Produzione, costi, ricavi e profitti

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Produzione, costi, ricavi e profitti
Che cosa vedremo in questo capitolo?
La funzione di produzione e la legge della produttività marginale decrescente.
La distinzione temporale tra breve e lungo periodo.
Come variano i costi al variare del livello della produzione sia nel breve sia nel lungo
periodo.
Come variano i ricavi al variare del livello della produzione.
La determinazione del livello di produzione che dà luogo al massimo profitto per
l’impresa.
Finora abbiamo ipotizzato che le curve di offerta siano in genere positivamente inclinate: un prezzo
più alto incoraggia le imprese a produrre di più.
Ma a quali condizioni è possibile giustificare tale andamento della funzione di offerta? La quantità
prodotta dalle imprese in corrispondenza di ciascun prezzo dipende in gran parte dal profitto che
possono ottenere.
Se un’impresa può aumentare i suoi profitti producendo di più, di solito ne approfitterà. Un’impresa
consegue un profitto quando il guadagno ottenuto dalla vendita dei suoi prodotti supera il costo
sostenuto per produrli. Il profitto totale ( π ) è quindi la differenza tra il ricavo totale (RT) e il costo
totale di produzione (CT). Per sapere come un’impresa possa massimizzare il suo profitto,
dobbiamo prima di tutto considerare cosa determina i suoi costi e i suoi ricavi. Nei paragrafi 1 e 2
esaminiamo rispettivamente i costi di breve e di lungo periodo. Nel breve periodo un’impresa dovrà
sottostare a determinati vincoli nell’espansione degli input produttivi. Ad esempio, un’impresa
manifatturiera sarà forse in grado di usare più materie prime, o possibilmente più forza lavoro, ma
non avrà tempo di aprire un altro impianto. Nel lungo periodo, invece, un’impresa sarà molto più
flessibile: se vuole, potrà anche aprire nuovi impianti. Nel paragrafo 3 studiamo i ricavi e in
particolare come essi varino rispetto all’output. Infine, il paragrafo 4 unisce costi e ricavi per
analizzare la determinazione del profitto. In particolare, vedremo come varia il profitto al variare
della produzione e come si trova il punto di massimo profitto.
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1. I COSTI DI BREVE PERIODO
Come variano i costi di un’impresa al variare della produzione nel breve periodo?
Il minimo costo che bisogna sostenere per produrre un certo livello di output dipenderà dalla
quantità di input usati e dal prezzo che l’impresa deve pagare per acquistarli. Nel caso di due soli
fattori produttivi, capitale (K) e lavoro (L), i cui rispettivi prezzi sono espressi da r e w, il costo
totale di produzione può essere scritto come: CT = wL + rK. Concentriamoci innanzitutto sulla
quantità di input utilizzata nel processo produttivo.
1.1. Variazioni della produzione nel breve e nel lungo periodo
In generale possiamo rappresentare con una funzione la relazione tecnica che lega la quantità dei
fattori di produzione al massimo prodotto ottenuto. Nel caso in cui i due fattori produttivi siano
capitale e lavoro, possiamo scrivere: q = q (K, L) dove q rappresenta appunto la quantità di
prodotto.
Se l’impresa vuole incrementare la produzione in tempi brevi, sarà in grado di aumentare solo la
quantità di alcuni input. Può utilizzare più materie prime, più carburante, più utensili e
possibilmente più lavoro (assumendo ulteriori lavoratori oppure chiedendo lavoro straordinario alla
forza lavoro già impiegata). In ogni caso dovrà cavarsela con gli impianti e i macchinari esistenti.
La distinzione che facciamo qui è tra fattori di produzione fissi e fattori di produzione variabili. Un
fattore fisso è un input la cui quantità non può essere variata nel periodo di tempo considerato (ad
esempio, il capitale). La quantità impiegata di un fattore variabile (ad esempio, il lavoro, l’energia)
invece può variare nel periodo di tempo considerato.
La differenza tra fattori fissi e variabili ci consente di distinguere il breve dal lungo periodo.
Il breve periodo. È un lasso di tempo sufficientemente breve in cui almeno un fattore di produzione
è fisso. Nel breve periodo, quindi, la produzione può essere aumentata solo usando più fattori
variabili. Ad esempio, se un’impresa di trasporti marittimi volesse trasportare più passeggeri per far
fronte a una maggiore domanda, potrà trasportare più persone sulle navi esistenti, se c’è spazio.
Potrà forse aumentare il numero dei tragitti con la flotta disponibile, assumendo più personale e
consumando più carburante. Nel breve periodo, però, non potrà acquistare ulteriori navi: non ci
sarebbe abbastanza tempo per costruirle.
Il lungo periodo. È un ‘asso di tempo sufficientemente lungo perché tutti gli input possano essere
variati. Con il tempo necessario, un’impresa può costruire un secondo impianto e installare nuovi
macchinari.
La durata effettiva del breve periodo non è fissa, ma differisce da impresa a impresa. Pertanto, se ci
vuole un anno affinché un agricoltore possa procurarsi nuova terra, impianti e attrezzature, il breve
periodo è qualsiasi tempo inferiore all’anno e il lungo periodo è qualunque tempo superiore
all’anno. D’altra parte, se ci vogliono tre anni prima che un’impresa di trasporti ottenga una nave in
più, il breve periodo sarà qualunque periodo fino a tre anni e il lungo periodo sarà ogni periodo
superiore a tre anni.
Nel resto di questo paragrafo ci concentreremo sulla produzione e sui costi di breve periodo.
Analizzeremo il lungo periodo nel paragrafo 2.
1.2. La funzione di produzione
Abbiamo introdotto in precedenza la relazione tecnica che lega tra loro input e output. Essa è detta
funzione di produzione e si indica con q = q (x5, x2, x5), dove q è appunto l’output e gli x
rappresentano i fattori produttivi, che in generale possono essere anche molti più di due. Per
semplicità consideriamo il caso in cui un unico input, ad esempio il lavoro L, è considerato
variabile (e supponiamo quindi che tutti gli altri input rimangano fissi). Se un solo input è variabile
e il valore di tutti gli altri è fisso, allora la quantità prodotta è funzione dell’unico fattore di
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produzione variabile e possiamo considerare la funzione di produzione q = q (L). Nella figura 4.1 è
disegnata una plausibile funzione di produzione con un solo input variabile1. Si noti che, come
avevamo già detto in precedenza, i punti sulla funzione di produzione rappresentano combinazioni
produttive tecnicamente efficienti. Utilizzando una quantità di lavoro pari a L0, è possibile ottenere
la quantità q0, oppure anche la quantità q1 o q2. La quantità q0 (corrispondente al punto A) è però
quella massima ottenibile: data la quantità utilizzata dell’input variabile (più, naturalmente, quelle
degli input fissi) non è possibile combinare i fattori in un altro modo per ottenere un livello
maggiore di output.
Il caso di funzione di produzione con un unico fattore variabile è abbastanza riduttivo, ma utile per
spiegare due importanti concetti. La produttività media del lavoro, L, è definita come il rapporto tra
il livello di output e la quantità di input utilizzata per ottenerlo:
PMEL=q(L)/L
Nella figura 4.1 è misurata dalla pendenza del segmento 0A.
La produttività marginale invece è l’incremento di output che si ottiene variando di un’unità la
quantità utilizzata dell’input:
PMGL = ∆q (L)/∆L
Se consideriamo variazioni infinitesime, la produttività marginale diventa:
PMGL = dq (L)/dL
ed è misurata dalla pendenza della tangente nel punto della funzione di produzione in cui viene
calcolata.
La figura 4.2 mostra la funzione di produzione (nella pane superiore) e le curve di produttività
media e marginale (in quella inferiore).
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Si noti che l’ipotesi implicita in questa rappresentazione è che sia l’input variabile che l’output siano beni
perfettamente divisibili.
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1.2.1. Legge della produttività marginale decrescente
Nel breve periodo la produzione è soggetta alla legge della produttività marginale decrescente, una
delle «leggi» economiche più note. Consideriamo un’azienda agricola. Essa ricorre a due fattori di
produzione: supponiamo che la terra sia un fattore fisso, mentre il lavoro è un fattore variabile.
