Il mezzogiorno nel sistema politico italiano SISP – Palermo, settembre 2011 Roberto Foderà e Alberto Tulumello Gli anni dello “sviluppo autonomo”del Mezzogiorno e della Sicilia B O Z Z A (Da rivedere) A sessant’anni dalla nascita della Repubblica italiana il problema del Mezzogiorno rappresenta, ancora, una questione irrisolta, e il divario rispetto al Centro-nord è rimasto pressoché immutato, nonostante quarant’anni di intervento straordinario e vent’anni di politiche europee e di sviluppo locale. Da vent’anni si è anche e parallelamente affacciata la “questione settentrionale” e la crescente insofferenza nei confronti della irrisolta questione meridionale. Questo quadro è stato più volte affrontato scendendo nella dimensione spaziale dell’analisi e considerando i molti e diversi mezzogiorni, a partire dal libro di Trigilia del 1992, Sviluppo senza autonomia, e più di recente in dipendenza del ruolo sempre più importante delle Regioni nella programmazione delle politiche per lo sviluppo e nella gestione dei fondi relativi, italiani (Fondi per le Aree Sottoutilizzate) ed europei (Fondi strutturali a regia regionale). La nascita e la crescita della tendenza al decentramento, prima, a partire dagli anni ’70, e al cosiddetto federalismo e alla devolution, dopo, ha accentuato questa attenzione al ritaglio territoriale e ai tanti e diversi mezzogiorno. Questo processo di attenzione alla dimensione spaziale e alla pluralità delle realtà territoriali che compongono il Mezzogiorno non ha quasi mai distinto tra la dimensione “regionale” e la dimensione “locale”. La prima nasce con l’attuazione del dettato costituzionale delle regioni ordinarie nel 1970, anche se si appoggiava sulla preesistente esistenza delle regioni a statuto speciale, due su otto nel Mezzogiorno. Le regioni acquistano peso nel corso degli anni ’80, investono l’ultima fase delle politiche dell’intervento straordinario (cfr. la l. n. 64 del 1986, l’ultima che tratti la “disciplina organica dell’intervento straordinario per lo sviluppo del Mezzogiorno”), ma sono estranee alla prima fase delle nuove politiche di sviluppo e coesione europee degli anni ’90. Solo alla fine del decennio, sia per la scossa che il Dipartimento delle politiche di sviluppo (DPS) di Ciampi e Barca, sia a causa dei nuovi regolamenti europei del 1999 sui fondi di Agenda 2000 relativi al 2000-2006, acquisteranno un peso (purtroppo) decisivo nel processo di utilizzazione dei Fondi strutturali europei, nel frattempo diventati le risorse più rilevanti per le politiche di sviluppo. La dimensione locale è quella specifica dello sviluppo locale e della programmazione negoziata. Nel corso degli anni ’90 questa dimensione sta al centro delle riforme e delle politiche di sviluppo, a partire dalle riforme amministrative degli enti locali (l. n. 142 e n. 241 del 1990) e delle riforme di elezione di Sindaci e Presidenti di provincia, con il virtuoso attivismo dei “nuovi Sindaci” che ha segnato gli anni ’90. Convinti dell’importanza di questo genere di analisi e della rilevanza di una attenzione ai territori e alle realtà locali più dinamiche e potenzialmente trainanti rispetto a percorsi di sviluppo, anzi per potere approfondire questo genere di analisi, che è stata da diverse parti condotta e che ha sicuramente rotto lo stereotipo del Mezzogiorno come realtà uniformemente arretrata – una “grande disgregazione sociale” la chiamava Gramsci –, ed anche per potere trarre frutto dalla distinzione tra dimensione regionale e dimensione locale, crediamo che si debba porre l’attenzione ad una dimensione trascurata, che è quella del tempo e delle diverse fasi, anche contrapposte, del processo di complessiva persistenza del divario e del ritardo economico del Mezzogiorno, ed in specifico 1 della sua economia, ancora “senza autonomia”, anche se e quando tiene il passo con la complessiva crescita del reddito e dei consumi e dei livelli di vita del paese. Di fatto le due cose, l’attenzione alla dimensione territoriale e la distinzione tra dimensione regionale e locale, da una parte, e l’attenzione alle “fasi” e ai tempi, dall’altra, sono connesse, perché mirano a costruire un contesto di riferimento ragionevole e legato alle cose e ai processi, ed anche per condurre una analisi che non dipenda eccessivamente dalle difficoltà derivanti dalla scarsità di dati, soprattutto a livello locale, e dal rischio di restare ciechi rispetto ai mutamenti e all’avvio di processi di sviluppo, che possono venire neutralizzati da processi successivi di segno opposto. Il riferimento è a due insiemi di difficoltà che corrono il rischio di inficiare le analisi dello sviluppo di aree arretrate proprie di un paese sviluppato quale è l’Italia, e che possono essere facilmente identificate riflettendo su due aspetti della questione. La prima difficoltà è la ovvia progressivamente minore disponibilità dei dati statistici quando si passa dalla dimensione nazionale (statale: la statistica nasce come scienza dello Stato destinata a fornire i numeri necessari al governo nazionale) a quella regionale (le regioni a statuto speciale, ossia cinque, di cui due nel Mezzogiorno, nascono con la Repubblica, mentre quelle a statuto ordinario si definiscono nel 1970) e poi a livello provinciale. Oggi comunque disponiamo a livello regionale di dati ragionevolmente completi e affidabili, sia sul PIL che sul mercato del lavoro e sulle sue articolazioni settoriali, mentre a livello provinciale i dati, sia del mercato del lavoro che del PIL, risultano ancora appena affidabili, più i rimi e meno i secondi. I dati a livello territoriale, quelli propri dello sviluppo locale, in genere riferiti a territori sub provinciali, definiti dalla somma di un insieme di comuni, sono pochi (perché pochi sono i dati disponibili a livello comunale, tranne per le grandi città, che fanno storia a sé) e radi (solo i censimenti, che si celebrano ogni dieci anni, forniscono dati accurati a livello demografico ed economico a livello comunale, e quindi a livello delle aggregazione di comuni costituenti l’area dello sviluppo locale). Solo da poco tempo si cominciano ad effettuare stime sull’occupazione e la disoccupazione su aree locali, ma non disponiamo ancora di serie storiche che possano consentire le analisi dello sviluppo locale (Foderà 2011). Questa prima difficoltà si riflette pesantemente sulla seconda, quella legata al tempo e alla difficoltà di cogliere le “fasi” e i tempi dello sviluppo. Per intendere la gravità del problema possiamo fare riferimento ad una circostanza singolare che ci ha consentito di identificare uno dei punti centrali dell’analisi che condurremo, e cioè la fortunata circostanza della celebrazione di un censimento straordinario dell’industria nel 1996, che ci ha permesso di entrare dentro la vicenda degli anni ’90, con una precisione che solo i dati censuari consentono a livello territoriale locale. Partiamo nella nostra analisi proprio da questa circostanza, o meglio dal peso che questa circostanza ha nell’analisi temporale della vicenda dell’andamento dell’economia del Mezzogiorno e della Sicilia nel sessantennio di cui ci occupiamo. Il punto è che solamente affrontando tali questioni è possibile sfuggire alla facile deriva della denuncia generica di una questione meridionale irrisolta e sostanzialmente irrisolvibile e sottrarsi alla retorica dell’irredimibilità del Mezzogiorno che è sempre stata alla base della “costruzione del sottosviluppo” e concausa della persistenza della questione meridionale. Per queste ragioni riteniamo importante testimoniare e ricostruire il Mezzogiorno e la Sicilia “dello sviluppo”, ossia certificare che la persistenza sessantennale della questione è attraversata da fasi alterne e contrapposte, e che la complessiva prevalenza del sottosviluppo è stata accompagnata da “fasi” e da processi di sviluppo autonomo, che è importante identificare e “misurare”, proprio per neutralizzare la retorica dell’irredimibilità e la cattiva scienza sociale dell’incapacità subalterna di leggere i momenti e i processi di autonomia. Prendiamo le mosse dall’analisi dell’andamento del divario del PIL tra Sud e Centronord. Uno studio di Daniele e Malanima pubblicato nel 2007 ripercorre la storia del divario tra le regioni del Mezzogiorno e quelle del resto dell’Italia sin dall’unificazione. Il cammino e il ragionamento dei due 2 economisti è sintetizzato in un grafico in cui il PIL pro