Gli anni dello “sviluppo autonomo”del Mezzogiorno e della Sicilia

Il mezzogiorno nel sistema politico italiano
SISP – Palermo, settembre 2011
Roberto Foderà e Alberto Tulumello
Gli anni dello “sviluppo autonomo”del Mezzogiorno e della Sicilia
B O Z Z A
(Da rivedere)
A sessant’anni dalla nascita della Repubblica italiana il problema del Mezzogiorno rappresenta,
ancora, una questione irrisolta, e il divario rispetto al Centro-nord è rimasto pressoché immutato,
nonostante quarant’anni di intervento straordinario e vent’anni di politiche europee e di sviluppo
locale. Da vent’anni si è anche e parallelamente affacciata la “questione settentrionale” e la
crescente insofferenza nei confronti della irrisolta questione meridionale.
Questo quadro è stato più volte affrontato scendendo nella dimensione spaziale dell’analisi e
considerando i molti e diversi mezzogiorni, a partire dal libro di Trigilia del 1992, Sviluppo senza
autonomia, e più di recente in dipendenza del ruolo sempre più importante delle Regioni nella
programmazione delle politiche per lo sviluppo e nella gestione dei fondi relativi, italiani (Fondi per
le Aree Sottoutilizzate) ed europei (Fondi strutturali a regia regionale). La nascita e la crescita della
tendenza al decentramento, prima, a partire dagli anni ’70, e al cosiddetto federalismo e alla
devolution, dopo, ha accentuato questa attenzione al ritaglio territoriale e ai tanti e diversi
mezzogiorno.
Questo processo di attenzione alla dimensione spaziale e alla pluralità delle realtà territoriali
che compongono il Mezzogiorno non ha quasi mai distinto tra la dimensione “regionale” e la
dimensione “locale”.
La prima nasce con l’attuazione del dettato costituzionale delle regioni ordinarie nel 1970,
anche se si appoggiava sulla preesistente esistenza delle regioni a statuto speciale, due su otto nel
Mezzogiorno. Le regioni acquistano peso nel corso degli anni ’80, investono l’ultima fase delle
politiche dell’intervento straordinario (cfr. la l. n. 64 del 1986, l’ultima che tratti la “disciplina
organica dell’intervento straordinario per lo sviluppo del Mezzogiorno”), ma sono estranee alla
prima fase delle nuove politiche di sviluppo e coesione europee degli anni ’90. Solo alla fine del
decennio, sia per la scossa che il Dipartimento delle politiche di sviluppo (DPS) di Ciampi e Barca,
sia a causa dei nuovi regolamenti europei del 1999 sui fondi di Agenda 2000 relativi al 2000-2006,
acquisteranno un peso (purtroppo) decisivo nel processo di utilizzazione dei Fondi strutturali
europei, nel frattempo diventati le risorse più rilevanti per le politiche di sviluppo.
La dimensione locale è quella specifica dello sviluppo locale e della programmazione
negoziata. Nel corso degli anni ’90 questa dimensione sta al centro delle riforme e delle politiche di
sviluppo, a partire dalle riforme amministrative degli enti locali (l. n. 142 e n. 241 del 1990) e delle
riforme di elezione di Sindaci e Presidenti di provincia, con il virtuoso attivismo dei “nuovi
Sindaci” che ha segnato gli anni ’90.
Convinti dell’importanza di questo genere di analisi e della rilevanza di una attenzione ai
territori e alle realtà locali più dinamiche e potenzialmente trainanti rispetto a percorsi di sviluppo,
anzi per potere approfondire questo genere di analisi, che è stata da diverse parti condotta e che ha
sicuramente rotto lo stereotipo del Mezzogiorno come realtà uniformemente arretrata – una “grande
disgregazione sociale” la chiamava Gramsci –, ed anche per potere trarre frutto dalla distinzione tra
dimensione regionale e dimensione locale, crediamo che si debba porre l’attenzione ad una
dimensione trascurata, che è quella del tempo e delle diverse fasi, anche contrapposte, del processo
di complessiva persistenza del divario e del ritardo economico del Mezzogiorno, ed in specifico
1
della sua economia, ancora “senza autonomia”, anche se e quando tiene il passo con la complessiva
crescita del reddito e dei consumi e dei livelli di vita del paese.
Di fatto le due cose, l’attenzione alla dimensione territoriale e la distinzione tra dimensione
regionale e locale, da una parte, e l’attenzione alle “fasi” e ai tempi, dall’altra, sono connesse,
perché mirano a costruire un contesto di riferimento ragionevole e legato alle cose e ai processi, ed
anche per condurre una analisi che non dipenda eccessivamente dalle difficoltà derivanti dalla
scarsità di dati, soprattutto a livello locale, e dal rischio di restare ciechi rispetto ai mutamenti e
all’avvio di processi di sviluppo, che possono venire neutralizzati da processi successivi di segno
opposto.
Il riferimento è a due insiemi di difficoltà che corrono il rischio di inficiare le analisi dello
sviluppo di aree arretrate proprie di un paese sviluppato quale è l’Italia, e che possono essere
facilmente identificate riflettendo su due aspetti della questione.
La prima difficoltà è la ovvia progressivamente minore disponibilità dei dati statistici quando si
passa dalla dimensione nazionale (statale: la statistica nasce come scienza dello Stato destinata a
fornire i numeri necessari al governo nazionale) a quella regionale (le regioni a statuto speciale,
ossia cinque, di cui due nel Mezzogiorno, nascono con la Repubblica, mentre quelle a statuto
ordinario si definiscono nel 1970) e poi a livello provinciale. Oggi comunque disponiamo a livello
regionale di dati ragionevolmente completi e affidabili, sia sul PIL che sul mercato del lavoro e
sulle sue articolazioni settoriali, mentre a livello provinciale i dati, sia del mercato del lavoro che
del PIL, risultano ancora appena affidabili, più i rimi e meno i secondi. I dati a livello territoriale,
quelli propri dello sviluppo locale, in genere riferiti a territori sub provinciali, definiti dalla somma
di un insieme di comuni, sono pochi (perché pochi sono i dati disponibili a livello comunale, tranne
per le grandi città, che fanno storia a sé) e radi (solo i censimenti, che si celebrano ogni dieci anni,
forniscono dati accurati a livello demografico ed economico a livello comunale, e quindi a livello
delle aggregazione di comuni costituenti l’area dello sviluppo locale). Solo da poco tempo si
cominciano ad effettuare stime sull’occupazione e la disoccupazione su aree locali, ma non
disponiamo ancora di serie storiche che possano consentire le analisi dello sviluppo locale (Foderà
2011).
Questa prima difficoltà si riflette pesantemente sulla seconda, quella legata al tempo e alla
difficoltà di cogliere le “fasi” e i tempi dello sviluppo. Per intendere la gravità del problema
possiamo fare riferimento ad una circostanza singolare che ci ha consentito di identificare uno dei
punti centrali dell’analisi che condurremo, e cioè la fortunata circostanza della celebrazione di un
censimento straordinario dell’industria nel 1996, che ci ha permesso di entrare dentro la vicenda
degli anni ’90, con una precisione che solo i dati censuari consentono a livello territoriale locale.
Partiamo nella nostra analisi proprio da questa circostanza, o meglio dal peso che questa circostanza
ha nell’analisi temporale della vicenda dell’andamento dell’economia del Mezzogiorno e della
Sicilia nel sessantennio di cui ci occupiamo.
Il punto è che solamente affrontando tali questioni è possibile sfuggire alla facile deriva della
denuncia generica di una questione meridionale irrisolta e sostanzialmente irrisolvibile e sottrarsi
alla retorica dell’irredimibilità del Mezzogiorno che è sempre stata alla base della “costruzione del
sottosviluppo” e concausa della persistenza della questione meridionale. Per queste ragioni
riteniamo importante testimoniare e ricostruire il Mezzogiorno e la Sicilia “dello sviluppo”, ossia
certificare che la persistenza sessantennale della questione è attraversata da fasi alterne e
contrapposte, e che la complessiva prevalenza del sottosviluppo è stata accompagnata da “fasi” e da
processi di sviluppo autonomo, che è importante identificare e “misurare”, proprio per neutralizzare
la retorica dell’irredimibilità e la cattiva scienza sociale dell’incapacità subalterna di leggere i
momenti e i processi di autonomia.
