1. Questioni teoriche di base
Il nucleo degli ultimi modelli biologici, psicologici e
psicoanalitici dello sviluppo è il principio epigenetico
che accentua la natura interattiva dello sviluppo, la continua dialettica tra lo sviluppo dell’organismo e la mutazione del suo ambiente.
Schore, 1994
1.1. La questione dello sviluppo in psicologia
Lo scopo di
questo volume è quello di presentare in forma semplice e sintetica lo
stato dell’arte sullo sviluppo emotivo e sociale nella prima infanzia.
Che cosa sappiamo? Quali progressi abbiamo fatto in questo campo?
Quali sono le direzioni future? Quali sono le convinzioni passate erronee che la ricerca attuale ha permesso di confutare?
Ma cerchiamo di rispondere a una domanda che viene ancora prima
di queste. Perché siamo interessati allo sviluppo dei bambini? Ci
sono moltissime ragioni, alcune molto semplici, altre meno immediate. Le prime riguardano il fatto che è importante conoscere il
corso dello sviluppo in sé per cercare di rispondere alle seguenti domande: che cosa è capace di fare un bambino a una certa età? Come
evolveranno le sue capacità? Quando sarà competente nel relazionarsi con le altre persone? Quali sono gli aspetti che possono rendere conto della grande variabilità che si incontra nello sviluppo? Altre
ragioni riguardano la possibilità che abbiamo, conoscendo il corso
dello sviluppo normale, di intervenire per correggere eventuali scostamenti dalla norma, per cercare di rispondere a queste altre domande: come possiamo aiutare il bambino a crescere sano e a essere
adatto all’ambiente che lo circonda? Come possiamo correggere
eventuali patologie?
Una serie infinita di domande. È questo che muove la ricerca. È questo che permette di fare di continuo passi in avanti. È questo che anima lo spirito di indagine del ricercatore e che promuove i successi in
campo scientifico. E di progressi in questo campo ne sono stati fatti
molti, progressi che aiutano genitori, psicologi, insegnanti e chiunque abbia a che fare con i bambini a relazionarsi con loro in maniera
sempre più consapevole e costruttiva.
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1.2. Le teorie dello sviluppo
Esistono diverse teorie dello sviluppo e ciascuna di esse offre la sua spiegazione e la sua interpretazione. Spesso tali teorie favoriscono la ricerca soltanto in alcuni settori
(cfr. par. 1.3) e sono quindi specifiche. Per riassumere le questioni
sollevate nel paragrafo precedente, le teorie dello sviluppo cercano di
rispondere a queste due domande fondamentali: che cosa si sviluppa e
come si sviluppa. I tipi di risposta, come detto, sono diversi e per un
approfondimento dei vari approcci teorici si rimanda il lettore interessato alle letture consigliate in Bibliografia. Per avere qualche informazione di base, possiamo comunque cercare di classificare le teorie
esistenti a seconda del tipo di risposta fornita a queste domande.
Per quanto riguarda la prima domanda (che cosa si sviluppa), le risposte possono essere distinte fra chi concepisce lo sviluppo come un
semplice accrescimento quantitativo delle capacità in un organismo
qualitativamente immutato e chi, invece, lo concepisce come la trasformazione delle capacità verso livelli progressivamente più competenti e complessi, qualitativamente diversi e gerarchicamente organizzati. Per quanto riguarda la seconda domanda (come si sviluppa), anche in questo caso le risposte presentano una visione dicotomica della natura del cambiamento, che si basa sulla classica controversia natura-cultura (nature-nurture), non ancora risolta. Da una parte, si situano le teorie che individuano nelle caratteristiche preprogrammate
dell’individuo (il suo bagaglio biologico e genetico) le potenzialità e
le direzioni del suo corso di sviluppo (teorie organismiche, come la
psicanalisi). Dall’altra, vi sono le teorie che attribuiscono maggior influenza all’ambiente, considerato, in questo caso, il fattore principale
nella determinazione del corso dello sviluppo (teorie ambientaliste,
come il comportamentismo).
