SAN FERMO UNA COMUNITÀ SUPPLEMENTO AL FOGLIO DI NOTIZIE DELLA COMUNITÀ TESTI DEGLI INTERVENTI A MESSA Abbiamo deciso di pubblicare come supplemento al Giornalino gli interventi/prediche fatti a Messa di cui ci perverrà il testo. Saranno inseriti sul sito: http://www.webalice.it/aldo.riboni/comunitasanfermo.html. Chi non disponendo di collegamento Internet li vorrà avere, può farne richiesta direttamente ad Aldo (Telefono: 035 220487; e-mail: [email protected]) N° 9 Anno 2008-09 INTERVENTO DI FRANCESCA BENVENUTO alla Messa della 7 dom. del Tempo Ordinario: Is. 43,18-25; 2Cor. 1,18-22; Mc 2,1-12. Domenica 22 febbraio 2009. Dopo l’arresto del Battista, Gesù si reca una prima volta a Cafarnao con i discepoli freschi di chiamata(Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni). A Cafarnao Gesù attira l’attenzione perché predica nella sinagoga perché , dice Marco insegnava loro come uno che ha autorità. Poi perché compie una serie di miracoli, spossessa alcuni indemoniati, guarisce la suocera di Pietro (che peraltro lo stava ospitando); in seguito, dopo un vano tentativo di ritirarsi nel deserto a pregare, gira di villaggio in villaggio in Galilea, predicando e scacciando di nuovo demoni. Guarisce anche un lebbroso chiedendogli di tacere del miracolo; ovviamente quello lo dice a tutti e quindi Gesù quando ritorna a Cafarnao si trova circondato dalla folla. Qui si inserisce l’episodio scelto dalla liturgia oggi. Si tenta di portargli un paralitico perché lo guarisca; si fanno carico dell’uomo quattro amici (o parenti) che addirittura scoperchiano il tetto per farlo arrivare davanti a Gesù. La cosa vien fatta facilmente perché si tratta di un’abitazione palestinese a un solo piano con un terrazzo fatto di frasche e di fango secco. Marco sottolinea il legame causale tra la loro fede (non quella del paralitico ma la loro) e la decisione di Gesù di guarire il paralitico. Dice Enzo Bianchi : ‘Ed ecco che Gesù, pur circondato dalla folla e intento ad annunciare la Parola di Dio, vede quel gesto di solidarietà, quel gesto umano carico di amore compiuto dagli amici nei confronti del paralitico. In questo atto così semplice Gesù discerne il loro desiderio di vita piena per un altro e, insieme, la grande fiducia che li muove; senza indugio, dunque, decide di incontrare quel paralitico e di guarirlo’. Guarirlo, restituendolo a una vita libera da handicap, diremmo noi oggi, ridandogli cioè l’uso delle gambe. Ma non solo. E non soprattutto. Il momento centrale non è la guarigione del paralitico, ma la frase di Gesù Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati. La parola Figlio ci evidenzia la relazione d’affetto tra colui che guarisce e colui che è guarito. Tra colui che dà la remissione dei peccati e colui che la riceve. Colui che perdona e colui che riceve il perdono. Questa parola, Figlio, indica che il perdono è dato, è possibile darsi, solo all’interno di una relazione. E il perdono ti reintegra nella relazione; e il paralitico è reinserito nella relazione con gli altri. Sicuramente è fondamentale che possa riprendere a muoversi liberamente, ma il perdono che gli è dato va oltre, lo mette in grado di ripartire dal punto dove si era fermato. Ho usato prima la parola remissione che però è stata abbandonata, in quasi tutte le traduzioni, a favore della parola perdono. Giustamente, a mio avviso. La parola remissione ha un qualcosa di burocratico, tipo condono, ricongiunzione. Ci ricorda forse le confessioni della nostra infanzia che avevano spesso dell’iter burocratico: conta (e talvolta ricerca) dei peccati, che venivano detti di fretta; fatta la penitenza di Ave pater e gloria si era a posto (le belle penitenze di a pane acqua per mesi