Poiché l’offerta di terra è fissa, la produzione in ciascun periodo può essere aumentata solo
aumentando il numero dei lavoratori impiegati. Immaginate cosa accadrebbe se un numero
crescente di lavoratori affollasse una superficie fissa di terra. La terra non può produrre una quantità
indefinitamente crescente di raccolto. A un certo punto, l’incremento di output imputabile a ciascun
lavoratore aggiuntivo inizierà a diminuire. Possiamo ora enunciare la legge della produttività
marginale decrescente: se si combinano quantità crescenti di un fattore variabile con quantità date di
un fattore fisso, a un certo punto ogni unità aggiuntiva del fattore variabile produrrà un minore
output aggiuntivo dell’unità precedente. Siamo adesso in grado di spiegare gli andamenti delle
curve rappresentate nella figura 4.2.
Produttività marginale (PMGL).
La curva della produttività marginale è dapprima crescente (nel tratto in cui la corrispondente
funzione di produzione è convessa): quantità aggiuntive di input determinano un aumento più che
proporzionale dell’output. A un certo punto però (in corrispondenza di L1 nella fig. 4.2) per la legge
enunciata in precedenza la produttività marginale diventa decrescente (nel tratto in cui la funzione
di produzione diventa concava): quantità aggiuntive di input determinano un aumento meno che
proporzionale dell’output. La produttività marginale continua a diminuire fino a raggiungere valore
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zero (in corrispondenza della quantità di input L3, che a sua volta corrisponde al valore massimo
della funzione di produzione), e a diventare negativa (quando la funzione di produzione è nel suo
tratto decrescente). Questo andamento illustra la legge della produttività marginale decrescente:
fino a L1 quantità aggiuntive di input determinano un aumento dell’output più che proporzionale
(dal momento che la produttività marginale è positiva); tra e L3 invece quantità aggiuntive di input
determinano comunque un aumento dell’output, ma meno che proporzionale, fino a che non viene
raggiunto il livello di produzione massima; da L3 in poi, qualsiasi aumento della quantità di input
determina una diminuzione dell’output: la produttività marginale è negativa.
Produttività media (PMEL).
L’andamento della curva della produttività media dipende da quello della produttività marginale.
Infatti nel suo tratto crescente la produttività media giace sempre al di sotto della produttività
marginale; produttività media e marginale si intersecano nel punto di massimo di PMEL (in
corrispondenza di 2); nel suo tratto decrescente la produttività media sta sempre al di sopra della
produttività marginale.
La spiegazione è intuitiva: finché unità aggiuntive di input provocano un aumento della produttività
marginale superiore alla media, esse provocano anche un aumento della produttività media; quindi
se PMGL è maggiore di PMEL, PMEL è crescente. Al contrario, quando unità aggiuntive di input
provocano una produttività marginale inferiore alla media, esse fanno diminuire la produttività
media: se PMGL è inferiore a PMEL, PMEL è decrescente. La produttività media rimane invariata
quando è uguale alla produttività marginale.
1.2.2. Funzione di produzione nel lungo periodo
Consideriamo ora il caso del lungo periodo in cui i due input sono variabili:
q = q (L, K). A partire da questa funzione, è possibile fissare un livello di output, ad esempio q0, e
ottenere tutte le coppie possibili dei due input che permettono di produrre tale quantità. In maniera
analoga, questo procedi. mento può essere ripetuto fissando diversi livelli di output. La figura 4.3
rappresenta nel piano (L, K) diverse curve, ognuna delle quali corrisponde a una diversa quantità di
output prodotto. Ognuna di queste curve prende il nome di isoquanto e raffigura tutte le
combinazioni dei due input che permettono di produrre la stessa quantità di output.
La figura 4.3 mostra una mappa degli isoquanti di produzione (non sarà sfuggita l’analogia con la
mappa delle curve di indifferenza rappresentata nella fig. 2.11).
Essa ha le seguenti caratteristiche:
• A curve più lontane dall’origine corrispondono livelli di produzione maggiori (q2 > q1 > q0).
• Gli isoquanti sono decrescenti. Infatti, se si aumentassero o diminuissero
contemporaneamente entrambi gli input la quantità prodotta aumenterebbe
o diminuirebbe rispettivamente e quindi si andrebbe necessariamente su un
diverso isoquanto. Per mantenere lo stesso livello di output, a una diminuzione
della quantità utilizzata di lavoro deve corrispondere un aumento di
quella di capitale e viceversa.
• Per lo stesso motivo è impossibile che due isoquanti si irtersechino (non è
infatti possibile che una stessa combinazione produttiva (L0, I(a) dia due diversi
livelli di prodotto).
• Gli isoquanti sono curve convesse. A causa della legge della produttività marginale
decrescente, riducendo il lavoro di un’unità a partire da una dotazione abbondante (L1 nella
fig. 4.3), la quantità di capitale che bisogna aggiungere per lasciare invariata la quantità di
output è minore di quella che bisognerebbe aggiungere quando si sottrae un’unità di lavoro a
partire da una dotazione più bassa (L0 nella fig. 4.3): nella figura 4.3, infatti, il segmento
b è minore del segmento a. Ciò si verifica perché in L1 la produttività marginale
del lavoro è minore di quanto non sia in L0.
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Il saggio tecnico (marginale) di sostituzione (STS) ci dice di quanto deve aumentare il capitale
nel caso di una riduzione unitaria di lavoro se si vuole mantenere costante la produzione di output
(si noti l’analogia con il saggio marginale di sostituzione visto nel cap. 2):
STS = dK
dL q=q0
Utilizzando il procedimento visto nel capitolo 2 (par. 4.1) è possibile mostrare che il saggio
marginale di sostituzione è uguale al rapporto tra le produttività marginali dei due input:
STS = dK
dL q=q0
= PMGL / PMGK
1.3. Costi e input
Analizziamo ora come variano i costi al variare della quantità prodotta dai- l’impresa. Ovviamente,
dovendo decidere quanto produrre, è necessario conoscere il livello dei costi associato a ciascun
livello di output. I costi di produzione di un’impresa dipendono ovviamente dalla quantità di input
utilizzati. Più precisamente essi dipendono:
dalla produttività dei fattori. Quanto maggiore è tale produttività, tanto minore è la quantità
di input necessaria per produrre un dato livello di output e quindi tanto minori sono i costi di
produzione;
dal prezzo dei fattori. Quanto maggiore è il loro prezzo, tanto maggiori saranno i costi di
produzione.
Se i prezzi dei fattori produttivi per l’impresa sono dati (ad esempio perché i mercati dei fattori sono
di concorrenza perfetta) e se, data la funzione di produzione, scegliamo opportunamente le quantità
dei fattori in modo da minimizzare i costi di produzione per ogni data quantità di prodotto, allora il
costo di produzione dipenderà solo dalla quantità di output. Possiamo scrivere:
CT= CT(q)
Nel breve periodo, i costi sostenuti per acquisire i fattori fissi non variano con l’output prodotto. La
rendita sulla terra è un costo fisso, non dipende dalla quantità prodotta. Il costo totale dei fattori
variabili, tuttavia, varia con l’output. Il costo delle materie prime è un costo variabile. Quanto più si
produce, tanta più quantità di materie prime viene utilizzata e quindi tanto maggiore sarà il costo ad
esse relativo.
1.4. Costo totale
Il costo totale (CT) di produzione è dunque la somma di costi variabili (CV) e costi fissi (CF):
CT = CV + CF
Consideriamo la tabella 4.1 e la figura 4.4. Esse mostrano i costi totali di un’impresa che produce
diversi livelli di output (q). Esaminiamo ciascuna delle tre curve di costo.
Costo fisso (CF). Nel nostro esempio, il costo fisso è pari a 12 €. Poiché questo costo non varia con
l’output, è rappresentato da una retta orizzontale.
Costo variabile (CV). Se l’impresa producesse una quantità nulla di output,
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non avrebbe bisogno di fattori variabili, CV = 0. Quindi la curva CV passa per l’origine degli assi.