A parte queste distinzioni fra teorie qualitative e quantitative, organismiche e ambientaliste, è importante notare che le teorie dello sviluppo negli ultimi decenni hanno in generale mutato la loro visione
del bambino, passando da una concezione dell’individuo che nasce
come una tabula rasa (visione che ha dominato la psicologia dello
sviluppo fino almeno agli anni cinquanta), alla convinzione che l’individuo sia invece già competente dalla nascita. Il bambino è diventato quindi sempre più soggetto di studio e non più solamente oggetto, in quanto contribuisce attivamente fin dalle prime ore di vita a
determinare il suo sviluppo. Diverse sono le ragioni che hanno por8
tato al cambiamento di queste convinzioni. Innanzitutto il progresso
metodologico e tecnico della ricerca ha permesso di svolgere studi
anche nella prima infanzia, periodo in cui i metodi classici di indagine non sono ancora applicabili perché le capacità del bambino non
sono del tutto sviluppate. In secondo luogo, la mutata concezione
sociale e politica dell’infanzia, con la crescente necessità, dal dopoguerra in poi, di mettere in piedi strutture alternative alla famiglia
che si prendessero cura del bambino in tenera età in maniera competente, ha posto l’urgenza di compiere ricerca nei primi anni di vita,
anche per affinare la capacità degli educatori di strutture, quali il
nido appunto, che prestano un servizio così importante e delicato.
1.2.1. L’approccio ecologico Fra le varie teorie dello sviluppo esistenti
in letteratura viene qui approfondita quella che sembra più utile per
comprendere lo sviluppo socioemotivo: quella ecologica. Tale approccio teorico è di tipo interazionista, si basa cioè sull’assunto che lo
sviluppo dell’individuo non può essere compreso al di fuori del contesto in cui si verifica, ma è il risultato dell’interazione fra l’individuo
stesso e il suo ambiente di riferimento. Lo sviluppo è inteso come
adattamento reciproco, bidirezionale e chiama in causa le caratteristiche e le competenze del bambino, ma anche quelle del suo ambiente e in particolare delle persone che interagiscono con lui. Il termine “ecologico” deriva quindi dal peso che viene attribuito alle caratteristiche dell’ambiente in cui l’organismo fa esperienza e si trasforma, un concetto che è stato elaborato in particolare da Bronfenbrenner (1986). Questo ricercatore rappresenta l’ambiente ecologico
attraverso quattro sistemi concentrici che si influenzano a vicenda
nella loro crescente specificità (fig. 1).
Si parte, infatti, da un macrosistema che racchiude tutti gli altri ed è
caratterizzato dall’insieme delle ideologie politiche e sociali che determinano l’organizzazione della società e della cultura di cui un individuo fa parte (quindi il tipo di governo, il tipo di economia, l’organizzazione sociale e così via).
Il sistema sottostante, compreso nel macrosistema, è rappresentato
dall’esosistema, che concerne i rapporti che intercorrono fra i singoli
individui di quella determinata società o gruppo e le caratteristiche
dell’ambiente di cui fanno esperienza sia direttamente che indiretta9
mente. Ad esempio, le caratteristiche dell’ambiente di lavoro possono condizionare la qualità della vita dei genitori, con conseguenze
anche sul ménage famigliare e sulle relazioni con i figli; le scelte politiche ed economiche di chi dirige la comunità potrebbero favorire
l’impiego part time della donna e semplificare l’organizzazione famigliare nell’accudimento della prole, una scelta a cui l’individuo singolo magari non partecipa direttamente, ma che ha un’influenza sui
suoi comportamenti e sulle sue decisioni.
figura 1
L’organizzazione dell’ambiente secondo il modello di Bronfenbrenner
Macrosistema
(ad es. scelte politiche riguardo
la famiglia e il lavoro)
Esosistema
(ad es. condizioni economiche
della famiglia)
Mesosistema
(relazioni fra
individuo e
microsistemi)
Microsistema
(ad es. ambiente
famigliare e
scolastico)
Fonte: modificata da Fonzi (2001).
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Il terzo sistema è costituito dal mesosistema che riguarda i legami che
si stabiliscono fra i singoli individui e i microsistemi a cui partecipano direttamente. Ad esempio, nel caso di un bambino, la qualità del
clima famigliare può influire direttamente sul suo benessere e influenzare il suo comportamento anche all’esterno della famiglia, a
scuola, con gli altri adulti che si prendono cura di lui o con i suoi
coetanei. Se, mettiamo il caso, il bambino vive in una famiglia dove
si respira continuamente un’atmosfera di tensione, questo potrebbe
favorire il manifestarsi in lui di comportamenti aggressivi al di fuori
del nucleo famigliare. L’ultimo livello dell’organizzazione del contesto, secondo la prospettiva ecologica, è costituito quindi dai singoli
microsistemi: per riprendere l’esempio precedente, i microsistemi di
un bambino in età scolare saranno rappresentati dall’ambiente famigliare, costituito dai genitori, eventuali fratelli, nonni e altri parenti;
dalla scuola, costituita dagli insegnanti e dai compagni; da altre occasioni di scambio come attività ricreative, lo sport o il catechismo.
