperienza di Palermo che da quella
di Catania, emerge la centralità del lavoro di rete, al fine di mettere
in comunicazione tutti gli enti pubblici e privati che sono coinvolti, direttamente o indirettamente, nella realizzazione dei progetti di
inclusione. A tale proposito è necessario soffermarsi sul ruolo che
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hanno, o dovrebbero avere, le istituzioni nello svolgimento di tali
progetti.
È interessante notare come a Catania sia evidente la delega implicita del problema degli insediamenti rom da parte dell’amministrazione locale al privato sociale.
A Noto e a Palermo invece sono stati proprio gli enti pubblici
(scuola e sanità) a prendere l’iniziativa, mossi dal bisogno concreto
di far fronte quotidianamente alle problematiche di cui i rom sono
portatori, ma soprattutto sollecitati dall’impegno personale di alcuni
operatori altamente motivati.
In effetti, l’aspetto motivazionale degli operatori induce ad alcune
riflessioni. Per alcuni versi costituisce un limite dell’intervento, poiché lo connota con il carattere dell’eccezionalità pregiudicandone la
continuità nel tempo e la trasferibilità in altri contesti. È anche vero,
però, che l’efficacia di qualsiasi intervento di tipo socio-sanitario è
direttamente proporzionale al grado motivazionale degli operatori,
i quali devono affrontare situazioni di disagio ad alto impatto relazionale. Inoltre, se la motivazione si accompagna all’entusiasmo e
alla perseveranza, la probabilità di successo dell’azione progettuale
aumenta ulteriormente e soprattutto favorisce una sua ricaduta positiva “a cascata” sugli altri ambiti di intervento direttamente collegati.
Abbiamo visto come ciò sia accaduto a Palermo, dove l’attenzione ai
Rom è nata da un piccolo gruppo di medici per estendersi con il tempo alle altre strutture sanitarie, alla scuola, e agli uffici comunali.
La componente motivazionale del singolo, come anche la sollecitudine dell’ente pubblico o privato, non è, però, sufficiente alla riuscita di un progetto di inclusione, poiché inevitabilmente ci si scontra
con i limiti imposti dai governi locali. Anche dove esiste un’attenzione specifica e un interesse a trovare soluzioni alternative da parte
delle amministrazioni, raramente lo sforzo si concretizza in azioni
progettuali di ampio respiro. I problemi sono molti, innanzi tutto di
natura economica, laddove si deve in prima istanza far fronte ai disagi
economico-sociali dell’intera cittadinanza.
Forse il difetto sta nello scindere a priori i Rom dal resto della
popolazione, continuando a considerarli un caso a parte ad ogni costo. Si direbbe quasi un errore ontologico, per cui si presuppone che
la diversità culturale richieda necessariamente un trattamento differenziale, che però molto spesso non nasce da un rilevamento delle
esigenze reali di queste persone, ma piuttosto dai pregiudizi di cui
sono vittime.
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Per uscire da questa impasse, si potrebbe tentare la strada della
mediazione e del dialogo tra comunità rom, cittadinanza e governi
locali, al fine di ascoltare i rispettivi bisogni e trovare un canale di
comunicazione che permetta di costruire una relazione rinnovata fra
tutte le parti coinvolte. Un simile approccio presenta molteplici vantaggi. In primo luogo, favorisce la conoscenza reciproca, offrendo
quindi l’occasione di scoprire i Rom oltre i confini degli stereotipi.
Permette anche di comprendere i bisogni reali di tutti e di scongiurare gli scontri che derivano da scelte politiche calate dall’alto, canalizzando i conflitti in uno spazio di confronto costruttivo, per cui la
soluzione viene ricercata insieme. Infine, poiché la risposta al bisogno dipende anche dalle effettive possibilità di un’amministrazione,
la scelta del dialogo consentirebbe a quest’ultima di mettere in atto
un’informazione chiara, diretta e trasparente, ripristinando la giusta
corrispondenza tra ciò che si promette e ciò che si fa. Portare avanti
politiche coerenti e mantenere gli impegni costituisce infatti una condizione necessaria affinché i Rom (ma non solo loro) recuperino la
mancata fiducia nei confronti dell’istituzione.
In conclusione, per definire termini e obiettivi degli interventi di
inclusione insieme ai Rom e a tutti gli attori coinvolti è dunque necessario partire dal riconoscimento dei bisogni espressi e dalle risorse già
presenti, per svilupparle in un’ottica di promozione degli individui
come parti integranti di un’unica collettività, all’interno di uno spazio
dialogico fatto di impegni e responsabilità reciproche. È chiaro che
promuovere o sostenere una mediazione di questo tipo presuppone un
interesse che trascenda i singoli mandati elettorali, poiché si tratta di
un percorso che richiede tempi molto lunghi e garanzie di continuità,
oltre a un’elevata capacità di leggere e coordinare la complessità delle
dinamiche sociali e collettive.
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Capitolo 7
Tra l’incudine e il martello
ALESSANDRO SERINI, DANILO CATANIA
7.1 Una questione irrisolta
Al termine di questo viaggio nei tanti progetti di inclusione sociale
e socio-sanitaria per i Rom, è possibile tirare alcune conclusioni sul
loro lento e lungo cammino di inclusione nella società italiana; conclusioni frutto dei sopralluoghi fatti negli studi d’area, delle interviste
effettuate a testimoni ed esperti del settore, e della raccolta documentale delle buone pratiche realizzate in Italia e all’estero. In particolare,
si è focalizzata l’attenzione su alcune aree critiche individuate nella
ricerca, che saranno oggetto di considerazioni nelle pagine successive.
Come premessa, vi è tuttavia da dire che la sensazione generale
avuta nel corso della ricerca è quella di una questione al momento
irrisolta. Ci si chiede perché, a distanza di decenni, ancora si discuta
della questione dei Rom. Certamente, l’immigrazione nel nostro Paese è salita alla ribalta politica solamente negli ultimi anni, da quando
l’Italia è divenuta un Paese ad immigrazione consistente; nondimeno,
il rapporto con l’etnia rom sembra presentare elementi di incertezza maggiori rispetto a quello con altre etnie e culture. Se il dibattito
sull’immigrazione è aperto da tempo – in particolare su quale modello di accoglienza adottare – quello sui Rom sembra essere già chiuso,
in senso negativo, per una fetta consistente della popolazione italiana.
Eppure, le prime testimonianze scritte di presenza zingara in Italia
risalgono alla metà del ’400.
Probabilmente, la storia della presenza rom in Italia è fatta di chiaroscuri, in cui fenomeni di integrazione di lunga data si alternano a
fenomeni di difficile integrazione – si pensi, ad esempio, alle famiglie
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rom girovaghe, la cui presenza nei territori di passaggio viene tollerata
solo se provvisoria. Il livello di conoscenza delle etnie rom da parte
della popolazione italiana è basso, sufficiente tuttavia a creare una loro
definizione stereotipata, ovvero semplificata e negativa. Nella migliore
delle ipotesi, i cittadini italiani sono a conoscenza di alcune differenze
tra etnie appartenenti al mondo rom, ignorando del resto l’esistenza di
un gran numero di comunità rom italiane. Ignoranza sui Rom, differenze di cultura e di stili di vita, una certa paura che aleggia intorno
ai campi, pregiudizi sedimentati nei decenni fanno sì che la comunità
italiana “autoctona” e i Rom facciano, sostanzialmente, vita separata.