Prendiamo le mosse dall’analisi dell’andamento del divario del PIL tra Sud e Centronord. Uno
studio di Daniele e Malanima pubblicato nel 2007 ripercorre la storia del divario tra le regioni del
Mezzogiorno e quelle del resto dell’Italia sin dall’unificazione. Il cammino e il ragionamento dei due
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economisti è sintetizzato in un grafico in cui il PIL pro capite, indicatore del divario economico, viene
seguito per dal 1860, anno in cui sembra esserci una quasi perfetta parità tra le circoscrizioni, e il 2004,
ultimo anno disponibile al momento della pubblicazione. Dal grafico riportato è facile vedere come l’analisi
ci consegna un divario finale molto vicino a quello di sessantacinque anni prima ma che la storia
più recente mostra un andamento più articolato rispetto alla ininterrotta flessione precedente;
l’indicatore di dislivello presenta oscillazioni di quasi venti punti, con un minimo (un massimo
divario) sotto il 50% nel 1950 e con un massimo (un minimo divario) che si avvicina al 70% nei
primi anni del 1970.
Figura 1
E certamente tale oscillazione diventa evidente, spostando lo zoom sul periodo più recente. Ma
non si è molto ragionato sul significato delle due lunghe e contrapposte fasi in esso contenute, non
bastando il giudizio sull’intervento straordinario, che parte virtuoso e poi progressivamente si
corrompe, diventando sempre meno efficace ed efficiente, fino a diventare controproducente ai fini
dello sviluppo: il paradosso dello sviluppo minore associato ad una spesa maggiore (Trigilia 1992).
Figura 2
Pil procapite del Sud
(pil pc. Centro-Nord =100)
0,70
0,65
0,60
0,55
0,50
2004
2001
1998
1995
1992
1989
1986
1983
1980
1977
1974
1971
1968
1965
1962
1959
1956
1953
1950
0,45
Fonte: elaborazione su dati Daniele, Malanima, 2007
3
La prima questione da affrontare è entrare nel merito del periodo di crescita del PIL superiore a
quella nazionale e del conseguente minor divario. Sono questi primi due decenni del dopoguerra
anni di sviluppo autonomo? Vedremo che così non è: c’è una grande differenza tra gli anni ’50, in
cui assieme al PIL cresce – nel Mezzogiorno e in specifico in Sicilia – una economica dinamica e
un rafforzamento del settore secondario, e gli anni ’60 in cui questo dinamismo si ferma, nonostante
il PIL continui a crescere e il divario continui ad attenuarsi.
Ma il pericolo di non leggere le vicende complesse degli anni ’90, che presentano dati simili ad
inizio e a fine del decennio (o alle date dei due censimenti), ma contenendo all’interno una fase di
pesante aumento del divario seguita da una fase di recupero, a cui corrispondono fenomeni
economici di dinamismo e di sviluppo molto interessanti, certamente esiste, se non si riesce ad
avere chiavi interpretative forti, o se si estende alla lettura dei processi di sviluppo l’approccio
congiunturale, che guarda sempre al presente e alla sua proiezione all’indietro per i cinque/sei/dieci
anni precedenti, in dipendenza di criteri e valutazioni legati alla disponibilità di dati e di serie
storiche omogenee.
In specifico, sia la opportunità di leggere i dati secondo la successione dei decenni determinata
dalla disponibilità dei dati censuari che permettono approfondimenti altrimenti impossibili, sia la
recente vicenda dei due ultimi decenni, segnati dalla crisi di fine anni ’80 (caduta del muro di
Berlino, Tangentopoli e abolizione dell’intervento straordinario), con le reazioni riformiste in
Europa e in Italia, e poi dall’inizio del decennio successivo, segnato dall’attentato alle Torri gemelle
e della fine della spinta riformista, sia in Europa che in Italia, possono giocare brutti scherzi e
incapacità di lettura molto gravi.
La nostra analisi partirà da una ricostruzione del rapporto tra i tassi di crescita del PIL di Sicilia
e del Mezzogiorno, rappresentati nella figura 3 con le barre verticali, e i corrispondenti tassi per
l’Italia ed il Centro-Nord, rappresentati dalle linee continue. Sull’asse delle ordinate viene riportato
la variazione media annua del PIL del decennio. L’ultimo periodo, 2001-2008, è stato elaborato da
noi utilizzando le nuove serie di contabilità disponibili dall’Istat.
Figura 3
8,0
Prodotto Interno Lordo
(var. medie annue %)
7,0
Sicilia
Sud
6,0
Italia
5,0
Centronord
4,0
3,0
2,0
1,0
0,0
‐1,0
1961
1971
1981
1991
2001
2008
Fonte: elaborazioni su dati Daniele Malanima e Istat
4
Il grafico mostra – attraverso la differenza tra la posizione delle barre, che misurano il tasso di
crescita del PIL della Sicilia e del Mezzogiorno, e la posizione delle linee, che segnano il tasso di
crescita dell’Italia e del Centro Nord – la diminuzione del divario nei primi due decenni (fino al
1973, attesta l’analisi di Daniele e Malanima) e poi l’inversione del trend e una sostanziale e
costante inferiorità del Sud, con corrispondente aumento del divario nei decenni successivi. Il dato
del 2008 (media 2001-2008) in cui la crescita si annulla, segna il decennio di declino e crisi,
aggravatosi dopo il 2008 a causa della crisi finanziaria ancora attiva e persistente, e che
richiederebbe altro tipo di analisi. Utilizzeremo questo schema di analisi in collegamento con i dati
censuari, fino al 2001, avendo sempre presente anche il Grafico di Daniele e Malanima sulla
consistenza complessiva del divario e il suo andamento annuale nel tempo.
Ma osserviamo da subito, e a chiusura di questa lunga premessa metodologica, come il grafico
si presenta se introduciamo il 1996, segnando per il decennio 1991-2001 le medie relative ai due
quinquenni, e mettiamo in serie storica il diverso andamento della prima metà e della seconda metà
degli anni ’90.
Emerge allora in modo significativo quanto si poteva osservare nel grafico di Daniele e
Malanima.
Figura 4
8,0
Prodotto Interno Lordo
(var. medie annue %)
7,0
Sicilia
6,0
Sud
5,0
Italia
4,0
Centronord
3,0
2,0
1,0
0,0
‐1,0
‐2,0
1961
1971
1981
1991
1996
2001
2008
Fonte: elaborazioni su dati Daniele Malanima e Istat
Se per i decenni dal 1951 al 1991 la media delle variazioni medie annuali per decenni ci danno
uno “sguardo d’insieme” che ci aiuta a capire i fenomeni, la stessa media per il 1991-2001 nasconde
fenomeni rilevanti e significativi, ed occulta un periodo di crescita del Mezzogiorno e della Sicilia
che sembra avere i caratteri dei fenomeni degli anni ’50.
Per ora basta osservare che emerge con chiarezza un quinquennio in cui il tasso di crescita
medio del Mezzogiorno e della Sicilia è superiore sia a quello nazionale che a quello del Centro
Nord, a segnare un terzo periodo con questa caratteristica, e di cui si tratta di intendere i caratteri,
come per i primi due relativi agli anni ’50 e ’60. Questo periodo è quello attestato intorno al 2004
(Svimez 2004 e Svimez 2005) e poi dimenticato e assorbito in una media del decennio simile a
quelle dei decenni precedenti e a quella del decennio appena chiuso, in una deriva del Mezzogiorno
arretrato e irredimibile, con una nuova retorica sull’inutilità e inefficacia delle politiche di sviluppo
locale.
5
Dunque c’è una storia, rilevante e significativa di tale divario, che va ricostruita non solo
quantitativamente – già fatto con grande attenzione e precisione da Daniele e Malanima – ma anche
qualitativamente, ossia leggendola in rapporto con le politiche e con l’andamento dell’economia
nazionale, e valutando il rapporto con l’ “autonomia” economica del Mezzogiorno e con i processi
che misurano tale “autonomia”.
Come vedremo, esistono periodi – fasi – in cui il divario diminuisce ed aumenta
l’“autonomia”, ma anche periodi in cui il divario diminuisce mentre l’“autonomia” non aumenta, ed
esiste anche un periodo in cui il divario aumenta ma produce, e soprattutto prepara, un avvio di
processo autonomo.
Platone per descrivere il metodo con cui vanno trattate le idee – ed i numeri sono simili alle
idee, e come queste hanno una forma, anzi sono la forma – ricorre all’arte dello scalco, il macellaio
capace di tagliare le parti dell’animale seguendo le giunture e le nervature, senza lacerare le carni e
senza distruggere lo strumento dell’“analisi” e il metodo con cui va condotta l’analisi delle idee.
[…] non sarebbe affatto privo di ricompensa cogliere scientificamente il significato di due procedimenti
[…] Uno: abbracciare in uno sguardo d’insieme e ricondurre ad un’unica forma ciò che è molteplice e
disseminato […] L’altro procedimento […] consiste nella capacità di smembrare l’oggetto in specie,
seguendo le nervature naturali, guardandosi dal lacerarne alcuna parte come potrebbe farne un cattivo
macellaio (Platone, Cratilo, 265 d-e, trad. di L. Minio-Paluello)
Anche i tempi del cambiamento e/o della persistenza sono, come le idee, bisognose di buoni
scalchi, capaci di “seguire le nervature naturali” per essere intese.
