IL SISTEMA DELL`INTERFERON: CENNI GENERALI.

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IL SISTEMA DELL’INTERFERON:
CENNI GENERALI.
Marco De Andrea, Raffaella Ravera, Daniela Gioia, Marisa
Gariglio e Santo Landolfo
Torino, Novara - Italia
Riassunto
Gli interferoni sono una famiglia di proteine di segnale naturali correlate tra loro. Essi vengono
classificati in tre gruppi principali (alfa, beta e gamma) in base all’origine cellulare e agli agenti di induzione
e, storicamente, sono stati studiati per la loro attività antivirale. Dopo essersi legati con recettori specifici,
essi determinano l’attivazione di vie di trasduzione del segnale che sollecitano un’ampia gamma di geni che,
oggigiorno, sappiamo avere un’attività non solo antivirale, ma anche immunomodulatoria e antiproliferativa.
L’inibizione della crescita virale e/o della proliferazione cellulare da parte degli interferoni è associata a vari
cambiamenti fisiologici, alcuni dei quali dipendono dall’attività di proteine specifiche che sono interferoninducibili. Questa relazione si propone di ripercorrere la storia e le caratteristiche principali del sistema
interferon, richiamando le scoperte più recenti su alcuni geni interferon-inducibili.
Storia e caratteristiche generali
L’interferon fa parte delle cosiddette difese naturali dell’organismo nei confronti di invasioni di
agenti esterni quali virus, microbi o anche cellule tumorali.
Il concetto di interferon è strettamente correlato con quello di interferenza virale, un concetto che si
esplica attraverso l’attività di alcune cellule di essere resistenti, una volta infettate da un virus, a successive
infezioni dello stesso virus o di virus simili. Le prime osservazioni in tal senso furono fatte già a metà degli
anni Trenta. In particolare le osservazioni di Hoskins sul coniglio dimostrarono che questo animale, infettato
dal virus dell’herpes simplex, era protetto dalle successive infezioni con lo stesso virus.1
Pochi anni dopo, Findlay e Mac Callum dimostrarono questo stesso fenomeno, però con uno spettro
d’azione più ampio, nel senso che questi animali erano resistenti anche alle infezioni con virus che non erano
antigenicamente uguali.2 Queste erano però osservazioni che non avevano alcun riscontro biologico; non era
stata dimostrata ancora nessuna molecola in grado di mediare questa attività. Solo nel ’57, Isaacs e
Lindenmann osservarono che surnatanti di cellule che erano di colture cellulari infettate da un virus
producevano una proteina che poteva rendere altre cellule resistenti ad altri virus.3 In particolare, essi
utilizzarono frammenti di membrana corioallantoidea di embrioni di pollo, la infettarono con del virus
dell’influenza termoinattivato e videro come queste cellule riuscivano a produrre una proteina in grado di
proteggere altri frammenti dello stesso tipo dalla successiva infezione col virus, questa volta non più
inattivato ma vivo. Quindi fu la prima osservazione che esisteva veramente un qualcosa che mediava questa
protezione dall’infezione virale.
Così si può dire che il nome di interferon deriva proprio da questa osservazione, da questa capacità
di avere una interferenza virale sulle cellule. In particolare, oggi le conoscenze che si hanno sul sistema
interferon sono naturalmente progredite notevolmente. In particolare, sappiamo che l’interferon riesce a
proteggere e costituisce una naturale barriera contro infezioni esterne da virus, batteri, mitogeni e cellule
tumorali.
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In base alle conoscenze attuali, gli interferoni sono considerati citochine che appartengono al gruppo
delle interleuchine; se ne conoscono tre tipi: alfa, beta e gamma. Gli interferoni alfa e beta appartengono alla
stessa sottoclasse di tipo I, mentre l’interferon gamma appartiene ad una sottoclasse distinta, detta di tipo II.
Si tratta di proteine funzionalmente correlate che vengono prodotte dalle cellule una volta che siano state
stimolate da agenti esterni. Per poter avere l’effetto antivirale, c’è bisogno comunque della produzione di
altre proteine che vengono definite effettrici. Quindi, l’interferon è una molecola induttore che agisce su altre
proteine le quali diventano le vere e proprie effettrici dell’azione, in questo caso antivirale, ma anche
antitumorale.