In tal modo si viene a rafforzare la costruzione stereotipata dell’immagine dei Rom e diventa difficile gestire politicamente eventi inaspettati. Ad esempio, il difficile rapporto con gli zingari nostrani1 ha
reso problematico il processo di inclusione dei Rom giunti in Italia
nelle due ondate migratorie recenti: quella jugoslava, scaturita dalle vicende belliche degli anni Novanta; e quella rumena, facilitata
dall’ingresso della Romania nella UE. Decine di migliaia di ex-jugoslavi e rumeni, di origine rom, sono giunti nel nostro Paese in pochi
anni, favoriti anche dalla legislazione europea anti-discriminazione e
dal diritto internazionale, e hanno trovato un terreno poco favorevole
alla loro accoglienza, almeno da parte della popolazione. Situazioni
maturate all’interno del diritto internazionale si sono in tal modo sovrapposte a resistenze locali di origine storica, rendendo necessario,
ma scomodo (tra l’incudine e il martello, si direbbe), l’intervento dei
governi e delle pubbliche amministrazioni competenti in materia. In
pochi anni sono sorti in Italia campi autorizzati – più spesso insediamenti abusivi – all’interno dei quali si sono concentrate migliaia di
persone provenienti dall’Est europeo, senza che il Paese si sia dotato
di una politica unica di accoglienza dei rifugiati di origine rom. In una
singolare dissociazione tra legislazione europea e dinamiche sociali,
i Rom balcanici devono essere politicamente accolti, ma sono socialmente indesiderati.
La dissociazione creatasi viene a determinare una serie di conseguenze talvolta paradossali. Innanzitutto, si sta originando un mosaico
di politiche locali sui Rom, frammentarie e scarsamente coordinate,
tendenzialmente riconducibili a due poli opposti e in polemica tra di
loro: da un lato, le politiche securitarie, con gli interventi di sgom1 Il termine è volutamente inserito in questo modo ad indicare come, già nella
parola che li designa, il rapporto con i Rom sia connotato negativamente.
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bero degli insediamenti abusivi e di controllo giudiziario preventivo
dei Rom insediati; dall’altro, le politiche inclusive, che vedono nei
progetti di assistenza sanitaria, scolastica e abitativa la loro principale
traduzione operativa.
In secondo luogo, il paradosso logico rischia di rendere le une e
le altre scarsamente efficaci. La politica degli sgomberi tende ad allentare la tensione sociale nel luogo dove avvengono gli spostamenti,
ma rischia di creare nuove tensioni dove le famiglie rom vanno a
insediarsi. Inoltre, i rapporti scolastici faticosamente costruiti negli
anni con le scuole limitrofe, i rapporti con le organizzazioni di volontariato e con la parte accogliente della cittadinanza vengono recisi da
un giorno all’altro, con grave danno per la già difficile integrazione
dei Rom immigrati.
Le politiche di inclusione sociale, da parte loro, vengono talvolta
portate avanti sottovoce e con scarso coinvolgimento della cittadinanza locale giacché, come visto, la questione dei Rom è lungi dall’essere stata metabolizzata. Si spendono soldi pubblici per progetti spesso
finanziati dalla UE a loro favore, ma senza enfatizzarne la comunicazione, tralasciando la compartecipazione della popolazione; si inseriscono bambini rom nelle scuole con bambini italiani, ma senza darne
pubblicità; si effettuano per i Rom screening sanitari di prevenzione
delle malattie infettive, ma in guanti di lattice e con un timore irrazionale del contatto, quasi che essere Rom sia contagioso2. Declinate
in tal modo, le azioni politiche attenuano il loro impatto territoriale a
causa dello scarso appeal sociale che le circonda, smorzando quegli
effetti di lunga durata che producono cambiamento sociale. A forzare
la metafora, nel rapporto rom-italiani sembra che scattino dinamiche
simili alle politiche ambientali per lo smaltimento dei rifiuti tossici:
necessarie, ma non nel mio territorio. Come nel caso dei comuni limitrofi a Cosenza, i quali, a fronte di una richiesta del comune capoluogo
di collaborazione inter-comunale per la costruzione di piccoli campi
attrezzati, hanno rifiutato tale invito a causa delle manifestazioni di
piazza svolte contro tale iniziativa.
Stante così la situazione, non stupisce dunque come la questione
dei Rom sia al momento irrisolta. Prim’ancora di una distanza fisica,
quella che separa la popolazione italiana dalla popolazione rom è una
distanza sociale.
2 Dalle testimonianze raccolte, il cambiamento dei medici che hanno a che
fare con i Rom è innanzitutto emotivo, poi professionale.
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7.2 Punti critici e contesti in cui sono maturati
Che sia provocata dalla popolazione italiana o che sia una libera
scelta delle etnie Rom, la distanza sociale tra di esse è evidente. C’è
chi attribuisce questo distacco alla paura che gli italiani hanno nei
confronti degli zingari e chi l’attribuisce alla volontà dei Rom di voler preservare il proprio stile di vita da quello della società circostante. Probabilmente sono vere entrambe le affermazioni, alla luce del
fatto che diversi fattori entrano in gioco nel fallimento o nel successo
di tali relazioni. Come non esiste una cultura nomade, ma molteplici
strategie di sopravvivenza rom, così occorre articolare maggiormente
situazioni e atteggiamenti presenti nella popolazione italiana. Per tale
ragione, nelle ricerche è stato fondamentale analizzare i contesti in
cui la molteplicità dei fattori è entrata in gioco.
Tra vincoli e possibilità di azione, un ruolo importante è dunque
rivestito dal modo in cui i gruppi rom affrontano le esigenze della
vita. Nell’immaginario popolare, viene commesso l’errore di considerare i Rom come dei nomadi con una cultura antica: è un’immagine
in parte vera, ma è una generalizzazione fin troppo banale. Vi sono
certamente Rom di antico stanziamento, che per certi versi rispondono all’immagine collettiva, di comunità semi-nomadi con una cultura patriarcale e con lavori connotati etnicamente – giostrai, circensi, arrotini, lavoratori del rame: i Caminanti di Noto e della Sicilia
Sud-orientale ne sono un esempio. Ma quasi tutti i Rom – soprattutto
stranieri e di recente immigrazione – abitano nei campi autorizzati
e abusivi semplicemente perché la forma comunitaria di vita facilita la sopravvivenza e aumenta le chance di vita, sul modello delle
enclavi etniche cinesi o senegalesi o bengalesi: è la testimonianza di
alcuni Rom di Reggio Calabria, che vivono nei campi autorizzati ma
preferirebbero trasferirsi in appartamento. Ci sono, infine, Rom che
avevano già una casa e un lavoro nel loro Paese d’origine: sbarcati in
Italia, si sono trovati a desiderare le stesse cose che desideravano in
patria, senza averne tuttavia la disponibilità: è il caso dei Rom bulgari
e rumeni che lavorano come braccianti nelle campagne del foggiano
o del salernitano e stanno faticosamente inserendosi in case prese regolarmente in affitto. Non di rado mimetizzano la loro origine rom
pur di trovare lavoro.
In pratica, a considerare l’etnia rom un’unica grande famiglia con
i medesimi bisogni e lo stesso quadro valoriale si rischia di pensare
interventi di integrazione uguali nella logica, ma discriminatori nella
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pratica. Giovanna Zincone [2010:1] tende a considerare il rapporto
tra Rom e mondo occidentale come la “coabitazione tra culture temporalmente sfasate”. All’esperta di immigrazione è parso di cogliere
in quella rom “una cultura pre-moderna dolorosamente inserita nella
modernità” [ivi, 2010:2]. E ciò causerebbe quella grande sofferenza
(e resistenza) che i Rom manifestano nell’inserirsi nelle moderne società occidentali.
In realtà tutto ciò potrebbe anche essere vero, ma sarebbe comunque una lettura personale, perché molti Rom già manifestano un grado di inserimento avanzato nella nostra società, per cui il processo di
inclusione non è doloroso a causa dello sfasamento culturale – una
ipotesi suggestiva ma da verificare – bensì a causa della difficoltà a
trovare un lavoro e un’abitazione: in definitiva, all’impossibilità, dettata dall’assenza di risorse, di determinare il proprio destino. E questo
vale per i Rom come per qualunque altro immigrato nelle medesime
condizioni.