Questa storia più recente, ossia quella degli ultimi venti anni, si intreccia con la questione
settentrionale, che da questo punto di vista è semplicemente l’altra faccia dello “sviluppo senza
autonomia” del Sud, ossia della crescita di reddito e consumi senza il corrispondente aumento della
capacità di produzione della ricchezza.
Questa storia richiede l’assunzione di un punto di vista che dovrebbe essere ovvio, ma che da
tempo non riesce ad esprimersi e a consentire di leggere i fenomeni che ci interessano, addirittura
puntando a “abolire il Mezzogiorno” (non era questo il senso del libro di Gianfranco Viesti del
2003, di cui qui semplicemente usiamo il titolo e il senso in cui il titolo è stato frainteso dagli
insofferenti per la persistente questione meridionale), quasi che abolire la vista e il punto di vista
possa fare sparire l’oggetto.
La presente riflessione vuole iniziare questa analisi “qualitativa” dei tempi diversi dello
sviluppo, identificando due periodi in cui la diminuzione del divario sembra avere avuto caratteri di
avvio di processi di sviluppo autonomo, nel Mezzogiorno e in Sicilia in specifico. Gli anni ’50 e gli
anni ’90 sembrano presentare tali caratteri e avere dato avvio a processi di sviluppo che si sono poi
interrotti, per ragioni diverse e di difficile identificazione, ma che di cui si riescono a intravedere
alcuni elementi causali.
Questo tipo di analisi è a nostro avviso importante perché può consentire di ricostruire un
punto di vista che identifichi il significato “nazionale” della persistente questione meridionale, così
come della più recente e diversa questione settentrionale, che da pochissimi anni comincia ad essere
oggetto di analisi scientifica (cfr. Perulli e Pichierri 2010), oltre che strumento della cattiva politica
e della retorica leghista, con vicende che non sono diverse da quelle che hanno accompagnato nel
tempo la questione meridionale.
Nella convinzione che il paese non ha più la forza di sopportare il peso, il costo economico e
gli alibi per la (cattiva) politica che derivano dalla persistenza della questione meridionale e dalla
correlativa crescita della questione settentrionale.
Si vuole dunque avviare una riflessione sul Mezzogiorno e sulla Sicilia dello “sviluppo
autonomo”, a tutt’oggi perdente, ma che ha dato prova di esistenza e che quindi può diventare anche
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vincente in un futuro prossimo, che è possibile e che riteniamo necessario costruire, a partire da
quella lezione e da quell’esperienza.
Il punto di partenza dell’analisi è l’andamento del divario tra 1950 ed oggi. Proveremo a
leggerlo con “metodo platonico”, ossia rispettando il dato numerico, ma provando a identificare “le
giunture” dei tempi e i punti di cambiamento dei processi che segnalano quelle giunture e quei
luoghi in cui il dato/l’andamento può anche non mutare, ma cambiare di significato, perché cambia
radicalmente il contesto che gli dà significato.
L’andamento del divario presenta tre periodi che corrispondono con buona approssimazione ai
tre ventenni che lo costituiscono.
Il primo ventennio va dal 1950 al 1973, quando il lungo periodo di recupero di quasi 20 punti
del divario si interrompe e riprende la deriva dell’aumento. Questo dura fino al 1996, ma per
l’analisi noi fermiamo il secondo ventennio al 1990/1991, perché il mondo, l’Europa e l’Italia tra il
1989 (caduta del muro di Berlino) e il 1992 (Maastricht e in Italia turbolenze politiche che
conducono all’abolizione dell’intervento straordinario) cambiano radicalmente e la persistente
dinamica dell’aumento del divario, in un contesto di crisi e di drastica diminuzione delle risposte
per il Mezzogiorno, cambia carattere e va analizzato nel contesto temporale degli anni ’90 e del
decennio successivo.
Così il secondo ventennio va dal 1973 al 1991 ed è segnato da una ripresa dell’aumento del
divario, sostanzialmente continua per tutto il periodo.
Giungiamo così al terzo, variegato e turbolento ventennio, dal 1990/91 ad oggi, segnato da un
andamento policromo di crisi, ripresa e blocco della ripresa dal 2002/2003 con il ritorno
all’aumento del divario, che dura fino ad oggi.
Figura 5
7,4
Var. medie % del pil del Sud (linea) e indice di divergenza rispetto
al Nord-Centro (barre con scala a destra)
0,80
0,75
5,7
0,70
3,1
0,65
2,6
2,2
0,60
0,55
‐0,1
1951/61
1961/71
1971/81
1981/91
91/96
‐0,4
0,50
96/01 01/08
Fonte: elaborazioni su dati Daniele Malanima e Istat
Il primo ventennio: gli anni ’50 e ‘60
Per guardare dentro questo periodo di lunga diminuzione del divario – circa venti punti – partiamo
da una riflessione che Sylos Labini, il più attento studioso dell’economia siciliana degli anni ’50,
conduce nel 1980 ad un convegno sul milazzismo, tornando a riflettere sulla Sicilia che aveva
studiato (Sylos Labini 1966, forse la più approfondita ricerca empirica sull’economia siciliana mai
fatta; il volume è di 1500 pagine) collegando ai dati originali della ricerca dati più recenti e
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identificando un grande dinamismo dell’economia siciliana degli anni ‘50, che a suo avviso dura
fino al 1958, seguito da un “ristagno”, che permane fino agli ultimi dati a lui disponibili relativi al
1977.
Ricordiamo che la letteratura sul Mezzogiorno del dopoguerra e sul lungo periodo
dell’intervento straordinario che copre i primi due ventenni del nostro schema analitico, è concorde
nel distinguere il primo dal secondo ventennio, a cui corrisponde per altro la diminuzione del
divario per il primo e l’aumento per il secondo. Il più convincente autore di questo schema (Trigilia
1992) non soltanto legge il periodo complessivo 1950-1990 come segnato dallo “sviluppo senza
autonomia” e dalla differenza tra i due periodi detti, ma riesce anche a quantificare la cattura da
parte della (cattiva) politica del processo di investimento di risorse per lo sviluppo, certificando
l’aumento del voto di governo del Mezzogiorno nel secondo ventennio, quello che porterà alla crisi
della fine degli anni ’80. Così Trigilia distingue i primi venti anni di questa storia dai secondi venti.
A noi sembra di dovere correggere il tiro rispetto al primo periodo, distinguendo dentro i primi
vent’anni il primo decennio dal secondo e tirando fuori dallo schema complessivo del giudizio di
sviluppo senza autonomia il primo decennio. Per Sylos Labini questo periodo arriva al 1958 e
corrisponde in Sicilia agli anni ’50 di La Cavera e della sua Sicindustria (cfr. La Cavera 1959, 1961
e 1994 e Tulumello 1995) e delle battaglie per la legge sull’industrializzazione del 1957 (cfr.
Tulumello 2000). Il quadro complessivo del libro di Trigilia del 1992 resta valido per i quarant’anni
analizzati, e per una valutazione complessiva dello “sviluppo” dell’economia meridionale (e
siciliana), ma l’inizio, l’avvio legato al primo processo “nazionale” di ricostruzione e sviluppo
all’uscita dal dopoguerra e al ruolo allora assegnato al Mezzogiorno e allo sviluppo della sua
economia (cfr. D’Antone 1996 e 1997, cfr. le vicende del Piano Marshall e dei prestiti della Banca
Mondiale all’Italia), è stato diverso, e aveva dato avvio ad un processo di dinamismo e di crescita,
che poi è diventato altro.
Illuminante sul cambiamento la testimonianza di Sylos Labini, che, durante il periodo di
insegnamento presso l’università di Catania, ha condotto la più vasta e complessa indagine
sull’economia siciliana mai effettuata e che nel 1980 torna su quel periodo e su quelle vicende
affermando quanto segue:
Come guida alla riflessione sulle trasformazioni economiche e sociali conviene considerare la
distribuzione dell’occupazione in periodi diversi: subito dopo la guerra, sul finire degli anni ’50, al
principio degli anni ’70 e nel 1977 (gli ultimi dati disponibili) si tratta di migliaia di unità:
1951
1958
1973
1977
Agricoltura
Industria
Servizi
750
620
380
340
330
430
450
450
270
360
390
425
Pubblica amministr.
100
115
210
225
Durante il periodo che particolarmente ci interessa, cioè dal 1951 al 1958, i fenomeni più notevoli sono
costituiti dall’esodo agrario (che poi si accelera), da un certo sviluppo dell’industria, dei servizi e della
pubblica amministrazione. Dopo il 1958 l’occupazione tende a ristagnare; fino al 1958 cresce, come
risultato di una somma algebrica, data dal calo dell’occupazione nelle unità artigianali premoderne e
dallo sviluppo di unità artigianali e industriali di tipo moderno e dalla creazione di grandi stabilimenti
attuata da imprese private e pubbliche (Sylos Labini 1980, p. 141).