Questo modello rende conto del fatto che modificazioni a livello di
macrosistema hanno un’influenza diretta su tutti gli altri sistemi sottostanti. Infatti, se a livello di macrosistema venissero cambiate le
scelte politiche sull’organizzazione del lavoro, ad esempio ostacolando la possibilità di svolgere il part time, questo modificherebbe immediatamente le condizioni lavorative di un genitore che precedentemente aveva scelto tale opportunità per poter seguire il figlio e poterlo accompagnare nelle diverse attività laterali alla scuola. Di conseguenza, il mesosistema e i microsistemi di quel bambino verrebbero modificati nettamente. Potrebbe essere necessario, per dire, iscriverlo a una scuola a tempo pieno e farlo rinunciare a sport o alle altre
attività che stava seguendo quando il genitore era in grado di dedicargli più tempo. Oppure, sarebbe necessario introdurre la figura di
una baby-sitter che sostituisca il genitore e che costituirebbe un nuovo microsistema per il bambino in questione.
1.3. Le aree dello sviluppo
In psicologia le aree dello sviluppo
si dividono tradizionalmente in tre domini principali: quello cognitivo, quello emotivo e quello sociale. Questa distinzione, seppur utile da
un certo punto di vista perché facilita l’esposizione delle tappe dello
sviluppo, un processo articolato e complesso, distinguendo le diverse
abilità del bambino, non è del tutto efficace in termini di compren11
sione generale. Infatti, non è possibile operare una distinzione così
netta fra le diverse aree dello sviluppo psicologico, che sono invece
sempre in relazione l’una con l’altra e si influenzano a vicenda continuamente, dipendendo l’una dalle altre. Questa osservazione verrà
chiarita meglio dagli esempi forniti nel paragrafo successivo.
1.4. La questione delle definizioni Quando si affronta un
nuovo argomento si cerca di solito di partire da una chiara definizione
della questione proposta. Definire l’argomento di questo libro non è
certo un compito facile perché si tratta di un tema molto complesso.
Cerchiamo di dare, ad esempio, una definizione di “sviluppo sociale”.
Potremmo dire che esso si riferisce al modo in cui il bambino modifica
le sue capacità di rapportarsi agli altri e cioè a quell’insieme di comportamenti, sentimenti, attitudini e concetti che i bambini manifestano
nei confronti delle altre persone e al modo in cui tali aspetti si evolvono nel tempo (Schaffer, 1998). Come si potrà notare, questa definizione già mette in relazione l’area dello sviluppo sociale (rapporto con le
altre persone) con quella emotiva (sentimenti, attitudini) e con quella
cognitiva (concetti). Ogni tipo di comportamento, sia esso manifestato da un adulto o da un bambino, si basa su sentimenti, sull’espressione delle emozioni, deriva da concettualizzazioni, categorizzazioni, elaborazioni fatte dal nostro pensiero, ovviamente meno complesse nel
caso di un bambino, ma pur sempre presenti.
Cerchiamo ora di dare una definizione di sviluppo emotivo. Possiamo adottare quella di Sroufe (2000, p. 23), che definisce l’emozione
una «reazione soggettiva ad un evento saliente, caratterizzata da modificazioni fisiologiche, esperienziali e a livello di comportamento
esplicito», che hanno funzione di promuovere la sicurezza e il controllo sull’ambiente. Anche in questo caso la definizione pone in
stretta relazione il comportamento con gli aspetti cognitivi e sociali
dello sviluppo, che sono rappresentati, per quanto riguarda l’aspetto
cognitivo, dal fatto che l’individuo ha comunque una reazione che è
soggettiva e dipende quindi dalla sua personale valutazione della situazione che può essere saliente per alcuni e insignificante per altri.