Detto questo, pur ipotizzando la coabitazione tra culture temporalmente sfasate, occorre articolare maggiormente la riflessione sul
mondo rom, ammettendo che per alcuni dei suoi membri l’inserimento nella società occidentale è più agevole che per altri. Occorre tenerne conto in fase di pianificazione delle politiche per l’inclusione
e per la non discriminazione, altrimenti si rischia di discriminare le
persone, non avendo discriminato correttamente le diverse esperienze
di vita da cui provengono.
Del resto, a complicare ulteriormente il difficile rapporto tra Rom
e popolazione italiana, vi è la questione dell’invisibilità anagrafica
dei Rom balcanici. Giunti in Italia nello scorso decennio a seguito del
conflitto jugoslavo, in molti casi non è stato possibile risalire all’identità e alla cittadinanza dei Rom slavi, perché sono andati persi o distrutti i registri anagrafici, con il risultato che genitori e figli – spesso
nati in Italia – sono invisibili. È una questione rilevante se si pensa
che l’accesso ad alcuni servizi di welfare richiede la residenza, legata all’identità della persona. Certamente il codice STP introduce una
forma di riconoscimento legale, almeno dal punto di vista sanitario;
ma è una misura temporanea, e non permette il pieno inserimento dei
gruppi rom fino a quando essi non abbiano una residenza e un’abitazione dove poter vivere. In tal senso, emerge con evidenza la necessità di censire a fondo la popolazione rom, per tentare quantomeno di
dirimere le situazioni problematiche, nel rispetto dei diritti civili di
tutti coloro che hanno deciso di stabilirsi in Italia.
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Volendo riassumere, il rapporto della popolazione italiana con i
Rom presenta difficoltà di comprensione da entrambi i fronti. Ostacoli culturali, comunicativi e amministrativi si sedimentano e si sovrappongono, e sembrano rimandare a una generale impossibilità dei Rom
di fuoriuscire dalla situazione di marginalità sociale in cui vivono.
Fatto sta che ci si trova a percorrere un labirinto intricato di cui non si
intravede l’uscita, per sperare in una possibile via di integrazione dei
Rom residenti in Italia, tra sforzi istituzionali intermittenti, pregiudizi
sociali radicati, scarse opportunità lecite di emancipazione.
A proposito di emancipazione, sono stati pochi i tentativi di inserimento lavorativo dei Rom all’interno dei circuiti lavorativi differenti dalle loro attività tradizionali. Come altri immigrati, i Rom molto
spesso vedono ristrette le possibilità lavorative ad attività manuali.
Quei pochi che hanno tentato la strada dell’inserimento si sono trovati in difficoltà con i datori di lavoro, lamentando di non essere stati
retribuiti per il lavoro effettuato. Sicché, in pratica, i pochi Rom che
riescono a darsi continuità lavorativa, rincorrono la propria voglia di
riscatto limitandosi a scegliere tra lavori “3d”3, lavori etnicamente
connotati e nomadismo da lavoro – consolidando in tal modo una
separazione con la società italiana4. Nello specifico, lavori come l’arrotino, il giostraio, il circense, il commerciante di rame non sono propriamente lavori etnici; tuttavia, nel tempo sono diventati retaggio dei
Rom nostrani, probabilmente frutto di una combinazione di istinto di
sopravvivenza e di spirito di adattamento.
Al di fuori di questa limitata gamma di possibilità, è veramente
difficile che possano trovare lavoro i Rom in età attiva, se non con
forti interventi istituzionali di supporto, come nel caso della coopera3 Lavori dirty, dangerous, demeaning, ovvero sporchi, pericolosi, degradanti; di
norma assegnati alla popolazione immigrata.
4 Donna delle pulizie, badante, bracciante agricolo, muratore, camionista, cameriere sono soltanto alcuni dei lavori “3d” presenti nell’attuale sistema economico
occidentale, e l’elevato turnover che li caratterizza permette a persone con bassa
mobilità sociale di ricavarsi uno spazio di sopravvivenza. I lavori connotati etnicamente nascono di prassi all’interno di filiere etniche e producono beni e servizi
destinati alla popolazione di riferimento (tipico esempio sono i negozi alimentari
etnici, che vendono prodotti alimentari destinati ad una particolare etnia, residente
nei dintorni del negozio). Infine, permangono nei Rom forme di semi-nomadismo
dettato da ragioni lavorative. Esse traggono origine fondamentalmente dall’aumento di chance di vita che tale consuetudine permette e sono state riscontrate, tra gli
altri, nei Caminanti siciliani, in direzione del Nord-Italia, e nei Rom leccesi – verso
il Montenegro, Paese d’origine per molti di loro.
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tiva “Rom 1995” di Reggio Calabria, che smaltisce rifiuti ingombranti in regime di convenzione con il Comune. La garanzia di mediatori
istituzionali o associativi ha permesso ad alcuni Rom di entrare all’interno del mondo del lavoro in condizioni di “normalità” rispetto agli
altri Rom.
Ovviamente, il contesto di incomprensione produce una restrizione delle possibilità di integrazione anche sul fronte abitativo. Nell’ottica dell’inclusione sociale, il campo-sosta attrezzato rappresenta una
soluzione transitoria, in vista del trasferimento delle famiglie rom in
appartamento. Solamente quando un nucleo rom vivrà all’interno di
palazzi abitati da residenti italiani si sarà fatto un passo avanti verso
l’integrazione. Tuttavia, è molto difficile condividere questa scelta
con i condomini dove le famiglie rom dovrebbero andare. In effetti, il
pregiudizio condiziona pesantemente le scelte di inclusione sociale,
non solo per difetto delle istituzioni pubbliche, ma anche per i timori
xenofobi cui si è accennato in precedenza.
In aggiunta, i pochi e lodevoli tentativi di trasferire alcune famiglie rom in appartamenti in affitto (Giffoni e Cosenza attraverso la
mediazione istituzionale; Foggia e Lecce in trattativa privata) sono
condizionati anche dalla sostenibilità economica che una scelta del
genere comporta: i costi fissi legati alla permanenza in affitto (canone, acqua, gas luce e telefono) sono sostenibili solamente in presenza
di un reddito stabile, situazione difficilmente riscontrabile nel caso
dei Rom. L’intermittenza del lavoro produce intermittenza di reddito,
che rende difficile la stabilità nel tempo delle soluzioni abitative.
Nelle esperienze di Lecce, Foggia, Cosenza e Salerno vi sono stati
esiti differenti dovuti, sostanzialmente, ad un differente livello di informazione e di sostenibilità economica. Ad oggi, le uniche famiglie
che abitano stabilmente in appartamento nascondono la loro origine
rom sia ai condomini sia ai datori di lavoro presso cui lavorano, e ciò
permette loro di avere una ragionevole stabilità d’inserimento, anche
lavorativo. Sul fronte opposto, un’informazione trasparente sulle origini e una scarsa dotazione economica rendono di fatto impossibile
un passaggio del genere, come accaduto a Lecce e a Cosenza, facendo
emergere quanto sia importante un’azione progressiva e sistematica,
sia sul piano dell’intervento pubblico che su quello del dialogo con
la cittadinanza.