Sono tre le caratteristiche principali che oggi riconosciamo agli interferoni: azioni antivirale, quella
storica e riconosciuta, ma soprattutto quello che si è studiato negli ultimi tempi, cioè una funzione
immunomodulatoria e una azione antiproliferativa.4,5,6 Quindi la capacità di alcuni interferoni, in determinate
condizioni, di bloccare le cellule in una determinata fase del ciclo cellulare ha fatto sì che diventassero molto
importanti nello studio dell’attività antitumorale.
L’interferon alfa, che storicamente veniva conosciuto anche come ‘interferon leucocitario’ in base
alle cellule che lo producevano, è codificato da almeno 15 geni e 9 pseudogeni posizionati sul cromosoma
umano 9 e sul cromosoma murino 4. Si tratta quindi in verità di una famiglia di proteine, non di un unico
interferon alfa, ma la caratteristica principale è che ognuno di questi geni non contiene introni, cioè non
contiene regioni che non codificano il DNA. Tutto il gene codifica per l’interferon alfa. La proteina che si
forma è una proteina di 166 amminoacidi senza siti di glicosilazione e stabile a pH molto acido.
Le caratteristiche principali dell’interferon alfa sono quelle di essere prodotto da macrofagi e linfociti
in particolar modo, in seguito all’azione di agenti esterni come cellule eucariotiche o tumorali o cellule
infettate dal virus, ancora cellule procariotiche e mitogeni in genere. Ma la cosa importante è che tutti questi
induttori attivano la produzione di interferon alfa da parte di macrofagi e linfociti.
Il primo ad essere scoperto fu l’interferon beta, grazie alle ricerche di Isaacs e Lindenmann. Esso
veniva indicato come ‘interferon dei fibroblasti’, perché viene prodotto da cellule epiteliali e cellule
fibroblastiche in seguito all’azione di acidi nucleici estranei quali virus o di altro tipo. Anche l’interferon
beta è codificato da un gene localizzato sul cromosoma umano 9, però ricordate che in questo caso esiste un
solo gene, e anche in questo caso non abbiamo la presenza di introni, quindi tutto il gene è codificante per la
proteina. Si tratta di una proteina di 166 amminoacidi. In questo caso contiene un sito di glicosilazione,
anch’essa è stabile a pH 2 e ha un’alta omologia, fino al 40-50%, rispetto all’interferon alfa.
L’interferon gamma fa parte di un gruppo a sé stante chiamato interferon di tipo II e detto anche
‘interferon immunitario’. Esso è prodotto in particolar modo da linfociti sensitizzati con l’aiuto di macrofagi,
solo dopo l’azione di mitogeni esterni. Anche in questo caso il gene è unico, ma localizzato, invece che sul
cromosoma 9, sul cromosoma 12. Possiede inoltre 3 introni, cosa che invece non succedeva per l’interferon
alfa e beta. Queste caratteristiche, insieme ad altre, fanno sì che questo interferon gamma venga a far parte di
un gruppo a sé stante, con caratteristiche diverse rispetto all’alfa e al beta. In effetti, un’altra caratteristica
peculiare dell’interferon gamma è quella di essere instabile a un pH acido e queste sono caratteristiche molto
importanti soprattutto per quanto riguarda la terapia ad interferone. Inoltre, non esiste alcun tipo di analogia
con l’interferon alfa e l’interferon beta.
Nella tabella 1 ho ricapitolato le caratteristiche delle varie classi di interferoni.
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Tab. 1: Proprietà degli interferoni umani
Attività antivirale
Quando una cellula viene infettata da un virus o, semplicemente, quando incontra un genoma virale,
al suo interno avvengono una serie di processi tali per cui, come risultato ultimo, si ha l’attivazione di segnali
che porteranno alla formazione dell’interferon. A questo punto, l’interferon rilasciato può seguire due
destini: in parte può essere ‘sentito’ da recettori presenti sulla stessa cellula e quindi andrà a proteggere
questa cellula da successive infezioni, oppure, nel caso più generale, avviene quella che viene definita come
una induzione dello stato antivirale su cellule adiacenti. L’interferon viene captato da recettori particolari
presenti su altre cellule e in queste vengono indotti tutta una serie di geni che sono responsabili del
cosiddetto stato antivirale, che è lo stato che ha permesso l’identificazione storica dell’interferon. Questo
stato antivirale si esplica, per esempio, con l’incapacità dei virus a essere captati dalla cellula che viene
infettata, oppure vengono attivate proteine che sono in grado di degradare gli RNA virali.