Così, lo stesso evento può provocare una reazione emotiva di un certo genere in un soggetto, ma diversa in un altro soggetto, come potrebbe non provocare reazione alcuna in un terzo. Non è la situazione in sé quindi a suscitare una determinata emozione, ma la valuta12
zione che il soggetto ne fa. Per quanto riguarda gli aspetti sociali intrinseci nella definizione, questi vengono evidenziati dalla funzione
dell’emozione, che è quella di adattamento alle richieste dell’ambiente (sicurezza e controllo) e di promozione di risposte adeguate per garantire la migliore sopravvivenza. Nel caso del bambino che non è
ancora in grado di esprimersi verbalmente, la manifestazione delle
emozioni è un prezioso strumento per interagire socialmente con
l’ambiente e per comunicare i suoi bisogni a chi si prende cura di lui.
Il caretaker (la persona che in quel momento si sta appunto prendendo cura del bambino), rispondendo a sua volta, promuove un accudimento efficace per la sopravvivenza del piccolo.
Le definizioni di sviluppo sociale ed emotivo mettono quindi in evidenza che tali aspetti dello sviluppo sono indissolubilmente legati,
così come sono strettamente correlati alle altre dimensioni della maturazione, come quelli biologici e cognitivi. L’individuo funziona
come una totalità e nessuna parte della sua persona e delle sue esperienze può essere studiata separatamente dal resto. È per questo motivo che il volume si propone di trattare insieme degli aspetti sociali
ed emotivi dello sviluppo anche se tradizionalmente tali aspetti vengono esposti in maniera distinta. Tratteremo, anche se in maniera
più superficiale, le tappe dello sviluppo cognitivo e motorio che accompagnano l’accrescimento delle capacità di relazionarsi con gli altri ed esprimere i propri sentimenti e le proprie emozioni.
1.5. Le teorie di riferimento Come si è detto, in psicologia ci
sono diverse teorie che trattano lo sviluppo e molte di queste affrontano tematiche settoriali, occupandosi soltanto di alcune aree. Si è voluto esporre in maniera un po’ più approfondita l’approccio ecologico
perché meglio si presta a inquadrare lo studio dello sviluppo socioemotivo, inteso come un processo in parallelo di diverse aree di competenza. Dal momento che i dati che verranno riportati nei seguenti capitoli sono una collezione ateorica, nel senso che vengono discussi tutti quelli significativi, a prescindere dall’indirizzo teorico che li ha prodotti, è opportuno dare almeno alcune brevi indicazioni sui contributi
che i singoli paradigmi teorici hanno fornito a queste aree di ricerca.
1.5.1. Il contributo delle teorie sullo sviluppo sociale Alcune delle
principali teorie della psicologia dello sviluppo hanno fornito impor13
tanti contributi allo studio delle tematiche dello sviluppo sociale. Vediamo in che modo.
Uno dei primi approcci a interessarsi di quest’area di studio è stato
quello del comportamentismo. Il comportamentismo si afferma nei
primi decenni del Novecento. Il principale esponente (o comunque
colui che ha posto le basi di questa teoria) è considerato Watson
(1913), che riprende un concetto elaborato dal filosofo inglese Locke,
nell’opera Some thoughts concerning education del 1693, che definiva il
neonato come una tabula rasa, infinitamente modificabile, che può
essere scolpita solo dall’esperienza che i genitori devono fornire, sotto
forma di associazioni e abitudini apprese. La personalità è quindi
semplicemente funzione degli stimoli ambientali e, se si vuole studiarla, ci si deve attenere ai comportamenti osservabili e manifesti e
non ai processi interiori. Attraverso l’associazione stimolo-risposta si
può insegnare ciò che si desidera al bambino (si ricordi il terribile
esperimento sul piccolo Albert, bambino di 9 mesi, a cui si insegnò
ad associare alla visione di un coniglietto nero un rumore assordante,
producendo in seguito in lui una reazione di terrore ogni volta che
vedeva un coniglietto). Il concetto di bambino come ricettore passivo di stimoli non poté essere sostenuto a lungo e fu aspramente criticato dalle teorie successive. Questo approccio sostiene quindi che il
bambino ha scarse attitudini sociali alla nascita, le quali vengono acquisite e modellate in seguito e sono completamente frutto dell’interazione con l’adulto.