È proprio un’azione progressiva e sistematica che è mancata in
taluni casi. Sul fronte pubblico, infatti, gli sforzi compiuti sono ancora intermittenti e selettivi per sperare di conseguire risultati stabili
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nel tempo su tutto il territorio meridionale. È stato lampante accertare
come i nodi dell’emergenza – ovvero le condizioni sanitarie, la scolarizzazione dei bambini, la casa e il lavoro – si possono sciogliere
singolarmente solo se si sciolgono assieme. A titolo di esempio, condizioni igieniche dei bambini rom e accesso alla scuola sono l’una
condizione dell’altra, e sono entrambe possibili se le condizioni sanitarie dei campi permettono una normale profilassi igienica. Mancando quest’ultima, rischiano di mancare le altre due. Nel campo di
Arpinova (FG) e a La Favorita (PA) si fatica a mantenere condizioni
igieniche adeguate, stante la situazione grave in cui versano, nonostante gli sforzi profusi dalle ASL di riferimento, anche oltre il consentito. Ci si chiede se sia possibile mantenere in tal modo sufficienti
tassi di scolarizzazione dei bambini dei campi.
Un secondo esempio riguarda il rapporto tra casa e lavoro. Nell’inverno 2007, un accordo tra enti locali, associazioni, affittuari e famiglie rom ha permesso ad alcune di esse di andare ad abitare in affitto
in alcune case della città di Cosenza. Il tentativo è fallito quasi subito
e le famiglie sono ritornate nell’insediamento abusivo sull’argine del
fiume Crati dove risiedevano in precedenza, perché le condizioni di
povertà, l’impossibilità di pagare le utenze in modo continuativo e,
in definitiva, l’assenza di un lavoro, impediva loro di vivere regolarmente in appartamento. Il ritorno nel campo, assieme a parenti e
conoscenti, permetteva loro di sopravvivere. In definitiva, senza un
lavoro continuativo, la permanenza in una casa diventa difficile. Anche qui, accesso al mercato del lavoro e abitazione sono nodi legati
tra di loro, e non si possono sciogliere singolarmente se non si sciolgono assieme.
Il legame stringente tra i vari aspetti dell’inclusione sociale rende
evidente la necessità di pensare una sorta di cabina di regia, che sappia tenere i fili di una moltitudine di questioni da dirimere contemporaneamente. Sotto questo profilo, non può sfuggire il risvolto politico
che una simile questione sottende.
Del resto, una cabina di regia che sappia coordinare i molteplici
fronti d’intervento da affrontare è necessaria anche per un altro ordine di ragioni. Sul fronte della partecipazione civica, buoni esiti sono
stati raggiunti dalla collaborazione tra associazionismo, volontariato
e istituzioni pubbliche. Il legame di fiducia che si crea tra Rom e volontari/operatori diventa spesso un tramite attraverso cui le istituzioni
riescono a veicolare risorse e proposte di emersione da condizioni di
marginalità. Tuttavia, in vista di una piena e fruttuosa collaborazione,
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diventa cruciale il reperimento dei fondi necessari a finanziare le attività dei soggetti coinvolti. A parte casi sporadici, come ad esempio
Napoli, sembra che le piccole amministrazioni comunali non siano
a conoscenza dei finanziamenti europei dedicati specificamente ai
Rom. Sono soldi europei, a disposizione delle amministrazioni locali, che non incidono sui trasferimenti statali e sui bilanci comunali, e permetterebbero di costruire una politica di integrazione per i
Rom di lungo periodo. D’altra parte, la mancanza di informazione in
materia di progettazione europea rischia di riproporre lo spauracchio
della scarsità delle risorse pubbliche, che pure è un problema reale:
il progressivo aumento della spesa pubblica e la razionalizzazione
dei trasferimenti dallo Stato agli enti locali sta costringendo quest’ultimi a effettuare scelte dolorose, tra cosa continuare a finanziare e
cosa, viceversa, limitare, con conseguenze facilmente immaginabili.
Ad oggi, le uniche politiche di un certo rilievo di integrazione per i
Rom sono state avviate sul fronte sanitario e sul fronte scolastico (non
sempre, non dovunque, certamente non esenti da difficoltà), ma per
quanto riguarda gli altri fronti non si può parlare di approccio politico
globale e di lungo periodo.
Insomma, si viene a creare un contesto di intervento problematico
su una questione che già di per sé è socialmente incerta, come si è
visto. Uscirne fuori richiede l’assunzione di una visione d’insieme
che sappia raccordare forme di coordinamento politico, attivazione di
risorse economiche, e coinvolgimento della popolazione residente, in
particolare di quella più restia alla pacifica convivenza.
In effetti, non sono state poche le iniziative di inserimento fallite alla nascita a causa del mancato coinvolgimento della popolazione residente e, talvolta, della popolazione rom. A tale proposito, è
importante ribadire che l’integrazione va creata a partire dal pieno
coinvolgimento di entrambe le parti. L’esperienza del Dado di Torino
dimostra come sia stato positivo il coinvolgimento della popolazione
italiana circostante la palazzina dove sono andate ad abitare alcune
famiglie rom. L’aver conosciuto le famiglie insediatesi, averle viste
lavorare nel progetto di auto-ristrutturazione dell’edificio ha aiutato
le famiglie italiane a sfumare il pregiudizio che accompagna i Rom
e a considerare la questione da una prospettiva diversa. Ma questa
esperienza è la punta di un iceberg, e c’è ancora molto lavoro da fare
affinché mondi all’apparenza così lontani si incontrino. Di certo, le
politiche d’intervento attuali sottovalutano fortemente l’importanza
di una strategia di comunicazione reciproca, sia verso la popolazione
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italiana che nel rapporto con i Rom: si privilegiano interventi tangibili, come le campagne di vaccinazione e la costruzione di container,
sottostimando ad esempio l’importanza delle campagne di comunicazione locali, quando queste ultime sono la premessa necessaria di
ogni intervento di compartecipazione e di mutua conoscenza.
Questi in breve i punti critici riscontrati negli studi d’area effettuati nelle quattro regioni Obiettivo Convergenza. Del resto, le politiche
d’inclusione sociale si costruiscono anche a partire da buone pratiche
ed esperienze positive maturate negli stessi contesti locali che hanno
evidenziato questioni problematiche. Pertanto, sulla falsariga di questo paragrafo, nel prossimo si riassumeranno quelle dinamiche territoriali che si sono dimostrate positive ed hanno avviato un processo
di inclusione (o quantomeno un inizio di inclusione) nei confronti di
quei Rom che hanno deciso di soggiornare nel nostro Paese. In effetti, dinamiche e contesti possono costituire una base empirica su cui
innestare le linee guida per i processi di non discriminazione dei Rom
nella società italiana.
7.3 Dai punti critici alle linee guida di inclusione dei Rom in
Italia
Gli studi d’area hanno evidenziato come la questione dell’integrazione dei Rom in Italia sia complessa. Questioni giuridiche, sanitarie,
abitative, scolastiche e lavorative si intrecciano tra di loro, rendendo
difficile operare sul campo e produrre risultati incisivi. L’inclusione
sociale è per definizione un processo di lunga durata e non può avere
esito positivo se non si adottano provvedimenti di carattere strutturale, ovvero destinati a incidere nel tempo. Nondimeno, vi è da dire
che all’interno del mondo rom vi sono situazioni di particolare gravità, tali da rendere necessari interventi di carattere emergenziale. Per
questo è importante avere chiaro come i livelli di intervento per i
Rom debbano essere molteplici, a seconda delle situazioni concrete
che le amministrazioni comunali si trovano a fronteggiare. In linea di
massima, si può affermare che gli interventi nei confronti delle popolazioni rom sono riconducibili a tre categorie: immediati, strutturali,
trasversali. Gli interventi immediati fronteggiano situazioni di disagio
insostenibile, legate a condizioni sanitarie e igieniche gravi, alla mancanza di un’abitazione dove poter dormire, alla provvista di cibo e di
acqua per sostenersi. Sono situazioni che si sono manifestate di fre200
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quente negli ultimi anni, soprattutto per i Rom provenienti dalle zone
di guerra balcaniche o da zone di particolare povertà. Scopo di questi
interventi è salvaguardare la dignità umana di queste persone. Riguardano principalmente i settori della prevenzione e della sicurezza, la
profilassi igienica e sanitaria, la garanzia dei servizi essenziali, una
prima forma di accoglienza abitativa. È sorprendente che in un Paese
come l’Italia si debba ancora parlare di epidemie infettive, condizioni
igienico-sanitarie gravi e microcriminalità da marginalità sociale; eppure, quando si parla dei Rom si associano normalmente i due termini
della questione, come se fosse una situazione scontata. I casi come
Lecce dimostrano invece il contrario: laddove c’è una presa in carico
non solo da parte delle istituzioni ma anche da parte della società, i
Rom possono uscire dall’emergenza, e possono iniziare quantomeno
a pensare a come trovare un lavoro, una casa, una scuola.