capite, indicatore del divario economico, viene seguito per dal 1860, anno in cui sembra esserci una quasi perfetta parità tra le circoscrizioni, e il 2004, ultimo anno disponibile al momento della pubblicazione. Dal grafico riportato è facile vedere come l’analisi ci consegna un divario finale molto vicino a quello di sessantacinque anni prima ma che la storia più recente mostra un andamento più articolato rispetto alla ininterrotta flessione precedente; l’indicatore di dislivello presenta oscillazioni di quasi venti punti, con un minimo (un massimo divario) sotto il 50% nel 1950 e con un massimo (un minimo divario) che si avvicina al 70% nei primi anni del 1970. Figura 1 E certamente tale oscillazione diventa evidente, spostando lo zoom sul periodo più recente. Ma non si è molto ragionato sul significato delle due lunghe e contrapposte fasi in esso contenute, non bastando il giudizio sull’intervento straordinario, che parte virtuoso e poi progressivamente si corrompe, diventando sempre meno efficace ed efficiente, fino a diventare controproducente ai fini dello sviluppo: il paradosso dello sviluppo minore associato ad una spesa maggiore (Trigilia 1992). Figura 2 Pil procapite del Sud (pil pc. Centro-Nord =100) 0,70 0,65 0,60 0,55 0,50 2004 2001 1998 1995 1992 1989 1986 1983 1980 1977 1974 1971 1968 1965 1962 1959 1956 1953 1950 0,45 Fonte: elaborazione su dati Daniele, Malanima, 2007 3 La prima questione da affrontare è entrare nel merito del periodo di crescita del PIL superiore a quella nazionale e del conseguente minor divario. Sono questi primi due decenni del dopoguerra anni di sviluppo autonomo? Vedremo che così non è: c’è una grande differenza tra gli anni ’50, in cui assieme al PIL cresce – nel Mezzogiorno e in specifico in Sicilia – una economica dinamica e un rafforzamento del settore secondario, e gli anni ’60 in cui questo dinamismo si ferma, nonostante il PIL continui a crescere e il divario continui ad attenuarsi. Ma il pericolo di non leggere le vicende complesse degli anni ’90, che presentano dati simili ad inizio e a fine del decennio (o alle date dei due censimenti), ma contenendo all’interno una fase di pesante aumento del divario seguita da una fase di recupero, a cui corrispondono fenomeni economici di dinamismo e di sviluppo molto interessanti, certamente esiste, se non si riesce ad avere chiavi interpretative forti, o se si estende alla lettura dei processi di sviluppo l’approccio congiunturale, che guarda sempre al presente e alla sua proiezione all’indietro per i cinque/sei/dieci anni precedenti, in dipendenza di criteri e valutazioni legati alla disponibilità di dati e di serie storiche omogenee. In specifico, sia la opportunità di leggere i dati secondo la successione dei decenni determinata dalla disponibilità dei dati censuari che permettono approfondimenti altrimenti impossibili, sia la recente vicenda dei due ultimi decenni, segnati dalla crisi di fine anni ’80 (caduta del muro di Berlino, Tangentopoli e abolizione dell’intervento straordinario), con le reazioni riformiste in Europa e in Italia, e poi dall’inizio del decennio successivo, segnato dall’attentato alle Torri gemelle e della fine della spinta riformista, sia in Europa che in Italia, possono giocare brutti scherzi e incapacità di lettura molto gravi. La nostra analisi partirà da una ricostruzione del rapporto tra i tassi di crescita del PIL di Sicilia e del Mezzogiorno, rappresentati nella figura 3 con le barre verticali, e i corrispondenti tassi per l’Italia ed il Centro-Nord, rappresentati dalle linee continue. Sull’asse delle ordinate viene riportato la variazione media annua del PIL del decennio. L’ultimo periodo, 2001-2008, è stato elaborato da noi utilizzando le nuove serie di contabilità disponibili dall’Istat. Figura 3 8,0 Prodotto Interno Lordo (var. medie annue %) 7,0 Sicilia Sud 6,0 Italia 5,0 Centronord 4,0 3,0 2,0 1,0 0,0 ‐1,0 1961 1971 1981 1991 2001 2008 Fonte: elaborazioni su dati Daniele Malanima e Istat 4 Il grafico mostra – attraverso la differenza tra la posizione delle barre, che misurano il tasso di crescita del PIL della Sicilia e del Mezzogiorno, e la posizione delle linee, che segnano il tasso di crescita dell’Italia e del Centro Nord – la diminuzione del divario nei primi due decenni (fino al 1973, attesta l’analisi di Daniele e Malanima) e poi l’inversione del trend e una sostanziale e costante inferiorità del Sud, con corrispondente aumento del divario nei decenni successivi. Il dato del 2008 (media 2001-2008) in cui la crescita si annulla, segna il decennio di declino e crisi, aggravatosi dopo il 2008 a causa della crisi finanziaria ancora attiva e persistente, e che richiederebbe altro tipo di analisi. Utilizzeremo questo schema di analisi in collegamento con i dati censuari, fino al 2001, avendo sempre presente anche il Grafico di Daniele e Malanima sulla consistenza complessiva del divario e il suo andamento annuale nel tempo. Ma osserviamo da subito, e a chiusura di questa lunga premessa metodologica, come il grafico si presenta se introduciamo il 1996, segnando per il decennio 1991-2001 le medie relative ai due quinquenni, e mettiamo in serie storica il diverso andamento della prima metà e della seconda metà degli anni ’90. Emerge allora in modo significativo quanto si poteva osservare nel grafico di Daniele e Malanima. Figura 4 8,0 Prodotto Interno Lordo (var. medie annue %) 7,0 Sicilia 6,0 Sud 5,0 Italia 4,0 Centronord 3,0 2,0 1,0 0,0 ‐1,0 ‐2,0 1961 1971 1981 1991 1996 2001 2008 Fonte: elaborazioni su dati Daniele Malanima e Istat Se per i decenni dal 1951 al 1991 la media delle variazioni medie annuali per decenni ci danno uno “sguardo d’insieme” che ci aiuta a capire i fenomeni, la stessa media per il 1991-2001 nasconde fenomeni rilevanti e significativi, ed occulta un periodo di crescita del Mezzogiorno e della Sicilia che sembra avere i caratteri dei fenomeni degli anni ’50. Per ora basta osservare che emerge con chiarezza un quinquennio in cui il tasso di crescita medio del Mezzogiorno e della Sicilia è superiore sia a quello nazionale che a quello del Centro Nord, a segnare un terzo periodo con questa caratteristica, e di cui si tratta di intendere i caratteri, come per i primi due relativi agli anni ’50 e ’60. Questo periodo è quello attestato intorno al 2004 (Svimez 2004 e Svimez 2005) e poi dimenticato e assorbito in una media del decennio simile a quelle dei decenni precedenti e a quella del decennio appena chiuso, in una deriva del Mezzogiorno arretrato e irredimibile, con una nuova retorica sull’inutilità e inefficacia delle politiche di sviluppo locale. 5 Dunque c’è una storia, rilevante e significativa di tale divario, che va ricostruita non solo quantitativamente – già fatto con grande attenzione e precisione da Daniele e Malanima – ma anche qualitativamente, ossia leggendola in rapporto con le politiche e con l’andamento dell’economia nazionale, e valutando il rapporto con l’ “autonomia” economica del Mezzogiorno e con i processi che misurano tale “autonomia”. Come vedremo, esistono periodi – fasi – in cui il divario diminuisce ed aumenta l’“autonomia”, ma anche periodi in cui il divario diminuisce mentre l’“autonomia” non aumenta, ed esiste anche un periodo in cui il divario aumenta ma produce, e soprattutto prepara, un avvio di processo autonomo. Platone per descrivere il metodo con cui vanno trattate le idee – ed i numeri sono simili alle idee, e come queste hanno una forma, anzi sono la forma – ricorre all’arte dello scalco, il macellaio capace di tagliare le parti dell’animale seguendo le giunture e le nervature, senza lacerare le carni e senza distruggere lo strumento dell’“analisi” e il metodo con cui va condotta l’analisi delle idee. […] non sarebbe affatto privo di ricompensa cogliere scientificamente il significato di due procedimenti […] Uno: abbracciare in uno sguardo d’insieme e ricondurre ad un’unica forma ciò che è molteplice e disseminato […] L’altro procedimento […] consiste nella capacità di smembrare l’oggetto in specie, seguendo le nervature naturali, guardandosi dal lacerarne alcuna parte come potrebbe farne un cattivo macellaio (Platone, Cratilo, 265 d-e, trad. di L. Minio-Paluello) Anche i tempi del cambiamento e/o della persistenza sono, come le idee, bisognose di buoni scalchi, capaci di “seguire le nervature naturali” per essere intese. Questa storia più recente, ossia quella degli ultimi