Quasi contemporaneamente all’affermazione del comportamentismo si fece strada un altro approccio teorico molto famoso, quello
psicanalitico. Fra tutte le teorie proposte in psicologia, questa è forse
quella che tocca il maggior numero di aspetti della personalità, anche
se pone grande enfasi sugli aspetti irrazionali, inconsci e sessuali in
ogni spiegazione dei processi di sviluppo. Il suo padre fondatore,
Freud (1938), non si occupò in realtà di bambini ma, interessandosi
soprattutto di psicopatologia in pazienti adulti, arrivò alla conclusione che la radice di ogni problema aveva i suoi fondamenti nelle esperienze di vita precoci. L’idea di bambino che egli formula sulla base
di queste considerazioni è di una creatura alla ricerca di sé, guidata
dall’impulso a soddisfare i suoi bisogni. Il compito dei genitori è qui
quello di insegnare ai figli a controllare tali impulsi. Freud definisce
alcune componenti della mente (istanze) che assolvono a particolari
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funzioni. L’Es è l’istanza più primitiva e la prima a essere presente, è
fonte di tutti gli impulsi egoistici che richiedono una soddisfazione
immediata; l’Io matura nel corso del primo anno di vita, è rivolto
verso l’esterno e funziona secondo il principio di realtà. Il principio di
realtà consiste nella capacità di contenere la tensione interna determinata dagli impulsi e di rinviare il soddisfacimento di tali impulsi in
funzione delle caratteristiche della realtà esterna. La terza istanza è
rappresentata dal Super-io, che è elaborato a partire dagli insegnamenti e dalle proibizioni dei genitori. Secondo Freud, quindi, l’infanzia non è un momento felice e spensierato, ma un periodo difficile
in cui il bambino si trova ad affrontare in continuazione il conflitto
fra il soddisfacimento dei suoi bisogni e impulsi e le richieste da parte
dei genitori e della società. Il bambino, inizialmente, è caratterizzato
esclusivamente da impulsi primitivi, solo in seguito si interessa anche
agli altri. Da principio, gli altri sono solo una pura fonte di gratificazione dei suoi bisogni, ma diventano progressivamente oggetti d’amore vero e proprio. Anche questo approccio, come quello precedente, attribuisce quindi al bambino scarse attitudini sociali, che non
sono presenti alla nascita, ma che si sviluppano in seguito all’interazione con l’adulto.
Dall’insoddisfazione nei confronti di queste due teorie (comportamentismo e psicanalisi) viene formulata la teoria dell’apprendimento
sociale, che ha cercato di sposare i principi dei due approcci precedenti, eliminandone i punti deboli. Il tentativo più apprezzabile in
questo senso è stato realizzato da Bandura (1977), che sottolineò la
componente imitativa dell’apprendimento: il bambino osserva modelli desiderabili all’interno del suo ambiente sociale e cerca di riprodurre il comportamento osservato. Il bambino non è quindi un
agente passivo, come per il comportamentismo, ma i meccanismi di
rinforzo che favoriscono l’apprendimento funzionano sia esternamente (adulti, ambiente) che internamente (bambino stesso). La
teoria dell’apprendimento sociale dà rilievo quindi anche ai meccanismi mentali e non solo al comportamento osservabile. In questo caso
la natura dello sviluppo è di tipo meno meccanicistico. Bisogna però
precisare che, anche se tale teoria ha dato ampio corso agli studi sull’apprendimento dal punto di vista sociale, non è di per sé una teoria
evolutiva e i dati prodotti non godono di una buona validità ecologica e non sono quindi generalizzabili.
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È possibile individuare un contributo alla ricerca sullo sviluppo sociale anche nella teoria piagetiana. Piaget (1952) si è occupato in particolar modo degli aspetti cognitivi dello sviluppo, non ha direttamente parlato degli aspetti sociali, ma le sue osservazioni hanno avuto una grande influenza nel mutare l’idea del bambino come tabula
rasa o come “adulto in miniatura”. Il bambino piagetiano non è
quindi né un essere senza alcuna competenza, né un individuo passivo, plasmabile a piacimento dell’adulto. Il bambino nasce con competenze che sono sicuramente quantitativamente e qualitativamente
minori rispetto a quelle dell’adulto, ma fin dall’inizio è un agente attivo del suo sviluppo ed è in grado di selezionare stimoli adeguati,
contribuendo a creare il suo contesto di crescita. Il corso dello sviluppo è quindi frutto della combinazione delle capacità innate e delle
esperienze, per cui il ruolo dell’adulto è quello di fornire le esperienze
adeguate. Inoltre, Piaget ha portato diversi contributi che evidenziano che lo sviluppo cognitivo è fortemente legato a quello sociale e viceversa (come la formazione della permanenza dell’oggetto, il passaggio dall’egocentrismo intellettuale alla capacità di tener presente il
punto di vista altrui). Ad esempio, la permanenza dell’oggetto è
un’acquisizione molto importante dal punto di vista cognitivo, che si
basa però sulle esperienze di tipo sociale vissute dal bambino. Per
permanenza dell’oggetto si intende infatti la capacità del bambino di
capire che le persone e gli oggetti della sua vita possiedono una certa
permanenza e costanza, a prescindere dal fatto che siano direttamente presenti e osservabili nel suo campo visivo. Il fatto che la palla rotolando sotto la sedia non è più visibile non significa che non esiste
più. Anche se la mamma è uscita dalla stanza, lei fa ancora parte del
suo mondo ed è in grado di ritornare. Questa comprensione della
permanenza degli oggetti e delle persone è legata a un’altra importante acquisizione nella vita del bambino: il suo crescente attaccamento a persone specifiche (cfr. par. 2.2.5).