E qui entrano in ballo gli interventi strutturali. Sono interventi
di secondo livello, pensati per quelle situazioni in cui si è già usciti
dall’emergenza e mirano a sviluppare progettazione di medio e lungo
periodo, in vista di una effettiva inclusione sociale della comunità
rom. Gli ambiti prioritari sono, per l’appunto, quello sanitario, abitativo, scolastico e professionale. Sotto il profilo dell’integrazione,
questi interventi rappresentano la sfida più impegnativa, perché sono
interventi di superamento dei campi nomadi – simbolo della marginalità sociale – che iniziano ad incidere sul tessuto sociale italiano
per aprire un varco dove i Rom possano finalmente entrare. Elementi
di carattere materiale (casa, reddito, scuola) si fondono con elementi
di carattere immateriale (lingua, fiducia reciproca, relazioni con la
popolazione italiana, cultura) in un mix in cui l’esito non è affatto
scontato e che va sempre ricombinato e sostenuto, come dimostrano i
casi di Cosenza e Reggio Calabria. La possibilità di inclusione sociale
dei Rom in Italia si gioca a questo livello, ed è a questo livello che
bisogna innalzare l’attenzione e condividere il maggior numero di
buone pratiche possibili.
Infine, vi sono interventi che non appartengono specificamente a
nessun ambito, ma condizionano la buona riuscita del processo di
inclusione sociale dei Rom, gli interventi che sono stati definiti trasversali. Servono fondamentalmente a rafforzare quegli elementi di
carattere immateriale cui si accennava poc’anzi, come la lingua, l’intercultura, la fiducia reciproca tra Rom e popolazione, e hanno come
finalità l’incremento della conoscenza del mondo dei Rom e la loro
collocazione in un quadro giuridico favorevole. Per esemplificare, si
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tratta di interventi relativi alla questione della posizione giuridica dei
Rom; alle campagne di informazione e sensibilizzazione rivolte alla
popolazione italiana; agli interventi formativi condotti sul personale
che ha a che fare con essi – dal personale sanitario a quello amministrativo, dagli sportelli sociali alle prefetture; infine, agli interventi di
sostegno al volontariato e alle organizzazioni che collaborano con la
pubblica amministrazione nel portare avanti i progetti di inserimento.
Da questi brevi cenni sugli interventi, si comprende come nel caso
dei Rom in definitiva vada usato quello che Vitale [2009] chiama un
approccio incrementale e integrato: vale a dire, ricercare soluzioni
adatte ai problemi che realisticamente ci si trova via via a fronteggiare, cercando in prospettiva di alzare il tiro verso interventi sempre più complessi e sofisticati, in vista di una piena integrazione dei
Rom nella società italiana. Da questo punto di vista, gli interventi di
comunicazione e di collaborazione attiva della cittadinanza rappresentano senza dubbio una necessaria premessa, e aprono le porte ad
una inclusione attenta a contemperare gli interessi della popolazione
italiana con le esigenze di rispetto della cultura e delle dimensioni di
vita della popolazione rom.
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Conclusioni
Linee guida per la governance locale dell’inclusione
delle comunità RSC
MARCO LIVIA1
1
Premessa
Al termine di questo viaggio di ricerca, si vuole gettare una nuova luce sui processi di integrazione dei Rom in Italia. Certamente
la mappatura degli insediamenti rom nel Meridione non è esaustiva,
come non sono esaustivi gli studi di caso condotti in otto province di
quattro regioni del Sud. Del resto, la validità di un percorso di indagine qualitativa sta nel cogliere quegli elementi di carattere generale
che possono essere oggetto di riflessione e trasferimento anche in altri
contesti territoriali in cui vi sono insediamenti rom. Numerose sono le
lezioni apprese dalla ricognizione di esperienze realmente esistenti, e
le criticità sono state enumerate, per grandi linee, nel capitolo precedente. Nondimeno, gli elementi critici costituiscono una parte della
questione, giacché permettono di mettere testa ai problemi, per trovare soluzioni che siano confacenti alle risorse e alle caratteristiche dei
territori dove essi sorgono. Nelle righe successive si presenteranno,
in forma di linee guida, alcune soluzioni che sono state rilevate nelle
esperienze territoriali. Sono semplici indicazioni ed orientamenti che
possono in qualche modo affinare ulteriormente l’agenda politica attuale sui Rom, sulla base delle evidenze raccolte sul campo.
Al di là della specificità degli interventi da predisporre, si ribadisce come vi siano tre piani di intervento da effettuare, livelli di inter1 Marco Livia, Direttore IREF, è il responsabile scientifico del lavoro di ricerca
che viene presentato in questo volume.
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vento validi certamente in ogni contesto, quantomeno nella filosofia
di fondo che li ispira.
In sintesi, fermo restando che l’azione specifica da attuare non può
esulare dalle peculiarità di ogni contesto e che quindi il contenuto
dell’intervento deve essere riferito alla particolare situazione di una
specifica realtà, si rappresenta una tipologia di interventi che tengano
in considerazione i seguenti criteri:
a) il tipo di intervento (emergenziale o strutturale);
b) l’ambito dell’intervento (igienico-sanitario, abitativo, scolastico, lavorativo).
C’è infine un terzo tipo di interventi, che sono risultati trasversali
sia alla fase in cui si trova il territorio sotto analisi (fase di emergenza
o di cambiamenti strutturali) sia all’ambito in cui si vuole agire: a
titolo di esempio, si tratta di interventi come la regolarizzazione giuridica relativa al permesso di soggiorno, il sostegno al volontariato e
la sensibilizzazione della cittadinanza. Non sono di per sé strutturali,
né emergenziali, ma contribuiscono a favorire una migliore comunicazione e una migliore integrazione tra popolazione italiana e popolazione rom.
Questa ipotesi di modello ha avuto il plauso delle Consensus Conference svolte a Catania e a Lecce, con addetti del settore, nell’ambito
del progetto di ricerca cui si ispira il presente volume. Di seguito,
è utile riassumere brevemente gli interventi effettuati nelle quattro
regioni, suddivisi secondo lo schema d’intervento appena presentato.
Per facilità di lettura, gli interventi di emergenza e strutturali saranno
suddivisi per ambiti di intervento, ovvero igienico-sanitario, abitativo, scolastico, lavorativo.
2
Interventi di emergenza
Sono gli interventi volti a sanare – anche solo momentaneamente – situazioni di disagio insostenibile, che mettono a repentaglio la
salute e la sicurezza delle persone (sia Rom che non Rom) e ledono la
dignità di un essere umano. Letti in maniera approssimativa e superficiale, sono interventi che sembrano rifiutare l’ipotesi dell’integrazione e sembrano rafforzare le dinamiche di emarginazione della popolazione rom. In realtà, letti alla luce di uno schema globale d’intervento,
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sono interventi necessari e cautelativi, in vista della normalizzazione
della convivenza, imprescindibile nell’avviare politiche strutturali di
integrazione.
2.1
Misure preventive di sicurezza
• Controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine;
• Altre misure atte a garantire la sicurezza pubblica e ad ostacolare pericolosi contatti e commistioni tra Rom e delinquenza
locale2.