venti anni, si intreccia con la questione settentrionale, che da questo punto di vista è semplicemente l’altra faccia dello “sviluppo senza autonomia” del Sud, ossia della crescita di reddito e consumi senza il corrispondente aumento della capacità di produzione della ricchezza. Questa storia richiede l’assunzione di un punto di vista che dovrebbe essere ovvio, ma che da tempo non riesce ad esprimersi e a consentire di leggere i fenomeni che ci interessano, addirittura puntando a “abolire il Mezzogiorno” (non era questo il senso del libro di Gianfranco Viesti del 2003, di cui qui semplicemente usiamo il titolo e il senso in cui il titolo è stato frainteso dagli insofferenti per la persistente questione meridionale), quasi che abolire la vista e il punto di vista possa fare sparire l’oggetto. La presente riflessione vuole iniziare questa analisi “qualitativa” dei tempi diversi dello sviluppo, identificando due periodi in cui la diminuzione del divario sembra avere avuto caratteri di avvio di processi di sviluppo autonomo, nel Mezzogiorno e in Sicilia in specifico. Gli anni ’50 e gli anni ’90 sembrano presentare tali caratteri e avere dato avvio a processi di sviluppo che si sono poi interrotti, per ragioni diverse e di difficile identificazione, ma che di cui si riescono a intravedere alcuni elementi causali. Questo tipo di analisi è a nostro avviso importante perché può consentire di ricostruire un punto di vista che identifichi il significato “nazionale” della persistente questione meridionale, così come della più recente e diversa questione settentrionale, che da pochissimi anni comincia ad essere oggetto di analisi scientifica (cfr. Perulli e Pichierri 2010), oltre che strumento della cattiva politica e della retorica leghista, con vicende che non sono diverse da quelle che hanno accompagnato nel tempo la questione meridionale. Nella convinzione che il paese non ha più la forza di sopportare il peso, il costo economico e gli alibi per la (cattiva) politica che derivano dalla persistenza della questione meridionale e dalla correlativa crescita della questione settentrionale. Si vuole dunque avviare una riflessione sul Mezzogiorno e sulla Sicilia dello “sviluppo autonomo”, a tutt’oggi perdente, ma che ha dato prova di esistenza e che quindi può diventare anche 6 vincente in un futuro prossimo, che è possibile e che riteniamo necessario costruire, a partire da quella lezione e da quell’esperienza. Il punto di partenza dell’analisi è l’andamento del divario tra 1950 ed oggi. Proveremo a leggerlo con “metodo platonico”, ossia rispettando il dato numerico, ma provando a identificare “le giunture” dei tempi e i punti di cambiamento dei processi che segnalano quelle giunture e quei luoghi in cui il dato/l’andamento può anche non mutare, ma cambiare di significato, perché cambia radicalmente il contesto che gli dà significato. L’andamento del divario presenta tre periodi che corrispondono con buona approssimazione ai tre ventenni che lo costituiscono. Il primo ventennio va dal 1950 al 1973, quando il lungo periodo di recupero di quasi 20 punti del divario si interrompe e riprende la deriva dell’aumento. Questo dura fino al 1996, ma per l’analisi noi fermiamo il secondo ventennio al 1990/1991, perché il mondo, l’Europa e l’Italia tra il 1989 (caduta del muro di Berlino) e il 1992 (Maastricht e in Italia turbolenze politiche che conducono all’abolizione dell’intervento straordinario) cambiano radicalmente e la persistente dinamica dell’aumento del divario, in un contesto di crisi e di drastica diminuzione delle risposte per il Mezzogiorno, cambia carattere e va analizzato nel contesto temporale degli anni ’90 e del decennio successivo. Così il secondo ventennio va dal 1973 al 1991 ed è segnato da una ripresa dell’aumento del divario, sostanzialmente continua per tutto il periodo. Giungiamo così al terzo, variegato e turbolento ventennio, dal 1990/91 ad oggi, segnato da un andamento policromo di crisi, ripresa e blocco della ripresa dal 2002/2003 con il ritorno all’aumento del divario, che dura fino ad oggi. Figura 5 7,4 Var. medie % del pil del Sud (linea) e indice di divergenza rispetto al Nord-Centro (barre con scala a destra) 0,80 0,75 5,7 0,70 3,1 0,65 2,6 2,2 0,60 0,55 ‐0,1 1951/61 1961/71 1971/81 1981/91 91/96 ‐0,4 0,50 96/01 01/08 Fonte: elaborazioni su dati Daniele Malanima e Istat Il primo ventennio: gli anni ’50 e ‘60 Per guardare dentro questo periodo di lunga diminuzione del divario – circa venti punti – partiamo da una riflessione che Sylos Labini, il più attento studioso dell’economia siciliana degli anni ’50, conduce nel 1980 ad un convegno sul milazzismo, tornando a riflettere sulla Sicilia che aveva studiato (Sylos Labini 1966, forse la più approfondita ricerca empirica sull’economia siciliana mai fatta; il volume è di 1500 pagine) collegando ai dati originali della ricerca dati più recenti e 7 identificando un grande dinamismo dell’economia siciliana degli anni ‘50, che a suo avviso dura fino al 1958, seguito da un “ristagno”, che permane fino agli ultimi dati a lui disponibili relativi al 1977. Ricordiamo che la letteratura sul Mezzogiorno del dopoguerra e sul lungo periodo dell’intervento straordinario che copre i primi due ventenni del nostro schema analitico, è concorde nel distinguere il primo dal secondo ventennio, a cui corrisponde per altro la diminuzione del divario per il primo e l’aumento per il secondo. Il più convincente autore di questo schema (Trigilia 1992) non soltanto legge il periodo complessivo 1950-1990 come segnato dallo “sviluppo senza autonomia” e dalla differenza tra i due periodi detti, ma riesce anche a quantificare la cattura da parte della (cattiva) politica del processo di investimento di risorse per lo sviluppo, certificando l’aumento del voto di governo del Mezzogiorno nel secondo ventennio, quello che porterà alla crisi della fine degli anni ’80. Così Trigilia distingue i primi venti anni di questa storia dai secondi venti. A noi sembra di dovere correggere il tiro rispetto al primo periodo, distinguendo dentro i primi vent’anni il primo decennio dal secondo e tirando fuori dallo schema complessivo del giudizio di sviluppo senza autonomia il primo decennio. Per Sylos Labini questo periodo arriva al 1958 e corrisponde in Sicilia agli anni ’50 di La Cavera e della sua Sicindustria (cfr. La Cavera 1959, 1961 e 1994 e Tulumello 1995) e delle battaglie per la legge sull’industrializzazione del 1957 (cfr. Tulumello 2000). Il quadro complessivo del libro di Trigilia del 1992 resta valido per i quarant’anni analizzati, e per una valutazione complessiva dello “sviluppo” dell’economia meridionale (e siciliana), ma l’inizio, l’avvio legato al primo processo “nazionale” di ricostruzione e sviluppo all’uscita dal dopoguerra e al ruolo allora assegnato al Mezzogiorno e allo sviluppo della sua economia (cfr. D’Antone 1996 e 1997, cfr. le vicende del Piano Marshall e dei prestiti della Banca Mondiale all’Italia), è stato diverso, e aveva dato avvio ad un processo di dinamismo e di crescita, che poi è diventato altro. Illuminante sul cambiamento la testimonianza di Sylos Labini, che, durante il periodo di insegnamento presso l’università di Catania, ha condotto la più vasta e complessa indagine sull’economia siciliana mai effettuata e che nel 1980 torna su quel periodo e su quelle vicende affermando quanto segue: Come guida alla riflessione sulle trasformazioni economiche e sociali conviene considerare la distribuzione dell’occupazione in periodi diversi: subito dopo la guerra, sul finire degli anni ’50, al principio degli anni ’70 e nel 1977 (gli ultimi dati disponibili) si tratta di migliaia di unità: 1951 1958 1973 1977 Agricoltura Industria Servizi 750 620 380 340 330 430 450 450 270 360 390 425 Pubblica amministr. 100 115 210 225 Durante il periodo che particolarmente ci interessa, cioè dal 1951 al 1958, i fenomeni più notevoli sono costituiti dall’esodo agrario (che poi si accelera), da un certo sviluppo dell’industria, dei servizi e della pubblica amministrazione. Dopo il 1958 l’occupazione tende a ristagnare; fino al 1958 cresce, come risultato di una somma algebrica, data dal calo dell’occupazione nelle unità artigianali premoderne e dallo sviluppo di unità artigianali e industriali di tipo moderno e dalla creazione di grandi stabilimenti attuata da imprese private e pubbliche (Sylos Labini 1980, p. 141). Il saggio di Sylos Labini è sul governo Milazzo. Quando, più avanti nel testo citato, l’economista affronta il tema e discute della debolezza della politica economica avviata dal governo Milazzo e anche della debolezza dell’azione della Sofis, il quadro è confermato e il 1958 è nuovamente posto come un punto di passaggio, tra un periodo di dinamismo che copre gli anni fino al 1958 e poi un cambiamento che si protrarrà fino alla data in cui scrive. 