MODERNITÀ E LIMITI DELLA STORIOGRAFIA TUCIDIDEA Fabio Macciò La lezione è indirizzata ad alunni di seconda liceo classico. Essa presuppone la conoscenza della biografia dello storico e le nozioni essenziali relative alla sua opera (argomento, struttura, genesi, passi fondamentali), oltre alla conoscenza dei suoi predecessori (i logografi e, soprattutto, Erodoto). [1] Qoukudi/dhj 'Aqhnai=oj cune/graye to\n po/lemon tw=n Peloponnhsi/wn kai\ 'Aqhnai/wn w(j e)pole/mhsan pro\j a)llh/louj, a)rca/menoj eu)qu\j kaqistame/nou kai\ e)lpi/saj me/gan te kai\ a)ciologw/taton tw=n progegenhme/nwn, tekmairo/menoj o3ti a)kma/zonte/j te h|]san e)j au)to\n a)mfo/teroi paraskeuh|= th|= pa/sh| kai\ to\ a1llo 9Ellhniko\n o(rw=n cunista/menon pro\j e(kate/rouj, to\ me\n eu)qu/j, to\ de\ kai\ dianoou/menon. [2] Ki/nhsij ga\r au3th dh\ megi/sth toi=j 3Ellhsin e)ge/neto kai\ me/rei tini\ tw=n barba/rwn w(j de\ ei)pei=n kai\ e)pi\ plei=ston a)nqrw/pwn. [3] Ta\ ga\r pro\ au)tw=n kai\ ta\ e1ti palai/tera safw=j me\n eu(rei=n dia\ xro/nou plh=qoj a)du/naton h]n, e)k de\ tekmhri/wn w[n e)pi\ makro/taton skopou=nti/ moi pisteu=sai cumbai/nei, ou) mega/la nomi/zw gene/sqai ou1te kata\ tou\j pole/mouj ou1te e)j ta\ a1lla. «[1] L’ateniese Tucidide descrisse la guerra tra Ateniesi e Peloponnesi, come combatterono tra loro cominciando subito al suo sorgere e immaginandosi che sarebbe stata grande e la più importante di tutte quelle avvenute fino allora. Lo immaginava deducendolo dal fatto che le due parti si scontrarono quando entrambe erano al culmine di tutti i mezzi militari e vedendo che il resto della Grecia si univa all’uno o all’altro dei due contendenti, gli uni subito, e gli altri ne avevano l’intenzione. [2] Certo, questo è stato il più grande sommovimento che sia mai avvenuto fra i Greci e per una parte dei barbari e, per così dire, anche per la maggior parte degli uomini. [3] Giacché gli avvenimenti precedenti alla guerra e quelli ancora più antichi erano impossibili a investigarsi perfettamente per via del gran tempo trascorso e, a giudicar dalle prove che esaminando molto indietro nel passato mi capita di riconoscere come attendibili, non li considero importanti né dal punto di vista militare né per il resto».1 Così ha inizio (I 1) l’opera storica di Tucidide, la quale, si suol dire, non ha titolo (come del resto non l’aveva neppure la storia di Erodoto). In realtà, il titolo è contenuto nella prima frase (fino a pro\j a)llh/louj), nella quale trovano spazio il nome e la provenienza dell’autore (la cosiddetta sfragi/j = «suggello») e l’argomento dell’opera: indicazioni di questo tipo troverebbero spazio nelle moderne edizioni a stampa nella copertina del libro2. Tucidide, dunque, «descrisse la guerra 1 La traduzione di tutti i passi dell’opera tucididea è quella di C. Moreschini nella revisione di F. Ferrari, da Tucidide. La guerra del Peloponneso, voll. I-III, introd. di M.I. Finley, note di Giovanna Daverio Rocchi, Milano (BUR) 19987 (19851). 2 La stessa cosa vale per l’incipit dell’opera di Erodoto ( 9Hrodo/tou 9Alikarnhsse/oj i(stori/hj a)po/decij h3de … = «Questa è l’esposizione della ricerca di Erodoto di Alicarnasso …»), in cui abbiamo subito nome e provenienza dell’autore, quindi l’indicazione dell’argomento dell’opera. 2 tra Ateniesi e Peloponnesi, come combatterono tra loro». A dispetto della sua semplicità, la frase possiede una forte carica innovativa, per almeno due ragioni. La prima è che, cosa mai successa fino ad allora nel mondo greco, uno storico sceglieva come materia della sua narrazione un solo evento, per quanto di importanza capitale, svoltosi in un arco di tempo relativamente breve (ventisette anni): nasceva in questo modo la monografia storica, un genere storiografico che ha oggi molta fortuna, ma non ebbe molti proseliti nelle letterature classiche, se si eccettua l’esempio di Sallustio, il quale anche per altri versi si configura come un imitatore (con ampi spazi di originalità) di Tucidide3. La seconda ragione è contenuta nell’espressione w(j e)pole/mhsan pro\j a)llh/louj, con cui Tucidide dichiara esplicitamente fin dal principio di voler concentrare la sua attenzione sull’aspetto politico-militare degli eventi, prescindendo sia dai fattori economici e sociali (su cui oggi molto insiste la storiografia moderna) sia da quelli culturali e di costume, che tanto avevano interessato il suo predecessore Erodoto. Da questo punto di vista, Tucidide ebbe un convinto prosecutore tre secoli più tardi in Polibio di Megalopoli (200c.-118c. a.C.), il quale, nelle sue Storie, si occupa dell’ascesa di Roma a dominatrice del Mediterraneo a partire dalla prima guerra punica (iniziata nel 264 a.C.) per finire con la terza (conclusasi nel 146 a.C.). Questo preminente interesse per le vicende politiche e militari si ritroverà poi in tre grandi storici latini: Cesare, il già citato Sallustio e Tacito. Proseguendo nella lettura del capitolo introduttivo, scopriamo un altro elemento altrettanto innovativo. Tucidide dice di aver cominciato a scrivere subito dopo lo scoppio delle ostilità (eu)qu\j kaqistame/non): egli, dunque, scrive di storia contemporanea, a differenza di quanto aveva fatto Erodoto, che aveva posto al centro dei suoi interessi (insieme, per la verità, a molto altro) la guerra greco-persiana, la quale terminò nel 480 a.C., quando lo storico di Alicarnasso muoveva appena i primi passi. Ma possiamo dire anche di più: Tucidide non solo scrive di storia contemporanea, ossia di fatti avvenuti durante la sua vita, ma dichiara di scrivere addirittura contemporaneamente agli stessi fatti, man mano che essi si svolgono, come un vero e proprio cronista, prevedendone l’importanza per la storia della Grecia e dell’umanità4. Molto utile per comprendere la mentalità tucididea è analizzare le motivazioni addotte dallo storico per giustificare questa scelta. 1) Innanzitutto, si tratta della guerra più grande e più importante tra tutte quelle avvenute nelle epoche passate. Lo storico lo deduce (tekmairo/menoj, verbo chiave del lessico tucidideo, come il sostantivo tekmh/rion) dal fatto che Sparta e Atene si trovano al culmine (a)kma/zontej) del loro sviluppo economico, politico e militare, e rappresentano ormai i due centri gravitazionali del mondo greco e, in parte, barbaro. Viene qui espressa l’idea, che doveva avere validi sostenitori all’epoca di Tucidide nei sofisti, secondo la quale la storia della Grecia era stata caratterizzata fino ad allora da un lungo e incessante progresso. Ma subito dopo lo storico aggiunge che si tratta anche di un «grandissimo sconvolgimento» (Ki/nhsij … megi/sth), capace 3 Sallustio (86-35 a.C.) scrisse due monografie: il De coniuratione Catilinae e il De bello Iugurthino, dedicate peraltro a eventi di gran lunga meno importanti della guerra del Peloponneso. Anche la Germania di Tacito può essere considerata una monografia, ma il suo carattere è principalmente etnografico. Opere storiche dedicate a guerre specifiche sono invece il De bello gallico e il De bello civili di Cesare, ma in questo caso si tratta propriamente di commentarii (= «diari, memorie»), privi, almeno teoricamente, di un vero e proprio intento storiografico. 