Il saggio di Sylos Labini è sul governo Milazzo. Quando, più avanti nel testo citato,
l’economista affronta il tema e discute della debolezza della politica economica avviata dal
governo Milazzo e anche della debolezza dell’azione della Sofis, il quadro è confermato e il 1958 è
nuovamente posto come un punto di passaggio, tra un periodo di dinamismo che copre gli anni fino
al 1958 e poi un cambiamento che si protrarrà fino alla data in cui scrive.
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In quel periodo noi assistiamo a spinte sociali e strategie politiche molteplici e contraddittorie,
provenienti dagli stessi gruppi sociali. Interessante è l’episodio dell’industriale La Cavera, che venne
messo a capo della SOFIS proprio dal governo Milazzo, su richiesta dei comunisti. Un La Cavera che si
era fatto la fama di “enfant-terrible” della Confindustria, poiché era entrato in conflitto con De Biase,
un personaggio potente in quella organizzazione: La Cavera cercava di far valere le esigenze
dell’industrializzazione dell’isola sia attraverso una politica di incentivazione, sia attraverso iniziative
industriali di tipo regionale. […]
La spinta data dalla SOFIS – la società finanziaria regionale promossa da La Cavera – non dette risultati
di rilievo: l’industrializzazione fece progressi molto modesti. Il numero degli addetti nel settore
industriale è variato di poco dal 1957-58 al 1972-73: la somma algebrica, di cui parlavo prima, è
diventata nulla, mentre prima era stata positiva – tra il 1951 e il 1958 vi era stato un aumento di 100
mila unità (Sylos Labini 1980, p. 146).
Ci siamo chiesti da dove Sylos Labini avesse preso i dati, e come avesse dato quelle
valutazioni. Perché il 1951 e poi il 1958. 1951 è l’anno del censimento. 1958 è il primo anno della
rilevazione sulle forze di lavoro, che da quella data l’Istat effettua con continuità. Mettendo assieme
e confrontando i dati del censimento 1951 ed a seguire quelli dei censimenti 1961 e 1971, con i dati
annuali della rilevazione sulle forze di lavoro, i conti tornano. L’analisi di Sylos Labini è corretta,
anche se forse si dovrebbe porre come termine ad quem dello sviluppo autonomo il 1961, piuttosto
che il 1958.
Figura 6
Occupazione nell'industria in complesso in Sicilia
450
400
Cens
FFLL
350
1951
1952
1953
1954
1955
1956
1957
1958
1959
1960
1961
1962
1963
1964
1965
1966
1967
1968
1969
1970
1971
1972
1973
300
Nella Figura 6 vengono rappresentate con una linea i dati dell’indagine sulle forze di lavoro,
con le barre verticali più scure i dati dei censimenti della popolazione, mentre le barre verticali più
chiare rappresentano una stima da noi svolta sull’andamento dell’occupazione nel periodo 1952-60.
I dati confermano il giudizio di Sylos Labini: gli anni ’50 in Sicilia sono anni di “sviluppo
autonomo”. Poi si cambia. E si cambia nonostante il divario continui a diminuire, perché su ha
“sviluppo senza autonomia”.
9
Il secondo ventennio: 1973-1991
Non entreremo dentro il secondo periodo, caratterizzato da aumento del divario e da progressiva
dipendenza dell’economia del Mezzogiorno e della Sicilia, da trasferimenti e da pervasività della
spesa pubblica.
Sicuramente gli anni ’70 sono caratterizzati da fenomeni altamente contraddittori e non sono
stagnanti come i successivi anni ’80. Basti ricordare che sono gli anni ’70 a far partire non
solamente le regioni a statuto ordinario, ma anche il decentramento amministrativo legato alla
costruzione del Welfare. Sono anni accompagnati da interessanti processi di partecipazione che
coinvolgono anche molte realtà del Mezzogiorno e della Sicilia. Ma nel ragionamento che stiamo
qui conducendo questo periodo porta dritto al disastro della crisi di fine anni ’80 e alla necessaria
abolizione dell’intervento straordinario e allo smantellamento di un sistema di imprese pubbliche e
di strutture di servizio dell’economia pubbliche o dal pubblico controllate (penso al sistema
bancario meridionale, che nel corso degli anni ’90 verrà sostanzialmente smantellato, anche a
ragione del controllo da parte della cattiva politica e anche peggio).
Dal punto di vista di questa analisi, interessa sottolineare che all’aumento del divario
corrisponde un aumento della dipendenza del sistema economico: sono questi gli anni esemplari
dello “sviluppo senza autonomia”, perché anche se il divario aumenta le condizioni economiche
complessive segnano un aumento del reddito che comunque fa tenere il passo con l’aumento della
ricchezza del paese e produce una crescente dipendenza dai trasferimenti e dalla pervasività della
spesa pubblica. Elementi non ultimi che conducono alla crisi nazionale della fine degli anni ’80 e
alla abolizione dell’intervento straordinario del 1992. Siamo così agli anni ’90 e all’ultimo periodo
della nostra analisi.
Il terzo ventennio: gli anni ’90 e il primo decennio del duemila.
La prima metà degli anni ’90 è segnata da un aggravamento dell’andamento precedente con una
picchiata degli indicatori economici del Mezzogiorno e della Sicilia più forte di quella dei
corrispondenti indicatori nazionali e del Centronord, che pur marcano anch’essi la crisi e il
necessario risanamento dei conti pubblici con il crollo degli investimenti pubblici. Quel
risanamento permetterà all’Italia, contro ogni aspettativa, di agganciare l’Europa di Maastricht. Poi
a metà decennio gli indicatori italiani e del Mezzogiorno cambiano di segno e misurano i frutti del
risanamento e delle riforme avviate.
In questo processo il Mezzogiorno segna una capacità di ripresa e di sviluppo superiore a
quello nazionale e del Centro-Nord, in un contesto in cui, dopo l’abolizione dell’intervento
straordinario, la questione meridionale è nuovamente al centro delle politiche nazionali dello
sviluppo. La costituzione nel 1997 del Dipartimento per le politiche dello sviluppo guidato da
Fabrizio Barca mette a sistema e dà voce unitaria a un insieme, anche disordinato, ma certamente
funzionale e coerente, di politiche per le aree arretrate che accompagnano tutto il decennio, nel
contesto di un processo virtuoso in cui la ripresa dell’integrazione europea e la preparazione alla
moneta unica fa da contesto e da stimolo per le riforme e per le politiche di sviluppo.
Le analisi svolte dalla Svimez e da Daniele e Malanima mostrano una crescita del PIL
procapite del Sud rispetto al dato nazionale dalla metà degli anni ’90 sino ai primissimi anni 2000.
Questo significa che il Sud è cresciuto in modo più veloce rispetto al resto d’Italia. Fondamentale in
tale analisi è la considerazione che le elaborazioni della Svimez e dei due economisti fanno
riferimento ai dati ufficiali esposti dall’Istat. Sia l’Istituto meridionale che i ricercatori non hanno
fatto altro che prendere atto di un dato che l’Istituto Nazionale di Statistica aveva certificato. Ad
anticipare questi studi è da ricordare come Bodo e Viesti (1997), osservando sempre i dati di
contabilità territoriale dell’Istat, avevano evidenziato la particolarità, cercandone i motivi in alcuni
10
elementi economici, come la crescita dell’export, e politici, come la voglia di rimboccarsi le
maniche e creare uno sviluppo dal basso (come nella creazione di Patti Territoriali). Il Sud recupera,
in sette anni tutto il gap accumulato negli anni di crisi della prima metà del decennio.
Figura 7
Rapporto Pil procapite Sud/Italia 0,700
0,680
0,660
0,640
1990
1992
1994
1996
Fonte: elaborazioni da Daniele e Malanima
1998
2000
2002
2004
Se per il Sud tutti gli studi confermano la significativa maggior dinamica rispetto al resto della
nazione, focalizzando l’attenzione su alcuni territori specifici, le dinamiche diventavano più
complesse da comprendere. La Sicilia, a ragione della sua dimensione economica e demografica nel
contesto delle regioni del Sud, per la scelta di dar conto a politiche locali che nascessero dal basso,
e, non ultimo, per le difficoltà che hanno seguito la crisi finanziaria e politica del ’92 e la chiusura
delle politiche straordinarie per il Sud che hanno “ingessato” le potenzialità di spesa all’interno
della Regione, rappresenta un importante e stimolante campo di osservazione.