L’effetto dell’interferone su queste cellule infettate può essere a diversi livelli: possiamo avere una
inibizione della trascrizione degli RNA del virus. Oppure l’inibizione può avvenire a livello di traduzione di
questi RNA, quindi è un passo successivo. Oppure, se questi due meccanismi hanno fallito, ne possono
intervenire altri. Per esempio, se le proteine virali devono essere a loro volta glicosilate, cioè devono subire
modificazioni successive per poter diventare attive, devono agire delle proteine che vengono chiamate
glicosiltransferasi. In questo caso, l’azione inibitoria dell’interferon può essere espletata tramite l’incapacità
di queste proteine glicosilanti ad agire. O ancora, può essere inibita la capacità del virus ad essere liberato
dalla cellula.
In questo caso, vengono quindi inibiti tutti quei meccanismi che sono responsabili della maturazione
virale.
Come schematicamente rappresentato nella Fig. 1 nel caso di un attacco di virus a RNA, dobbiamo
avere, per far sì che questo virus possa uscire dalla cellula e quindi dare origine a un risultato positivo della
sua infezione, tutti quei fattori che portano alla trascrizione e poi alla traduzione dell’RNA virale. Allo stesso
modo, i virus a DNA invece devono in qualche modo attivare dei geni presenti già nella cellula. In entrambi i
casi, comunque, quello che è importante è sapere che l’entrata di virus a DNA o virus a RNA provoca
l’aumento degli interferoni nella cellula con due conseguenze: l’espressione dei geni virali può essere
attenuata e pertanto questi non possono più esprimersi. Al contrario ci può essere una maggiore espressione
di geni cellulari che sono responsabili dell’inibizione del virus. Vedremo poi nel dettaglio alcuni di questi
geni. Il risultato finale è comunque in ogni caso una inibizione della replicazione del virus.
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Fig. 1: Meccanismi di inibizione della replicazione virale da parte degli interferoni.
Attività antiproliferativa
Attualmente l’altro grande capitolo sull’azione dell’interferon è quello che riguarda l’attività
antiproliferativa e in certi casi, quindi, anche antitumorale. Sappiamo che l’interferon alfa può agire sulle
cellule T provocando la differenziazione dei cosiddetti T-helper 1 e, nello stesso tempo, inibendo invece la
crescita di altri linfociti. In questo modo, c’è la produzione di cellule specifiche contro un determinato
bersaglio. Nello stesso modo, l’interferon alfa riesce ad agire sulle cellule NK e le cellule macrofagiche,
aumentando la produzione da parte di queste di interferon, aumentando soprattutto la produzione di
interleuchina 1 e aumentandone la proliferazione, quindi il numero delle cellule in circolo.7
Sulle cellule tumorali, l’interferon alfa è in grado di aumentare l’espressione del complesso maggiore
di istocompatibilità di classe 1 e soprattutto di fare in modo che poi queste cellule esprimano antigeni tali per
cui possono essere riconosciuti dai sistemi di difesa dell’ospite. Quindi, in un certo senso, si può dire che
l’interferon alfa fa sì che le cellule tumorali producano segnali sulla loro superficie, in modo da essere poi
successivamente riconosciuti da altri elementi di difesa.
L’azione dell’interferon gamma è diversa: sulle cellule T, ne aumenta l’attivazione in sinergia,
quindi in combinazione con un’interleuchina molto importante che è l’interleuchina 2; sui macrofagi è in
grado di aumentare la produzione del complesso di istocompatibilità di classe 2; sulle cellule tumorali, oltre,
come già l’interferon alfa, ad elevare la quantità delle cellule del complesso di istocompatibilità di classe 1, è
anche in grado di diminuire la proliferazione della cellula tumorale stessa. Questo è stato osservato in colture
cellulari di alcuni tipi di tumori.7
La terapia antitumorale con interferon ha una storia abbastanza recente; verso la metà degli anni
Ottanta si sono cominciati a usare in modo massiccio gli interferon contro un gran numero di tumori. In
realtà, le promesse dell’interferon sono state solo in parte mantenute in questo caso. In effetti, in questo
lavoro pubblicato di recente da Jonasch e Haluska7 sono riportati numerosi lavori che fanno un sommario di
quello che è stato l’utilizzo dell’interferon in questi anni. Quello che ne viene fuori è che, in pratica,
l’interferon viene usato quasi sempre in combinazione con altri metodi, quali la chemioterapia, ed è attivo
solo in alcuni tipi di cancro, in particolare nei confronti della leucemia mieloide cronica o del linfoma
follicolare. In caso di altri tumori e a minor livello anche in queste forme, gli effetti negativi provocati
dall’interferon sui pazienti sono sempre abbastanza pericolosi e uno studio più approfondito deve ancora
essere fatto per poter decidere se utilizzare queste molecole in terapia antitumorale.