4 Questa affermazione dello storico va comunque sottoposta a un’attenta tara, tanto più che tocca una vexata quaestio come quella della determinazione delle fasi compositive dell’opera, che ha impegnato moltissimi studiosi e dato luogo a molteplici teorie. È possibile che essa si debba riferire solo (ma sarebbe già molto) alla prima fase della guerra del Peloponneso, ossia alla cosiddetta “guerra archidamica” (431-421 a.C.), narrata da Tucidide nei libri I-V 25. Peraltro sembra ormai certo che a questa sezione della sua storia lo storico abbia apportato modifiche e aggiunte successive: emblematico il caso dell’elogio postumo di Pericle (II 65), all’interno del quale (parr. 10-13), troviamo un giudizio fortemente negativo sui successori del grande statista e sulla disastrosa conduzione della spedizione in Sicilia, che chiaramente dovette essere stato scritto dopo la fine di quest’ultima (412 a.C.), ad almeno diciassette anni di distanza dagli avvenimenti narrati nel libro II. - www.loescher.it/mediaclassica - 3 di coinvolgere non solo tutti i Greci, ma anche una parte dei barbari (in primis i Persiani), lasciando intendere che il raggiungimento dell’ a0kmh/ non poteva che comportare un’inevitabile decadenza. E in questo modo egli si avvicinava a una concezione ciclica della storia umana, o quantomeno della storia politica, che verrà ripresa a suo tempo da Polibio. In buona sostanza, Tucidide è convinto che la guerra del Peloponneso rappresenti un momento davvero epocale: il momento in cui il mondo greco raggiunge il massimo del suo sviluppo storico e, insieme, incomincia fragorosamente a decadere. La conferma della drammaticità del periodo gli viene dalla frequenza delle catastrofi naturali che lo accompagnano (un’idea che si ritroverà anche in Polibio V 5, 5-6), come si legge in I 23, 1-3: «[1] […] la durata di questa guerra si protrasse a lungo, e insieme ad essa si produssero sconvolgimenti in tutta la Grecia, terribili come non mai in un uguale periodo di tempo. [2] Mai tante città furono conquistate e spopolate, le une dai barbari, le altre per le loro lotte reciproche (alcune, conquistate, cambiarono persino gli abitanti), né mai avvennero tanti esili e tante stragi, le une nel corso della guerra, le altre per le contese interne. [3] E ciò che prima si raccontava a voce, ma che in realtà si era raramente verificato, ora divenne credibile: terremoti che investirono, fortissimi, le più ampie regioni, eclissi di sole che avvennero più frequenti di quanto si raccontava nel passato, in alcune regioni grandi siccità e, in conseguenza di esse, carestie, e quell’epidemia che produsse non piccoli danni e distruzioni, la peste: tutto questo ci assalì assieme a questa guerra (tau=ta ga\r pa/nta meta\ tou=de tou= pole/mou a3ma cunepe/qeto)».5 2) Secondariamente, per le epoche precedenti (da quelle più recenti giù giù fino a quelle più remote) non c’è la possibilità di avvalersi di informazioni dettagliate e sicure; dunque, non si può inferire nulla di certo su di esse (safw=j me\n eu(rei=n: I 1, 3). Molto meglio allora per lo storico dedicarsi alla storia dei suoi giorni, per la quale ha a disposizione numerose testimonianze, che può controllare di persona al fine di una ricostruzione seria e attendibile degli eventi. I capitoli successivi (I 2-19), dedicati alla cosiddetta “Archeologia della Grecia” (ossia “Storia della Grecia nei tempi antichi”) svolgono la funzione di convalidare le due considerazioni sopra riportate, dimostrando: A) che nessun avvenimento passato, dalla guerra di Troia (fatto storico per Tucidide) alle guerre persiane, può neanche lontanamente avvicinarsi per importanza alla guerra del Peloponneso; B) che le fonti riguardo a questo lungo arco di tempo, dai poeti6 ai logografi a Erodoto, spesso non sono affidabili. Non è un caso che i due capitoli (I 20-21) che seguono l’“Archeologia” e 5 Proprio la scelta di un’epoca così disgraziata della storia greca attirò a Tucidide le critiche di Dionigi di Alicarnasso (I sec. a.C.), il quale, nella Lettera a Pompeio, sez. terza, così si esprime: «Il compito principale, si potrebbe dire il più necessario, di qualsiasi storico è quello di scegliere un argomento di carattere elevato, che sia allo stesso tempo interessante per i suoi lettori. In ciò mi pare che Erodoto abbia avuto la meglio su Tucidide […] (che) scrive di una sola guerra, per di più ingloriosa e sfortunata, che sarebbe stato meglio non fosse accaduta o (almeno) fosse stata dimenticata dai posteri, circondata dal silenzio e dall’oblio. Nella sua Introduzione dice chiaramente di aver scelto un brutto argomento, poiché proprio a causa di quella guerra molte città greche erano precipitate in uno stato di desolazione […] La conseguenza più ovvia è che i lettori della Introduzione provano avversione per l’argomento, poiché sono sul punto di conoscere le disgrazie della Grecia» (da Tucidide. La guerra del Peloponneso, cit., introd. p. 35). Da questo giudizio, che proviene dalla fonte migliore in nostro possesso per la critica tucididea nel mondo antico, possiamo forse farci un’idea del perché l’opera di Tucidide ebbe scarso successo nell’antichità, oltre che naturalmente della superficialità e dell’assurdità di certi pregiudizi estetici dei commentatori antichi, rispetto ai quali Tucidide si dimostra molto più vicino alla nostra mentalità (del resto lo stesso Tucidide ha in pratica risposto a Dionigi nel capitolo sul metodo [I 22, 4], indicando come scopo della sua opera l’utilità, non il diletto). 6 Tucidide dimostra qualche scetticismo nell’accogliere la testimonianza di Omero; per esempio, I 9, 3: w(j 3Omhroj tou=to dedh/lwken, ei1 tw| i(kano\j tekmhriw=sai (= «come mostra Omero, se gli si può credere in qualcosa») o I 10, 3: th|= (Omh/rou au] poih/sei ei1 ti xrh\ ka9ntau=qa pisteu/ein, h4n ei9ko\j e9pi\ to\ mei=zon me\n poihth\n o1nta kosmh=sai (= «se anche qui bisogna credere alla poesia di Omero, il quale è verisimile che, come poeta, l’abbellisse»). - www.loescher.it/mediaclassica - 4 precedono il capitolo metodologico (I 22) insistano ulteriormente su questi due concetti. Il secondo punto è affrontato in I 20, 1: «Tali dunque si sono presentati alle mie ricerche gli antichi avvenimenti, ma sono tali da rendere difficile il prestar fede a qualunque indizio (tekmhri/w|) su di loro, così come viene. Giacché gli uomini accettano ugualmente senza sottoporle a prova le tradizioni orali degli avvenimenti precedenti, anche se esse riguardano avvenimenti del loro paese». Subito dopo lo storico cita, a mo’ di esempio, la falsa tradizione relativa alla morte di Ipparco ucciso da Armodio e Aristogitone e due errori, peraltro di poco conto, commessi da Erodoto. Poi continua (I 21, 1): «Tuttavia, chi, basandosi sulle testimonianze che ho dato, intende in tal modo gli avvenimenti da me esposti e non presta maggior fede alle celebrazioni che i poeti hanno fatto di quegli stessi avvenimenti, abbellendoli, o alle narrazioni dei logografi, aventi come scopo più il diletto dell’udito che la verità, avvenimenti non provabili e per la maggior parte, per effetto del tempo trascorso, passati a far parte del mito in modo da non meritare attendibilità; chi infine crede che tali avvenimenti sono stati investigati sulla base degli indizi più sicuri, in modo sufficiente, data la loro antichità – costui non dovrebbe sbagliare». Infine, Tucidide torna a ribadire la grandezza della guerra che si appresta a narrare (I 21, 2): «E questa guerra, sebbene gli uomini considerino più importante sempre quella guerra presente a cui partecipano, mentre, una volta finita, ammirano soprattutto gli avvenimenti passati, a giudicare sulla base dei fatti stessi si vedrà che è stata maggiore di quelle del passato». Particolarmente interessanti sono i termini della polemica di Tucidide con quelli che lui chiama “logografi” (= «scrittori in prosa»): […] logogra/foi cune/qesan e)pi\ to\ prosagwgo/teron th|= a)kroa/sei h2 a)lhqe/steron […] (I 21, 1) Il concetto è chiaro: questi scrittori se ne infischiano della verità, anzi, non esitano a forzarla pur di procurare divertimento al loro pubblico di ascoltatori. Il presupposto di questa critica è l’esistenza di letture pubbliche