I dati ufficiali non mostrano un andamento deciso come quello del complesso del
Mezzogiorno. La crescita dalla metà degli anni novanta letta nelle serie regionali ricostruite da
Daniele e Malanima (che si ricorda fanno riferimento ai dati ufficiali dell’Istat) mostrano un
andamento del PIL procapite, indicatore statistico utilizzato dai due studiosi per giudicare il gap tra
le aree, che inizia a recuperare terreno un anno dopo rispetto al Sud (dal 1996), ma con un
andamento quasi piatto per il resto del decennio, tornando a risalire al termine del decennio e
decisamente all’avvio del nuovo secolo. Nonostante la crescita la Regione si trova, alla fine del
periodo considerato dalla ricerca dei due studiosi, al di sotto del valore di avvio anni ’90.
11
Figura 8
Rapporto Pil procapite Sicilia/Italia 0,72
0,70
0,68
0,66
0,64
1990
1992
1994
1996
Fonte: elaborazioni da Daniele e Malanima
1998
2000
2002
2004
A partire dalla diffusione dei valori contabili del 2005, l’Istat ha fatto proprie una serie di
regole inserite nel SEC95 (il sistema dei conti europei), e ha rielaborato le serie di contabilità a far
data dal 1995. Presentando le nuove stime, i computi del valore aggiunto sono stati rivisti al ribasso
e, di conseguenza, anche il PIL è risultato ridotto.
Le variazioni fondamentali possono essere lette nella “regionalizzazione” dei valori da
attribuire alle attività finanziarie e bancarie, valori che sono stati decurtati per il Sud, e per la Sicilia
in particolare, mentre sono aumentati per il Centronord.
Guardando con attenzione e confrontando i dati della vecchia serie e della nuova relativa al
periodo 1995-2004 delle diverse unità territoriali si scopre che i dati del Mezzogiorno sono
complessivamente cambiati poco, e comunque molto meno di quelli siciliani ed anche di quelli
della Campania, altra regione che vede stimati al ribasso i dati complessivi del valore aggiunto e
conseguentemente vede appiattito il dinamismo economico della seconda metà degli anni ’90. Si
scopre invece che ciò non avviene per Puglia e Calabria (abbiamo controllato solamente queste
quattro regioni). Il dato complessivo del Mezzogiorno cambia poco, mentre quello nazionale (e del
Centro Nord) guadagnano qualche punto.
Si scopre inoltre che le variazioni sono essenzialmente determinate dal valore aggiunto dei
servizi e in modo particolare dei servizi finanziari e delle attività immobiliari: intermediazione
monetaria e finanziaria; attività immobiliari ed imprenditoriali, complessivamente rivalutate al Nord
e particolarmente depresse nella nuova serie in Sicilia (e in Campania).
Fermo restando che il dato complessivo del Mezzogiorno tiene perfettamente rispetto alle
analisi fatte e alle considerazioni condotte, l’appiattimento della curva del PIL pro capite della
Sicilia (e della Campania) andrebbe interpretato con analisi più approfondite, e i criteri della nuova
serie andrebbero letti con accuratezza, anche in riferimento al contemporaneo cambiamento
dell’assetto delle attività finanziarie: sono gli anni della liquidazione del Banco di Sicilia e della
Cassa di Risparmio in Sicilia e del Banco di Napoli in Campania.
Ma è questo un discorso da affrontare in altra sede e che qui serve solo ad indicare la
problematicità di una lettura del dato regionale del PIL e del PIL pro capite.
L’Istituto statistico ha inoltre anche rielaborato la serie della popolazione residente facendo
riferimento alle risultanze del censimento del 2001. Queste operazioni hanno compresso il valore
dell’indicatore, in particolar modo a far data dagli ultimi anni ’90.
12
Figura 9
Pil procapite Sicilia
(Italia = 100) 0,72
0,68
0,64
Vecchia serie
Nuova serie
2009
2008
2007
2006
2005
2004
2003
2002
2001
2000
1999
1998
1997
1996
1995
1994
1993
1992
1991
1990
0,60
Se l’indicatore assume un andamento così diverso nelle nuove serie, mostrando addirittura un
ampliamento del gap per l’ultimo biennio degli anni ’90, sembra interessante osservare che i valori
assoluti del PIL delle nuove serie risultano addirittura più alti di quelli stimati precedentemente per
il periodo dal 1995 al 1998 (in particolare per il primo biennio dove mostrano una rivalutazione di
736 milioni di euro per il 1995 e 818 milioni di euro per il 1996 pari all’1,4% del valore per
entrambi gli anni), mentre sono stati compressi, via via in modo più robusto, a partire dal 1999.
A fianco dell’andamento della valore della produzione, un indicatore dello sviluppo altrettanto
se non più importante è rappresentato dalla dinamica dell’occupazione. Pur nelle forme più flessibili
e su livelli di reddito più contenuti la costruzione di posizioni lavorative diventa il segno di una
spinta verso l’attività, di una crescita civile oltre che economica. Così come per i valori economici
anche il computo delle unità di lavoro presentato dai nuovi conti economici dell’Istat vede una loro
variazione verso il basso.
Nei grafici è stato riportato il confronto tra le due serie, sia per quanto riguarda l’occupazione
totale, che limitatamente a quella dell’industria in senso stretto. I valori assoluti si presentano come
linee e la scala di riferimento è quella destra (valori in migliaia), mentre le barre, misurate sulla
scala di sinistra, mostrano la riduzione operata dal servizio dell’Istat.
Figura 10 - Unità di lavoro nel complesso dell’economia
Differenze assolute in mgl.
Differenze
1.424
Nuova serie
Vecchia serie
‐12,4 ‐14,0 ‐15,5 ‐17,0
‐12,4
‐19,6 ‐18,1
Valori in migliaia
1.535
Sicilia
‐7,3
‐24,6
‐32,8
1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004
13
Figura 11 - Unità di lavoro nell’industria in senso stretto
158
151
Differenze
Nuova serie
Valori in migliaia
Differenze assolute in mgl.
Sicilia
Vecchia serie
‐3,0
‐3,6
‐4,5
‐4,4
‐5,6
‐6,2
‐7,4
‐5,8
‐11,4
‐3,5
1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004
Pur su livelli diversi, entrambe le serie, la precedente utilizzata come detto anche nello studio
di Daniele e Malanima e la nuova serie ufficiale, confermano una ripresa della dimensione
lavorativa nella Regione dal 1996, in modo anche più netto di quanto osservato per il PIL. Il
maggiore dinamismo rilevato nel settore delle costruzioni non sfianca l’andamento crescente che,
seppur lieve, si può leggere nei dati dell’industria in senso stretto.
I dati di contabilità, rivisti al ribasso, riguardano le cosiddette unità di lavoro, ovvero gli
occupati “standard” rispetto alla capacità produttiva: un ideale occupato a tempo pieno e
indeterminato. Le ula risultano funzionali alla valutazione del valore della produzione e non
riguardano la capacità di creare posti di lavoro. Questi, anche se a tempo parziale o determinato,
risultano legati alle capacità locali a realizzare attività economiche e vengono meglio osservati
attraverso le indagini campionarie o attraverso i censimenti, con i difetti e i pregi che questo tipo di
rilevazione si porta dietro.
Se, quindi, il dinamismo può essere letto non soltanto sulla capacità di produrre valore
aggiunto ma anche nella sua capacità di costruire coesione sociale attraverso, ad esempio, la
creazione di posti di lavoro, è anche a queste ultime statistiche che dobbiamo rivolgerci. Mentre le
indagini campionarie, per la loro natura di dispersione territoriale dei casi rilevati, non possono
fornire se non indicazioni a livello provinciale o regionale (si veda l’analisi iniziale di confronto tra
dati censuari e dati tratti dall’indagine sulle forze di lavoro negli anni ’60) i censimenti premettono
analisi molto più dettagliate del territorio ma perdono la “freschezza” delle informazioni ravvicinate
in serie storica.
Il censimento del 1996 ci consente di tentare di interpretare il dinamismo della seconda metà
degli anni novanta dal punto di vista della qualità dello sviluppo prodotto e del suo rapporto con i
territori che sono stati trainanti dello sviluppo regionale.
Abbiamo provato a prendere sul serio le politiche attuate per il Mezzogiorno contestualmente e
successivamente all’abolizione dell’intervento straordinario effettuato nel 1992 (legge n. 488), e
alla messa in opera di politiche di programmazione negoziata finalizzate allo sviluppo locale di
territori liberamente aggregati per fare sviluppo (Patti territoriali per lo sviluppo, Patti territoriali per
l’occupazione di matrice europea) e di politiche non finalizzate a territori determinati e
(auto)definiti, ma che dai territori sono state utilizzate per finalità di sviluppo locale. Facciamo
riferimento alla circostanza che, in diversi territori che hanno fatto “patto”, il soggetto promotore, o
14
l’Agenzia di sviluppo costituita, sono spesso diventati il soggetto che indirizzava gli imprenditori
locali a entrare nel Patto o ad accedere agli strumenti di incentivazione individuale all’impresa
quale la 488, di fatto facendo diventare anche questa una legge che promuoveva lo sviluppo locale.