8 In quel periodo noi assistiamo a spinte sociali e strategie politiche molteplici e contraddittorie, provenienti dagli stessi gruppi sociali. Interessante è l’episodio dell’industriale La Cavera, che venne messo a capo della SOFIS proprio dal governo Milazzo, su richiesta dei comunisti. Un La Cavera che si era fatto la fama di “enfant-terrible” della Confindustria, poiché era entrato in conflitto con De Biase, un personaggio potente in quella organizzazione: La Cavera cercava di far valere le esigenze dell’industrializzazione dell’isola sia attraverso una politica di incentivazione, sia attraverso iniziative industriali di tipo regionale. […] La spinta data dalla SOFIS – la società finanziaria regionale promossa da La Cavera – non dette risultati di rilievo: l’industrializzazione fece progressi molto modesti. Il numero degli addetti nel settore industriale è variato di poco dal 1957-58 al 1972-73: la somma algebrica, di cui parlavo prima, è diventata nulla, mentre prima era stata positiva – tra il 1951 e il 1958 vi era stato un aumento di 100 mila unità (Sylos Labini 1980, p. 146). Ci siamo chiesti da dove Sylos Labini avesse preso i dati, e come avesse dato quelle valutazioni. Perché il 1951 e poi il 1958. 1951 è l’anno del censimento. 1958 è il primo anno della rilevazione sulle forze di lavoro, che da quella data l’Istat effettua con continuità. Mettendo assieme e confrontando i dati del censimento 1951 ed a seguire quelli dei censimenti 1961 e 1971, con i dati annuali della rilevazione sulle forze di lavoro, i conti tornano. L’analisi di Sylos Labini è corretta, anche se forse si dovrebbe porre come termine ad quem dello sviluppo autonomo il 1961, piuttosto che il 1958. Figura 6 Occupazione nell'industria in complesso in Sicilia 450 400 Cens FFLL 350 1951 1952 1953 1954 1955 1956 1957 1958 1959 1960 1961 1962 1963 1964 1965 1966 1967 1968 1969 1970 1971 1972 1973 300 Nella Figura 6 vengono rappresentate con una linea i dati dell’indagine sulle forze di lavoro, con le barre verticali più scure i dati dei censimenti della popolazione, mentre le barre verticali più chiare rappresentano una stima da noi svolta sull’andamento dell’occupazione nel periodo 1952-60. I dati confermano il giudizio di Sylos Labini: gli anni ’50 in Sicilia sono anni di “sviluppo autonomo”. Poi si cambia. E si cambia nonostante il divario continui a diminuire, perché su ha “sviluppo senza autonomia”. 9 Il secondo ventennio: 1973-1991 Non entreremo dentro il secondo periodo, caratterizzato da aumento del divario e da progressiva dipendenza dell’economia del Mezzogiorno e della Sicilia, da trasferimenti e da pervasività della spesa pubblica. Sicuramente gli anni ’70 sono caratterizzati da fenomeni altamente contraddittori e non sono stagnanti come i successivi anni ’80. Basti ricordare che sono gli anni ’70 a far partire non solamente le regioni a statuto ordinario, ma anche il decentramento amministrativo legato alla costruzione del Welfare. Sono anni accompagnati da interessanti processi di partecipazione che coinvolgono anche molte realtà del Mezzogiorno e della Sicilia. Ma nel ragionamento che stiamo qui conducendo questo periodo porta dritto al disastro della crisi di fine anni ’80 e alla necessaria abolizione dell’intervento straordinario e allo smantellamento di un sistema di imprese pubbliche e di strutture di servizio dell’economia pubbliche o dal pubblico controllate (penso al sistema bancario meridionale, che nel corso degli anni ’90 verrà sostanzialmente smantellato, anche a ragione del controllo da parte della cattiva politica e anche peggio). Dal punto di vista di questa analisi, interessa sottolineare che all’aumento del divario corrisponde un aumento della dipendenza del sistema economico: sono questi gli anni esemplari dello “sviluppo senza autonomia”, perché anche se il divario aumenta le condizioni economiche complessive segnano un aumento del reddito che comunque fa tenere il passo con l’aumento della ricchezza del paese e produce una crescente dipendenza dai trasferimenti e dalla pervasività della spesa pubblica. Elementi non ultimi che conducono alla crisi nazionale della fine degli anni ’80 e alla abolizione dell’intervento straordinario del 1992. Siamo così agli anni ’90 e all’ultimo periodo della nostra analisi. Il terzo ventennio: gli anni ’90 e il primo decennio del duemila. La prima metà degli anni ’90 è segnata da un aggravamento dell’andamento precedente con una picchiata degli indicatori economici del Mezzogiorno e della Sicilia più forte di quella dei corrispondenti indicatori nazionali e del Centronord, che pur marcano anch’essi la crisi e il necessario risanamento dei conti pubblici con il crollo degli investimenti pubblici. Quel risanamento permetterà all’Italia, contro ogni aspettativa, di agganciare l’Europa di Maastricht. Poi a metà decennio gli indicatori italiani e del Mezzogiorno cambiano di segno e misurano i frutti del risanamento e delle riforme avviate. In questo processo il Mezzogiorno segna una capacità di ripresa e di sviluppo superiore a quello nazionale e del Centro-Nord, in un contesto in cui, dopo l’abolizione dell’intervento straordinario, la questione meridionale è nuovamente al centro delle politiche nazionali dello sviluppo. La costituzione nel 1997 del Dipartimento per le politiche dello sviluppo guidato da Fabrizio Barca mette a sistema e dà voce unitaria a un insieme, anche disordinato, ma certamente funzionale e coerente, di politiche per le aree arretrate che accompagnano tutto il decennio, nel contesto di un processo virtuoso in cui la ripresa dell’integrazione europea e la preparazione alla moneta unica fa da contesto e da stimolo per le riforme e per le politiche di sviluppo. Le analisi svolte dalla Svimez e da Daniele e Malanima mostrano una crescita del PIL procapite del Sud rispetto al dato nazionale dalla metà degli anni ’90 sino ai primissimi anni 2000. Questo significa che il Sud è cresciuto in modo più veloce rispetto al resto d’Italia. Fondamentale in tale analisi è la considerazione che le elaborazioni della Svimez e dei due economisti fanno riferimento ai dati ufficiali esposti dall’Istat. Sia l’Istituto meridionale che i ricercatori non hanno fatto altro che prendere atto di un dato che l’Istituto Nazionale di Statistica aveva certificato. Ad anticipare questi studi è da ricordare come Bodo e Viesti (1997), osservando sempre i dati di contabilità territoriale dell’Istat, avevano evidenziato la particolarità, cercandone i motivi in alcuni 10 elementi economici, come la crescita dell’export, e politici, come la voglia di rimboccarsi le maniche e creare uno sviluppo dal basso (come nella creazione di Patti Territoriali). Il Sud recupera, in sette anni tutto il gap accumulato negli anni di crisi della prima metà del decennio. Figura 7 Rapporto Pil procapite Sud/Italia 0,700 0,680 0,660 0,640 1990 1992 1994 1996 Fonte: elaborazioni da Daniele e Malanima 1998 2000 2002 2004 Se per il Sud tutti gli studi confermano la significativa maggior dinamica rispetto al resto della nazione, focalizzando l’attenzione su alcuni territori specifici, le dinamiche diventavano più complesse da comprendere. La Sicilia, a ragione della sua dimensione economica e demografica nel contesto delle regioni del Sud, per la scelta di dar conto a politiche locali che nascessero dal basso, e, non ultimo, per le difficoltà che hanno seguito la crisi finanziaria e politica del ’92 e la chiusura delle politiche straordinarie per il Sud che hanno “ingessato” le potenzialità di spesa all’interno della Regione, rappresenta un importante e stimolante campo di osservazione. I dati ufficiali non mostrano un andamento deciso come quello del complesso del Mezzogiorno. La crescita dalla metà degli anni novanta letta nelle serie regionali ricostruite da Daniele e Malanima (che si ricorda fanno riferimento ai dati ufficiali dell’Istat) mostrano un andamento del PIL procapite, indicatore statistico utilizzato dai due studiosi per giudicare il gap tra le aree, che inizia a recuperare terreno un anno dopo rispetto al Sud (dal 1996), ma con un andamento quasi piatto per il resto del decennio, tornando a risalire al termine del decennio e decisamente all’avvio del nuovo secolo. Nonostante la crescita la Regione si trova, alla fine del periodo considerato dalla ricerca dei due studiosi, al di sotto del valore di avvio anni ’90. 