di opere storiche o pseudo-storiche al tempo di Tucidide; quelle stesse letture pubbliche che aveva tenuto ad Atene anche Erodoto (FGrHist 73 F 5), il quale probabilmente va qui incluso nel novero degli stessi logografi. La polemica viene ripresa da Tucidide nella parte finale del capitolo sul metodo (I 22, 4), un passo davvero illuminante per comprendere la straordinaria novità della sua opera: Kai\ e0j me\n a)kro/asin i3swj to\ mh\ muqw=dej au)tw=n (e0 r gw~ n) a)terpe/steron fanei=tai: o3soi de\ boulh/sontai tw=n te genome/nwn to\ safe\j skopei~n kai\ tw=n mello/ntwn pote\ au]qij kata\ to\ a)nqrw/pinon toiou/twn kai\ paraplhsi/wn e1sesqai, w)fe/lima kri/nein au)ta\ a)rkou/ntwj e3cei. Kth=ma/ te e)j ai)ei\ ma=llon h2 a)gw/nisma e)j to\ paraxrh=ma a)kou/ein cu/gkeitai. «La mancanza del favoloso in questi fatti li farà apparire, forse, meno piacevoli all’ascolto, ma se quelli che vorranno investigare la realtà degli avvenimenti passati e di quelli futuri (i quali, secondo il carattere dell’uomo, saranno uguali o simili a questi), considereranno utile la mia opera, tanto basta. Essa è un possesso che vale per l’eternità più che un pezzo di bravura, da essere ascoltato momentaneamente». - www.loescher.it/mediaclassica - 5 Qui la contrapposizione tra due diversi modi di concepire la storia si fa esplicita: da una parte, il «favoloso» (muqw=dej)7, dall’altra la «conoscenza esatta» (to\ safe\j skopei=n); da una parte il divertimento, dall’altra l’utilità (w)fe/lima); da una parte il «possesso eterno» (kth=ma/ te e)j ai)ei/) , dall’altra la «competizione» (a)gw/nisma) che si esaurisce nel giro di un giorno. In primo luogo, cambia con Tucidide lo scopo dell’opera storica, che non è più, come per Erodoto, di conservare la memoria di imprese gloriose con intento celebrativo, ma diventa quello di essere utile, senza per forza dover essere piacevole all’ascolto (un ribaltamento dei canoni estetici non da poco trattandosi di un’opera letteraria). Ma cambia lo scopo perché cambiano i destinatari dell’opera storica: non più il vasto e variegato uditorio delle letture pubbliche, ma un gruppo ben più ristretto e selezionato, come quello degli uomini politici, di coloro che hanno la responsabilità del governo di uno stato. Questa impostazione politica e didattica risente fortemente dell’influenza dei sofisti che, nell’Atene del V secolo, percorrevano le strade sostenendo di saper insegnare la politikh\ te/xnh, l’arte di avere successo nella vita pubblica8. Ma Tucidide vola più alto: non limita l’utilità della sua opera alla contemporaneità, bensì la estende alle generazioni future e addirittura all’eternità (kth=ma/ te e)j ai)ei/). Quest’ultima affermazione dello storico si basa su un presupposto indispensabile e necessita di un chiarimento. Il presupposto consiste nella consapevolezza di creare un testo destinato a trasmettersi per via scritta e fatto per la lettura anziché per l’ascolto. Le sottolineature polemiche nei confronti delle audizioni pubbliche che si evincono da alcuni brani da noi citati, vanno lette anche in questo senso. Da questo punto di vista, l’opera di Tucidide rappresenta una tappa fondamentale nel graduale passaggio dall’oralità alla scrittura in corso nel V secolo. Il chiarimento riguarda invece la natura di questo vantaggio perenne dichiarato dallo storico, sulla base dell’identità dei comportamenti umani nel tempo. Tucidide non anticipa qui la formula ciceroniana historia magistra vitae, la quale ha un valore principalmente morale, mentre la morale è esclusa in principio dal discorso tucidideo; né intende fornire indicazioni su come agire concretamente nelle diverse circostanze della politica interna o estera (cosa che non avrebbe senso). Si propone, invece, di rivelare, sotto i fatti specifici, la presenza di meccanismi e di leggi universali insite nella natura stessa dell’uomo e, come tali, ripetibili, la cui conoscenza potrà consentire agli uomini politici del futuro di individuare le ragioni di determinati eventi, di prevederne le conseguenze o di anticiparne gli effetti, prendendo le decisioni più giuste a seconda delle circostanze. Se tale dunque era il compito che Tucidide assegnava alla storiografia, era inevitabile che egli cercasse di dotarsi di un metodo scientifico, che provvedesse all’accertamento dei fatti collocandoli in una precisa cornice cronologica, che ne indagasse le cause e, infine, ne enucleasse i significati. Siamo ai prodromi della storiografia moderna. Procediamo per gradi. Innanzitutto, l’accertamento dei fatti, che porta con sé il problema della qualità delle fonti e del loro utilizzo. Tucidide ne parla nel capitolo sul metodo (I 22, 2-3): [2] ta\ d’ e1rga tw=n praxqe/ntwn e)n tw|= pole/mw| ou)k e)k tou= paratuxo/ntoj punqano/menoj h)ci/wsa gra/fein ou)d’ w(j e)moi\ e)do/kei, a)ll’ oi[j te au)to\j parh=n kai\ para\ tw=n a1llwn o3son dunato\n a)kribei/a| peri\ e(ka/stou e)pecelqw/n. [3] )Epipo/nwj de\ hu(ri/sketo, dio/ti oi( paro/ntej toi=j e1rgoij e(ka/stoij ou9 tau0ta\ peri\ tw=n au)tw=n e1legon, a)ll’ w(j e(kate/rwn tij eu)noi/aj h2 mnh/mhj e1xoi. «[2] I fatti concreti degli avvenimenti di guerra non ho considerato opportuno raccontarli informandomi dal primo che capitava, né come pareva a me, ma ho raccontato quelli a cui io 7 Ricordiamo in Erodoto le novelle di Gige e dell’anello di Policrate, o il sogno di Serse, per fare solo pochissimi esempi. 8 Cfr. K. Meister, La storiografia greca. Dalle origini alla fine dell’Ellenismo, Roma-Bari 1998 (19921), p. 49. - www.loescher.it/mediaclassica - 6 stesso fui presente e su ciascuno dei quali mi informai dagli altri con la maggior esattezza possibile. [3] Difficile era la ricerca, perché quelli che avevano partecipato ai fatti non dicevano tutti le stesse cose sugli stessi avvenimenti, ma parlavano a seconda del loro ricordo o della loro simpatia per una delle due parti». Il passo è una dichiarazione di accuratezza e attendibilità: in sostanza, lo storico afferma che nella sua opera non c’è nulla di inventato, perché gli avvenimenti narrati o sono stati visti direttamente da lui (la cosiddetta “autopsia”)9 oppure sono stati ricavati da fonti attentamente vagliate, puntando sull’«esattezza» (a)kri/beia). E in effetti, la precisione di Tucidide nel raccontare anche il minimo particolare è disarmante, se pensiamo ai tempi, al punto da costituire, secondo M.I. Finley, «un problema insolubile»10. Il suo amore per la verità è tale che egli stesso ci informa dei limiti che la ricerca della verità necessariamente comporta, fondandosi su esseri umani: per quanto l’argomento sia la storia contemporanea e si abbiano a disposizione le persone che hanno assistito o addirittura partecipato ai fatti, tuttavia ciò non garantisce la loro imparzialità né l’affidabilità dei loro ricordi (osservazione che, del resto, potrebbe valere anche per lo stesso storico). Sembra che qui Tucidide abbia intuito che una “verità storica” non può esistere e che al più si possa parlare di “attendibilità” dello storico. Infine, è interessante notare come il metodo tucidideo, per quanto avanzato, si serva ancora di fonti quasi esclusivamente orali (come accadeva già per Erodoto), con uso piuttosto limitato – per quanto accertato – dei documenti scritti, che infatti non vengono citati nel passo11. Tucidide era consapevole che alla precisione nel racconto dei fatti doveva corrispondere, perché essi risultassero chiari nei loro rapporti reciproci, altrettanta precisione nel loro inquadramento cronologico. Il problema era tutt’altro che secondario per almeno due ragioni: 1) l’esistenza in Grecia di una molteplicità di calendari, uno per ogni città-stato o entità politica regionale, basati spesso