Anche sulla base di queste considerazioni abbiamo diviso il territorio regionale in un primo insieme
di territori che hanno creduto e lavorato alla dimensione locale dello sviluppo, o meglio abbiamo
messo assieme i territori di cui sulla base di alcuni indicatori qualitativi semplicissimi avevamo la
certezza che hanno creduto e tentato di operare per lo sviluppo locale e un secondo insieme in cui
abbiamo messo tutti gli altri: territori ad alta concertazione i primi (TAC), non TAC gli altri (che
probabilmente contengono territori di cui non abbiamo sufficienti informazioni e in cui invece la
concertazione e lo sviluppo locale c’è stato o si è tentato). (Per una analisi dettagliata del metodo
seguito e per una descrizione estesa dei risultati cfr. Tulumello 2008, pp. 103-133)
Mettendo insieme i territori definiti ad alta concertazione (TAC) – ossia aggregando i dati dei
comuni che hanno partecipato agli strumenti di sviluppo locale selezionati: quattro dei cinque Patti
territoriali di prima generazione, i tre Patti europei per l’occupazione, e i Patti che hanno conservato
l’aggregazione territoriale anche per gli strumenti di coordinamento territoriale costruiti per
l’utilizzazione di parte dei Fondi di Agenda 2000 (i PIT, Progetti integrati territoriali) – si è ottenuta
la divisione del territorio siciliano in due insiemi così costituiti:
Tabella 1
Indicatore
TAC
Superfice in Kmq.
Popolazione
Addetti alle unità locali
Altri
Sicilia
13.927,8
11.780,3
25.708,1
1.838.596
3.130.395
4.968.991
228.899
364.453
593.352
L’andamento del mercato del lavoro e l’altalena degli addetti a tutti i settori lavorativi e
all’industria in senso stretto sono rispondenti all’ipotesi. I territori ad alta concertazione sono
risultati quelli che hanno risposto meglio alla crisi dei primi anni ’90 e che hanno trainato lo
sviluppo della Sicilia, almeno sul terreno quantitativo della capacità di creare lavoro in generale e
ancor più nei settori direttamente produttivi.
Figura 12
Grafico 4.1 - Addetti ai censimenti per tutti i settori
(Indici 1991 = 100)
100
95
Italia
TAC
90
Altri
85
80
75
1991
1996
2001
Fonte: elaborazioni su dati Istat, Cens. dell’industria e dei servizi
15
Figura 13
Grafico 4.2 - Addetti ai censimenti nell'industria in senso
stretto (Indici 1991 = 100)
100
95
Italia
90
85
TAC
80
Sicilia
Altri
75
1991
1996
2001
Fonte: elaborazioni su dati Istat, Cens. dell’industria e dei servizi
Oltre alla possibilità di effettuare questa misura dovuta alla effettuazione del censimento
intermedio dell’industria del 1996, che ha consentito di dare corpo ai due insiemi di comuni TAC e
non TAC, un altro indicatore disponibile a livello comunale, e quindi aggregabile per i due insiemi
di comuni, è stato quello della 488. Anche su questa legge si è detto tutto e il contrario di tutto, ma
un confronto tra due indicatori che la riguardano può dare utili indicazioni. Il primo è la capacità di
assorbimento, di per sé è un indicatore ambiguo – si può chiedere di più alla legge di incentivazione
all’impresa per sprecare di più e per mal gestire di più –, ma che comunque dà una misura
dell’interesse a investire e a giocare sul mercato. Questa ambiguità sparisce se consideriamo
insieme un secondo indicatore, la quota di investimento proprio sull’investimento complessivo.
Insieme i due indicatori danno una misura non ambigua della propensione del territorio a fare
impresa e a produrre sviluppo.
L’insieme dei due indicatori dà nuovamente una risposta positiva alla questione posta: i
territori TAC hanno investito di più e con maggiore partecipazione del capitale privato, soprattutto
nei settori industriali. Si rammenti che la 488 ha finanziato anche imprese commerciali e turismo.
Nella tabella che segue l’indice di risultato rappresenta la quota degli investimenti attivati sul
territorio rapportato alla quota di occupazione territoriale (rispetto alla regione) e quindi dà una
misura della capacità del territorio di attirare e muovere investimenti.
La quota di investimenti privati dà la differenza tra contributi richiesti e investimenti ammessi
rapportato agli investimenti ammessi e rappresenta la fiducia riposta dagli imprenditori
nell’investimento e il rischio imprenditoriale direttamente sostenuto dall’investitore.
Tabella 2
Indicatori degli investimenti attivati con legge 488/92 per alcune aggregazioni di attività in Sicilia
Indice di risultato
Attività economica
A
T erritori ad alta
concertazione
B
Altri territori
della regione
Quota di investimenti "privati"
Differenze
A-B
A
T erritori ad alta
concertazione
B
Altri territori
della regione
Differenze
A-B
Totale
1,34
0,80
0,54
64,2
57,8
6,4
Ind. in senso stretto
1,43
0,72
0,70
63,0
51,6
11,4
Ind. s.s. senza petrolio più
alberghi e ristoranti
1,43
0,73
0,71
58,0
49,4
8,6
Fonte: elaborazioni su dati del Ministero dell’Economia (dati medi 1996-2004)
16
L’insieme dei risultati ottenuti, e la differenza a volte marcata, rispetto ai territori “altri, che le
aree della regione siciliana selezionate ed identificate come “territori ad alta concertazione”
presentano, ha una sua ragionevole ed evidente forza di persuasione. Da questi territori era
ragionevole aspettarsi un maggiore dinamismo e in qualche modo la responsabilità del “corso
positivo” dell’economia nella seconda metà degli anni ’90 e fino ai primissimi del 2000. Le analisi
hanno confermato questa aspettativa.
Ma se i territori identificati come Territori ad alta concertazione avessero alle spalle una storia
economica più solida strutturalmente e più dinamica e disponessero di capacità e risorse superiori
agli “altri”, la verifica empirica sarebbe vanificata dalla presenza di un insieme di cause più remote
che giustificavano sia la scelta dei territori che i risultati delle analisi.
Si è deciso allora di effettuare un confronto di questi due insiemi di comuni e territori per il
periodo antecedente le analisi effettuate sugli anni ’90.
Abbiamo fatto ricorso ai dati censuari, costruendo la serie storica dei dati riguardanti
l’occupazione dal 1951 al 1991, ed abbiamo applicato l’analisi shift share – una tecnica che
permette di distinguere, in una variabile che si evolve nel tempo, nel nostro caso nei movimenti
dell’occupazione, le componenti imputabili al territorio analizzato rispetto alle medesime
componenti di un più vasto territorio di riferimento – alle differenze intercensuarie relative. I
territori “altri” presentano, dal dopoguerra al 1991, una componente strutturale sempre positiva,
mentre i TAC presentano valori sempre negativi, ma anche la componente locale dell’andamento
dell’economia, con l’esclusione del decennio 1951-1961, è a vantaggio degli altri, e stupisce che i
TAC presentino una componente locale sempre negativa.
Il maggiore dinamismo dei territori ad alta concertazione dunque non sembra imputabile a una
storia passata e a una maggiore “dotazione” di risorse e di capacità di sviluppo pregressa, perché i
nostri “Territori ad alta concertazione”, sottoposti all’analisi delle componenti del dinamismo
economico nei decenni antecedenti quelli dell’analisi, non presentano caratteristiche che permettano
di imputare a vantaggi e a caratteri strutturali pregressi la capacità di dinamismo e di sviluppo
presente nella seconda metà degli anni ‘90.
Tabella 3
Analisi shift share. Confronti con la regione (variazioni assolute)
Componente
1951/1961
1961/1971
1971/1981
1981/1991
Territori ad alta concertazione
Regionale
Strutturale
Locale
Totale
38.365
-2.786
1.079
36.659
14.276
-318
-1.317
12.641
49.373
-1.083
-2.652
45.638
11.774
-1.136
-3.938
6.700
76.696
1.131
2.605
80.431
18.773
1.975
3.099
23.847
Altri
Regionale
Strutturale
Locale
Totale
57.806
2.534
-828
59.512
21.860
292
1.343
23.495
Fonte: elaborazioni su dati Istat
Sembra dunque esserci un nesso forte tra un insieme di politiche che hanno come cifra comune
la promozione dello sviluppo locale e il fenomeno di dinamismo economico e di crescita degli
indicatori economici nel Mezzogiorno; questo nesso è misurato dalla circostanza che i territori
identificabili come quelli che hanno maggiormente risposto alle politiche di incentivazione dello
17
sviluppo locale e che si sono attivati in proposito, i Territori ad alta concertazione, sono quelli che
presentano caratteri più dinamici e che hanno trainato il “ciclo positivo”.