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Trasduzione del segnale
Per realizzare le loro attività, gli interferoni si legano a recettori di membrana specifici che
permettono alle cellule di sentire il segnale esterno dell’interferon e di trasferirlo all’interno della cellula, in
modo che questa possa produrre le cosiddette proteine interferon-inducibili.
Come già illustrato per gli interferoni, anche i recettori sono raggruppati in due classi: il recettore
dell’interferon alfa e beta da una parte e il recettore dell’interferon gamma dall’altra. In realtà, il recettore
non è unico, ma è costituito da due subunità. Congiunte, le due subunità costituiscono il vero e proprio
recettore per l’interferon. Si tratta di proteine transmembrana con un dominio extracitoplasmatico e un
dominio intracitoplasmatico, ma quello che è importante è la presenza, all’interno del dominio
intracitoplasmatico, di particolari motivi che legano proteine molto importanti nel fare in modo che questo
segnale esterno sia captato all’interno della cellula. In particolar modo, sono importanti delle proteine che si
chiamano tirosinachinasiche, perché sono in grado di fosforilare dei residui di tirosina a questo livello, che
fanno parte delle cosiddette proteine JAK. Il nome JAK ha una duplice valenza: in un periodo in cui si
stavano scoprendo numerose proteine in grado di avere questa attività chinasica, fu trovata un’ulteriore
proteina di questo tipo, per cui le iniziali del nome inglese starebbero a significare ‘appena un’altra chinasi’,
nel senso che in quel tempo ne stavano trovando veramente tante. Un’altra spiegazione è dovuta al fatto che
la molecola possiede al suo interno due domini chinasici molto simili, di cui uno solo però è attivo. Quando
la molecola assume la sua conformazione attiva, questi due domini vengono quasi a fronteggiarsi e a mimare
un po’ quella che era la faccia del Giano bifronte romano, per cui anche il nome di ‘Janus Kinase’.8
Altre proteine importanti in questo senso sono le cosiddette proteine STAT che hanno una duplice
valenza in quanto, come dice il loro nome, sono trasduttori del segnale, quindi in grado di far passare il
segnale esterno fino all’interno, e allo stesso tempo sono anche attivatori della trascrizione, perché sono
queste proteine che, una volta agganciatesi al recettore, viaggiano fino al nucleo e qui danno origine poi alla
trascrizione di geni interferon-inducibili.9
Infine, un altro gruppo di proteine che svolge un ruolo fondamentale nella trasduzione del segnale
dell’interferon è rappresentato dai Fattori Regolatori dell’Interferon (IRF – Interferon Regulatory Factors).
Questi formano una famiglia di nove fattori di trascrizione correlati dal punto di vista funzionale; attraverso
una serie di auto-interazioni o di interazioni con altri fattori di trascrizione, di recente è stato possibile
chiarire meglio10 quali sono i loro ruoli funzionali. In particolare, gli studi condotti su topi transgenici hanno
evidenziato un loro coinvolgimento nella regolazione delle difese dell’ospite, attraverso risposte immunitarie
innate e adattative e oncogenesi11.
Fig. 2:
Omologia tra la proteina murina p204 e la proteina umana Ifi16. I triangoli rappresentano i motivi
di legame della proteina Retinoblastoma (pRb).
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Geni interferon-inducibili
proteine che vengono indotte dall’interferon, che quindi vengono trascritte a partire dai fattori STAT
e IRF, sono molteplici e in continuo aumento, grazie anche all’introduzione di nuovi metodi di analisi come
la tecnologia a microarray.