Accantonando qualsiasi sterile posizione ideologica, le misure di
sicurezza sono necessarie a garantire l’ordine pubblico nel territorio
di insediamento dei Rom, non solo per tutelare la popolazione locale,
ma gli stessi Rom. Non è raro che organizzazioni criminali sfruttino
il ristretto ventaglio di opportunità lecite di riscatto delle popolazioni
rom per forzarle a entrare nel mondo della illegalità. L’attenzione delle forze dell’ordine tranquillizza la popolazione locale, mette in stato
di allerta le organizzazioni criminali, è un primo contatto dei Rom
con le istituzioni italiane, getta le basi di un rapporto di collaborazione tra popolazione gagè e rom, quantomeno nelle premesse. In tal
modo, vengono resi possibili i successivi interventi di integrazione.
2.2
Interventi igienico-sanitari essenziali
• Disinfezione, disinfestazione, derattizzazione e, dove necessario, servizio di allontanamento volatili.
• Accurato servizio di rimozione dei rifiuti (si potrebbero coinvolgere anche gli stessi utenti).
• Individuazione e presa in carico di varie emergenze sanitarie.
• Vaccinazioni per bambini e per adulti.
• Attivazione di un presidio medico costante, anche di tipo mobile.
Di norma, sono gli interventi maggiormente diffusi e a maggior
2 A titolo di esempio, a Roma era stato creato un corpo speciale di Vigili, il
NAE (Nucleo Anti Emarginazione) che negli anni ’90 aveva svolto un importante
ruolo di mediazione.
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efficacia comunicativa. Nei campi nomadi, il rischio di contagio sia
interno che esterno è proporzionale allo stato di degrado in cui versano i campi stessi. Chiaramente, il rischio-contagio è un invito a
prendere seriamente in considerazione le condizioni ambientali e abitative dei Rom e a non limitarsi a politiche di emergenza sanitaria; del
resto, proprio il rischio della diffusione di eventuali malattie infettive spinge le ASL di riferimento ad intervenire con screening sanitari
e vaccinazioni di massa, direttamente nel campo, o nei dipartimenti
specializzati.
2.3
Interventi urgenti sulle strutture abitative
• Smantellamento totale delle baracche e risanamento delle aree
di insediamento, allestendo strutture che possano essere adeguatamente usate per il lavoro, il doposcuola, etc. Anche in
questo ambito, il pericolo di un turn over incontrollato deve
essere scongiurato attraverso il sostegno all’uscita dal campo
quando si verifichino le condizioni di ingresso nel mondo del
lavoro.
• Per i moduli abitativi si tenga conto di altre esperienze nazionali, evitando la soluzione dei container, gelati in inverno e
bollenti in estate e comunque non economici3.
• Costruzione di casette in muratura per quanti sono costretti ancora a vivere nelle roulotte e nelle baracche.
• Rafforzamento della rete di trasporto pubblico che collega il
campo con i centri urbani limitrofi.
• Fornitura dei servizi essenziali di urbanizzazione: ristrutturazione della rete fognaria, acqua corrente, elettricità, etc.
Sono interventi strettamente legati ai precedenti: il miglioramento
delle condizioni abitative porta ad un rapido miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie. A titolo di esempio, la presenza di un bagno
in maiolica all’interno di una casetta in muratura previene immediatamente malattie di carattere ginecologico e permette l’instaurarsi di
una vera profilassi igienica, come la pratica di lavande vaginali e di
cure antibiotiche locali. La presenza di acqua potabile e di un sistema
3 Alcuni architetti dell’Università di Roma Tre avevano realizzato un modello
di una casa su due piani: il “Savorengo Ker”, una costruzione in legno collocata
nel campo di Casilino 900, realizzata insieme ai Rom e costata la metà di un container.
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di smaltimento dei rifiuti fa il resto. Sembra di raccontare la povertà
di Paesi del terzo mondo, ma è di campi rom realmente esistenti in
Italia che si sta parlando. Il campo rom può essere una buona soluzione insediativa, purché sia ben costruito e purché sia una soluzione
provvisoria in vista degli interventi strutturali, di cui si parlerà nel
paragrafo successivo.
3
Interventi strutturali
Fronteggiata o quantomeno tamponata l’emergenza, si può compiere un salto di qualità nelle politiche locali e pensare al domani dei
Rom. In alcune esperienze locali si stanno avviando percorsi di intervento strutturale, progettazione di interventi di medio e lungo periodo
che mirino ad una effettiva e completa inclusione sociale della comunità rom nel nostro Paese. Gli ambiti di intervento sono i medesimi
dei precedenti interventi; quello che cambia è la finalità degli stessi e
la durata dei benefici che apportano.
3.1
Interventi sanitari di carattere strutturale
• Attribuzione del medico di famiglia ad ogni nucleo rom (quando applicabile, o dopo la regolarizzazione).
• Socializzazione alle strutture sanitarie di primo e secondo livello (ASL, ospedale, medico di base, pediatra, ginecologo,
dentista, farmacista, etc.) piuttosto che al pronto soccorso, usato dalla maggior parte dei Rom come panacea di ogni problema.
• Campagne di informazione sulle malattie veneree e sensibilizzazione all’igiene, alla salute e alla cura del corpo.
A livello sanitario, approntare interventi strutturali significa normalizzare il rapporto sanitario tra medico e Rom. Il rapporto si sposta
sul medico di famiglia, e si instaura una relazione di profilassi sanitaria, più che di emergenza. Le famiglie rom iniziano a rivolgersi agli
ambulatori specialistici anziché al pronto soccorso, come qualsiasi
famiglia italiana.
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3.2
Interventi abitativi strutturali
Gli interventi strutturali in ambito abitativo seguono un processo
graduale e di miglioramento insediativo che, partendo da una gestione dei campi più “razionale”, arrivi al definitivo superamento della
“logica del campo”, per adottare una reale politica di integrazione,
con i Rom pacificamente inseriti in condomini di non-Rom.
• Smantellamento e demolizione dei grandi campi nomadi.
• Individuazione di aree adatte alla costruzione di insediamenti
di limitate dimensioni, collocate in località non isolate, raggiungibili con i mezzi pubblici, in vicinanza di negozi e servizi4.
• Per favorire l’occupazione, la progettazione potrebbe tener
conto delle necessità di piccoli magazzini e luoghi adatti al lavoro di rottamazione del ferro e del rame o di altri lavori artigianali di cui tradizionalmente si occupano i Rom.
• Durante la transizione per uscire dai campi, è utile favorire i
progetti di auto-costruzione delle abitazioni.
• Laddove possibile, è utile favorire il passaggio in abitazioni
prese in affitto.
I campi rom attuali sono troppo grandi per essere gestiti al meglio.
Da più parti emerge un coro di voci, anche istituzionali, che invoca
campi rom più piccoli. Sono più gestibili, spaventano meno la popolazione, i rapporti con le istituzioni sono più stringenti, è più facile
lavorare in vista della fuoriuscita dagli stessi. Il passaggio all’abitazione in condominio può avvenire in più forme. Innanzitutto, occorre
considerare l’ipotesi di far costruire ai Rom stessi le proprie abitazioni5. L’affiancamento di un muratore esperto che insegni il mestiere ai
Rom produrrebbe molteplici vantaggi: si risparmierebbe sulla manodopera per la costruzione di moduli abitativi – e lo stipendio guadagnato andrebbe a scomputo delle prime quote d’affitto, una volta tra4 Basterebbe rifarsi a quanto già previsto dalle leggi regionali degli anni ’80
che, pur istituendo i campi sosta, sottolineano l’importanza di evitare l’isolamento
spaziale.