o per anni sono lontane nei secoli). La parola ‘perdono’ invece, è una parola che ci muove, e forse ci sconcerta come ha sconcertato gli scribi. Solo Dio può perdonare, dicevano, e giustamente in quella relazione del perdono hanno visto, tutti hanno visto quel giorno a Cafarnao, l’ombra di Dio. Carmine di Sante, nell’affascinante libro che stiamo leggendo al gruppo biblico, ci ha spinto a una riflessione proprio sul perdono, a cui dedica un ampio capitolo. Che cosa vuol dire il perdono di Dio e, soprattutto, che 1 cosa vuol dire il nostro perdono? che cosa vuol dire per noi chiedere perdono e ricevere perdono, da Dio, ma ancor più dal fratello che abbiamo offeso? E’ dal perdono in croce che parte Carmine. E’ lì che noi cogliamo il senso profondo del perdono di Dio. Gesù sulla croce non tace, pronuncia parole di perdono. Chi perdona? Perdona Giuda, che l’ha tradito, Ponzio Pilato che l’ha condannato, i soldati romani che lo hanno appeso sulla croce, le autorità giudaiche. Sicuramente tutti questi ma non solo; Gesù perdona tutti gli uomini della storia che hanno fatto il male, che hanno scelto il male degli altri per evitare il loro male, perché tutti noi, uomini e donne della storia, siamo vissuti in una storia di violenza/ di rivalità/ di odi/ di guerre, sulla quale, dice Di Sante con bellissima immagine, sulla quale come rugiada scende la parola del Cristo ‘Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno’. Non solo Gesù chiede il perdono ma ne dà il motivo. Non sanno quello che fanno i malfattori, non sanno che c’è un Padre che li ama, o se credono di saperlo, non se ne fidano però abbastanza da non scegliere il male, che sembra spesso la via più facile. Gesù sulla croce viene invitato, da più parti a salvare se stesso,dai capi giudei, da uno dei malfattori, dai soldati romani, dalle autorità del sinedrio, secondo l’ottica di quest’umanità che fa il male, che danneggia l’altro per salvare se stessa. Ma la croce smaschera l’errore di questo comportamento: sulla croce Gesù non salva sé ma salva l’altro, e gli dona perdono, perché lo ama, come ha amato il paralitico, che ha guarito e perdonato. La croce rivela che questa possibilità di perdono nella relazione d’amore è data, è possibile, perché là su la croce, un uomo che era figlio di Dio, non ha pensato a sé ma all’altro; la morte in croce è stata scandalo, è stata ribaltamento della concezione di divinità allora diffusa, e lo è stata, subito, con il Cristo ancora vivo, perché là sulla croce ha donato il perdono. Perdono che non si guadagna, che non è valuta di scambio, non è l’esito della partita doppia ‘io perdono quindi mi perdoni anche tu, Dio’ . Non è così . Ma non è neanche così facile, non è neanche così semplice. Abbiamo capito che il perdono è dono di Dio, ma questo dono c’interroga a fondo, noi non possiamo più agire come se questa possibilità non ci fosse stata mostrata, là sul Calvario, ma fatichiamo a vivere questa relazione d’amore, fatichiamo a capire che cosa vuol dire perdonare. Noi non possiamo rimettere i peccati, ma possiamo cercare, pur nella violenza della nostra storia, pur nella fatica quotidiana del vivere, possiamo cercare che questo dono, che ci è dato come l’aria /come l’acqua /come il sorriso del bambino, dice sempre Carmine, traspaia nelle nostre relazioni, possiamo chiedere a Dio di perdonare. Ma non è facile e neppure semplice. E a volte ci sono domande senza risposta. Un soldato delle SS, mentre stava morendo nel lager, ha chiamato Wiesenthal e gli ha chiesto di perdonarlo, per le donne per gli uomini per i bambini ebrei da lui uccisi. Wiesenthal non ha perdonato, non ci è riuscito. Ma poi ha chiesto, sempre nel lager, ad un rabbino se avrebbe dovuto