Questi risultati valgono certamente per la Sicilia, ma il peso di questa regione sul complesso
del Mezzogiorno, e le altre argomentazioni già fatte, ci inducono ad estendere il risultato a tutta
l’area, secondo quanto avevamo posto a programma della ricerca. Nulla togliendo all’opportunità di
continuare la ricerca, estendendo l’analisi alle altre regioni.
Rimane ora da interrogarsi sulle ragioni dell’attenuarsi e poi del blocco di questo dinamismo.
Perché lo sviluppo locale recede dopo un periodo di crescita e dopo essere riuscito a recuperare
quattro punti del divario tra l’economia del Sud e quella del Centro Nord? L’interrogativo andrebbe
posto a monte della crisi del 2008, che arriva nel Mezzogiorno e in Sicilia ad aggravare il trend
negativo del decennio e il cessare del dinamismo dei secondi anni ‘90 a partire dal 2002/2003.
Non è tema di questa riflessione entrare nel merito del pesante processo di
deindustrializzazione in atto, causato dalla crisi certamente, ma aggravato dal blocco del dinamismo
economico e dalla incredibile rassegnazione e incapacità di azione dei governi regionali e dello
Stato di fronte allo stagnare dell’economia e alla incapacità di utilizzare le risorse per lo sviluppo.
A conclusione di queste considerazioni si deve però avviare la riflessione non solamente sul
risultato ottenuto dall’analisi: l’identificazione di due periodi di dinamismo economico e di
diminuzione del divario accompagnato a segnali di rafforzamento della capacità di produzione della
ricchezza – “sviluppo autonomo” –, ma si deve anche accennare ad una riflessione sulle ragioni del
bloccarsi del processo dinamico e di sviluppo autonomo, ragioni diverse ma che in entrambi i casi
rimandano alla politica e alle politiche, o meglio rimandano alle condizioni di contesto – che
storicamente cambiano e diversamente agiscono sui meccanismi economici e sociali – e alle diverse
azioni e reazioni dell’agire collettivo, attraverso la messa in atto o la mancanza di messa in atto di
politiche adeguate.
Conclusioni: la Sicilia dello sviluppo autonomo, passato e futuro
Partiamo nuovamente dal grafico dei tassi di variazione del valore aggiunto e affianchiamolo con il
grafico dell’occupazione nell’industria in Sicilia, che abbiamo usato per leggere gli anni ’50 e la
loro differenza rispetto agli anni ’60 (a conferma dell’analisi di Sylos Labini), ma estendendo i dati
fino al 2009. E teniamo anche presente il grafico del PIL pro capite di Daniele e Malanima.
Figura 14
8,0
Sicilia
7,0
Sud
6,0
Italia
5,0
Centronord
4,0
3,0
2,0
1,0
0,0
‐1,0
‐2,0
1961
1971
1981
1991
1996
2001
2008
18
Figura 15
Occupazione nell'industria in Sicilia
500
(in complesso e in senso stretto)
400
300
200
100
0
Cens‐Ind
Cens‐IndSS
ffll‐Ind
ffll‐IndSS
Gli anni ’50 e la seconda metà degli anni ’90 sono i due periodi in cui i dati ci consegnano per
il Mezzogiorno e per la Sicilia un aumento del PIL superiore a quello italiano e del Centro-Nord,
che produce diminuzione del divario, accompagnato da un dinamismo dell’occupazione
dell’industria e segnati da processi significativi di dinamismo e autonomia del sistema produttivo.
Diversamente da altri periodi, innanzitutto gli anni ’60 e i primissimi anni ’70, in cui l’aumento del
PIL e la diminuzione del divario non si accompagna a fenomeni e segnali di dinamismo autonomo
dell’economia, ma producono in modo esemplare “sviluppo senza autonomia”, secondo la fortunata
definizione di Trigilia.
Dunque, e questo è il risultato trovato andando alla ricerca del “Mezzogiorno dello sviluppo”, i
dati ci consegnano due periodi di dinamismo economico e di costruzione di “sviluppo autonomo”.
Il primo segna gli anni ’50 del Novecento. Sylos Labini, grande studioso della Sicilia del
periodo (Sylos Labini 1966), lo fa cessare per la Sicilia nel 1958 (Sylos Labini 1980). La nostra
analisi lo identifica con l’intero decennio e pone al suo termine, sempre per la Sicilia, l’ultimo
tentativo politico siciliano di dare forma politica alla autonomia anche economica e di
industrializzazione non subalterna, con il contraddittorio governo Milazzo. Certamente non è parte
costitutiva di questo periodo la rimanente porzione degli anni di crescita e di diminuzione del
divario, che si protrae fino al 1973 e che è esemplare dello “sviluppo senza autonomia”.
Il secondo periodo di “sviluppo autonomo” fa riferimento al settennio 1996-2002/2003 di cui ci
racconta la Svimez e che abbiamo ricostruito come segnato dallo sviluppo locale, inserito nei
convulsi anni ’90, e preparato dagli anni di forte crisi e di crollo degli indicatori economici,
contestuali all’avvio di un insieme di provvedimenti di risanamento e di riforme, che si protrae fino
allo scorcio degli ultimi anni del decennio.
Riassuntivamente ciò che l’analisi ci consegna è che
- esistono un Mezzogiorno e una Sicilia dello sviluppo “autonomo”,
- che si sono espressi almeno due volte, in condizioni storiche e in contesti economici
diversi,
- che vanno letti fuori dallo stereotipo degli schemi di un Mezzogiorno subalterno e
immobile,
- che richiedono l’apertura di una riflessione sulle ragioni del blocco del processo di sviluppo
e di dinamismo, le due volte e nei due diversi contesti.
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Sarebbe necessario ripartire da capo, facendo tesoro del risultato dell’analisi dei dati e
dell’identificazione dello “sviluppo autonomo” – c’è stato, e quindi è “possibile” (Hirschman) –, e
riprendendo le analisi che accompagnano la questione meridionale e che discutono di politiche per
lo sviluppo e del ruolo dei ceti dirigenti.
Le due grandi tradizioni di riflessione sull’arretratezza del Mezzogiorno e sulla questione
meridionale si differenziano per il peso preponderante attribuito alle une o agli altri: Nitti e il
problema delle risorse e delle politiche basate sui trasferimenti di risorse, e Salvemini e la
preponderanza della questione politica dei ceti dirigenti meridionali subalterni.
Ma bisognerebbe ragionare accompagnando l’analisi con il registro dei “dati” – i dati delle
diverse fasi e alternanti caratteri della vicenda economica del Mezzogiorno e delle sue regioni –,
ragionando così su tre paralleli registri: i dati, le politiche, gli attori/i ceti dirigenti.
Nel ragionamento andrebbe considerato con estrema attenzione una questione di fondo, a volte
dimenticata o sottovalutata: il Mezzogiorno è parte di un paese che nei sessanta anni che stiamo
analizzando ha una storia economica impetuosa e il Mezzogiorno ha giocato in questa storia un
ruolo importante, sia nello sviluppo, prima – dal dopoguerra della ricostruzione al miracolo
economico contestuale all’ingresso in Europa, e fino a tutti gli anni ’60 – , sia poi nello ristagno –
nei convulsi anni ’70 e nei disastrosi anni ’80 della crescita del debito pubblico – in cui il
Mezzogiorno ha giocato un ruolo a volte decisivo, negli equilibri politici complessivi. Se infatti la
questione meridionale è stata – ed è – una questione decisiva per lo sviluppo economico del Paese,
altrettanto decisiva essa è stata per la vicenda politica e per gli equilibri, e disequilibri, nazionali. Il
Mezzogiorno in generale e regioni quali la Sicilia e la Campania, a ragione del loro peso elettorale,
sono stati feudi elettorali particolarmente importanti e a volte determinanti: si pensi alle elezioni del
2001, quando la vittoria del centrodestra in tutti i collegi del maggioritario della Sicilia fu decisiva
per il prevalere dello schieramento a livello nazionale.
Il Mezzogiorno come feudo elettorale sembra in certi momenti storici avere avuto il
sopravvento e spento le ragioni delle politiche per lo sviluppo e del dinamismo economico.
Su questo terreno sono evidenti le ragioni di Salvemini contro gli argomenti di Nitti e oggi
bisognerebbe ricorrere a strumenti più raffinati per analizzare le ragioni dell’arretratezza e della
subalternità persistente, così come le ragioni del blocco dei fermenti di dinamismo e di sviluppo,
ricorrendo a strumenti offerti dai recenti studi post-coloniali e subalterni. Penso agli studi indiani di
Guha e Spivack (1988), penso anche ai temi di riflessione sul “colonialismo interno” ripresi di
recente da studiosi occidentali (Petrusewicz, Schneider e Schneider 2009).