5 Il modello dell’auto-costruzione ha avuto ampio successo sia nel contesto
nazionale (applicato a Torino tramite un progetto chiamato “Dado”) che internazionale (si vedano i progetti di auto-costruzione spagnoli che vedono coinvolti i
gitanos).
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sferitisi; si trasmetterebbero ai Rom competenze pratiche facilmente
spendili nel mercato del lavoro; si migliorerebbe l’immagine sociale
del Rom agli occhi della cittadinanza.
Un’ulteriore soluzione è far sì che i nuclei famigliari rom abbiano
la possibilità di andare a vivere in locazione (con le proprie finanze
o aiutati da un contributo pubblico) in appartamenti dislocati per la
città; ovverosia, che si applichi il modello dell’equa dislocazione6 (un
buon esempio di tale applicazione è Reggio Calabria – cfr. cap. 5.5);
modello che, soprattutto in ambito europeo, è stato elevato ad emblema di una integrazione sociale riuscita e completa tra rom e gagé.
3.3
Interventi strutturali nell’ambito scolastico e formativo
Il diritto/dovere allo studio dei minori7 deve essere fatto rispettare
ai Rom così come è fatto rispettare agli italiani: le diversità culturali
tra le due etnie possono avere un ruolo sul metodo di apprendimento
e magari anche sul contenuto appreso, ma non certo sulla possibilità
o meno di frequentare la scuola dell’obbligo. Pertanto lo sforzo delle
istituzioni dovrebbe essere massimo nella lotta contro la dispersione
scolastica dei minori rom; in particolare le istituzioni scolastiche, le
forze dell’ordine e i servizi sociali sono chiamati a fare sistema e ad
agire sinergicamente ed energicamente per arginare il diffuso fenomeno della dispersione e dell’abbandono scolastico tra la comunità rom.
• Le famiglie rom potrebbero essere incentivate a portare i loro
figli a scuola con buoni spesa, gas, luce o altri incentivi di natura economica e mettendo loro a disposizione un servizio di
scuolabus, per esperienza ritenuto essenziale laddove l’insediamento sia distante dall’istituto scolastico;
• per favorire la partecipazione scolastica dei bambini e dei ragazzi rom si potrebbe pensare a sperimentare con loro dei me6 L’equa dislocazione prevede la dispersione dei nuclei rom per la città all’interno di condomini abitati da famiglie non-rom. Alla base di questa idea ci sono
diverse teorie sociali (gli studi sul pregiudizio di Rupert Brown, la teoria dei gruppi
di Henri Tajfel, l’ipotesi del contatto di Gordon Willard Allport, gli esperimenti di
cooperazione di Muzafer Sherif, etc.) che concordano nell’attribuire grande importanza alla vicinanza e mescolanza dei gruppi per consentire una conoscenza
reciproca e abbattere le barriere del pregiudizio.
7 La Legge 296 del 2006 innalza l’obbligo di frequenza scolastica a 16 anni
(commi 622 e 624).
209
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•
•
•
•
3.4
todi didattici meno statici e più dinamici (più consoni quindi
alle loro abitudini – come nel caso dei Caminanti semi-nomadi
di Noto, Siracusa);
è auspicabile l’attivazione di corsi di alfabetizzazione per adulti da organizzare negli istituti scolastici situati nei pressi degli
insediamenti. Corsi di questo tipo sono stati recentemente attivati con successo in alcune realtà italiane (ad es. Istituto Scolastico “Maiore” di Noto);
è importante realizzare corsi per uomini e donne che portino ad
esperienze di lavoro retribuito;
si ritiene importante facilitare i percorsi di studio che portano
al conseguimento del titolo di scuola media inferiore, poiché
tale titolo è conditio sine qua non per l’accesso ai corsi di formazione professionale iniziale degli enti di formazione italiani,
così come dei corsi di formazione professionali finanziati dal
Fondo Sociale Europeo;
è auspicabile l’inserimento dei bambini rom stranieri nei corsi
di recupero pomeridiani, al pari dei bambini italiani.
Interventi nell’ambito lavorativo
Il lavoro è da molti considerato il fattore chiave su cui si gioca la
riuscita o meno di ogni politica di inclusione. Da una prima analisi,
si ritiene che i settori economici in cui possono essere inseriti più
facilmente i Rom sono quelli a bassa professionalizzazione e ad alta
capacità di assorbimento: lavori agricoli, alcune forme di artigianato, lavorazione del ferro, manutenzione del verde pubblico e privato,
raccolta di rifiuti pesanti o gestione dei rifiuti differenziati, pulizia di
strade, palazzi, cantine, solai.
Alcune misure pratiche per agevolare l’inserimento lavorativo dei
Rom sono:
• L’inserimento dei Rom in cooperative sociali di tipo B. Questo
tipo di cooperativa potrebbe sanare alcune situazioni di lavoro nero e sommerso, inquadrerebbe professionalmente i Rom,
dando loro la possibilità di sostenere un livello di vita dignitoso, di far fronte alle spese correnti e di mandare i figli a scuo-
210
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la8.
• Regolarizzare le posizioni lavorative. Occorre evitare di far
scivolare nella criminalità persone che svolgono un lavoro non
in regola.
4
Interventi trasversali
Esistono infine degli interventi che possono essere considerati trasversali a tutti gli ambiti finora esaminati poiché non appartengono
specificatamente a nessun ambito e allo stesso tempo condizionano la
buona riuscita di tutto il processo di inclusione sociale dei Rom.
• Regolarizzare la posizione giuridica dei nuclei rom: permette
un più facile controllo socio-demografico della comunità rom
e abbatte gli ostacoli amministrativo-burocratici che si frappongono tra i Rom e l’accesso ai servizi sociali o ad ogni altra
azione rivolta in loro favore.
• Sostegno al volontariato: il volontariato riveste un importante
ruolo di sostegno e di aiuto alle comunità svantaggiate. In tutta Italia, la Caritas, l’Opera Nomadi, la Croce Rossa Italiana
ed altre organizzazioni hanno apportato un grande aiuto alla
comunità rom; tuttavia, molto spesso queste organizzazioni si
trovano da sole e con poche risorse a fronteggiare problemi e
questioni che, comunque, sono di interesse pubblico.
• Formazione del personale adibito agli “sportelli sociali” e di
orientamento: le comunità di recente immigrazione sono spesso disorientate e non hanno gli strumenti cognitivi per far fronte all’apparato burocratico di una società complessa come la
nostra. Spesso la comunicazione con gli operatori dietro gli
sportelli è difficile e il rapporto rischia di divenire conflittuale;
sarebbe opportuno formare il personale che maggiormente entra in contatto con l’utenza rom.
• Campagna di informazione e sensibilizzazione rivolta alla popolazione: l’ignoranza è terreno fertile per ogni tipo di pregiudizio. Si ritiene quindi opportuno adottare delle strategie
di comunicazione sociale che mirino ad informare e a sensi8 Un buon esempio di questo tipo di Cooperativa è la Coop “Rom 1995” che
da 15 anni opera continuativamente e con profitto a Reggio Calabria.
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bilizzare9 la cittadinanza sulla cultura e sulla tradizione rom,
oltre che a coinvolgerla negli interventi di inclusione sociale a
loro favore giacché, se non godono dell’appoggio dei cittadini,
sono destinate nella maggior parte dei casi al fallimento.
5
Un modello integrato di intervento
La schematizzazione degli interventi da effettuare in caso di presenza rom sul territorio, secondo necessità, è utile per comprendere immediatamente la complessità della questione posta sul tavolo.
