Monastero di Bose - Atene: pagana, classica e cristiana

Atene: pagana, classica e cristiana
Atene
Avvenire, 10 agosto 2008
di ENZO BIANCHI
“Cosa c’è in comune tra Atene e Gerusalemme?” questa domanda posta da Tertulliano agli albori del III secolo
risuonava per me, studente universitario
Avvenire, 10 agosto 2008
“Cosa c’è in comune tra Atene e Gerusalemme?” questa domanda posta da Tertulliano agli albori del III secolo risuonava
per me, studente universitario nei primi anni sessanta, come un’affascinante ossessione. Cosa c’è in comune tra la
capitale del mondo antico classico – il mondo del mito, degli dèi e degli eroi, il mondo che conosce come proprio canone
la bellezza – e Gerusalemme, il cuore dell’Israele cultore del Dio Uno, il Dio che per il suo essere unico è il Dio geloso
che non tollera sue immagini nel mondo al di fuori dell’immagine impressa nell’essere umano da lui creato? Domande
che forse oggi suonano strane, ma che per i ventenni della mia generazione erano interrogativi brucianti. Gerolamo non
aveva forse chiesto più volte perdono a Dio per il suo amore per gli scrittori classici e per aver cercato la judaica veritas
con un amore e un’acribia folle? Anche altri padri della chiesa, che alimentavano le mie letture, piangevano e si
pentivano per aver frequentato quelle opere che grondavano di paganesimo...
Vicende biografiche personali e l’esempio di persone che mi erano state accanto, fornendomi il bagaglio indispensabile
per il mio viaggio nella vita, mi avevano condotto agli studi biblici che proprio in quei decenni preferivano l’ebraico al
greco dei LXX e si mettevano in ascolto della tradizione rabbinica, magari sognando la ricchezza antica del giudeocristianesimo. Ma avevo studiato a lungo anche “mitologia”, grazie a insegnanti straordinari che sapevano “mitizzare”,
cioè parlare a noi e di noi, del nostro contesto attuale, attraverso il mito greco. Come non sentirmi allora lacerato nel
dilemma tra Gerusalemme e Atene?
Così, sedotto in profondità dalla bellezza-bontà degli dèi e degli eroi e, nel contempo, “adoratore del Dio Uno” narrato da
Gesù di Nazaret, a vent’anni decisi di viaggiare con un amico per la Grecia durante l’estate e di sostare a lungo ad
Atene. Con una 500 vecchia e malandata ma adeguata alle nostre possibilità e ai nostri sogni ci avviammo verso la terra
dei classici: attraversata l’Italia, ci imbarcammo a Brindisi per Igumenitsa e da lì un tortuoso procedere tra panorami
stupendi in terra di Grecia. Ma nell’avvicinarci ad Atene la prima sorpresa per la mia mente un po’ ingenua: più che segni
dell’antica Grecia, più che di dèi ed eroi, le cose belle che vedevamo ci narravano del cristianesimo e, in particolare, del
monachesimo ortodosso e ce ne parlavano non come di un’augusta testimonianza del passato, ma come di una realtà
abitata, vissuta, attualissima: una scoperta che accomunava me, cattolico che stava metabolizzando la “novella
pentecoste” del concilio, e il mio amico che per la fede e la religione non nutriva interessi particolari. Ricordo le Meteore,
quegli enormi massi impervi dove da secoli i monaci si rifugiavano per stare semplicemente davanti a Dio, quasi che
l’altezza vertiginosa di quei picchi li collocasse fisicamente più vicini a Dio. E come dimenticare Osios Lukas, dove
fummo accolti con squisita ospitalità da vecchi monaci che, a quei tempi, si meravigliavano di veder arrivare dei giovani
interessati al monastero? Lì avvenne il mio primo incontro con le icone, con la bellezza delle immagini, quella che
erroneamente credevo così estranea per me credente, “figlio” di Gerusalemme...