sul nome dei magistrati o dei sacerdoti in carica: è chiaro che qualunque calendario particolare lo storico avesse deciso di seguire, esso non sarebbe stato compreso da tutti quei Greci che su quel calendario non si basavano; 1) lo svolgimento degli avvenimenti bellici in più luoghi (ciascuno con il suo calendario) contemporaneamente, con l’inevitabile rischio della confusione e della sovrapposizione dei fatti. Ecco il sistema, semplice ma ingegnoso, prescelto da Tucidide. Innanzitutto, egli si preoccupa di fissare con la massima esattezza la data di inizio del conflitto, ricorrendo alla datazione relativa (basata cioè sul rapporto cronologico con altri avvenimenti rilevanti) e al confronto tra calendari diversi (II 2, 1): «Quattordici anni era durata infatti la tregua trentennale stipulata dopo la conquista dell’Eubea [datazione relativa]: ma nel quindicesimo, quando Criside in Argo era nel quarantottesimo anno del suo sacerdozio [calendario di Argo] ed Enesio era eforo in Sparta [calendario di Sparta] e all’arcontato di Pitodoro in Atene restavano ancora quattro mesi [calendario di Atene], il sesto mese dopo la battaglia di Potidea [datazione relativa] e sul cominciar della primavera, poco più di trecento soldati […]». 9 È interessante notare come anche Erodoto si fosse servito di questo argomento per accreditare la veridicità della propria opera e marcare la distanza rispetto a informazioni non pienamente verificabili (II 99, 1: «Finora ho riferito ciò che ho visto con i miei occhi (o1 y ij), valutato con il mio giudizio e stabilito con la mia indagine, ma d’ora in poi racconterò le storie egiziane così come le ho sentite». Cfr. Meister, op. cit., p. 35). 10 Cfr. Tucidide. La guerra del Peloponneso, cit., introd. p. 19. 11 L’utilizzo di documenti scritti nell’opera è peraltro difficilmente rintracciabile, considerata l’abitudine tucididea di rielaborarli. La presenza di documenti non rielaborati nei libri V e VIII viene anzi solitamente considerata una prova della mancanza di una rifinitura dei due libri e quindi della loro composizione successiva. - www.loescher.it/mediaclassica - 7 Quindi, narra le vicende anno dopo anno (seguendo dunque il criterio “annalistico”) contando gli anni solari a partire da quello di inizio della guerra stabilito nella maniera che abbiamo appena visto, e facendo continui e puntuali richiami alla fine di ogni anno di guerra, del tipo: […] kai\ to\ deu/teron e1toj e)teleu/ta tw|= pole/mw| tw|=de o4n Qoukudi/dhj cune/grayen (II 70, 5); […] kai\ tri/ton e1toj tw|= pole/mw| e)teleu/ta tw|=de o4n Qoukudi/dhj cune/grayen (II 103, 2); […] kai\ te/tarton e1toj tw|= pole/mw| e)teleu/ta tw|=de o4n Qoukudi/dhj cune/grayen (III 25, 2) ecc. «e finiva il secondo/terzo/quarto … anno di questa guerra scritta da Tucidide». Tuttavia, il sistema non gli pareva ancora sufficientemente preciso, perché l’indicazione dell’anno, sebbene risolvesse le difficoltà dovute ai diversi calendari, rimaneva ancora troppo generica. Allora decide di suddividere l’anno in due parti, estate e inverno (senza peraltro indicare l’inizio delle due stagioni) e di ripartire ulteriormente le due stagioni in «inizio», «metà» e «fine». In tal modo, se non si arrivava all’esattezza assoluta, si riduceva il più possibile l’approssimazione e si fornivano ai lettori le coordinate per una ricostruzione ordinata degli eventi; tanto più necessaria in quanto la narrazione annalistica imponeva inevitabilmente di spezzettare gli avvenimenti che si svolgevano a cavallo di uno o più anni. Molto indicativo è il capitolo V 20, in cui in un momento cruciale del racconto, come la conclusione della guerra archidamica con la pace di Nicia (421 a.C.), lo storico coglie l’occasione per fare il punto circa le proprie scelte in materia di cronologia (parr. 2-3): «[1] Questo trattato (sc. la pace di Nicia) fu concluso alla fine dell’inverno (teleutw=ntoj tou= xeimw=noj), col venir della primavera, subito dopo le Dionisie urbane, proprio dieci anni – con pochi giorni in più – da quando avvenne la prima invasione dell’Attica e l’inizio di questa guerra. [2] Bisogna esaminare un periodo di tempo dopo l’altro, e non aver maggior fiducia nell’elenco dei nomi dei magistrati di ciascun luogo o di quei nomi che indicano gli avvenimenti passati mediante l’indicazione di una carica. Non è esatto infatti dire che un avvenimento accade durante una certa magistratura, ché essa allora poteva essere all’inizio o a metà o in qualche altro punto del suo corso. [3] Calcolando invece per estati e inverni (kata\ qe/rh de\ kai\ xeimw=naj), così come da me è stato scritto, siccome entrambi questi due periodi hanno il valore della metà di un anno, si troverà che questa prima guerra ha avuto dieci estati e altrettanti inverni». A Tucidide spetta poi il grande merito di aver intuito la continuità tra la guerra archidamica, alla quale con ogni probabilità si riferisce l’indicazione o3de po/lemoj utilizzata nei primi libri, e gli avvenimenti successivi: l’esile periodo di pace, la spedizione in Sicilia e la guerra deceleico-ionica. Gli estremi cronologici della guerra del Peloponneso sono stati determinati una volta per tutte proprio dal nostro storico nel cosiddetto “secondo proemio” (V 26, 1-3): «[1] Ma anche questi avvenimenti sono stati descritti dal medesimo ateniese Tucidide, di seguito come ciascuno avvenne, per estati e inverni, fino a quando i Lacedemoni e gli alleati posero fine all’impero degli Ateniesi e occuparono le lunghe mura e il Pireo. Fino a questo punto la guerra durò in tutto ventisette anni. [2] E l’accordo intermedio, se qualcuno non vorrà considerarlo guerra, non giudica esattamente. Si osservi quanto esso differisca nei fatti dalla guerra, e si troverà che non è verosimile giudicarlo periodo di pace, giacché in esso né restituirono tutto né rispettarono i patti […] [3] Cosicché con la prima guerra decennale e la sospetta tregua successiva e con la guerra che ne è poi derivata si troverà che tanti anni essa è - www.loescher.it/mediaclassica - 8 durata, e che tale periodo non supera di molti giorni – calcolando secondo i tempi – i ventisette anni […]»12. L’accertamento dei fatti e la loro disposizione in una successione cronologica riconoscibile sono i presupposti indispensabili di una storiografia scientifica, ma il vero nucleo del metodo tucidideo, ciò che conferisce alla sua storia quell’utilità di cui prima ragionavamo, è costituito da altri due elementi, che non di rado si intersecano tra loro: l’indagine sulle cause degli avvenimenti e l’interpretazione del significato degli stessi. La ricerca delle cause costituiva un obiettivo già per Erodoto, il quale, nel capitolo introduttivo della sua storia (I 1), affermava di voler illustrare «la ragione per la quale» (di’ h4n ai9ti/hn) Greci e barbari erano entrati in conflitto. Tucidide amplia questo concetto, introducendo una distinzione destinata a diventare un caposaldo della storiografia, quella – per usare termini moderni – tra «cause profonde» e «motivi occasionali» della guerra. Lo fa alla fine della parte introduttiva della sua opera (I 23, 6): Th\n me\ n ga\r a)lhqesta/thn pro/fasin, a)fanesta/thn de\ lo/gw|, tou\j ‘Aqhnai/ouj h(gou=mai mega/louj gignome/nouj kai\ fo/bon pare/xontaj toi=j Lakedaimoni/oij a0nagka/sai e)j to\ polemei=n: ai( d’ e)j to\ fanero\n lego/menai ai0ti/ai ai3d’ h] s an e(kate/rwn, a)f’ w[n lu/santej ta\j sponda\j e)j to\n po\lemon kate/sthsan. «Il motivo più vero, ma meno dichiarato apertamente, penso che fosse il crescere della potenza ateniese e il suo incutere timore ai Lacedemoni, sì da provocare la guerra. Ma le cause dette apertamente, quelle per cui si ruppero i trattati e si entrò in