Un contributo fondamentale allo studio degli aspetti sociali nella
psicologia dello sviluppo è stato fornito dall’etologia. Questa disciplina deriva i suoi principi dall’etologia animale, un ramo della zoologia
nato per lo studio del comportamento animale in ottica evoluzionistica. L’etologia è stata definita da uno dei suoi esponenti più famosi,
Konrad Lorenz (1978), “una biologia del comportamento”, nel senso
che il comportamento, così come la tipologia delle strutture fisiologi16
che e anatomiche del corpo, deriva dall’azione della selezione naturale. Il compito dell’etologo è quindi quello di individuare e descrivere
in modo preciso e oggettivo i modelli ripetitivi e ricorrenti di comportamento caratteristici delle singole specie, attraverso la costruzione del cosiddetto etogramma. L’adozione del metodo etologico per
l’osservazione dello sviluppo umano ha contribuito in diversi modi
all’accrescimento delle nostre conoscenze. Innanzitutto, ha stimolato l’interesse per alcune aree dello sviluppo precedentemente trascurate perché difficilmente indagabili attraverso la ricerca sperimentale, come le prime relazioni sociali, appunto. L’utilità di questo approccio riguarda soprattutto la prima infanzia ed è dovuta al fatto
che l’etologia, che inizialmente si interessava solo dello sviluppo degli animali, ha messo a punto una serie di tecniche osservative per
indagare il comportamento a prescindere dall’uso del linguaggio.
Dato che i bambini piccoli devono ancora acquisire tale funzione, o
quanto meno devono ancora padroneggiarla completamente, i metodi dell’etologia risultano essere molto proficui in quest’area di studi. In particolare, l’etologia ha contribuito alla formulazione di alcuni concetti fondamentali sullo sviluppo socioemotivo, come ad
esempio nella teoria dell’attaccamento di Bowlby (1969), anche se si
ricorda che tale autore ha una formazione innanzitutto di tipo psicanalitico (per un approfondimento sulla teoria dell’attaccamento
cfr. par. 2.2.5).
Per quanto riguarda le attuali ricerche in questo campo della psicologia dello sviluppo, si assiste oggi a un minor utilizzo di metateorie,
come quelle presentate in questo paragrafo, mentre si preferisce indagare fenomeni piuttosto specifici e circoscritti (come, ad esempio, la
formazione del legame fra i pari, la reciprocità, le interazioni precoci
e così via) e non si cerca più di affrontare una serie di funzioni psicologiche così vasta come in passato.
1.5.2. Le teorie sullo sviluppo emotivo Il primo tentativo sistematico
di studio dello sviluppo emotivo si può attribuire a Darwin, che con
il suo famoso trattato pubblicato nel 1872, The expression of the emotions in man and animals, pone le basi per gli studi successivi, sostenendo che le emozioni sono frutto della selezione naturale, fanno
parte cioè del nostro patrimonio genetico, in quanto si sono rivelate
utili per la sopravvivenza. Per Darwin le emozioni hanno una dupli17
ce funzione: quella di esprimere lo stato interno dell’individuo (funzione comunicativa) e di prepararlo all’azione (funzione pragmatica).
Inoltre, secondo lo studioso, l’espressione delle emozioni è universale, è cioè la stessa all’interno degli individui della stessa specie. Negli
esseri umani è quindi indipendente dalla cultura e dall’etnia di appartenenza.