invece perdonare e il rabbino ha risposto che non si può perdonare il male fatto agli altri. Bene aveva fatto Wiesenthal, secondo il rabbino, a non perdonare. Ma il cristiano Bolek, pure lui in lager, non era dello stesso parere: l’ss si era pentito: meritava dunque il perdono. A lungo Wiesenthal ha cercato la risposta. In un libro, IL girasole, ha raccolto le risposte di una cinquantina di teologi filosofi storici a cui ha rivolto la stessa domanda: ‘Avrei dovuto perdonare? ho fatto bene a non farlo? ‘Le risposte variano, da quella del rabbino a quella di Bolek, con mille sfumature. De Benedetti risponderà che questa domanda è il messaggio che il secolo XX deve consegnare al XXI. Il filosofo francese Ricoeur mette in guardia dal perdono facile, che hanno spesso gli spettatori esterni, che invitano la vittima a perdonare perché vogliono dimenticare un fatto orribile. Questo perdono non si assume veramente la ferita dell’offeso. Questo perdono cancella l’enormità della colpa. Il perdono vero è un perdono difficile, che prende sul serio il dolore della vittima e la colpa dell’oppressore. Il perdono non può negare il torto che è stato fatto, neanche quello fatto a noi stessi, per noi ma anche per chi ha fatto il male perché è chiaro che occorre impedire al colpevole di nuocere ancora e occorre difendere la vittima. Ma il perdono è qualcosa di più; ristabilisce il legame tra vittima e offeso. I mal fattori, diceva Manzoni, non solo fanno il male perché fanno azioni malvagie ma perché creano il male nel cuore della vittima Occorre spezzare questa spirale. Cito qui le parole esatte di Carmine: ‘La vittima che perdona denuncia il male patito, si rifiuta il ruolo di vittima e testimonia che il carnefice non ha distrutto in lei-vittima la sua umanità capace di relazione d’amore.. Questo potere di amare viene rivelato alla vittima dalle parole di Gesù : Ma a voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, 28 benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. Oltre che per la vittima, a cui il perdono svela la sua capacità di amare, al carnefice che chiede il perdono, anche se non di fronte alla vittima, vien data la possibilità di slegarsi dalla sua azione malvagia. Il perdono neotestamentario è dono che permette al colpevole che ha negato la sua umanità e l’ha negata alla vittima, di tornare ad amare. Chiedendo perdono il colpevole si fa cosciente dell’identità tradita del suo io, se ne dissocia e inizia un nuovo cammino, quello della capacità di amare. Per questo il perdono non può essere mai della colpa. Non faremmo un favore al colpevole. La pena esterna data dalla società non è che l’oggettivazione della pena del cuore del pentito. Una volta la riparazione si faceva con la penitenza, ora si preferisce dedicare a ricostruire con il bene ciò che è stato distrutto con la violenza, così nel perdono la pena si trasforma in riparazione. Se il perdono è dono, il 2 pentimento è rivelazione del potere ricreatore del perdono, il perdono è relazione d’amore che irrompe nel mondo dell’offensore.’E irrompendo nel mondo dell’offensore (non negando l’offesa, ripeto) il perdono permette che offeso e vittima possano ripartire. Ma certo tutto questo non è semplice, tutto questo non è facile. Sembra impossibile a me che non ho patito grandi torti, a me che mai sono stata deliberatamente oggetto di male; a me che faccio fatica a perdonare non solo gli altri ma me stessa. Sembra impossibile, a noi che apriamo i giornali e leggiamo di raid di vendetta, di omicidi fatti per vendicarsi di un furto e sminuiti dall’opinione pubblica e a volte dalla giustizia degli uomini. Ma c’è anche altro attorno a noi. C’è Giovanni Bachelet che il 14 febbraio 1980 ai funerali del padre Vittorio ucciso dalle BR dice: ’Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri..’ Senza nulla togliere alla giustizia perché il perdono non è sminuimento della colpa. E le sue parole sono riuscite a reintegrare il legame tra esseri umani figli dello stesso Dio, infatti hanno suscitato una reazione di accettazione da parte degli assassini che hanno scritto al fratello del giudice invitandolo in carcere Oggi quelle parole ritornano a noi, e ci riportano la', a quella cerimonia, dove la vita ha trionfato della morte e dove noi siamo stati davvero sconfitti, nel modo più fermo e irrevocabile.Per questo la sua presenza ci e' preziosa: ai nostri occhi essa ci ricorda l'urto tra la nostra disperata disumanità e quel segno vincente di pace, ci conforta sul significato profondo della nostra scelta di pentimento e di dissociazione, e ci offre per la prima volta con tanta intensità l'immagine di un futuro che può tornare a essere anche nostro. Vorrei chiudere ricordando quello che considero un esempio significativo di perdono, non a livello di coscienza individuale ma di comunità più grande, di stato. Nelson Mandela, dopo 27 anni di prigione, ha il difficile compito di guidare il paese nella transizione dal vecchio regime basato sull'apartheid alla democrazia. L’opinione pubblica mondiale teme un bagno di sangue fatto dalla voglia, peraltro comprensibile, di vendetta delle vittime. Ma Mandela non vuole questo, afferma che la sua missione è liberare sia gli oppressi che l’oppressore . Appena uscito di prigione, Mandela manda il suo primo messaggio al paese: “Riconciliazione e unità”. Con grande sorpresa di tutti parla di riconciliazione; ciò non significa mettere una pietra sul passato, cancellarlo con un colpo di spugna; per Mandela è necessario riesaminare ciò che è accaduto. E in Sudafrica accade veramente qualcosa di unico: il Sudafrica decide di perdonare, di concedere un’amnistia a chi dice il vero, si assume le proprie colpe e racconta a tutti ciò che ha fatto. A stabilire se ciò che è stato raccontato corrisponde a verità, saranno le stesse vittime o le loro famiglie. In questo modo le vittime possono recuperare la loro dignità, possono finalmente parlare pubblicamente delle loro sofferenze, gli uomini di colore non devono più avere paura di essere perseguitati e uccisi. Possono parlare padri e madri, fratelli e sorelle. Sono racconti drammatici, storie di vero orrore, c’è tanta sofferenza. Mandela è convinto assertore dell’idea che si deve dare alla vittima l’opportunità di recuperare la parola e la dignità perdute, premessa per creare le condizioni minime affinché si ricostruisca un legame comunitario. Ma, allo stesso modo, è convinto che non si pone fine all’odio scatenando altro odio, non saranno le vittime diventate carnefici, o i carnefici diventati vittime a portare la pace, a riscattare i lutti. Certo, è stato ed è un processo molto difficile. Spesso le vittime, come era loro diritto, non hanno acconsentito a che il loro aguzzino venisse amnistiato. Certo il processo di comprensione di quanto era successo (e capire i motivi e le modalità del male era necessario, per Mandela, come già era stato per Primo Levi) non è stato lineare. Certo, gli aguzzini hanno tentato spesso di coprire le loro colpe. Ma, grazie al processo di riconciliazione, la strada verso la pace è stata macchiata di molto meno sangue di quanto fosse lecito attendersi dopo una storia di atroce razzismo e di feroce crudeltà. E forse nel Sudafrica di Mandela vediamo l’immagine di come il perdono sia la possibilità per l’umanità di rompere la spirale di odio/guerra/violenza di cui siamo prigionieri da sempre e che Gesù ha rotto sul Golgota. 3