guerra, furono, per entrambe le parti, le seguenti». Da una parte, dunque, ci sono le ai0ti/ai, termine che non significa soltanto «cause, ragioni», ma anche «accuse»: si tratta di quei caratteristici rimpalli di responsabilità cui danno vita pubblicamente (e)j to\ fanero\n) le due parti in contesa, con il classico corollario di mistificazioni. Esse non arrivano al cuore del problema, ma si fermano alla superficie. Nel caso della guerra del Peloponneso, pareva, a dar retta allo scontro politico, che l’origine del conflitto fosse da ricercarsi nei contrasti tra Epidamno e Corcira e nei fatti di Potidea, che avevano inasprito i rapporti tra Atene e Corinto, provocando la reazione di Sparta e dei suoi alleati. Dall’altra parte, c’è il vero perché (th\ n a)lhqesta/thn pro/fasin), la ragione mai dichiarata apertamente, che lo storico, attraverso la propria ricerca e il proprio acume (h(gou=mai), ritiene di aver scoperto al di sotto delle apparenze: Sparta aveva timore dell’espansione della potenza ateniese. Tucidide ne è così convinto che, al termine dei capitoli dedicati ai motivi occasionali della guerra (I 24-88), la ribadisce (I 88): «I Lacedemoni decretarono che il patto era stato rotto e che la guerra era da farsi, non tanto perché erano persuasi dalle parole degli alleati quanto perché temevano che la potenza ateniese crescesse, vedendo che la maggior parte della Grecia era ormai sottomessa a loro». La ricerca delle cause diventa dunque interpretazione dei fatti, visione personale; ma non visione campata per aria, bensì basata sui fatti stessi, utilizzati come tekmh/ria, ossia come «indizi», che lo storico deve trasformare in shmei= a , ossia in «segni», in indicazioni valide per comprendere le 12 Sussistono in realtà a tutt’oggi molti dubbi sull’autenticità di questo secondo proemio, che alcuni (Canfora) vorrebbero attribuire alla mano di Senofonte, editore e continuatore dell’opera di Tucidide. La questione non è risolta, ma ora come ora non esistono prove inconfutabili per affermare che il suo autore non sia lo stesso Tucidide. Comunque, se anche così non fosse, l’intuizione dello storico non viene sminuita, perché è il suo stesso racconto a confermarci che egli aveva identificato in quei termini l’arco cronologico coperto dalla guerra. - www.loescher.it/mediaclassica - 9 relazioni di causa-effetto tra gli eventi. Questo metodo eziologico è impiegato rigorosamente da Tucidide in tutta la sua opera. Un esempio di questo modo di procedere è fornito dalla narrazione della guerra civile tra democratici e oligarchici a Corcira. Tucidide prima descrive gli avvenimenti accaduti a Corcira (III 70-81), ossia i tekmh/ria; quindi, essi vengono interpretati come shmei=a, ossia come simbolici di tutte le degenerazioni che in quegli anni afflissero le città della Grecia, coinvolte in analoghi conflitti interni, che portarono al ribaltamento di tutti i valori (di giustizia, lealtà, onore, consanguineità, ecc.) tradizionalmente accettati (III 82, 1-7). Infine, vengono individuate le ragioni di questo sfacelo, di cui le vicende di Corcira sono indizio (III 82, 8): «Cagione di tutto ciò era il dominio ispirato dai soprusi e dall’ambizione, dai quali derivava anche l’ardore di uomini posti di fronte alla necessità di vincere ad ogni costo. Ché nelle città i capi di fazione, ciascuno usando nomi onesti, cioè di preferire il popolo e l’uguaglianza civile oppure un’aristocrazia moderata, a parole curavano gli interessi comuni, ma a fatti ne facevano un premio della loro lotta. E, lottando con tutti i mezzi per superarsi, osarono compiere i fatti più inauditi e continuamente inasprirono le rappresaglie, non ponendo come loro confine la giustizia e l’utile della città, ma definendole a seconda del piacere che ciascuna delle due parti vi trovava; e, mentre cercavano di raggiungere il potere mediante una condanna motivata da un ingiusto decreto o l’uso della forza, erano pronti a soddisfare la bramosia di vittoria del momento. Sicché nessuna delle due parti praticava l’onestà, ma godevano di miglior fama coloro che con un manto di bei discorsi riuscivano a fare qualcosa in modo odioso. E i cittadini neutrali perivano per mano di entrambe le fazioni, o perché non si univano alla lotta, o per l’odio che si provava perché scampavano alla morte». Ecco che da un fatto particolare lo storico è passato a descrivere una situazione generale, la quale può essere spiegata facendo ricorso all’analisi di comportamenti costanti nell’uomo, che si ripresentano in determinate circostanze. Nella storia di Tucidide lo strumento privilegiato per la riflessione sui significati e le cause degli eventi e per questo passaggio dal particolare all’universale, rimangono pur sempre i discorsi. Le innumerevoli discussioni circa i criteri seguiti per comporli o la loro attendibilità, su cui anche noi in seguito ci soffermeremo, non sono importanti quanto la comprensione della funzione loro attribuita dallo storico. In essi sono i protagonisti in prima persona, sotto forma di individui o di gruppi, che, in maniera diretta, ci svelano le motivazioni pratiche e ideali delle loro azioni, spesso attraverso la contrapposizione di opinioni diverse. In essi si dischiudono ai nostri occhi le forze che guidano l’agire umano in campo politico-militare: così apprendiamo, per esempio, che il giusto si identifica quasi sempre con l’utile, e che vige inesorabile la legge del più forte. Lo dimostrano chiaramente gli Ateniesi rivolgendosi agli abitanti dell’isola di Melo (V 105, 2): «Noi crediamo infatti che per legge di natura (u(po\ fu/sewj a)nagkai/aj) chi è più forte comandi (ou[ a2n krath=|, a1rxein): che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini, lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi per primi, ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni della nostra stessa potenza». Il concetto, qui espresso, che chiunque venga a trovarsi in una posizione di superiorità fa immancabilmente valere la sua legge, confondendo diritto e violenza, anticipa di 2200 anni i celebri versi manzoniani dell’Adelchi (atto V, scena VIII, vv. 352-54): «una feroce / forza il mondo possiede, e fa nomarsi / dritto»). Dietro i discorsi tucididei e le tematiche da essi affrontate non è difficile cogliere l’influenza della sofistica, che in quei tempi operava in maniera consistente anche sulla tragedia euripidea: erano i sofisti ad aver diffuso la moda dei dissoi\ lo/goi o a0ntilogi/ai, i «discorsi contrapposti», secondo - www.loescher.it/mediaclassica - 10 cui su ogni argomento era possibile sostenere, con uguali probabilità di successo, due tesi completamente opposte; ed erano sempre loro ad affermare la dottrina del diritto naturale del più forte e della prevalenza dell’utile sull’onesto. L’influsso della sofistica è presente anche in un altro elemento centrale nell’interpretazione della storia di Tucidide, come l’assenza del divino in qualunque forma. È del resto prevedibile che un razionalista come il nostro storico, fondatore di un metodo scientifico di indagine storiografica, fosse portato a escludere l’intervento degli dei nelle vicende umane. Ma ciò non toglie che si tratti di una scelta coraggiosa e fortemente innovativa, specie se la si confronta con la scelta opposta di Erodoto, che al soprannaturale concede larghissimo spazio. Tucidide, peraltro, non finge mai di ignorare l’esistenza di responsi e oracoli, sa benissimo che molte persone, anche uomini di primo piano nella vita pubblica (come Nicia: cfr. VII 50, 4), regolano sulla base di essi il loro agire, ma non può che mostrare il suo scetticismo. Un esempio indicativo è il passo posto a conclusione dei drammatici capitoli dedicati alla