La forma ditale curva risente della legge della produttività marginale decrescente; quando vengono
utilizzate poche unità del fattore variabile, CV aumenta meno che proporzionalmente rispetto alla
quantità utilizzata del fattore. Ad esempio, consideriamo il caso di un’impresa con una dotazione
data di macchine in cui si ha un incremento del numero dei lavoratori impiegati; inizialmente essi
possono svolgere mansioni sempre più specializzate e fare un maggiore e migliore uso delle
macchine disponibili. Quando però il fattore variabile aumenta oltre un certo valore soglia indicato
con m nella figura 4.4 si manifesta la legge della produttività marginale decrescente: poiché le
ultime unità di fattore producono sempre meno output, la quantità prodotta in più di output avrà un
costo variabile crescente in modo più che proporzionale rispetto alla quantità impiegata del fattore
variabile. Quindi la curva CV in m da concava diventa convessa, come si nota in figura 4.4
Costo totale (CT). Poiché CT = CV + CF, nella figura 4.4 la curva CT è semplicemente una
traslazione verticale della curva CV pari a 12 €.
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1.5. Costo medio e marginale
Il costo medio (CME), è il costo per unità di produzione:
CME = CT/q
Se produrre 100 unità di un prodotto costa 2.000 euro, il costo medio sarà 20 € per unità
(2.000/100).
Come il costo totale, il costo medio può essere diviso in due componenti: fissa e variabile.
In altre parole, il costo medio è uguale alla somma tra costo fisso medio (CFME = CF/q) e costo
variabile medio (CVME = CV/q)
CME = CFME + CVME
Il costo marginale (CMG) è l’incremento di costo che si sostiene per produrre un’unità in più:
CMG = ∆CT/∆q
Ad esempio consideriamo un’impresa che produce un milione di scatole di fiammiferi al mese. Essa
decide di aumentare l’output di 1.000 scatole (un’ulteriore partita di produzione): ∆q = 1.000.
Assumiamo che i costi totali aumentino di 40 euro: ∆CT = 40 €. Quale è il costo per produrre una
scatola aggiuntiva di fiammiferi?
CMG = ∆CT/∆q = 40/1000 = 0,04
0,04 rappresenta l’incremento medio di costo per un incremento unitario di produzione
nell’aumentare q da un milione di scatole a un milione e mille scatole. Si noti che tutti i costi
marginali sono variabili, poiché, per definizione, non ci sono costi fissi aggiuntivi quando la
produzione aumenta.
Dati CF, CV e CT per ogni livello di produzione, è possibile derivare CFME, CVME, CME e CMG
per ogni livello di output usando le definizioni di cui sopra. Ad esempio, usando i dati della tabella
4.1, possiamo costruire la tabella 4.2. Considerate ognuna delle colonne e cercate di capire come
sono state calcolate le cifre che vi sono riportate. (Notate che il costo marginale si trova nello spazio
tra le righe. Questo perché esso rappresenta l’aumento del costo che si verifica incrementando la
produzione di un’unità di output.).
Quali forme avranno le curve CFME, CVME, CME e CMG? Un caso tipico, derivato dalla figura
4.4 viene illustrato nella figura 4.5 (la spiegazione è del tutto simmetrica a quella già offerta a
proposito delle curve di produttività media e marginale nella fig. 4.2). Consideriamo singolarmente
ognuna delle quattro curve.
Costo marginale (CMG). Anche l’andamento di CMG è influenzato dalla legge della produttività
marginale decrescente. Produrre le prime unità di output è relativamente poco costoso in quanto CT
nella figura 4.4 fino a m ha un andamento concavo. Quindi CMG si riduce (fig. 4.5). Con il
manifestarsi della produttività marginale decrescente, oltre un certo livello di output — il punto x
nella figura 4.5 in cui CMG ha un minimo (che corrisponde al punto m della fig. 4.4) — CMG
cresce al crescere della quantità prodotta, in quanto si richiedono quantità sempre maggiori di
fattore variabile per aumentare la produzione.
Costo fisso medio (CFME). Diminuisce all’aumentare dell’output, poiché i costi fissi totali sono
distribuiti su una quantità sempre maggiore di prodotto.
Costo medio (CMA). La forma della curva CME dipende dalla forma della curva CMG. Finché
unità aggiuntive di output costano meno della media, esse riducono il costo medio. Quindi, se CMG
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è minore di CME, CME è decrescente. Allo stesso modo, se unità aggiuntive di output costano più
della media, esse aumentano il costo medio. Quindi, se CMG è maggiore di CME, CME cresce.
Pertanto la curva CMG interseca la curva CME nel punto di minimo di CME (punto z nella fig.
4.5).
Costo variabile medio (CVME). Poiché CVME = CME - CFME, la curva CVME è
semplicemente la differenza verticale tra le curve CME e CFME. Si noti che quanto più piccolo è
CFME, tanto più la differenza tra CVME e CME si riduce. Poiché tutti i costi marginali sono
variabili — per definizione, non ci sono costi marginali fissi—, CMG e CVME sono uniti dalla
stessa relazione che lega CMG e CME. Cioè, se CMG è minore di CVME, CVME è decrescente; se
CMG è maggiore di CVME, CVME è crescente. Quindi, come con la curva CME, la curva CMG
interseca la curva CVME nel punto di minimo di CVME (il punto y nella fig. 4.5).
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2. I COSTI DI LUNGO PERIODO
Come variano i costi di un’impresa al variare della produzione nel lungo periodo?
2.1. La combinazione ottima degli input
Utilizzando ora quanto appreso sulla funzione di produzione e su quella di costo possiamo illustrare
il problema della scelta da parte del produttore della combinazione ottima dei fattori produttivi. Ci
limiteremo al caso di due soli input variabili, lavoro, L, e capitale, K, in un’ottica di lungo periodo.
Consideriamo un’impresa la cui funzione di produzione è data da q = q (L, K). La sua funzione di
costo totale è rappresentata da:
CT = wL + rK
dove w è il costo unitario del fattore lavoro, il salario, e L è la quantità di lavoro utilizzata, mentre r
è il costo unitario del capitale, il tasso di interesse, e K è la quantità di capitale impiegata nella
produzione.
In precedenza abbiamo visto come la funzione di produzione possa essere rappresentata nel piano
(L, K) attraverso una mappa di isoquanti. Allo stesso modo, anche la funzione di costo totale può
essere rappresentata graficamente nello stesso spazio. Per ogni livello di costo fissato, CT0, infatti,
la funzione di costo non è altro che l’equazione di una retta i cui punti rappresentano tutte le
combinazioni di L e K che, se impiegati, implicano lo stesso costo per l’impresa (il concetto è
quindi analogo al vincolo di bilancio esposto nel cap. 2):
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CT
 w
K = −  L + 0
r
r
Tale curva è denominata genericamente retta di isocosto. La sua pendenza è data dal rapporto tra i
costi unitari dei due fattori (-w/r) e l’intercetta con gli assi rappresenta la quantità di fattore che è
possibile acquistare a quel dato costo se si decide di acquistare solo quell’input e di fare a meno
dell’altro (per le altre proprietà si veda il par. 2.2 del cap. 2 sulla retta di bilancio). Ad ogni livello
di costo dato corrisponde una diversa linea di isocosto. E quindi possibile disegnarne una mappa nel
piano (L, K) come nella figura 4.6: quanto maggiore è il costo totale sostenuto dall’impresa, tanto
più lontana dall’origine sarà la corrispondente retta di isocosto. Siamo ora in grado di determinare la
scelta ottima della combinazione dei fattori. Dato il livello di produzione prescelto, al produttore,
per comportarsi in modo razionale, non rimarrà altro che cercare di minimizzare il costo totale.
Nella figura 4.7 è raffigurato l’isoquanto cui corrisponde il livello di output fissato q* La
combinazione ottimale di L e K è rappresentata dal punto di tangenza tra questo isoquanto e una
delle rette di isocosto: infatti, in corrispondenza di ogni altro punto dello stesso isoquanto la
quantità prodotta è uguale, ma il costo è maggiore.