11 Figura 8 Rapporto Pil procapite Sicilia/Italia 0,72 0,70 0,68 0,66 0,64 1990 1992 1994 1996 Fonte: elaborazioni da Daniele e Malanima 1998 2000 2002 2004 A partire dalla diffusione dei valori contabili del 2005, l’Istat ha fatto proprie una serie di regole inserite nel SEC95 (il sistema dei conti europei), e ha rielaborato le serie di contabilità a far data dal 1995. Presentando le nuove stime, i computi del valore aggiunto sono stati rivisti al ribasso e, di conseguenza, anche il PIL è risultato ridotto. Le variazioni fondamentali possono essere lette nella “regionalizzazione” dei valori da attribuire alle attività finanziarie e bancarie, valori che sono stati decurtati per il Sud, e per la Sicilia in particolare, mentre sono aumentati per il Centronord. Guardando con attenzione e confrontando i dati della vecchia serie e della nuova relativa al periodo 1995-2004 delle diverse unità territoriali si scopre che i dati del Mezzogiorno sono complessivamente cambiati poco, e comunque molto meno di quelli siciliani ed anche di quelli della Campania, altra regione che vede stimati al ribasso i dati complessivi del valore aggiunto e conseguentemente vede appiattito il dinamismo economico della seconda metà degli anni ’90. Si scopre invece che ciò non avviene per Puglia e Calabria (abbiamo controllato solamente queste quattro regioni). Il dato complessivo del Mezzogiorno cambia poco, mentre quello nazionale (e del Centro Nord) guadagnano qualche punto. Si scopre inoltre che le variazioni sono essenzialmente determinate dal valore aggiunto dei servizi e in modo particolare dei servizi finanziari e delle attività immobiliari: intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari ed imprenditoriali, complessivamente rivalutate al Nord e particolarmente depresse nella nuova serie in Sicilia (e in Campania). Fermo restando che il dato complessivo del Mezzogiorno tiene perfettamente rispetto alle analisi fatte e alle considerazioni condotte, l’appiattimento della curva del PIL pro capite della Sicilia (e della Campania) andrebbe interpretato con analisi più approfondite, e i criteri della nuova serie andrebbero letti con accuratezza, anche in riferimento al contemporaneo cambiamento dell’assetto delle attività finanziarie: sono gli anni della liquidazione del Banco di Sicilia e della Cassa di Risparmio in Sicilia e del Banco di Napoli in Campania. Ma è questo un discorso da affrontare in altra sede e che qui serve solo ad indicare la problematicità di una lettura del dato regionale del PIL e del PIL pro capite. L’Istituto statistico ha inoltre anche rielaborato la serie della popolazione residente facendo riferimento alle risultanze del censimento del 2001. Queste operazioni hanno compresso il valore dell’indicatore, in particolar modo a far data dagli ultimi anni ’90. 12 Figura 9 Pil procapite Sicilia (Italia = 100) 0,72 0,68 0,64 Vecchia serie Nuova serie 2009 2008 2007 2006 2005 2004 2003 2002 2001 2000 1999 1998 1997 1996 1995 1994 1993 1992 1991 1990 0,60 Se l’indicatore assume un andamento così diverso nelle nuove serie, mostrando addirittura un ampliamento del gap per l’ultimo biennio degli anni ’90, sembra interessante osservare che i valori assoluti del PIL delle nuove serie risultano addirittura più alti di quelli stimati precedentemente per il periodo dal 1995 al 1998 (in particolare per il primo biennio dove mostrano una rivalutazione di 736 milioni di euro per il 1995 e 818 milioni di euro per il 1996 pari all’1,4% del valore per entrambi gli anni), mentre sono stati compressi, via via in modo più robusto, a partire dal 1999. A fianco dell’andamento della valore della produzione, un indicatore dello sviluppo altrettanto se non più importante è rappresentato dalla dinamica dell’occupazione. Pur nelle forme più flessibili e su livelli di reddito più contenuti la costruzione di posizioni lavorative diventa il segno di una spinta verso l’attività, di una crescita civile oltre che economica. Così come per i valori economici anche il computo delle unità di lavoro presentato dai nuovi conti economici dell’Istat vede una loro variazione verso il basso. Nei grafici è stato riportato il confronto tra le due serie, sia per quanto riguarda l’occupazione totale, che limitatamente a quella dell’industria in senso stretto. I valori assoluti si presentano come linee e la scala di riferimento è quella destra (valori in migliaia), mentre le barre, misurate sulla scala di sinistra, mostrano la riduzione operata dal servizio dell’Istat. Figura 10 - Unità di lavoro nel complesso dell’economia Differenze assolute in mgl. Differenze 1.424 Nuova serie Vecchia serie ‐12,4 ‐14,0 ‐15,5 ‐17,0 ‐12,4 ‐19,6 ‐18,1 Valori in migliaia 1.535 Sicilia ‐7,3 ‐24,6 ‐32,8 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 13 Figura 11 - Unità di lavoro nell’industria in senso stretto 158 151 Differenze Nuova serie Valori in migliaia Differenze assolute in mgl. Sicilia Vecchia serie ‐3,0 ‐3,6 ‐4,5 ‐4,4 ‐5,6 ‐6,2 ‐7,4 ‐5,8 ‐11,4 ‐3,5 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 Pur su livelli diversi, entrambe le serie, la precedente utilizzata come detto anche nello studio di Daniele e Malanima e la nuova serie ufficiale, confermano una ripresa della dimensione lavorativa nella Regione dal 1996, in modo anche più netto di quanto osservato per il PIL. Il maggiore dinamismo rilevato nel settore delle costruzioni non sfianca l’andamento crescente che, seppur lieve, si può leggere nei dati dell’industria in senso stretto. I dati di contabilità, rivisti al ribasso, riguardano le cosiddette unità di lavoro, ovvero gli occupati “standard” rispetto alla capacità produttiva: un ideale occupato a tempo pieno e indeterminato. Le ula risultano funzionali alla valutazione del valore della produzione e non riguardano la capacità di creare posti di lavoro. Questi, anche se a tempo parziale o determinato, risultano legati alle capacità locali a realizzare attività economiche e vengono meglio osservati attraverso le indagini campionarie o attraverso i censimenti, con i difetti e i pregi che questo tipo di rilevazione si porta dietro. Se, quindi, il dinamismo può essere letto non soltanto sulla capacità di produrre valore aggiunto ma anche nella sua capacità di costruire coesione sociale attraverso, ad esempio, la creazione di posti di lavoro, è anche a queste ultime statistiche che dobbiamo rivolgerci. Mentre le indagini campionarie, per la loro natura di dispersione territoriale dei casi rilevati, non possono fornire se non indicazioni a livello provinciale o regionale (si veda l’analisi iniziale di confronto tra dati censuari e dati tratti dall’indagine sulle forze di lavoro negli anni ’60) i censimenti premettono analisi molto più dettagliate del territorio ma perdono la “freschezza” delle informazioni ravvicinate in serie storica. Il censimento del 1996 ci consente di tentare di interpretare il dinamismo della seconda metà degli anni novanta dal punto di vista della qualità dello sviluppo prodotto e del suo rapporto con i territori che sono stati trainanti dello sviluppo regionale. Abbiamo provato a prendere sul serio le politiche attuate per il Mezzogiorno contestualmente e successivamente all’abolizione dell’intervento straordinario effettuato nel 1992 (legge n. 488), e alla messa in opera di politiche di programmazione negoziata finalizzate allo sviluppo locale di territori liberamente aggregati per fare sviluppo (Patti territoriali per lo sviluppo, Patti territoriali per l’occupazione di matrice europea) e di politiche non finalizzate a territori determinati e (auto)definiti, ma che dai territori sono state utilizzate per finalità di sviluppo locale. Facciamo riferimento alla circostanza che, in diversi territori che hanno fatto “patto”, il soggetto promotore, o 14 l’Agenzia di sviluppo costituita, sono spesso diventati il soggetto che indirizzava gli imprenditori locali a entrare nel Patto o ad accedere agli strumenti di incentivazione individuale all’impresa quale la 488, di fatto facendo