Le meglio caratterizzate sono la cosiddetta proteinchinasi RNA-dipendente, in inglese PKR, il
sistema della 2’ 5’ oligoadenilatosintetasi e le proteine MX. Ognuna di queste ha delle caratteristiche
peculiari. Per esempio, il sistema della 2’ 5’ oligoadenilatosintetasi è costituito da una serie di enzimi
differenti che hanno comunque come risultato finale quello di degradare l’RNA virale12. L’altra proteina
interferon-inducibile è la cosiddetta PKR o proteinchinasi RNA-dipendente; si tratta di una proteina che, una
volta fosforilata sotto l’azione dell’interferon o di RNA a doppia elica, riesce a sua volta a dar vita a una
serie di trasformazioni all’interno della cellula che hanno come risultato finale, in questo caso, l’inibizione
della sintesi proteica virale stessa, perché vengono sequestrati i fattori di inizio della trascrizione che sono
quelli fondamentali per portare avanti la trascrizione virale13. La PKR, come già anche la
2151oligoadenilatosintetasi, oltre ad avere questa azione antivirale, è stata dimostrata avere anche un’azione
antiproliferativa e in certi casi anche di soppressore di tumori14.
Le MX protein sono un altro gruppo di proteine, conservate in diverse specie di vertebrati, le cui
caratteristiche funzionali sono però ancora poco note. In origine, furono caratterizzate per la loro attività
antivirale nel topo15 e, successivamente, nell’uomo. Quello che si sa è che la proteina umana, la MxA, è in
grado in parte di inibire l’azione di alcuni virus, soprattutto gli ortomixovirus e i paramixovirus16.
La famiglia genica di cui ci occupiamo attualmente nel nostro laboratorio è una famiglia particolare
di geni interferon-inducibili; si tratta della famiglia di geni IfI200 nel topo e, più di recente, la sua
controparte HIN200 nell’uomo. Il nome ‘IfI200’ deriva dal fatto che queste proteine contengono uno o due
domini amminoacidici 200, definiti a e b, e la famiglia è in realtà codificata da un cluster genico presente sul
cromosoma 1 in posizione q21-22 sia nel topo che nell’uomo. I quattro omologhi murini e i tre omologhi
umani hanno quasi tutti le stesse caratteristiche, cioè sono indotti da interferon, lipopolisaccaridi, virus DNA
o RNA, e sono soprattutto espressi nei tessuti ematopoietici. In particolar modo poi sono indotti
dall’interferon nel sistema delle cellule monocitomacrofagiche17,18.
Risultati abbastanza recenti del nostro laboratorio, assieme ad altri, hanno dimostrato poi che queste
proteine riescono a controllare il ciclo cellulare e in particolar modo l’overespressione su cellule in coltura.
Si è visto così che queste cellule vengono bloccate in una fase del ciclo cellulare ben precisa, cioè prima che
inizi la sintesi del DNA, tra la fase G1 e la fase S19.
A titolo di esempio, nella figura 2 abbiamo rappresentato schematicamente i componenti più
importanti di questa famiglia: la proteina murina p204 e la sua controparte umana Ifi16. Esse presentano
entrambi i domini a e b e due sequenze particolarmente importanti che concorrono a legare una proteina che
è fondamentale nel controllo del ciclo cellulare: la proteina Retinoblastoma o pRb20.
Esperimenti recenti confermano che la p204 è espressa nel tessuto ematopoietico come le altre
proteine della famiglia, ma in particolare essa è altamente inducibile nel sistema delle cellule monocito e
macrofagiche ed espressa nelle cellule endoteliali attivate ed espressa soprattutto nelle cellule della
microglia, quindi in una particolare popolazione di cellule all’interno del mesencefalo. Inoltre, recenti lavori
che stiamo facendo nel nostro laboratorio per verificare l’espressione dell’Ifi16 sembrano dimostrare la
presenza di questa cellula in cellule endoteliali di arterie nella patologia della arteriosclerosi (De Andrea et
al., in preparazione).
Questi dati, uniti agli studi che evidenziano un coinvolgimento dei componenti di questa famiglia
nella suscettibilità al lupus sistemico21,22, ci sollecitano a condurre ricerche più approfondite sulla
correlazione tra l’Ifi16 umana con varie patologie.
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