Nel punto di tangenza le pendenze dell’isoquanto e dell’isocosto sono uguali:
STS = —w/r
Ma, poiché il saggio tecnico di sostituzione è anche uguale, in valore assoluto, al rapporto tra le
produttività marginali dei due fattori, si avrà che PMGLI PMGK = w/r, da cui a sua volta discende
che il rapporto tra produttività marginale del lavoro e salario (definito come produttività marginale
ponderata del lavoro) deve essere uguale al rapporto tra produttività marginale del capitale e tasso
di interesse (produttività marginale ponderata del capitale):
PMGL PMGK
=
w
r
Quindi il criterio di scelta della combinazione ottima degli input, dato il livello di output, è dato
dall’uguaglianza tra le produttività marginali ponderate.
2.2. La produzione nel lungo periodo: la scala di produzione
Nel lungo periodo, tutti i fattori di produzione sono variabili. L’impresa ha tempo di costruire un
nuovo impianto (magari in un’altra regione), di installare nuove macchine, di usare tecniche di
produzione diverse, in generale di combinare i suoi input in qualsiasi proporzione e quantità.
Se un’impresa raddoppiasse tutti gli input — cosa possibile nel lungo periodo — produrrebbe un
output doppio, più che doppio o meno che doppio? Possiamo distinguere tre possibili situazioni:
Rendimenti costanti di scala. È il caso in cui un dato aumento percentuale di tutti gli input riduce
lo stesso incremento percentuale di output.
Rendimenti crescenti di scala. È il caso in cui un dato aumento percentuale degli input produce un
aumento più che proporzionale dell’output.
Rendimenti decrescenti di scala. È il caso in cui un dato aumento percentuale degli input produce
un aumento meno che proporzionale di output.
Si noti la terminologia usata. L’espressione «di scala» significa che tutti gli input aumentano nella
stessa proporzione. I rendimenti decrescenti di scala sono quindi cosa alquanto diversa dalla
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produttività marginale decrescente (dove solo il fattore variabile aumenta). Le differenze tra la
produttività marginale di un fattore variabile e i rendimenti di scala sono illustrate nella tabella 4.3.
Nel breve periodo, la nostra impresa dispone dell’input 1 solo in quantità fissa, 3 unità. L’output
può essere aumentato solo usando una quantità maggiore del fattore variabile (input 2). Nel lungo
periodo, tuttavia, sia l’input 1 sia l’input 2 sono variabili. Nel breve periodo, gli effetti della
produttività marginale decrescente si manifestano in un aumento dell’output a tassi via via
decrescenti (da 25 a 45, da 45 a 60, da 60 a 70 e infine da 70 a 75) in seguito a un incremento
unitario dell’input 2. Nel lungo periodo, la tabella riporta i rendimenti crescenti di scala: quando
entrambi gli input aumentano, l’output aumenta più che proporzionalmente (da 15 a 35, da 35 a 60,
da 60 a 90 e da 90 a 125).
2.2.1. Economie di scala
Il concetto di rendimenti crescenti è strettamente connesso a quello di economie di scala.
Un’impresa gode di economie di scala se i costi medi di produzione diminuiscono all’aumentare
della quantità prodotta. E chiaro che se un’impresa beneficia di rendimenti crescenti di scala, essa
può aumentare la produzione incrementando i fattori in modo meno che proporzionale. Quindi,
in presenza di rendimenti crescenti di scala, il costo totale aumenta meno che proporzionalmente
rispetto alla quantità prodotta. Ma ciò implica che il costo medio di produzione, dato da CT/q,
decresce all’aumentare della produzione. Quindi, se ci sono rendimenti crescenti di scala, esistono
economie di scala. Non sono solo fattori tecnologici, tuttavia, a dar luogo a economie di scala.
Presentiamo ora alcuni esempi in cui diverse sono le ragioni per cui si manifestano le economie di
scala.
Specializzazione e divisione del lavoro. Negli impianti di grandi dimensioni, i lavoratori possono
svolgere mansioni semplici e ripetitive. La specializzazione e la divisione del lavoro riducono
l’addestramento necessario e consentono ai lavoratori di diventare molto efficienti nelle loro
mansioni, specialmente nel lungo periodo; inoltre, c’è meno dispendio di tempo per spostarsi da
un’operazione all’altra e il controllo è semplificato. Infine, le imprese possono assumere lavoratori
e dirigenti con conoscenze specifiche in alcuni settori.
Indivisibilità. Alcuni input hanno dimensioni prestabilite e sono indivisibili. L’esempio più ovvio è
dato dai macchinari. Consideriamo una mietitrice che consenta di raccogliere più prodotti. Una
piccola impresa agricola non potrà sfruttarla a pieno, poiché questo tipo di macchina è conveniente
solo per aziende agricole relativamente grandi. Il problema dell’indivisibilità si complica quando
diverse macchine, ciascuna delle quali è parte del processo produttivo, hanno dimensioni diverse.
Ad esempio, se per la produzione occorrono due tipi di macchine — una che produce e l’altra che
confeziona — e la prima produce 6 unità al giorno mentre la seconda ne confeziona 4 al giorno,
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allora per utilizzare pienamente la capacità produttiva delle macchine si dovranno produrre almeno
12 unità al giorno.
Il «principio del contenitore». Qualsiasi bene capitale usato come contenitore (ad esempio,
fornaci, silos, container, ecc.) sarà tanto meno costoso per unità di prodotto quanto maggiore è la
sua dimensione. Ciò dipende dalla relazione tra il volume del contenitore e la sua superficie. Il costo
di un container dipende in gran parte dai materiali utilizzati per costruirlo e quindi dalla sua
superficie. L’output prodotto dipende invece in gran parte dal suo volume. Quanto più grande è il
container, tanto maggiore è il rapporto tra il suo volume e la sua superficie. Ad esempio, un
container con un fondo, un tetto e quattro lati, ciascuno di un metro, ha un volume di un metro cubo
e una superficie di 6 metri quadrati (sei superfici lunghe un metro). Se ogni lato fosse raddoppiato
in lunghezza, il volume sarebbe 8 metri cubi e la superficie 24 metri quadrati (sei superfici lunghe
quattro metri). In questo caso un aumento della capacità di Otto volte è stato ottenuto con un
incremento di solo quattro volte della superficie, e quindi un aumento dei costi di circa quattro
volte, rispetto alle otto volte in cui aumenta la produzione.
Maggiore efficienza dei macchinari grandi. I macchinari grandi possono essere più efficienti nel
senso che possono produrre una quantità maggiore di output per un dato ammontare di input. Ad
esempio, per azionare una macchina potrebbe essere necessario un solo lavoratore,
indipendentemente dalla grandezza della macchina. Inoltre, una macchina grande potrebbe usare le
materie prime in modo più efficiente.
Prodotti congiunti. La produzione su larga scala potrebbe generare prodotti di scarto in quantità
sufficiente da ottenere alcuni prodotti congiunti.
Produzione a stadi successivi. Un’industria di grandi dimensioni può essere in grado di eseguire
molte fasi produttive al suo interno. Ciò permette di risparmiare tempo e di ridurre il costo di
trasferire i prodotti semifiniti da un’azienda all’altra. Ad esempio, una cartiera di grandi dimensioni
può essere in grado di trasformare gli alberi o la carta riciclata in cartone e poi il cartone in scatole
in sequenza continua.
Finora abbiamo considerato esempi di economie di scala a livello di impianto produttivo. Ci sono
altre economie di scala associate alle dimensioni di impresa — ad esempio, un’impresa con molti
impianti, anche se non necessariamente grandi.
Economie di organizzazione. In un’impresa di grandi dimensioni, ciascun impianto può
specializzarsi in funzioni diverse. L’amministrazione dell’impresa può essere centralizzata. Spesso,
inoltre, dopo una fusione tra due imprese, è possibile risparmiare razionalizzando le loro attività.
Incidenza dei costi comuni. Ci sono alcuni tipi di spesa che soddisfano il criterio di economicità
solo quando l’impresa è grande, come le spese in ricerca e sviluppo: solo un’impresa di grandi
dimensioni può permettersi di costruire un laboratorio di ricerca. Si tratta di un altro esempio di
indivisibilità, questa volta a livello di impresa e non di impianto. Quanto maggiore è l’output
dell’impresa, tanto minore sarà l’incidenza unitaria ditali costi comuni.