peste ad Atene (II 54, 2-3): «[2] E, come era naturale, in quella sventura (sc. gli Ateniesi) si ricordarono anche di questo verso, che, secondo le parole dei più vecchi, era stato cantato una volta: “Verrà la guerra dei Dori e la pestilenza (loimo/ j ) con lei”. [3] In quell’occasione la gente era in preda alla discordia, perché si sosteneva che in quel verso non era stato detto dagli antichi “pestilenza”, ma “fame” (limo/j); pure, data la sventura in cui si trovavano, ovviamente vinse l’opinione di quelli che pensavano che era stato detto “pestilenza”. Giacché gli uomini adattavano i ricordi ai mali sofferti. Io penso che se un’altra guerra dorica sopravvenisse dopo di questa e giungesse in città la fame, certamente i vati canterebbero in questo modo». Un’ulteriore dimostrazione di come Tucidide non consideri le credenze religiose tra i fattori della storia proviene dal dialogo tra Ateniesi e Meli poc’anzi ricordato. A un certo punto (V 104) i Meli replicano agli Ateniesi che essi ritengono, pur essendo inferiori, di poter confidare (oltre che nell’aiuto spartano, che poi non ci sarà) negli dei, dal momento che loro sono devoti e si trovano a combattere contro degli ingiusti, ossia gli Ateniesi (o3ti o3sioi pro\j ou) dikai/ouj i(sta/meqa). È un concetto, questo della divinità che premia i buoni e punisce i malvagi, del tutto legittimo, ma altrettanto infruttuoso dal punto di vista pratico. Tucidide non fa alcun commento esplicito, ma più di ogni commento valgono le parole che egli pone a chiusura dell’episodio (V 116, 3-4): [3] […] i Meli ormai furono stretti da assedio a tutta forza; verificatosi anche un tradimento, si arresero agli Ateniesi a condizione che questi decidessero dei Meli secondo la loro discrezione. [4] E gli Ateniesi uccisero tutti i Meli adulti che catturarono e resero schiave le donne e i bambini; abitarono quindi loro stessi la località dopo avervi inviato cinquecento coloni. Ecco come la divinità si era ricordata della religiosità dei Meli. Questo non significa che Tucidide sia un ateo negatore dell’esistenza degli dei; piuttosto egli nega – un po’ come in seguito farà Epicuro – che essi possano avere qualcosa a che fare con gli avvenimenti umani, in ciò prendendo le distanze dal suo grande predecessore Erodoto. Peraltro, sebbene egli creda fermamente che l’uomo sia artefice del proprio destino (non è un caso che fosse grandemente ammirato in età illuministica), si dimostra consapevole che non tutto ciò che accade è nelle sue mani e che spesso è il caso (la tu/xh euripidea) a determinarne le azioni. Così avviene, per esempio, durante l’assedio degli Ateniesi al contingente spartano stanziato nell’isola di Sfacteria, di fronte a Pilo, quando un incendio fortuito, provocato da un soldato ateniese sbarcato sull’isola, consente allo stratego Demostene di rendersi conto del numero dei nemici e della morfologia del luogo, che la folta vegetazione gli aveva fino ad allora precluso alla vista, consentendogli di attaccare battaglia (IV 30, 2-3). - www.loescher.it/mediaclassica - 11 Tucidide non dichiara mai apertamente la propria obiettività, non afferma, come Tacito all’inizio delle Historiae (I 1), neque amore quisquam et sine odio dicendus est (= «bisogna parlare di ciascuno senza amore e senza odio»); tuttavia, la sua concezione della storia come scienza dovrebbe escludere a priori la parzialità ed essere garanzia di equidistanza. Vedremo in seguito in che misura lo storico si sia attenuto a questo principio. Ora ci interessa sottolineare che Tucidide fa di tutto, attraverso l’uso di un tono e di uno stile impersonali, per apparire come uno scienziato che accerta, verifica, indaga, analizza, interpreta dati reali. Chiunque provi a leggere anche solo qualche pagina della sua opera, si rende immediatamente conto del linguaggio disadorno, essenziale, del periodare rapido ed ellittico, fondato sull’uso del participio; ha la sensazione, per usare le parole di M. Vegetti, «di un estremo rigore logico, sintattico e lessicale, condensato in formule e movenze che pongono le premesse del racconto-dimostrazione»13. Anche il modo in cui il narratore parla di sé nei capp. 104107 del IV libro, utilizzando la terza persona, e quindi facendosi personaggio della sua opera alla stregua di tutti gli altri, sembra non tradire il benché minimo coinvolgimento. E il fatto stesso che ci si sia chiesti se la visione “machiavellica” delle vicende politico-militari espressa a più riprese nella sua storia corrisponda a una convinzione personale dell’autore o se invece, dietro l’esclusione della giustizia e dell’onestà dalla condotta politica, si celi la disapprovazione di un «moralista»14, dimostra come Tucidide sia riuscito a non far troppo trapelare dalle sue pagine le proprie opinioni personali. Ricerca dell’impersonalità e rifiuto di una storiografia romanzata o “tragica” non significano però in alcun modo – si badi bene – assenza di partecipazione emotiva agli eventi narrati o annacquamento della loro drammaticità. Solo che Tucidide ha preferito quasi sempre che fossero le cose a parlare, e a commentarsi da sé. Ne abbiamo già visto un esempio parlando della sorte ingiusta capitata ai Meli; un altro caso eclatante è costituito dall’epilogo della spedizione ateniese in Sicilia, in cui, al di sotto della fredda cronaca, non si può non sentire il dolore dell’Ateniese di fronte alla rovina della patria (VII 87): «[1] Quelli delle latomie [sc. i prigionieri ateniesi che erano stati gettati nelle cave di pietra, le latomie per l’appunto] furono dapprima trattati con durezza dai Siracusani. Trovandosi infatti in un luogo incavato e in molti in uno spazio ristretto, dapprima furono tormentati dal sole e dalla calura perché erano privi di tetto; le notti, poi, che sopraggiunsero autunnali e fredde, con questo mutamento portarono come nuovo fenomeno le malattie. [2] E siccome per la ristrettezza del luogo i prigionieri facevano ogni cosa nello stesso posto, e per giunta si accumulavano l’uno sull’altro i cadaveri di coloro che morivano per le ferite, gli sbalzi di temperatura e cose siffatte, vi erano odori insopportabili ed erano torturati dalla fame e dalla sete insieme (ché per otto mesi dettero a ciascuno di loro una cotile d’acqua e due cotili di grano); e tutto quello che era naturale che avessero a soffrire persone gettate in un posto simile, tutto capitò a loro. [3] E stettero così ammassati circa settanta giorni, poi furono venduti, tutti quanti all’infuori degli Ateniesi e dei Sicelioti o Italioti che avevano partecipato alla spedizione. [4] Furono presi in totale – è difficile dirlo con esattezza – tuttavia non meno di settemila uomini. [5] Questo fatto fu il più importante che capitasse durante questa guerra e, mi sembra, anche il più importante tra quelli avvenuti in Grecia che noi conosciamo per tradizione: il più splendido per i vincitori e il più funesto per i vinti. [6] Vinti completamente in tutto, senza subire nessuna sventura di scarso rilievo in nessun campo, in una distruzione completa, come si suol dire, andarono perdute la fanteria e le navi e ogni altra cosa, e pochi, da tanti che erano, tornarono in patria. Questi furono gli avvenimenti di Sicilia». Prima di passare alla seconda parte, un’ultima considerazione: il metodo storiografico di Tucidide, innovativo e straordinariamente moderno, non sarebbe probabilmente esistito se lo storico non avesse potuto prendere spunto dai grandissimi progressi compiuti nel V secolo dalla scienza medica sotto l’impulso di Ippocrate di Coo, che apparteneva alla stessa generazione di Tucidide. Se 13 14 Da L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Milano 1979, p. 144. Cfr. M.I. Finley, Thucydides, the