diventare anche questa una legge che promuoveva lo sviluppo locale. Anche sulla base di queste considerazioni abbiamo diviso il territorio regionale in un primo insieme di territori che hanno creduto e lavorato alla dimensione locale dello sviluppo, o meglio abbiamo messo assieme i territori di cui sulla base di alcuni indicatori qualitativi semplicissimi avevamo la certezza che hanno creduto e tentato di operare per lo sviluppo locale e un secondo insieme in cui abbiamo messo tutti gli altri: territori ad alta concertazione i primi (TAC), non TAC gli altri (che probabilmente contengono territori di cui non abbiamo sufficienti informazioni e in cui invece la concertazione e lo sviluppo locale c’è stato o si è tentato). (Per una analisi dettagliata del metodo seguito e per una descrizione estesa dei risultati cfr. Tulumello 2008, pp. 103-133) Mettendo insieme i territori definiti ad alta concertazione (TAC) – ossia aggregando i dati dei comuni che hanno partecipato agli strumenti di sviluppo locale selezionati: quattro dei cinque Patti territoriali di prima generazione, i tre Patti europei per l’occupazione, e i Patti che hanno conservato l’aggregazione territoriale anche per gli strumenti di coordinamento territoriale costruiti per l’utilizzazione di parte dei Fondi di Agenda 2000 (i PIT, Progetti integrati territoriali) – si è ottenuta la divisione del territorio siciliano in due insiemi così costituiti: Tabella 1 Indicatore TAC Superfice in Kmq. Popolazione Addetti alle unità locali Altri Sicilia 13.927,8 11.780,3 25.708,1 1.838.596 3.130.395 4.968.991 228.899 364.453 593.352 L’andamento del mercato del lavoro e l’altalena degli addetti a tutti i settori lavorativi e all’industria in senso stretto sono rispondenti all’ipotesi. I territori ad alta concertazione sono risultati quelli che hanno risposto meglio alla crisi dei primi anni ’90 e che hanno trainato lo sviluppo della Sicilia, almeno sul terreno quantitativo della capacità di creare lavoro in generale e ancor più nei settori direttamente produttivi. Figura 12 Grafico 4.1 - Addetti ai censimenti per tutti i settori (Indici 1991 = 100) 100 95 Italia TAC 90 Altri 85 80 75 1991 1996 2001 Fonte: elaborazioni su dati Istat, Cens. dell’industria e dei servizi 15 Figura 13 Grafico 4.2 - Addetti ai censimenti nell'industria in senso stretto (Indici 1991 = 100) 100 95 Italia 90 85 TAC 80 Sicilia Altri 75 1991 1996 2001 Fonte: elaborazioni su dati Istat, Cens. dell’industria e dei servizi Oltre alla possibilità di effettuare questa misura dovuta alla effettuazione del censimento intermedio dell’industria del 1996, che ha consentito di dare corpo ai due insiemi di comuni TAC e non TAC, un altro indicatore disponibile a livello comunale, e quindi aggregabile per i due insiemi di comuni, è stato quello della 488. Anche su questa legge si è detto tutto e il contrario di tutto, ma un confronto tra due indicatori che la riguardano può dare utili indicazioni. Il primo è la capacità di assorbimento, di per sé è un indicatore ambiguo – si può chiedere di più alla legge di incentivazione all’impresa per sprecare di più e per mal gestire di più –, ma che comunque dà una misura dell’interesse a investire e a giocare sul mercato. Questa ambiguità sparisce se consideriamo insieme un secondo indicatore, la quota di investimento proprio sull’investimento complessivo. Insieme i due indicatori danno una misura non ambigua della propensione del territorio a fare impresa e a produrre sviluppo. L’insieme dei due indicatori dà nuovamente una risposta positiva alla questione posta: i territori TAC hanno investito di più e con maggiore partecipazione del capitale privato, soprattutto nei settori industriali. Si rammenti che la 488 ha finanziato anche imprese commerciali e turismo. Nella tabella che segue l’indice di risultato rappresenta la quota degli investimenti attivati sul territorio rapportato alla quota di occupazione territoriale (rispetto alla regione) e quindi dà una misura della capacità del territorio di attirare e muovere investimenti. La quota di investimenti privati dà la differenza tra contributi richiesti e investimenti ammessi rapportato agli investimenti ammessi e rappresenta la fiducia riposta dagli imprenditori nell’investimento e il rischio imprenditoriale direttamente sostenuto dall’investitore. Tabella 2 Indicatori degli investimenti attivati con legge 488/92 per alcune aggregazioni di attività in Sicilia Indice di risultato Attività economica A T erritori ad alta concertazione B Altri territori della regione Quota di investimenti "privati" Differenze A-B A T erritori ad alta concertazione B Altri territori della regione Differenze A-B Totale 1,34 0,80 0,54 64,2 57,8 6,4 Ind. in senso stretto 1,43 0,72 0,70 63,0 51,6 11,4 Ind. s.s. senza petrolio più alberghi e ristoranti 1,43 0,73 0,71 58,0 49,4 8,6 Fonte: elaborazioni su dati del Ministero dell’Economia (dati medi 1996-2004) 16 L’insieme dei risultati ottenuti, e la differenza a volte marcata, rispetto ai territori “altri, che le aree della regione siciliana selezionate ed identificate come “territori ad alta concertazione” presentano, ha una sua ragionevole ed evidente forza di persuasione. Da questi territori era ragionevole aspettarsi un maggiore dinamismo e in qualche modo la responsabilità del “corso positivo” dell’economia nella seconda metà degli anni ’90 e fino ai primissimi del 2000. Le analisi hanno confermato questa aspettativa. Ma se i territori identificati come Territori ad alta concertazione avessero alle spalle una storia economica più solida strutturalmente e più dinamica e disponessero di capacità e risorse superiori agli “altri”, la verifica empirica sarebbe vanificata dalla presenza di un insieme di cause più remote che giustificavano sia la scelta dei territori che i risultati delle analisi. Si è deciso allora di effettuare un confronto di questi due insiemi di comuni e territori per il periodo antecedente le analisi effettuate sugli anni ’90. Abbiamo fatto ricorso ai dati censuari, costruendo la serie storica dei dati riguardanti l’occupazione dal 1951 al 1991, ed abbiamo applicato l’analisi shift share – una tecnica che permette di distinguere, in una variabile che si evolve nel tempo, nel nostro caso nei movimenti dell’occupazione, le componenti imputabili al territorio analizzato rispetto alle medesime componenti di un più vasto territorio di riferimento – alle differenze intercensuarie relative. I territori “altri” presentano, dal dopoguerra al 1991, una componente strutturale sempre positiva, mentre i TAC presentano valori sempre negativi, ma anche la componente locale dell’andamento dell’economia, con l’esclusione del decennio 1951-1961, è a vantaggio degli altri, e stupisce che i TAC presentino una componente locale sempre negativa. Il maggiore dinamismo dei territori ad alta concertazione dunque non sembra imputabile a una storia passata e a una maggiore “dotazione” di risorse e di capacità di sviluppo pregressa, perché i nostri “Territori ad alta concertazione”, sottoposti all’analisi delle componenti del dinamismo economico nei decenni antecedenti quelli dell’analisi, non presentano caratteristiche che permettano di imputare a vantaggi e a caratteri strutturali pregressi la capacità di dinamismo e di sviluppo presente nella seconda metà degli anni ‘90. Tabella 3 Analisi shift share. Confronti con la regione (variazioni assolute) Componente 1951/1961 1961/1971 1971/1981 1981/1991 Territori ad alta concertazione Regionale Strutturale Locale Totale 38.365 -2.786 1.079 36.659 14.276 -318 -1.317 12.641 49.373 -1.083 -2.652 45.638 11.774 -1.136 -3.938 6.700 76.696 1.131 2.605 80.431 18.773 1.975 3.099 23.847 Altri Regionale Strutturale Locale Totale 57.806 2.534 -828 59.512 21.860 292 1.343 23.495 Fonte: elaborazioni su dati Istat Sembra dunque esserci un nesso forte tra un insieme di politiche che hanno come cifra comune la promozione dello sviluppo locale e il fenomeno di dinamismo economico e di crescita degli indicatori economici nel Mezzogiorno; questo nesso è misurato dalla circostanza che i territori identificabili come quelli che hanno maggiormente risposto alle politiche di incentivazione dello 17 sviluppo locale e che si sono attivati in proposito, i Territori ad alta concertazione, sono quelli che presentano caratteri più dinamici e che hanno trainato il “ciclo positivo”. Questi risultati valgono certamente per la Sicilia, ma