Non si tratta solamente di effettuare una campagna di vaccinazione,
o di costruire un alloggio, o di tamponare la dispersione scolastica dei bambini rom, o di favorire l’ingresso nel mercato del lavoro
dell’adulto; si tratta di affrontare queste sfide assieme, non contemporaneamente, secondo priorità da stabilire di volta in volta, analizzato
il territorio e le sue risorse. Pretendere di porre mano alla questione
affrontando emergenza e strutturalità ad un tempo può inficiare lo
sforzo, sia perché spesso mancano le risorse sia perché può essere
concettualmente sbagliato. Ha ragione Vitale (2009) quando afferma
che la questione Rom va affrontata in modo progressivo e integrato: progressivo, perché occorre innanzitutto tamponare le situazioni
drammatiche attraverso interventi di natura emergenziale; solo dopo
che le emergenze sono rientrate, allora si possono gettare le fondamenta per interventi di natura strutturale, destinati a durare nel tempo:
emergenzialità e strutturalità non sono anteposte l’una all’altra, ma
sono complementari e consequenziali, e un’agenda politica mirata e
attenta alle risorse non può non prendere in considerazione una simile
logica di intervento.
Tali interventi occorre che siano poi integrati, ovvero che prendano in considerazione i forti legami esistenti tra lavoro, scuola, igiene
e abitazione. È la realtà di fatto che li evidenzia, non meri enunciati
di principio. Anche se è chiaro che non si può prescindere dagli altri
ambiti, è comunque emerso come l’incidenza del “fattore lavoro” è
9 Un esempio di campagna di sensibilizzazione a livello nazionale è la campagna antidiscriminazione del 2009 dal titolo “Non aver paura, apriti agli altri, apri ai
diritti” che ha adottato come mascotte l’immagine di un bambino rom dallo sguardo
innocente (come quello di tutti i bambini della sua età) e allo stesso tempo vispo e
furbo di chi è abituato, non per sua scelta, a vivere in strada.
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preponderante rispetto ad altri fattori10, se si vuole parlare di una piena e completa inclusione sociale delle comunità RSC.
In fig. 1 vi è una rappresentazione grafica di ciò che si è detto a
proposito delle relazioni tra la dimensione lavorativa e le altre dimensioni, che costituiscono l’estensione semantica del concetto di inclusione sociale:
Figura 1. Le dimensioni dell’inclusione sociale dei Rom e le loro relazioni.
La centralità del lavoro
AB I TAZ I ONE
LAVORO
I GI ENE
SANI TA’
CURA DELLA
P ERSONA
I STRUZ I ONE
Abitazione, lavoro, cura sanitaria e istruzione sono questioni su
cui intervenire congiuntamente, anche se in tempi diversi. La questione centrale rimane il lavoro, perché la sua presenza permette di
sbloccare altre dimensioni critiche dell’integrazione dei Rom. In parole povere, il lavoro permette di pagare l’affitto e le utenze di un’abitazione; di avere, quindi, una residenza, in cui certamente migliorano
le condizioni igieniche; la maggior cura personale e igienica facilita
l’ingresso a scuola dei bambini e la permanenza nel mondo del lavoro degli adulti; il reddito permette, inoltre, di pagare cure mediche
specializzate, rafforzando ulteriormente la speranza di vita del nucleo
familiare; a sua volta, l’innalzamento del livello di istruzione familiare costituisce un formidabile fattore di riscatto sociale, in particolare
10 Riprendendo anche i lavori della Consensus Conference che si è svolta il 10
giugno 2010 a Palermo, il fattore chiave su cui si gioca la riuscita o meno di ogni
politica di inclusione è il lavoro.
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per la seconda generazione di immigrati rom, che costituiscono la
speranza di una vita migliore per coloro che oggi la intravedono da
lontano.
In definitiva, enti e comunità locali sono chiamati ad affrontare
una sfida complessa, in cui, lungi dal lasciarsi prendere da paure identitarie o da pacifismi ingenui, occorre pianificare interventi molteplici, secondo una scansione progressiva, da sottoporre a monitoraggio
costante, in collaborazione con la popolazione locale e con i rappresentanti dei Rom. È una progettualità di lungo periodo, certamente
pluriennale, in cui differenti attori richiedono di essere coinvolti attorno ad un tavolo di concertazione, la cui regia non può che essere
appannaggio dell’interlocutore istituzionale. L’integrazione di una
popolazione immigrata e in difficoltà come quella rom è per i politici
italiani una sfida nobile nel più alto senso del termine, alla luce anche
dei rigurgiti di xenofobia che stanno oggi attraversando un numero
crescente di Paesi europei. L’Europa ci guarda, e con la questione
dell’integrazione dei Rom abbiamo l’occasione di trasformare un
problema in un’opportunità politica che potrebbe apportare benefici
al Paese per molti anni a venire.
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CARTOGRAFIE
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Cartina 1. Presenza insediamenti RSC nelle regioni Obiettivo Convergenza (Fonte: IREF 2010)
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Cartina 2. Principali progetti d’inclusione sociale realizzati nelle regioni Obiettivo Convergenza (Fonte: IREF 2010)
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Cartina 3. Presenza insediamenti RSC nei comuni della Campania (Fonte: IREF 2010)
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Cartina 4. Presenza insediamenti RSC nei comuni della Puglia (Fonte: IREF 2010)
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Cartina 5. Presenza insediamenti RSC nei comuni della Calabria (Fonte: IREF 2010)
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Cartina 6. Presenza insediamenti RSC nei comuni della Sicilia (Fonte: IREF 2010)
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Cartina 7. Presenza di insediamenti di Camminanti nei comuni della Sicilia (Fonte: IREF 2010)
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Nota sugli Autori
EMILIANA BALDONI – Dottore di ricerca in Metodologia delle Scienze
Sociali presso l’Università “Sapienza” di Roma, ha svolto numerose
ricerche sulle migrazioni internazionali, sulla mobilità intra-europea
e sulla tratta di esseri umani. Ha pubblicato diversi contributi sul fenomeno migratorio in Italia e in Europa, tra cui la monografia Racconti di trafficking (Milano, 2007).
MARCO LIVIA – Dal 2000 è direttore generale dell’IREF. Laureato in
Giurisprudenza, indirizzo giuridico-economico, ha seguito il corso
universitario annuale di Diritto Comunitario “Jean Monnet” sull’accesso ai finanziamenti europei presso il Collegio d’Europa a Bruges.
Ha conseguito due Master privati in Diritto Tributario e Finanziamenti alle imprese. Consulente aziendale, esperto del III settore e in
politiche di Fund Raising.
ANGELO PALAZZOLO – Dottorando di ricerca in Metodologia delle
Scienze Sociali presso l’Università “Sapienza” di Roma, si è laureato
in Scienze della Comunicazione all’Università di Perugia. Ha svolto
presso l’IREF e in collaborazione con l’UNAR diverse ricerche sul
tema della discriminazione razziale in Italia. Da ottobre 2010 si occupa di pari opportunità e uguaglianza di genere all’Ufficio Statistico
dell’Unione Europea (EUROSTAT).
ALICE RICORDY – È laureata in Antropologia presso l’Università “Sapienza” di Roma ed ha un Master universitario in Politiche dell’Incontro e Mediazione Culturale. Ha partecipato a numerosi progetti
di inclusione rivolti alle comunità rom presenti a Roma. Dal 2005
collabora con l’Area Sanitaria della Caritas di Roma, all’interno di
progetti di tutela della salute specifici per questa popolazione. Dal
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2007 svolge anche attività di ricerca ed è referente sul tema Rom e
Sinti per Caritas Italiana.
GIANFRANCO ZUCCA – Specializzato in metodi qualitativi all’Università “Sapienza” di Roma, è ricercatore dell’IREF dal 2003. Ha svolto
studi sui cambiamenti in atto nel mondo del lavoro e ha realizzato numerose ricerche sul tema delle migrazioni, analizzando in particolar
modo l’insediamento delle famiglie straniere in Italia e le migrazioni femminili collegate al lavoro domestico. Ha pubblicato numerosi
saggi e articoli su questi argomenti.
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