Moralist, in Aspects of Antiquity, London 1968, pp. 43 sgg. - www.loescher.it/mediaclassica - 12 rileggiamo sotto questa luce il metodo scientifico tucidideo, scopriamo la coincidenza con le procedure della medicina coeva: - l’accertamento dei fatti e il loro valore di tekmh/ria corrisponde all’osservazione delle forme in cui si presenta una malattia e all’individuazione dei sintomi; - la ricerca delle cause degli eventi è paragonabile all’anamnesi, ossia all’analisi dei precedenti patologici utili a fondare una diagnosi; - la stessa diagnosi, ossia la definizione di una malattia, può ricordare certe parti dell’opera tucididea (penso per esempio alla “patologia sociale” di III 80-82) in cui dai fatti particolari si passa a considerazioni universali sui comportamenti umani; - lo scopo dell’opera, quello di avere utilità «per sempre» sulla base dell’identità della natura umana e di fornire alle generazioni future uno strumento su cui fondare il comportamento politico, somiglia molto da vicino alla prognosi, cioè la previsione sull’esito futuro di una malattia. Le coincidenze non si fermano all’aspetto metodologico, ma si estendono anche alla lingua: sono stati infatti rilevati nella storia tucididea prestiti lessicali dagli scritti di Ippocrate15. C’è un passo in cui addirittura Tucidide invade il campo della medicina, rivelando il suo interesse per questa disciplina: è quello in cui, mentre narra la peste che colpì Atene durante il secondo anno di guerra (II 47-54), dedica tre capitoli (49-51) a descriverne i sintomi, con estrema precisione e linguaggio medico. Quei capitoli sono introdotti dalla seguente considerazione, estremamente significativa alla luce di quanto siamo venuti dicendo (II 48, 3): «Si dica su questo argomento quello che ciascuno pensa, sia medico sia profano, sia sulla probabile origine della pestilenza, sia sulle cause che si potrebbero ritenere adatte a procurare tanto sommovimento. Io dirò di che genere essa sia stata, e mostrerò quei sintomi che uno potrà considerare e tener presenti per riconoscere la malattia stessa [diagnosi], caso mai scoppiasse una seconda volta [prognosi]. Giacché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati». * * * * * * La storiografia tucididea – lo abbiamo ripetuto più volte – è un prodotto di incredibile modernità per i tempi in cui fu concepita e rappresenta, rispetto a quella erodotea, un passo avanti ben più ampio di quello che ci si potrebbe aspettare dalla distanza cronologica tra i due storici, che è di una sola generazione. Tuttavia, per averne una visione più completa, è necessario rilevarne anche alcuni limiti oggettivi. Non si tratta – si badi bene – di criticare a posteriori lo storico ateniese giudicandolo sulla base degli attuali criteri storiografici, ma semplicemente di fornire un panorama più preciso della sua opera, al fine di evitare il rischio di fare di Tucidide ciò che non è, vale a dire uno storico moderno. Tucidide decide, come abbiamo visto, di concentrare la propria attenzione su un solo episodio della storia greca (fondando, di fatto, un nuovo genere, la monografia storica) e di limitare i propri interessi alle questioni di carattere politico-militare. Soprattutto quest’ultima scelta, certamente innovativa, conduce però al tempo stesso all’accantonamento degli aspetti economici, sociali, culturali e religiosi, producendo due conseguenze rilevanti: 15 Per la bibliografia sull’argomento, vedi Meister, op. cit., p. 265, nota 62. - www.loescher.it/mediaclassica - 13 1) «una notevole restrizione e riduzione del concetto di storia»16, rispetto alla stessa storiografia erodotea, che dell’attenzione per i fattori culturali e di costume faceva uno dei suoi punti di forza; 2) l’impossibilità di fornire al lettore un quadro veramente completo del periodo sotto esame, impedendogli di penetrare più a fondo nelle cause degli eventi (che era poi l’obiettivo primario di Tucidide). Lo storico, per esempio, non fa il minimo cenno alla decisione presa dagli Ateniesi nel 425 a.C. di triplicare l’ammontare del tributo versato loro dagli alleati (da 460 a 1460 talenti), per ovviare alla mancanza di liquidità; un provvedimento destinato a mettere in ginocchio l’economia degli alleati e ad avere pesanti ripercussioni sulla solidità del loro legame con Atene, da cui non si poteva prescindere per una corretta comprensione degli avvenimenti successivi17. Lo stesso giudizio altamente positivo sulla figura di Pericle (II 65, 1-9), su cui fra poco torneremo, è tutto politico e trascura lo straordinario programma edilizio da lui lanciato e sostenuto grazie ai contributi dei confederati della lega Delio-attica; un programma che non solo elevò Atene a indiscusso punto di riferimento culturale del mondo greco, ma «offrì per lunghi anni al popolo ateniese una fonte inesauribile di lavoro e di guadagno»18, come del resto ci conferma anche Plutarco (Vita di Pericle, 12). La decisione, poi, di scrivere di storia contemporanea, se presenta l’indubbio vantaggio di avere a portata di mano le proprie fonti, che si tratti di persone o, come accade ben più raramente, di documenti scritti, e di poter contare sull’osservazione diretta, autoptica, di alcuni avvenimenti, tuttavia presta il fianco ad almeno due inconvenienti. 1) Impedisce inevitabilmente allo storico una visione d’insieme della situazione, possibile solamente a posteriori, dando luogo a interpretazioni affrettate o incomplete di certi fatti. Questo vale soprattutto per quelle parti dell’opera che si presume siano state scritte in contemporanea allo svolgimento degli avvenimenti (libri I-V 25 e, forse, VI-VII). Tanto è vero che non sono pochi gli studiosi i quali ritengono che Tucidide abbia riveduto nel corso del tempo alcune sue opinioni, soprattutto alla luce dell’esito della guerra. Finley, per esempio, sostiene che «nel libro VIII […] lo storico suggerisce implicitamente di aver capito solo tardi l’importanza della Persia nel conflitto»19; ma anche il giudizio su Pericle cui prima accennavamo potrebbe essere stato fortemente influenzato dal disastro cui i suoi successori avevano condotto la patria. La stessa idea centrale della continuità della guerra e della sua durata ventisettennale non poteva certo essere concepita durante la stesura dei primi libri, scritti di getto, ma solo dopo la fine del conflitto. Per ovviare, almeno in parte, alle difficoltà suscitate dall’impostazione cronistica dell’opera, Tucidide è dunque costretto a tornare sui fatti dei primi libri a distanza di tempo, non solo per modificare giudizi (qualora li avesse espressi), ma magari anche per mettere in risalto avvenimenti prima trascurati che potevano aver assunto importanza in considerazione di quanto accaduto in seguito, o per escluderne altri, rivelatisi secondari20. 2) Rende difficile, se non umanamente impossibile, una valutazione del tutto obiettiva delle vicende narrate. Per quanti sforzi si possano fare (e Tucidide ne fece più di ogni altro storico antico), quando si affrontano fatti contemporanei non si può prescindere dalle proprie idee, dal proprio coinvolgimento personale, dal condizionamento del proprio ambiente, dalle proprie simpatie. 16 Meister, op. cit., p. 55. Eppure il provvedimento era stato voluto da Cleone, con il quale Tucidide è sempre severo: lo storico avrebbe potuto trarne spunto per una critica al demagogo. A meno che – ma non è altro che un’ipotesi – egli stesso fosse stato d’accordo col provvedimento e non ne facesse menzione proprio per non darne merito a Cleone. 18 H. Bengtson, Storia greca, vol. I, Bologna 1985, p. 338. 19 Finley, Tucidide. La guerra del Peloponneso, cit., introd., p. 10. 