il peso di questa regione sul complesso del Mezzogiorno, e le altre argomentazioni già fatte, ci inducono ad estendere il risultato a tutta l’area, secondo quanto avevamo posto a programma della ricerca. Nulla togliendo all’opportunità di continuare la ricerca, estendendo l’analisi alle altre regioni. Rimane ora da interrogarsi sulle ragioni dell’attenuarsi e poi del blocco di questo dinamismo. Perché lo sviluppo locale recede dopo un periodo di crescita e dopo essere riuscito a recuperare quattro punti del divario tra l’economia del Sud e quella del Centro Nord? L’interrogativo andrebbe posto a monte della crisi del 2008, che arriva nel Mezzogiorno e in Sicilia ad aggravare il trend negativo del decennio e il cessare del dinamismo dei secondi anni ‘90 a partire dal 2002/2003. Non è tema di questa riflessione entrare nel merito del pesante processo di deindustrializzazione in atto, causato dalla crisi certamente, ma aggravato dal blocco del dinamismo economico e dalla incredibile rassegnazione e incapacità di azione dei governi regionali e dello Stato di fronte allo stagnare dell’economia e alla incapacità di utilizzare le risorse per lo sviluppo. A conclusione di queste considerazioni si deve però avviare la riflessione non solamente sul risultato ottenuto dall’analisi: l’identificazione di due periodi di dinamismo economico e di diminuzione del divario accompagnato a segnali di rafforzamento della capacità di produzione della ricchezza – “sviluppo autonomo” –, ma si deve anche accennare ad una riflessione sulle ragioni del bloccarsi del processo dinamico e di sviluppo autonomo, ragioni diverse ma che in entrambi i casi rimandano alla politica e alle politiche, o meglio rimandano alle condizioni di contesto – che storicamente cambiano e diversamente agiscono sui meccanismi economici e sociali – e alle diverse azioni e reazioni dell’agire collettivo, attraverso la messa in atto o la mancanza di messa in atto di politiche adeguate. Conclusioni: la Sicilia dello sviluppo autonomo, passato e futuro Partiamo nuovamente dal grafico dei tassi di variazione del valore aggiunto e affianchiamolo con il grafico dell’occupazione nell’industria in Sicilia, che abbiamo usato per leggere gli anni ’50 e la loro differenza rispetto agli anni ’60 (a conferma dell’analisi di Sylos Labini), ma estendendo i dati fino al 2009. E teniamo anche presente il grafico del PIL pro capite di Daniele e Malanima. Figura 14 8,0 Sicilia 7,0 Sud 6,0 Italia 5,0 Centronord 4,0 3,0 2,0 1,0 0,0 ‐1,0 ‐2,0 1961 1971 1981 1991 1996 2001 2008 18 Figura 15 Occupazione nell'industria in Sicilia 500 (in complesso e in senso stretto) 400 300 200 100 0 Cens‐Ind Cens‐IndSS ffll‐Ind ffll‐IndSS Gli anni ’50 e la seconda metà degli anni ’90 sono i due periodi in cui i dati ci consegnano per il Mezzogiorno e per la Sicilia un aumento del PIL superiore a quello italiano e del Centro-Nord, che produce diminuzione del divario, accompagnato da un dinamismo dell’occupazione dell’industria e segnati da processi significativi di dinamismo e autonomia del sistema produttivo. Diversamente da altri periodi, innanzitutto gli anni ’60 e i primissimi anni ’70, in cui l’aumento del PIL e la diminuzione del divario non si accompagna a fenomeni e segnali di dinamismo autonomo dell’economia, ma producono in modo esemplare “sviluppo senza autonomia”, secondo la fortunata definizione di Trigilia. Dunque, e questo è il risultato trovato andando alla ricerca del “Mezzogiorno dello sviluppo”, i dati ci consegnano due periodi di dinamismo economico e di costruzione di “sviluppo autonomo”. Il primo segna gli anni ’50 del Novecento. Sylos Labini, grande studioso della Sicilia del periodo (Sylos Labini 1966), lo fa cessare per la Sicilia nel 1958 (Sylos Labini 1980). La nostra analisi lo identifica con l’intero decennio e pone al suo termine, sempre per la Sicilia, l’ultimo tentativo politico siciliano di dare forma politica alla autonomia anche economica e di industrializzazione non subalterna, con il contraddittorio governo Milazzo. Certamente non è parte costitutiva di questo periodo la rimanente porzione degli anni di crescita e di diminuzione del divario, che si protrae fino al 1973 e che è esemplare dello “sviluppo senza autonomia”. Il secondo periodo di “sviluppo autonomo” fa riferimento al settennio 1996-2002/2003 di cui ci racconta la Svimez e che abbiamo ricostruito come segnato dallo sviluppo locale, inserito nei convulsi anni ’90, e preparato dagli anni di forte crisi e di crollo degli indicatori economici, contestuali all’avvio di un insieme di provvedimenti di risanamento e di riforme, che si protrae fino allo scorcio degli ultimi anni del decennio. Riassuntivamente ciò che l’analisi ci consegna è che - esistono un Mezzogiorno e una Sicilia dello sviluppo “autonomo”, - che si sono espressi almeno due volte, in condizioni storiche e in contesti economici diversi, - che vanno letti fuori dallo stereotipo degli schemi di un Mezzogiorno subalterno e immobile, - che richiedono l’apertura di una riflessione sulle ragioni del blocco del processo di sviluppo e di dinamismo, le due volte e nei due diversi contesti. 19 Sarebbe necessario ripartire da capo, facendo tesoro del risultato dell’analisi dei dati e dell’identificazione dello “sviluppo autonomo” – c’è stato, e quindi è “possibile” (Hirschman) –, e riprendendo le analisi che accompagnano la questione meridionale e che discutono di politiche per lo sviluppo e del ruolo dei ceti dirigenti. Le due grandi tradizioni di riflessione sull’arretratezza del Mezzogiorno e sulla questione meridionale si differenziano per il peso preponderante attribuito alle une o agli altri: Nitti e il problema delle risorse e delle politiche basate sui trasferimenti di risorse, e Salvemini e la preponderanza della questione politica dei ceti dirigenti meridionali subalterni. Ma bisognerebbe ragionare accompagnando l’analisi con il registro dei “dati” – i dati delle diverse fasi e alternanti caratteri della vicenda economica del Mezzogiorno e delle sue regioni –, ragionando così su tre paralleli registri: i dati, le politiche, gli attori/i ceti dirigenti. Nel ragionamento andrebbe considerato con estrema attenzione una questione di fondo, a volte dimenticata o sottovalutata: il Mezzogiorno è parte di un paese che nei sessanta anni che stiamo analizzando ha una storia economica impetuosa e il Mezzogiorno ha giocato in questa storia un ruolo importante, sia nello sviluppo, prima – dal dopoguerra della ricostruzione al miracolo economico contestuale all’ingresso in Europa, e fino a tutti gli anni ’60 – , sia poi nello ristagno – nei convulsi anni ’70 e nei disastrosi anni ’80 della crescita del debito pubblico – in cui il Mezzogiorno ha giocato un ruolo a volte decisivo, negli equilibri politici complessivi. Se infatti la questione meridionale è stata – ed è – una questione decisiva per lo sviluppo economico del Paese, altrettanto decisiva essa è stata per la vicenda politica e per gli equilibri, e disequilibri, nazionali. Il Mezzogiorno in generale e regioni quali la Sicilia e la Campania, a ragione del loro peso elettorale, sono stati feudi elettorali particolarmente importanti e a volte determinanti: si pensi alle elezioni del 2001, quando la vittoria del centrodestra in tutti i collegi del maggioritario della Sicilia fu decisiva per il prevalere dello schieramento a livello nazionale. Il Mezzogiorno come feudo elettorale sembra in certi momenti storici avere avuto il sopravvento e spento le ragioni delle politiche per lo sviluppo e del dinamismo economico. Su questo terreno sono evidenti le ragioni di Salvemini contro gli argomenti di Nitti e oggi bisognerebbe ricorrere a strumenti più raffinati per analizzare le ragioni dell’arretratezza e della subalternità persistente, così come le ragioni del blocco dei fermenti di dinamismo e di sviluppo, ricorrendo a strumenti offerti dai recenti studi post-coloniali e subalterni. Penso agli studi indiani di Guha e Spivack (1988), penso anche ai temi di riflessione sul “colonialismo interno” ripresi di recente da studiosi occidentali (Petrusewicz, Schneider e Schneider 2009). A chiusura di queste riflessioni si possono solamente indicare le due costellazioni che hanno accompagnato e costituito il contesto rispetto ai due momenti di sviluppo autonomo identificati, così suggerendo come il venire meno di alcuni o tutti quegli elementi – insieme al sopraggiungere