Il tentativo successivo, anche se limitato, di studio delle emozioni in
chiave evolutiva è attribuibile a Watson (1913), che contribuisce con
l’identificazione di tre emozioni primarie osservabili a partire dai 6
mesi di vita: la paura (provocata ad esempio da stimoli acustici assordanti o dall’improvvisa perdita di sostegno); la rabbia (provocata ad
esempio da costrizione dei movimenti); il piacere (provocato ad
esempio da carezze e baci).
Attualmente, in letteratura esistono due teorie fondamentali sullo
sviluppo delle emozioni: quella della differenziazione e quella differenziale. La prima sostiene che il bambino alla nascita presenta un
iniziale stato d’eccitazione indifferenziato dal quale si maturano progressivamente le diverse emozioni (Sroufe, 2000); la seconda sostiene, invece, che esistono fin dalla nascita alcune emozioni primarie già
differenziate (Izard, 1977), le emozioni avrebbero cioè un’origine innata e sarebbero strutturate sulla base di programmi maturativi neurali predeterminati, che vengono secondariamente influenzati dall’esperienza e dall’apprendimento.
Entrambe le teorie descritte qui brevemente presentano notevoli
concordanze, sia per quanto riguarda l’ordine di comparsa delle
emozioni (anche se ci sono lievi differenze sui tempi, cfr. tab. 1), sia
per il fatto che attribuiscono ai fattori sociali e cognitivi un ruolo importante nello sviluppo emotivo, anche se diverso è il peso che viene
conferito a questi singoli fattori e diverso è il modello evolutivo sottostante (nel primo caso si parla di un progressivo sviluppo attraverso
un processo di differenziazione da poche espressioni emotive elementari, considerate dei precursori iniziali – come il sorriso, ritenuto precursore della gioia – mentre nel secondo caso si parla di emozioni già
differenziate ab initio). Accanto a queste due principali teorie sullo
sviluppo delle emozioni vi è da citarne una terza, che nasce come una
sorta di composizione di queste due precedenti: è la teoria formulata
da Scherer (2001). Secondo questo autore l’individuo opera una continua valutazione degli stimoli esterni e interni. Questa valutazione
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avviene attraverso processi cognitivi sempre più evoluti. L’emozione,
quindi, è costituita innanzitutto da una componente cognitiva di valutazione degli stimoli e la sua funzione è quella di predisporre l’individuo a rispondere in maniera efficace agli stimoli che riceve. Accanto alla componente cognitiva, l’emozione è anche caratterizzata da
una specifica attivazione fisiologica, da una componente motoria
(facciale e gestuale) e da una componente motivazionale. Questa teoria compone le due precedenti (quella della differenziazione e quella
differenziale), poiché condivide l’idea della differenziazione progressiva delle emozioni – dovuta al fatto che le valutazioni cognitive degli
stimoli che producono le emozioni divengono nel corso dello sviluppo sempre più complesse e sofisticate – ma, in accordo con la teoria
differenziale, riconosce anche l’esistenza di un numero limitato di
emozioni fondamentali, osservabili fin dalla nascita.
L’esistenza di diverse teorie per spiegare lo sviluppo delle emozioni
può chiarire il fatto che questo è un campo di studi attualmente in
espansione e che ha sofferto di un notevole ritardo rispetto ad altre
aree di studio dello sviluppo psicologico. Questo ritardo è dovuto a
diversi fattori, fra cui la difficoltà nel definire il campo di indagine e
nel dare un’indicazione univoca su che cosa si intenda per “emozione” e la mancanza di metodologie di studio adeguate all’argomento.
Per riassumere...
• In questo primo capitolo vengono poste le basi teoriche per poter af-
frontare lo studio dello sviluppo socioemotivo nella prima infanzia. Si parte dalle domande fondamentali della psicologia dello sviluppo: che cosa
cambia e in quale modo cambia? Gli approcci teorici finora formulati hanno dato diverse risposte a tali questioni, fornendo in taluni casi interpretazioni quantitative, in altri casi qualitative.
• Viene quindi presentato l’approccio ecologico, che è quello che meglio
si presta a giustificare lo studio dello sviluppo sociale ed emotivo insieme.
• Si invita il lettore a riflettere sulle definizioni di sviluppo sociale ed
emotivo, che sottolineano la necessità di studiare i processi di maturazione nella loro totalità e non settorialmente.
• Per finire, vengono presentati i contributi delle principali teorie sullo
sviluppo psicologico allo studio della socializzazione e le teorie sullo sviluppo emotivo.
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