Economie finanziarie. Le imprese di grandi dimensioni possono ottenere finanziamenti a tassi di
interesse inferiori rispetto alle imprese più piccole. Possono ottenere alcuni input a prezzi più
convenienti acquistandone in quantità elevata. E un esempio di economie di scala che non derivano
da rendimenti crescenti di scala.
92
Economie di varietà (o di scopo). Spesso un’impresa è di grandi dimensioni perché produce una
vasta gamma di prodotti. Di conseguenza potrebbe accadere che ogni singolo prodotto sia realizzato
a un costo minore rispetto a quello sostenuto da un’impresa monoprodotto. Il motivo per cui si
manifestano queste economie di varietà è dato dal fatto che è possibile suddividere i costi comuni e
le economie finanziarie e di organizzazione tra i vari prodotti. Ad esempio, un’impresa che produce
lettori CD, registratori a cassette, amplificatori e radio può trarre beneficio da un marketing
congiunto, dalla condivisione dei costi di distribuzione e dalla produzione congiunta dei vari
prodotti.
2.2.2. Diseconomie di scala
Quando le imprese superano una data dimensione, i costi unitari però potrebbero anche aumentare.
Queste diseconomie di scala possono essere dovute a varie ragioni:
All’aumentare delle dimensioni e della complessità dell’impresa, potrebbero
sorgere problemi gestionali di coordinamento, ad esempio in quanto il sistema informativo
interno diventa più difficile da gestire.
I lavoratori possono sentirsi «alienati» se il loro lavoro è noioso e ripetitivo, e se si sentono
una parte insignificante di un’organizzazione molto grande. La scarsa motivazione sul
lavoro è spesso alla base di una qualità del lavoro scadente.
Le relazioni industriali (vale a dire le relazioni tra i datori di lavoro e i lavoratori o le
organizzazioni che li rappresentano, i sindacati) possono peggiorare a causa sia di quanto
appena descritto che delle relazioni interpersonali più complesse tra diverse categorie di
lavoratori che derivano dall’aumento della scala di produzione.
La produzione a catena e le complesse interdipendenze della produzione di massa possono
essere destabilizzanti per l’intera impresa se sorgono problemi in qualche fase del processo.
Un’impresa, quindi, gode di economie di scala oppure soffre di diseconomie di scala a
seconda delle particolari condizioni tecnologiche, di mercato e organizzative nelle quali
opera.
2.2.3. La dimensione dell’industria
Quando la dimensione di un’industria, vale a dire l’insieme delle imprese che producono lo stesso
bene, aumenta, possono sorgere economie esterne di scala per le imprese che ne fanno parte. Ciò
significa che un’impresa, qualunque siano le sue dimensioni, beneficia della dimensione dell’intera
industria. Ad esempio, l’impresa può trarre vantaggio dalla maggiore disponibilità di fornitura
specializzata di materie prime o di componenti, di forza lavoro con abilità specifiche, di servizi di
società di marketing specializzate nella commercializzazione dei prodotti finiti dell’industria, di
servizi di banche e altre istituzioni finanziarie a conoscenza delle esigenze dell’industria. Ci
riferiamo qui all’infrastruttura dell’industria: le strutture, i servizi di supporto, le abilità e
l’esperienza condivisa dalle imprese che ne fanno parte.
Le imprese di una particolare industria potrebbero anche sperimentare diseconomie esterne di scala.
Ad esempio, quando un’industria cresce di dimensioni, potrebbero scarseggiare specifiche materie
prime o manodopera qualificata. Ciò farebbe aumentare il prezzo ditali fattorie, di conseguenza,
anche i costi sostenuti dall’impresa.
2.3. Costi medi di lungo periodo
Poiché nel lungo periodo non ci sono fattori fissi, non ci sono neppure costi fissi di lungo periodo.
Ad esempio, l’impresa può affittare più terra per espandere la produzione. La rendita pertanto
aumenterà con l’output. Nel lungo periodo tutti i costi sono costi variabili. Sebbene sia possibile
93
disegnare le curve di costo di lungo periodo con riferimento sia al costo totale che a quello
marginale, ci concentreremo qui sul costo medio (le relazioni tra queste curve sono analoghe a
quelle già viste per le corrispondenti curve di costo di breve periodo). Le curve di costo medio di
lungo periodo (CMELP) possono avere varie forme. Se l’impresa gode di economie di scala, la sua
curva CMELP è decrescente (fig. 4.8a). Dopotutto, è proprio questo il modo in cui abbiamo definito
le economie di scala: esse si manifestano in una riduzione dei costi medi all’aumentare della scala
di produzione. Se invece prevalgono diseconomie di scala, la curva CMELP sarà crescente (fig.
4.8b). Alternativamente, se l’impresa non presenta né economie né diseconomie di scala, la curva
CMELP è orizzontale (fig. 4.8c).
Spesso si ipotizza che all’aumentare della dimensione di un’impresa ci siano inizialmente economie
di scala (con una curva CMELP decrescente). Dopo un certo punto, tuttavia, tutte le economie di
scala vengono sfruttate e la curva diventa una retta orizzontale. Poi, dopo un certo tratto di CMELP
costante, l’impresa diventerà talmente grande che inizieranno a manifestarsi diseconomie di scala e
quindi il CMELP diventerà crescente. A questo punto, le economie di scala e/o finanziarie vengono
più che compensate dai nuovi problemi gestionali connessi alla dimensione di impresa che fanno
lievitare i costi. L’effetto complessivo sarà una curva a U come illustrato nella figura 4.9.
2.3.1. Ipotesi dietro la costruzione della curva di costo medio di lungo periodo
Sono tre le ipotesi chiave sottostanti la costruzione della curva di costo medio di lungo periodo (già
introdotte in modo sintetico nel par. 1.3). I prezzi dei fattori sono dati. Si ipotizza che per ogni
determinato livello di output l’impresa fronteggi un insieme dato di prezzi dei fattori (come
abbiamo già detto, ciò equivale a dire che i mercati dei fattori operano in concorrenza perfetta). Se i
prezzi cambiano, di conseguenza le curve di costo sia di lungo periodo che di breve periodo si
spostano. Ad esempio, un aumento dei salari contrattati a livello nazionale fa spostare le curve
verso l’alto.
I prezzi dei fattori tuttavia possono essere differenti per livelli diversi di output. Ad esempio, una
delle possibili fonti di economie di scala è data dalla capacità delle imprese di ottenere sconti per
grandi forniture di materie prime e altri input. In casi del genere le curve non si spostano. I prezzi
dei fattori sono diversi in corrispondenza di punti diversi della curva e per questo tali differenze si
riflettono solo sulla forma della curva. I prezzi dei fattori sono tuttora dati per determinati livelli di
94
output.
Lo stato della tecnologia e la qualità dei/attori sono dati. L’ipotesi è che questi dementi possano
cambiare solo nel lunghissimo periodo (par. 16). Se un’impresa riesce a ottenere economie di scala,
è perché è stata in grado di sfruttare la tecnologia esistente e di fare il miglior uso delle dotazioni
esistenti di fattori di produzione disponibili. L’impresa sceglie per ogni livello di output la
combinazione di/attori che minimizza i costi. Questa ipotesi implica che le imprese operino in modo
efficiente, vale a dire che esse scelgano il modo meno costoso per produrre ogni determinato livello
di output.
2.4. La relazione tra le curve di costo medio di breve e lungo periodo
Consideriamo il caso di un’impresa con un solo impianto e con una curva di costo medio di breve
periodo CMEBP1, illustrata nella figura 4.10. Nel lungo periodo, l’impresa può costruire più
impianti, se ciò risulta profittevole. Se in tal modo riesce a beneficiare di economie di scala (dovute,
ad esempio, a risparmi sui costi amministrativi), ogni impianto successivo le consentirà di spostarsi
su una diversa curva CMEBP. Quindi con due impianti fronteggerà la curva CMEBP2, con tre
impianti la curva CMEBP3 e così via.