di nuovi che con quegli elementi di sviluppo erano poco compatibili – abbia determinato, o favorito e accelerato la scomparsa del dinamismo e il blocco del processo di sviluppo ed emancipazione, dando luogo alla ripresa della costruzione sociale della subalternità e dell’arretratezza. La costellazione degli anni ’50 è segnata dal clima di fuoriuscita dal disastro della seconda guerra mondiale, dalla ricostruzione, dagli aiuti internazionali alla ricostruzione e allo sviluppo (per il Mezzogiorno il ruolo della Banca Mondiale e l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno per la gestione dei prestiti della Banca Mondiale), in presenza di ceti dirigenti nazionali eccezionalmente colti, lucidi e lungimiranti, in gran parte di origine meridionale (cfr. D’Antone 1995 e 1997), e con ceti dirigenti meridionali, economici e politici, capaci di progetto e di autonomia, e certamente non subalterni. Il Sicilia il ruolo di Sicindustria e di Domenico La Cavera, da un lato, e di segmenti sia della Democrazia Cristiana che del Partito comunista, dall’altro, hanno un peso e un significato importante. Tutto poi naufraga, alla fine del decennio, nell’ultimo tentativo di autonomia convulsamente espressosi nel governo Milazzo. Ma nel 1957 l’Italia aveva firmato il Trattato di Roma, e lo sviluppo del Mezzogiorno diventava certamente meno urgente della necessità di rafforzare l’impresa esistente, collocata nel triangolo industriale. Il corretto e necessario disegno 20 economico conseguente, se mutava il contesto e obbligava a scelte coerenti e conseguenti, avrebbe potuto ridefinire il ruolo dello sviluppo del Mezzogiorno in modi diversi. E’ prevalso quello meno favorevole allo sviluppo e all’autonomia economica, che assegnava al Mezzogiorno il ruolo di feudo elettorale, di riserva per la stabilità politica del paese. Modello che porterà al declino e alla crisi della fine degli anni ’80 non solo del Mezzogiorno, ma del paese intero. La nascita della questione settentrionale, come riflesso acritico della irrisolta questione meridionale, è la cifra decisiva della crisi della fine degli anni ’80. La costellazione degli anni ’90 è figlia di quella crisi, ma segnala un paese capace di reagire e di provvedere al risanamento necessario all’ingresso nell’Europa di Maastricht e all’avvio del processo di creazione della moneta unica. In questo quadro, l’abolizione dell’intervento straordinario porta alla nascita di nuove ed innovative politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno: legge 488 di incentivazione individuale alle imprese, avvio della programmazione negoziata, riforme per adeguare il sistema amministrativo e di controllo alle regole europee, e riforme nazionali coerenti con il disegno di ripresa economica: riforme della pubblica amministrazione, avvio della riforma del governo del mercato del lavoro, e dal 1996-97 utilizzazione dei Fondi europei e messa a sistema delle politiche di sviluppo e per il Mezzogiorno con la costituzione del Dipartimento per le politiche di sviluppo. La cifra dello sviluppo locale è inserita in un progetto lucido di crescita equilibrata del paese. I documenti del DPS degli anni 1997-1999 sono esemplari (cfr. per tutti Barca 1998 e il Rapporto del Comitato per i fondi comunitari, Orientamenti 1999) e sono testimoni di questo disegno, che purtroppo avrà vita molto breve, perché sarà messo in crisi quando ancora si stavano raccogliendo le fila di un decennio di riforme e quando cominciava a manifestarsi il frutto. Le due vicende sono accomunate dalla presenza di ceti dirigenti nazionali – spesso, ma non sempre, di origine meridionale – che pensano al Sud come elemento fondamentale dello sviluppo economico del paese intero, e da una sponda importante in ceti dirigenti, economici e politici, del Mezzogiorno che condividono il disegno: al ruolo di Sicindustria e di una parte del ceto politico regionale negli anni ’50, corrisponde negli anni ’90 la generazione dei “nuovi sindaci” figli della riforma dei primi anni ’90 e attori, o meglio co-attori – non tutti, ma tanti – dello sviluppo locale. L’approfondimento delle ragioni del blocco del processo di dinamismo e di “sviluppo autonomo” è fondamentale per comprendere da dove ripartire per riavviare il Mezzogiorno e la Sicilia dello sviluppo, per comprendere come bloccare la prevalenza delle dinamiche della subalternità e dell’arretratezza, che nel corso del decennio che abbiamo alle spalle si sono rafforzate e sembrano essersi ulteriormente indurite e quasi incancrenite con la crisi, cioè proprio nel momento in cui sarebbe necessario operare per lo sviluppo e per il contrasto alla deindustrializzazione in atto. Solo una osservazione nel merito si può fare in chiusura. Lo sviluppo della seconda metà degli anni ’90 nel Mezzogiorno ha avuto come protagonisti i ceti dirigenti nazionali che hanno risanato le finanze pubbliche e consentito l’ingresso nell’Europa di Maastricht e poi ancora ceti nazionali che hanno avviato l’utilizzo dei fondi europei (Ciampi e il DPS dal 1996), e in periferia gli attori territoriali locali e i “nuovi sindaci”. Le Regioni fino alla fine del decennio sono estranee al processo, e solo nel 1999 si accorgono dei Fondi europei e iniziano a diventare, anche a ragione dei nuovi regolamenti del 1999 sui Fondi strutturali europei di Agenda 2000, centrali e determinanti nelle politiche di sviluppo. E sarà il disastro. E’ stato un disastro la spesa dei Fondi di Agenda 2000: la Svimez certifica che oltre il 40% di quei fondi sono stati dirottati sui cosiddetti “progetti di sponda”, e dunque non hanno rispettato il programma. E parte del disastro è rimasto nascosto, perché è passato sotto silenzio la circostanza che parte del Fondo sociale europeo non è stato certificato e quindi non è stato pagato alla regione, cioè è stato semplicemente perso. 21 Ma ciò che sta avvenendo con i Fondi 2007-2013 ha dell’incredibile. In Sicilia si è speso del Fondo più importante (il PO FESR che dispone di oltre 6 miliardi di Euro) quasi nulla a quasi due terzi del tempo del programma: al 31.12.2010, ultimo dato ufficiale, si è speso meno del 7%, in termini contabili, nella verità solo il 3%, perché il resto è assegnato a programmi complessi, che consentono l’utilizzo entro il 2015, ma che dal punto di vista della certificazione è come se fossero stati già spesi, ma che a tutt’oggi non sono stati impiegati. E anche le altre Regioni dell’obiettivo Convergenza non sono state e non sono molto più virtuose nell’utilizzo delle risorse. L’unico interesse delle regioni sembrano i tentativi di utilizzare le risorse per gli ordinari problemi di bilancio e per pagare assurde politiche assistenziali. In Sicilia il capitolo più impressionante riguarda la Formazione professionale e l’uso del Fondo sociale europeo. Il discorso sarebbe lungo e difficile. E andrà condotto quanto prima. Qui si può chiudere questa riflessione finale con una battuta – o forse, meglio, con una proposta. Invece o accanto all’abolizione delle province, di cui si discute e su cui la (cattiva) politica si contorce, perché non aboliamo le Regioni? Riusciremmo non solo a risparmiare molto di più, ma anche a togliere forse il maggiore ostacolo allo “sviluppo autonomo”. Certamente nel Mezzogiorno, ma forse anche nel Nord della Lega. E ciò non condurrebbe a rinforzare il centralismo e a distruggere il federalismo, tutt’altro. Oggi, infatti, le Regioni sono più centraliste dello Stato, ed esercitano un centralismo più occhiuto e pervasivo nei confronti dei territori, proprio perché più vicine dell’amministrazione statale. Le Regioni sono certamente elemento decisivo dell’impedimento dei Comuni e degli attori economici e civili a crescere e a esprimere le potenzialità dei territori. Il principio della libera associazione dei Comuni, che dovrebbe e potrebbe sostituire le Provincie, potrebbe essere adottato anche per le aggregazioni necessarie a livello più largo (il coordinamento delle politiche locali è fondamentale) anche per le Regioni. Bibliografia F. Barca (1998), Introduzione a La nuova programmazione e il Mezzogiorno. Orientamenti per l’azione di governo redatti dal Ministero del Tesoro, Bilancio e Programmazione economica, con Premessa di C. A. Ciampi, Donzelli, Roma. G. Bodo e G. Viesti (1997), La grande svolta. Il Mezzogiorno d’Italia negli anni novanta, Donzelli, Roma. L. 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