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Ma eccoci finalmente ad Atene! Posteggiata la 500 in piazza Síndagma, la piazza del Parlamento, salimmo a piedi verso
l’Acropoli che domina la città e i nostri passi erano come quelli di pellegrini a un santuario: un’ascesa faticosa, ma
animata dall’avvicinarsi del Partenone che si stagliava nel cielo ormai rossastro per l’imminente tramonto. Tanto il viaggio
era stato ricco di parole e di desiderio di narrarci l’un l’altro ogni impressione, tanto quella salita fu silenziosa: ammutoliti,
divenuti estranei ai rumori della città, commossi giungemmo allo spiazzo antistante, ci sedemmo su alcune pietre e
restammo silenziosi a contemplare quel capolavoro. Il tempo era come sospeso e a me parve di essere tornato a una
casa che era stata mia da sempre: non ci accorgemmo nemmeno dell’avanzare della sera, nessuno dei due osava
parlare, a volte incrociavamo gli sguardi senza aprire bocca, in una complicità di sentimenti, emozioni, pensieri, che
qualsiasi parola avrebbe turbato. Ormai si era fatto buio e mentre i marmi chiari dei propilei si stagliavano nel cielo scuro
scendemmo verso la città che vedeva l’andirivieni diurno mutarsi nell’animazione di una tipica notte d’estate
mediterranea. Scendemmo attraverso la Plaka, addentrandoci nei vicoli del quartiere più antico di Atene, pullulante di
tavernette dove il retzina, il vino aromatizzato con la resina di pino, contendeva all’ouzo il ruolo di aperitivo e preparava il
palato a gustare le migliori specialità greche. Nell’aria e sui volti della gente la gioia delle musiche di Teodorakis, in ogni
piazzetta danze improvvisate, risa, saluti...
Ma il Partenone era restato nel mio cuore come una sensazione ben più profonda della spensieratezza dei vent’anni...
Da allora sono passati più di quarant’anni, Atene è cambiata, ha ospitato le Olimpiadi, si è attrezzata a ricevere il turismo
organizzato... eppure, ogni volta che vi torno – e lo faccio sovente – sempre salgo al Partenone, verso il tramonto, per
rivivere quella contemplazione che non contraddice ma alimenta la comprensione dell’Atene cristiana. Ho imparato ad
amare le chiese antiche e nuove che popolano Atene, con l’interno odorante d’incenso e illuminato da fasci di candele
che paiono roveti ardenti posti dai fedeli a impreziosire le icone... Atene pagana e Atene cristiana, l’una nell’altra, senza
cesure e senza opposizioni... non provo difficoltà a uscire dal Museo archeologico per entrare in quello bizantino: vi
leggo un’unica storia, un unico spirito, un’unica terra. Del resto, accanto al Partenone non vi è forse quell’Areopago dove
Paolo tentò di parlare della resurrezione di un uomo inviato dal “Dio ignoto” che giudicherà la terra con giustizia? Per
conquistarsi la benevolenza degli ateniesi e non urtarli li definì “uomini religiosi” ed evitò di parlare della passione e morte
ignominiosa di Gesù, ma lo scacco dialettico patito, il fallimento sperimentato lo accompagneranno a lungo e segneranno
la sua predicazione come “follia per i pagani”.
Forse il lettore si sorprenderà se nel concludere questa memoria di Atene confesso che una volta, mentre scendevo
lentamente a piedi dal Partenone all’Agorà passando per il Theséion, il tempio intatto sulla collinetta sotto cui sta il
portico della Stoà ho “visto” accanto a me Athena e, in quello stesso punto, lo scorso anno mi si è affiancato Hermes:
apparizioni? Non saprei se chiamarle così, ma so che le loro figure non venivano dal passato ma dal presente e mi
accompagnavano in questo cammino in cui la sapienza antica e la sapienza cristiana continuano a intrecciarsi sulla mia
strada.
Enzo Bianchi
Pubblicato su: Avvenire
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