Ogni curva CMEBP corrisponde a un certo ammontare del fattore che risulta essere fisso nel breve
periodo. Si noti che ci sono molte più curve CMEBP di quelle disegnate, in quanto l’impresa
95
potrebbe costruire impianti di diverse dimensioni o espandere gli impianti già esistenti. Da questa
serie di curve di costo medio di breve periodo possiamo derivare la curva di costo medio di lungo
periodo, come illustrato in figura 4.10. La curva CMELP è costruita come inviluppo inferiore delle
curve di costo medio di breve periodo. Nel lungo periodo infatti l’impresa può scegliere, con
l’obiettivo di minimizzare il costo medio di produzione, su quale CMEBP posizionarsi in funzione
della quantità di output che programma di produrre.
2.5. Le curve di costo dl lungo periodo In pratica
Le imprese spesso godono di economie di scala. Alcune presentano curve CMELP sempre
decrescenti, come nella figura 4.8a. Altre presentano economie di scala fino a un certo livello di
output e poi si assestano su rendimenti costanti di scala. In quest’ultimo caso, esiste una scala
minima efficiente di produzione, vale a dire il livello minimo di produzione possibile che permette
di raggiungere il minimo costo medio. L’evidenza empirica non permette di concludere alcunché
circa il fenomeno delle diseconomie di scala. Non ci sono dati sufficienti per giustificare l’esistenza
di diseconomie di scala di tipo tecnico, ma l’esistenza di diseconomie di scala dovute a problemi
gestionali non può essere esclusa.
2.6. Una ripartizione temporale più precisa
Abbiamo distinto tra breve e lungo periodo. Introduciamo ora altri due periodi di diversa lunghezza:
il brevissimo e il lunghissimo periodo. Brevissimo periodo. Tutti i fattori sono fissi. La produzione
è fissa. La curva di offerta è verticale. Di giorno in giorno un’impresa può non essere in grado di
variare la produzione. Ad esempio, quando un fioraio ha già acquistato dal grossista i fiori per
un’intera giornata, non può variare la quantità di fiori messi in vendita in quel giorno. Nel
brevissimo periodo, tutto ciò che un produttore può fare è vendere un prodotto già disponibile.
Breve periodo. Almeno un fattore è offerto in quantità fissa. L’impresa può produrre di più, ma
così facendo subirà la legge della produttività marginale decrescente.
Lungo periodo. Tutti i fattori sono variabili, ma nonostante possano essere utilizzati in quantità
minore o maggiore, sono di una data qualità. L’impresa può presentare rendimenti di scala costanti,
crescenti o decrescenti.
fig. 4.10. La derivazione della curva di costo medio di lungo periodo a partire dalle curve di costo di
breve periodo.
Lunghissimo periodo. Non solo tutti i fattori sono variabili, ma la loro qualità, e quindi la loro
produttività, può essere cambiata. La produttività del lavoro può aumentare in seguito alla
formazione, addestramento, esperienza e fattori sociali. La produttività del capitale può aumentare
per effetto di nuove invenzioni (nuove scoperte) e innovazioni (messa in pratica delle invenzioni). Il
miglioramento della qualità dei fattori permette di ridurre i costi e sposta verso il basso le curve dei
costi di breve e lungo periodo.
Quanto lungo sia effettivamente il lunghissimo periodo dipende da impresa a impresa, dal tempo
necessario
per
approntare
nuove
tecniche,
nuove
abilità,
nuove
procedure.
È importante rendersi conto che le decisioni relative ai diversi periodi di tempo possono essere
assunte nello stesso momento, Le imprese non prendono decisioni di breve periodo nel breve
periodo e decisioni di lungo periodo nel lungo periodo. Possono prendere decisioni di breve e di
lungo periodo nello stesso giorno. Ad esempio, supponiamo che un’impresa osservi un aumento
96
della domanda e sia convinta che tale aumento durerà anche in futuro. Essa decide di aumentare la
produzione e nello stesso giorno prende le seguenti quattro decisioni:
Brevissimo periodo. Poiché si rende conto che non potrà aumentare la produzione per
qualche giorno, informa la sua clientela che dovrà attendere. Nel frattempo potrebbe alzare i
prezzi, per ridurre in parte l’eccesso di domanda.
Breve periodo. Negozia con la forza lavoro per introdurre lavoro straordinario il più presto
possibile. Ordina ulteriori materie prime ai fornitori. Domanda lavoro sul mercato per non
dover pagare lavoro straordinario troppo a lungo.
Lungo periodo. Inizia a programmare la costruzione di un nuovo impianto. Il primo passo
potrebbe essere quello di discutere le esigenze dell’impresa con una società di consulenza.
Lunghissimo periodo. Istituisce un programma di ricerca e sviluppo e/o formazione nel
tentativo di aumentare la produttività.
Nonostante abbiamo distinto le decisioni dell’impresa a seconda del periodo di tempo preso in
considerazione è ai due centrali e classici breve e lungo periodo che siamo maggiormente
interessati, in quanto nel brevissimo periodo all’impresa rimane poco da fare, mentre nel
lunghissimo periodo, pur volendo aumentare la produttività dei fattori, l’impresa non sarà in grado
di prendere decisioni precise: non saprà quali invenzioni potrà applicare, né quali saranno i risultati
della ricerca e sviluppo.
97
3. RICAVI
Come variano i ricavi di un’impresa al variare del livello delle vendite?
In questo capitolo costruiamo una teoria in cui la massimizzazione del profitto assume il ruolo
centrale. Cercheremo di trovare il livello di output e di prezzo in corrispondenza del quale l’impresa
massimizza i propri profitti. Il profitto totale dell’impresa (π) è dato dalla differenza tra i suoi ricavi
totali e i suoi costi totali di produzione:
π=RT-CT
Avendo già studiato i costi, ci concentriamo ora sui ricavi.
Anche in questo caso possiamo distinguere tre concetti: ricavo totale (RT), ricavo medio (RME),
ricavo marginale (RMG).
3.1. Ricavo totale, medio e marginale
Ricavo totale (RT). Il ricavo totale è dato dalle entrate che l’impresa ottiene in un certo periodo di
tempo in seguito alla vendita di una data quantità di prodotto (q). Ad esempio, se un’impresa vende
1.000 unità (q) al mese al prezzo di 5 euro l’una (p), allora il suo ricavo mensile totale sarà 5.000
euro: 5 x 1.000 (p x q). Cioè:
RT=pq
Ricavo medio (RME). Il ricavo medio è l’ammontare che l’impresa ottiene per un’unità venduta.
Cioè:
RME=RT/q
Quindi, se l’impresa ottiene 5.000 euro (RT) dalla vendita di 1.000 unità (q), otterrà 5 euro per ogni
unità. Ma questo non è altro che il prezzo! Cioè:
RME = p
Un’unica eccezione a questa uguaglianza si ha quando l’impresa vende i suoi prodotti a prezzi
diversi, nel qual caso RME è semplicemente la media ponderata dei prezzi.
Ricavo marginale (RMG). Il ricavo marginale è l’incremento di ricavo ottenuto dalla vendita di
un’unità aggiuntiva in un dato periodo di tempo. Quindi se un’impresa vende 20 unità in più in un
mese rispetto a quanto non si aspettasse di vendere, ricavando 100 euro in più, ottiene 5 euro per
ogni unità aggiuntiva venduta: RMG = 5 €. Cioè:
RMG = ∆RT/∆q
Ora dobbiamo vedere come queste tre funzioni di ricavo (RT, RME e RMG) variano con l’output.
Possiamo analizzare queste funzioni graficamente, come abbiamo fatto nel caso dei costi.
II loro andamento dipende dalle condizioni di mercato in cui l’impresa opera. Un’impresa che sia
troppo piccola per poter influenzare il prezzo di mercato ha funzioni di ricavo diverse da quelle di
un’impresa che sia invece in grado di influire sul prezzo di mercato. Esaminiamo di seguito queste
due situazioni.