A chiusura di queste riflessioni si possono solamente indicare le due costellazioni che hanno
accompagnato e costituito il contesto rispetto ai due momenti di sviluppo autonomo identificati,
così suggerendo come il venire meno di alcuni o tutti quegli elementi – insieme al sopraggiungere
di nuovi che con quegli elementi di sviluppo erano poco compatibili – abbia determinato, o favorito
e accelerato la scomparsa del dinamismo e il blocco del processo di sviluppo ed emancipazione,
dando luogo alla ripresa della costruzione sociale della subalternità e dell’arretratezza.
La costellazione degli anni ’50 è segnata dal clima di fuoriuscita dal disastro della seconda
guerra mondiale, dalla ricostruzione, dagli aiuti internazionali alla ricostruzione e allo sviluppo (per
il Mezzogiorno il ruolo della Banca Mondiale e l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno per la
gestione dei prestiti della Banca Mondiale), in presenza di ceti dirigenti nazionali eccezionalmente
colti, lucidi e lungimiranti, in gran parte di origine meridionale (cfr. D’Antone 1995 e 1997), e con
ceti dirigenti meridionali, economici e politici, capaci di progetto e di autonomia, e certamente non
subalterni. Il Sicilia il ruolo di Sicindustria e di Domenico La Cavera, da un lato, e di segmenti sia
della Democrazia Cristiana che del Partito comunista, dall’altro, hanno un peso e un significato
importante. Tutto poi naufraga, alla fine del decennio, nell’ultimo tentativo di autonomia
convulsamente espressosi nel governo Milazzo. Ma nel 1957 l’Italia aveva firmato il Trattato di
Roma, e lo sviluppo del Mezzogiorno diventava certamente meno urgente della necessità di
rafforzare l’impresa esistente, collocata nel triangolo industriale. Il corretto e necessario disegno
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economico conseguente, se mutava il contesto e obbligava a scelte coerenti e conseguenti, avrebbe
potuto ridefinire il ruolo dello sviluppo del Mezzogiorno in modi diversi. E’ prevalso quello meno
favorevole allo sviluppo e all’autonomia economica, che assegnava al Mezzogiorno il ruolo di
feudo elettorale, di riserva per la stabilità politica del paese. Modello che porterà al declino e alla
crisi della fine degli anni ’80 non solo del Mezzogiorno, ma del paese intero. La nascita della
questione settentrionale, come riflesso acritico della irrisolta questione meridionale, è la cifra
decisiva della crisi della fine degli anni ’80.
La costellazione degli anni ’90 è figlia di quella crisi, ma segnala un paese capace di reagire e
di provvedere al risanamento necessario all’ingresso nell’Europa di Maastricht e all’avvio del
processo di creazione della moneta unica. In questo quadro, l’abolizione dell’intervento
straordinario porta alla nascita di nuove ed innovative politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno:
legge 488 di incentivazione individuale alle imprese, avvio della programmazione negoziata,
riforme per adeguare il sistema amministrativo e di controllo alle regole europee, e riforme
nazionali coerenti con il disegno di ripresa economica: riforme della pubblica amministrazione,
avvio della riforma del governo del mercato del lavoro, e dal 1996-97 utilizzazione dei Fondi
europei e messa a sistema delle politiche di sviluppo e per il Mezzogiorno con la costituzione del
Dipartimento per le politiche di sviluppo. La cifra dello sviluppo locale è inserita in un progetto
lucido di crescita equilibrata del paese. I documenti del DPS degli anni 1997-1999 sono esemplari
(cfr. per tutti Barca 1998 e il Rapporto del Comitato per i fondi comunitari, Orientamenti 1999) e
sono testimoni di questo disegno, che purtroppo avrà vita molto breve, perché sarà messo in crisi
quando ancora si stavano raccogliendo le fila di un decennio di riforme e quando cominciava a
manifestarsi il frutto.
Le due vicende sono accomunate dalla presenza di ceti dirigenti nazionali – spesso, ma non
sempre, di origine meridionale – che pensano al Sud come elemento fondamentale dello sviluppo
economico del paese intero, e da una sponda importante in ceti dirigenti, economici e politici, del
Mezzogiorno che condividono il disegno: al ruolo di Sicindustria e di una parte del ceto politico
regionale negli anni ’50, corrisponde negli anni ’90 la generazione dei “nuovi sindaci” figli della
riforma dei primi anni ’90 e attori, o meglio co-attori – non tutti, ma tanti – dello sviluppo locale.
L’approfondimento delle ragioni del blocco del processo di dinamismo e di “sviluppo
autonomo” è fondamentale per comprendere da dove ripartire per riavviare il Mezzogiorno e la
Sicilia dello sviluppo, per comprendere come bloccare la prevalenza delle dinamiche della
subalternità e dell’arretratezza, che nel corso del decennio che abbiamo alle spalle si sono rafforzate
e sembrano essersi ulteriormente indurite e quasi incancrenite con la crisi, cioè proprio nel
momento in cui sarebbe necessario operare per lo sviluppo e per il contrasto alla
deindustrializzazione in atto. Solo una osservazione nel merito si può fare in chiusura.
Lo sviluppo della seconda metà degli anni ’90 nel Mezzogiorno ha avuto come protagonisti i
ceti dirigenti nazionali che hanno risanato le finanze pubbliche e consentito l’ingresso nell’Europa
di Maastricht e poi ancora ceti nazionali che hanno avviato l’utilizzo dei fondi europei (Ciampi e il
DPS dal 1996), e in periferia gli attori territoriali locali e i “nuovi sindaci”. Le Regioni fino alla fine
del decennio sono estranee al processo, e solo nel 1999 si accorgono dei Fondi europei e iniziano a
diventare, anche a ragione dei nuovi regolamenti del 1999 sui Fondi strutturali europei di Agenda
2000, centrali e determinanti nelle politiche di sviluppo. E sarà il disastro.
E’ stato un disastro la spesa dei Fondi di Agenda 2000: la Svimez certifica che oltre il 40% di
quei fondi sono stati dirottati sui cosiddetti “progetti di sponda”, e dunque non hanno rispettato il
programma. E parte del disastro è rimasto nascosto, perché è passato sotto silenzio la circostanza
che parte del Fondo sociale europeo non è stato certificato e quindi non è stato pagato alla regione,
cioè è stato semplicemente perso.
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Ma ciò che sta avvenendo con i Fondi 2007-2013 ha dell’incredibile. In Sicilia si è speso del
Fondo più importante (il PO FESR che dispone di oltre 6 miliardi di Euro) quasi nulla a quasi due
terzi del tempo del programma: al 31.12.2010, ultimo dato ufficiale, si è speso meno del 7%, in
termini contabili, nella verità solo il 3%, perché il resto è assegnato a programmi complessi, che
consentono l’utilizzo entro il 2015, ma che dal punto di vista della certificazione è come se fossero
stati già spesi, ma che a tutt’oggi non sono stati impiegati. E anche le altre Regioni dell’obiettivo
Convergenza non sono state e non sono molto più virtuose nell’utilizzo delle risorse.
L’unico interesse delle regioni sembrano i tentativi di utilizzare le risorse per gli ordinari
problemi di bilancio e per pagare assurde politiche assistenziali. In Sicilia il capitolo più
impressionante riguarda la Formazione professionale e l’uso del Fondo sociale europeo.
Il discorso sarebbe lungo e difficile. E andrà condotto quanto prima. Qui si può chiudere questa
riflessione finale con una battuta – o forse, meglio, con una proposta.
Invece o accanto all’abolizione delle province, di cui si discute e su cui la (cattiva) politica si
contorce, perché non aboliamo le Regioni? Riusciremmo non solo a risparmiare molto di più, ma
anche a togliere forse il maggiore ostacolo allo “sviluppo autonomo”. Certamente nel Mezzogiorno,
ma forse anche nel Nord della Lega. E ciò non condurrebbe a rinforzare il centralismo e a
distruggere il federalismo, tutt’altro. Oggi, infatti, le Regioni sono più centraliste dello Stato, ed
esercitano un centralismo più occhiuto e pervasivo nei confronti dei territori, proprio perché più
vicine dell’amministrazione statale. Le Regioni sono certamente elemento decisivo
dell’impedimento dei Comuni e degli attori economici e civili a crescere e a esprimere le
potenzialità dei territori.
Il principio della libera associazione dei Comuni, che dovrebbe e potrebbe sostituire le
Provincie, potrebbe essere adottato anche per le aggregazioni necessarie a livello più largo (il
coordinamento delle politiche locali è fondamentale) anche per le Regioni.
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