98
3.2. I ricavi dell’impresa quando il prezzo è dato
Ricavo medio. Se un’impresa è molto piccola rispetto alle dimensioni del mercato, dovrà accettare
come un dato il prezzo di mercato determinato dall’interazione tra domanda e offerta. A tale prezzo
essa sarà in grado di vendere quanto output è in grado di produrre, come illustrato in figura 4.11.
La figura 4.lla mostra domanda e offerta di mercato. Il prezzo di equilibrio è 5 euro. La figura 4.llb
mostra invece la domanda per una singola impresa che sia sufficientemente piccola rispetto alle
dimensioni del mercato (si noti la differenza di scala sugli assi orizzontali dei due grafici).
Date le dimensioni dell’impresa, qualunque variazione dell’output non è in grado di influenzare il
prezzo di mercato. A questo prezzo, l’impresa fronteggia dunque una curva di domanda orizzontale.
Essa può vendere 200 unità, 600 unità, 1.200 unità o qualsiasi altro numero di unità senza
influenzare il prezzo. Il ricavo medio perciò è costante e pari a 5 euro. La curva del ricavo medio
dell’impresa deve pertanto coincidere con la sua curva di domanda.
Ricavo marginale. Nel caso di una curva di domanda orizzontale il ricavo marginale è uguale al
ricavo medio, in quanto la vendita di un’unità aggiuntiva a un prezzo costante non farà che
aggiungere quell’ammontare al ricavo totale. Se un unita addizionale viene venduta al prezzo
costante di 5 euro, verranno ricavati 5 euro in più.
Ricavo totale. La tabella 4.4 mostra l’effetto sul ricavo totale di diversi livelli di quantità vendute al
prezzo costante di 5 euro per unità. Poiché il prezzo è costante, all’aumentare della quantità
venduta, il ricavo totale aumenta a un tasso costante. La curva RT è quindi una linea retta passante
per l’origine (fig. 4.12) e il prezzo rappresenta sia il ricavo medio che quello marginale.
99
3.3. I ricavi dell’impresa quando il prezzo è influenzato dal suo prodotto
Le tre funzioni di ricavo (RT, RME e RMG) avranno forme ben diverse quando il prezzo varia al
variare dell’output dell’impresa. Se un’impresa ha una quota di mercato relativamente grande,
fronteggerà una curva di domanda decrescente. Ciò significa che se l’impresa intende vendere di
più, deve accettare una riduzione del prezzo. Volendo ottenere un aumento del prezzo, deve
accettare una riduzione della quantità venduta.
Ricavo medio. Ricordiamo che il ricavo medio uguaglia il prezzo. Nel caso in cui quest’ultimo
debba essere ridotto per incrementare le vendite, anche il ricavo medio diminuirà all’aumentare
dell’output.
La tabella 4.5 riporta un esempio numerico relativo a un’impresa con una curva di domanda
decrescente. La curva di domanda (che mostra quanto viene venduto in corrispondenza di ciascun
livello di prezzo) è data dalle prime due colonne. Si noti che, come nel caso di un’impresa pricetaker, la curva di domanda e la curva RME coincidono (fig. 4.13).
100
Ricavo marginale. Quando un’impresa ha una curva di domanda decrescente, il ricavo marginale è
inferiore al ricavo medio, e può anche essere negativo. Perché? Se l’impresa vuol vendere di più in
un dato periodo di tempo, deve abbassare il prezzo (assumendo che non abbia altre variabili di
scelta come ad esempio la pubblicità). Il prezzo va ridotto non solo sulle unità aggiuntive che si
spera di vendere, ma su tutte le unità di prodotto, che l’impresa avrebbe comunque venduto a un
prezzo superiore.
Quindi il ricavo marginale è dato dal prezzo al quale viene venduta l’ultima unità di prodotto al
netto della perdita dovuta alla riduzione del prezzo sulle unità che si sarebbero potute vendere a un
prezzo maggiore. E quanto è illustrato nella tabella 4.5.
Cercate di usare questo metodo per spiegare i dati riportati nella tabella (notate che le cifre nella
colonna del ricavo marginale si trovano negli spazi tra le righe delle altre tre colonne). Assumiamo
che il prezzo corrente sia 7 euro. A questo prezzo vengono vendute due unità. L’impresa ora
desidera vendere un’unità in più, per cui decide di ridurre il prezzo a 6 euro.
In questo modo ottiene 6 euro dalla vendita della terza unità, ma perde 2 euro sulle unità che
avrebbe potuto vendere a un prezzo pari a 7 euro. il suo guadagno netto è quindi pari a: 6-2 = 4 €.
Questo è il ricavo marginale: il ricavo addizionale ottenuto dall’impresa dalla vendita di un’unità in
più. In termini analitici, essendo RT = p(q)q, derivando RT rispetto a q, si può
calcolare che:
RMG =
dRT
dp
= p+
⋅q
dq
dq
Ma essendo l’elasticità della domanda uguale (in valore assoluto) a
 dp 
 
dq
ε = − 
q
 
 p
si può scrivere:
 1
RMG = p1 − 
 ε
101
C’è dunque una relazione tra ricavo marginale ed elasticità della domanda. Ricordiamo dal capitolo
3 che se la domanda è elastica, una riduzione del prezzo provoca un aumento più che proporzionale
della quantità domandata e quindi un incremento dei ricavi. Il ricavo marginale quindi è positivo. Se
invece la domanda è anelastica, una riduzione del prezzo provoca un aumento meno che
proporzionale delle vendite. In questo caso la riduzione del prezzo prevale sull’aumento delle
vendite e il ricavo totale diminuisce. Il ricavo marginale è negativo.
Se il ricavo marginale per una data quantità è positivo (cioè se in fig. 4.13 le vendite non sono
superiori a 4 unità per periodo di tempo), la domanda sarà elastica, in quanto un aumento della
quantità venduta (in seguito alla riduzione del prezzo) provocherebbe un incremento del ricavo
totale. Se invece il ricavo marginale in corrispondenza di una determinata quantità è negativo (cioè
se in fig. 4.13 le unità vendute sono 5 o più), la curva di domanda sarà anelastica, in quanto un
aumento della quantità venduta farebbe diminuire il ricavo totale.
Quindi la curva di domanda (p = RME) in figura 4.13 è elastica a sinistra del punto r e anelastica
alla sua destra.
Ricavo totale. Il ricavo totale è dato dal prezzo per la quantità, come illustrato nella tabella 4.5. La
colonna RT della tabella è disegnata nella figura 4.14.
A differenza del caso di un’impresa price-taker, la curva RT non è una retta, ma una curva
dapprima crescente e poi decrescente. Perché? Fintanto che il ricavo marginale è positivo (e quindi
la domanda è elastica rispetto al prezzo), un aumento dell’output fa aumentare il ricavo totale. Ma
quando il ricavo marginale diventa negativo (e la domanda anelastica), il ricavo totale diminuisce.
TI punto massimo della curva RT, quindi, si trova in corrispondenza di RMG = O. In questo punto
l’elasticità della domanda in valore assoluto è uguale a uno.
3.4. Spostamento delle curve di ricavo
Nel capitolo 1 abbiamo visto che una variazione del prezzo provoca un movimento lungo la curva
di domanda. Una cosa simile accade con le curve dei ricavi: ci chiediamo cosa accade al ricavo
quando varia l’output dell’impresa. Anche in questo caso l’effetto viene colto da un movimento
lungo le curve. L’effetto di un cambiamento di qualunque altra determinante della domanda, come i
gusti, il reddito o prezzo di altri beni, dà luogo a uno spostamento della curva di domanda. In
seguito alla variazione del prezzo al quale può essere venduto l’output, si sposteranno anche le tre
curve di ricavo. Un aumento del ricavo è rappresentato da uno spostamento verticale verso l’alto,
una sua riduzione da uno spostamento verso il basso.
102
4. MASSIMIZZAZIONE DEL PROFITTO
Quanto output deve produrre un’impresa se vuole massimizzare i suoi profitti?
Possiamo ora unire costi e ricavi per determinare l’output in corrispondenza del quale il profitto è
massimo, e trovare anche a quanto ammonta tale profitto. Ci sono due vie per arrivarci. La prima e
più semplice consiste nell’utilizzare le curve di costo e ricavo totale. La seconda invece passa
attraverso le curve di costo e di ricavo medio e marginale. Nonostante questa via sia leggermente
più complicata, è più utile quando si debba confrontare la massimizzazione del profitto in diverse
condizioni di mercato (cap. 5).
Percorreremo ora entrambe le vie. Ci concentreremo comunque sul breve periodo: il periodo nel
quale uno o più fattori sono offerti in quantità fissa. In entrambi i casi studieremo un’impresa con
una curva di domanda decrescente.
4.1. Uso di ricavi e costi totali
La tabella 4.6 mostra i valori numerici del costo, del ricavo e del profitto totali in corrispondenza
della quantità prodotta. I valori sono stati scelti in modo da ottenere funzioni tipiche.
Il profitto totale (π) si trova sottraendo CT da RT. Quando π è negativo, l’impresa è in perdita.
Il profitto totale è massimo per un output di 3 unità, cioè quando la differenza tra ricavo totale e
costo totale è massima.
In corrispondenza di questo output, il profitto totale è 4 euro (18 - 14). Le curve RT, CT e π sono
disegnate nella figura 4.15.
La dimensione del profitto massimo è mostrata dalle frecce.
4.2. Uso di ricavi e costi medi e marginali
La tabella 4.7 raccoglie i valori numerici che si ottengono dai dati della tabella 4.6. Sono due i passi
per determinare il profitto massimo ottenibile da un’impresa. Prima bisogna trovare l’output che
massimizza il profitto. Per farlo usiamo le curve CMG e RMG. In un secondo momento bisogna
calcolare il profitto ottenibile in corrispondenza di questo livello di output. Per farlo usiamo le curve
RME e CME.
103
Fase 1. Usiamo le curve marginali per determinare l’output che massimizza il profitto.
C’è una regola molto semplice per massimizzare il profitto: quando il profitto è massimo, RMG è
uguale a CMG. Questa regola può essere utilizzata a patto che RMG e CMG non risultino entrambi
costanti. La tabella 4.7 mostra che il ricavo marginale è uguale al costo marginale per un output pari
a 3, rappresentato nel punto e della figura 4.16.
Ma perché il profitto è massimo quando RMG = CMG? il modo più semplice per rispondere è
chiedersi cosa succede se, al contrario, RMG non è uguale a CMG.
Con riferimento alla figura 4.16, per livelli di output inferiori a 3, RMG eccede CMG. Ciò significa
che la produzione di ulteriori unità contribuirebbe più all’aumento dei ricavi che non all’aumento
dei costi. il profitto totale aumenterebbe. Quindi finché RMG è maggiore di CMG, il profitto può
essere aumentato aumentando la produzione.
Per livelli di output superiori a 3, invece, CMG eccede RMG. Quindi, tutti i livelli di produzione
superiori a 3 contribuiscono più all’aumento dei costi che non all’aumento dei ricavi, per cui il
profitto diminuisce. Finché CMG è superiore a KMG, il profitto può essere aumentato riducendo la
produzione. Il profitto dunque è massimo quando CMG = RMG: quando la produzione è pari a 3.
Per una conferma si veda la colonna π nella tabella 4.7.
A volte gli studenti rimangono un po’ confusi quando gli si dice che il profitto è massimo per
RMG=CMG. Come può il profitto essere massimo se l’ultima unità venduta non genera alcun
profitto? La risposta è molto semplice. Se non potete aggiungere nulla a un totale, allora quel totale
deve essere già massimo. Considerate per analogia il raggiungimento di una vetta. Se non potete
andare più in alto, significa che siete già in cima.
Fase 2. Usiamo le curve medie per misurare l’ammontare del profitto.
Una volta trovato il livello di output che massimizza il profitto, usiamo le curve medie per misurare
l’ammontare del profitto massimo. Le curve marginali e medie corrispondenti ai valori della tabella
4.7 sono riprodotte nella figura 4.17.
Innanzitutto, si trova il profitto medio, dato da RME-CME. In corrispondenza dell’output che
massimizza il profitto (q = 3), si ottiene un valore del profitto medio pari a 6 — (14/3) = (4/3) €.
Allora il profitto totale si ottiene moltiplicando il profitto medio per l’output:
π = (p — CME) q
che è rappresentato dall’area ombreggiata nella figura 4.17. Essa è pari a (4/3) x 3 = 4 € (per
conferma si veda la colonna π nella tab. 4.7).
104
4.3. Alcune osservazioni
4.3.1. Massimizzazione del profitto di lungo periodo
Assumendo che le curve RME e RMG siano le stesse nel breve e nel lungo periodo, il ragionamento
per il lungo periodo è lo stesso fatto nel breve periodo.
4.3.2. Il significato di profitto
Una componente del costo è data dal costo-opportunità della gestione dell’impresa che deve
sostenere il proprietario, che è pari al rendimento minimo che egli deve ottenere dal capitale
investito nell’impresa affinché non decida di chiudere per dedicarsi a un’altra attività. Al pari di
salari e rendite, si tratta di un costo che deve essere coperto per continuare a dedicarsi all’attività
imprenditoriale. Questo costo-opportunità è talvolta chiamato profitto normale, ed è incluso tra i
costi.
Che cosa determina questo tasso normale di profitto? Sono due le componenti da prendere in
considerazione. In primo luogo chi intraprende un’attività imprenditoriale investe dei soldi. Bisogna
quindi considerarne il costo-opportunità, vale a dire gli interessi che si sarebbero potuti ottenere in
qualsiasi investimento privo di rischio (ad esempio un BOT). Nessuno intraprenderebbe un’attività
se non si aspettasse almeno questo rendimento. In secondo luogo occorre considerare che qualsiasi
attività imprenditoriale non è priva di rischio e che quindi una seconda componente è data da un
premio per il rischio. Quindi:
tasso di profitto normale (%) = tasso di interesse privo di rischio +
+ premio per il rischio
Il premio per il rischio varia secondo il tipo di attività. In quelle con esiti abbastanza prevedibili,
come la vendita al dettaglio di alimenti, è relativamente basso. Quando i risultati hanno un livello di
incertezza elevato, come l’attività estrattiva e la produzione di capi di moda, tale premio è
relativamente alto.
Di Conseguenza se un’impresa ottiene un tasso di profitto normale, i suoi proprietari saranno
(appena) soddisfatti per rimanere in attività. A maggior ragione (ovviamente) lo saranno se
l’impresa guadagna un profitto superiore a quello normale. Poiché il profitto normale è incluso nei
costi, qualsiasi profitto mostrato dal grafico (ad esempio, l’area ombreggiata in fig. 4.17)
rappresenta un profitto aggiuntivo rispetto a quello normale, denominato extraprofitto, profitto puro,
105
profitto economico o surplus del produttore. Queste espressioni indicano tutte la stessa cosa:
l’eccesso del profitto sul profitto normale.
4.3.3. Minimizzazione delle perdite
Potrebbe darsi che non ci sia alcun livello di output che consenta all’impresa di ottenere profitti
positivi. Tale situazione è illustrata nella figura 4.18: la curva CME sta al di sopra della curva RME
per ogni livello di produzione. In questo caso, l’output per cui RMG = CMG sarà quello che
minimizza la perdita. L’ammontare della perdita in corrispondenza del punto in cui RMG = CMG è
mostrato dall’area ombreggiata nella figura 4.18.
4.3.4. Produrre o non produrre?
Il breve periodo. I costi fissi, se sono irrecuperabili (si veda cap. 5, par. 3.5.4), vengono sostenuti
anche se l’impresa non produce affatto. Quindi, l’impresa continuerà a produrre a condizione che
sia in grado di coprire almeno i suoi costi variabili. Se non può coprire i costi variabili, dovrà
chiudere: questo accade nel caso in cui la curva CvÌ1SE sta al di sopra di RME, come illustrato in
figura 4.19.
Il lungo periodo. Nel lungo periodo tutti i costi sono variabili. Quindi, se l’impresa non può coprire
i suoi costi medi di lungo periodo (che includono il profitto normale), chiuderà. Il punto di chiusura
di lungo periodo si troverà dove la curva RME è tangente alla curva CMELP.
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