20 È forse questa la ragione per la quale Tucidide non riuscì a completare la sua opera, lasciando incompiuto l’ottavo libro e non rivisto il quinto). 17 - www.loescher.it/mediaclassica - 14 Tucidide stesso ne era consapevole se, nel passo del capitolo metodologico riguardante le fonti (I 22, 3), ricordava le sue difficoltà nell’accertare i fatti, dato che i suoi informatori li raccontavano spesso secondo un’ottica di parte. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che Tucidide non era un osservatore qualunque, ma un uomo politico egli stesso, che aveva partecipato attivamente alle operazioni belliche e conosceva personalmente molti dei protagonisti della sua storia. Questo discorso deve indurci a valutare più attentamente il grado di attendibilità dello storico (che rimane pur sempre altissimo). Innanzitutto, egli era Ateniese e, di conseguenza, il punto di vista da cui è condotta la narrazione della guerra è costantemente quello ateniese e tutte le questioni legate alla patria sono trattate con molta maggiore dovizia di particolari. Se anche non ce lo dicesse lui esplicitamente, chiunque, leggendo la sua storia, si renderebbe immediatamente conto che è opera di un Ateniese. La circostanza è del tutto naturale, per quanto Tucidide, ancora una volta consapevole del problema, tenga a precisare di aver potuto consultare, durante il suo esilio, fonti spartane (V 26, 5): «E mi capitò di essere esiliato dalla mia terra per venti anni dopo la mia spedizione contro Anfipoli come stratego e, trovatomi da entrambe le parti e non meno presso quella dei Peloponnesi a causa del mio esilio, mi capitò di conoscere qualcuno di questi fatti con maggiore tranquillità». Inoltre, nonostante il tono si mantenga quasi sempre impersonale, Tucidide lascia trapelare qua e là qualche giudizio personale. Non esita, per esempio, a elogiare Nicia nel momento della sua tragica fine al termine della spedizione siciliana (VII 86, 5): «Questi (sc. Nicia), dunque, morì per un motivo siffatto o simile a questo, il meno meritevole tra i Greci miei contemporanei di giungere a questa fine infelice, per l’osservanza della virtù che esercitò in modo completo e consono alle comuni tradizioni», pur avendo espresso in precedenza alcune riserve sulla sua superstizione (VII 50, 4): «era anche troppo incline alla superstizione (qeiasmw|)= e a simili cose». Né esita a stroncare Iperbolo, demagogo ateniese esponente della democrazia radicale post-periclea (VIII 73, 3): «Uccidono (sc. quelli dei Sami che favorivano il partito aristocratico) Iperbolo, un ateniese, un malvagio, ostracizzato non per timore della sua potenza o del suo prestigio, ma per la sua disonestà e perché portava vergogna alla patria». Ma soprattutto mostra apertamente il suo favore a Pericle, per cui peraltro, considerata l’origine dello storico (nipote per parte di madre di Tucidide di Melesia, avversario politico di Pericle), almeno inizialmente non doveva simpatizzare; e non nasconde la sua ostilità nei confronti di quello che di fatto fu l’erede di Pericle, Cleone, il quale forse era stato responsabile del suo esilio ventennale dopo i fatti di Anfipoli (424 a.C.). Nel caso di Pericle, Tucidide sente il dovere, per la prima e unica volta nel corso della sua storia, di esprimere un giudizio articolato ed esteso (che forse, come abbiamo detto, dobbiamo attribuire a un’epoca posteriore); lo fa nel cap. 65 (parr. 4-9) del II libro, di cui riportiamo alcuni frammenti significativi: «[…] per tutto il tempo in cui guidò la città in periodo di pace, la condusse con moderazione e così la mantenne sicura, ed essa sotto il suo governo divenne grandissima» (par. 5); - www.loescher.it/mediaclassica - 15 «[…] Pericle, potente per dignità e per senno, chiaramente incorruttibile al denaro, dominava il popolo senza limitarne la libertà, e non era da lui condotto più di quanto egli stesso non lo conducesse, poiché Pericle non parlava per lusingarlo, come avrebbe fatto se avesse ottenuto il potere con mezzi illeciti, ma lo contraddiceva anche sotto l’influsso dell’ira, avendo ottenuto il potere per suo merito personale» (par. 8); «[…] vi era così ad Atene una democrazia, ma di fatto un potere affidato al primo cittadino» (par. 9). Completamente diverso il caso di Cleone, il quale, nelle tre occasioni in cui compare in scena (il dibattito di Mitilene: III 37-48; le operazioni militari a Pilo-Sfacteria: IV 28-39; la caduta di Anfipoli: V 6-13), viene sempre presentato in maniera estremamente negativa, come il rappresentante di spicco di quella democrazia radicale incapace, violenta e priva di scrupoli, che aveva portato alla rovina la città. Emblematico è soprattutto il racconto tucidideo della seduta dell’assemblea in cui si discute della situazione di stallo venutasi a creare a Pilo-Sfacteria, nella quale Cleone viene apertamente sbertucciato dallo storico (IV 27-28). Cleone, irritato per la lentezza delle operazioni, e l’irresolutezza degli strateghi inviati sul posto, vorrebbe che si desse immediatamente l’assalto a Sfacteria, lasciandosi scappare una frase che Tucidide riporta in forma indiretta: «E alludendo a Nicia di Nicerato, che era stratego e di cui era nemico, disse con tono di rimprovero che se gli strateghi fossero stati degli uomini sarebbe stato facile salpare e catturare i soldati dell’isola, e che egli stesso l’avrebbe fatto, se fosse stato capitano» (IV 27, 5). A questo punto, i partecipanti all’assemblea lo invitano a prendere il comando mentre Nicia si mostra disposto a cederglielo, sperando in questo modo di eliminare un rivale politico. Sorpreso, Cleone dopo molti tentennamenti accetta, non senza rinunciare a un’altra smargiassata (sempre stando a quanto racconta Tucidide, s’intende): «disse che entro venti giorni o avrebbe portato via vivi i Lacedemoni o sarebbe morto sul posto» (IV 28, 4). Tucidide riporta anche la reazione dei presenti a questa affermazione: «Gli Ateniesi furono mossi al riso dalle sue vanterie» (IV 28, 5). Alla fine, però, il tentativo apparentemente insensato di Cleone va a buon fine e lo storico, suo malgrado, lo deve riconoscere, pur sottolineando che si trattava di pura follia: «E gli Ateniesi e i Peloponnesi si ritirarono con gli eserciti da Pilo fino ai loro paesi, e la promessa di Cleone, per quanto pazza fosse (kai/per maniw/dhj ou]sa), fu adempiuta, ché entro venti giorni portò via gli uomini dell’isola, secondo l’impegno preso» (IV 39, 3). Lo studioso A.G. Woodhead21 ha legittimamente avanzato dei dubbi sull’attendibilità della ricostruzione di quella seduta dell’assemblea da parte dello storico, sostenendo, tra le altre cose, che Tucidide «ci dà un quadro di questa assemblea così come la vide lui, ma lui la vide con occhi meno comprensivi e l’ascoltò con orecchio più pronto a ricevere e a ricordare ciò che concordasse con le sue scelte, che a dare a noi la garanzia di trovarci di fronte a una descrizione avente qualcosa di più di un valore relativo. Il risultato è stato quello di darci una registrazione la cui esattezza può, sì, essere messa in dubbio, ma è espressa in termini che ci predispongono fortemente, a meno che non si stia molto attenti, a concordare con essa e a ratificare la sua interpretazione». Queste parole ci 21 A.G. Woodhead, Thucydides’ portrait of Cleon, «Mnemosyne» 1960, pp. 313-316. - www.loescher.it/mediaclassica - 16 invitano a riflettere su come anche lo storico più scrupoloso non possa fare a meno di cedere talvolta a simpatie e antipatie. Peraltro, lo stesso episodio potrebbe essere letto anche come una testimonianza dell’onestà di fondo di Tucidide: è proprio lo storico, infatti, con la sua narrazione precisa di come si svilupparono gli eventi fino al successo di Cleone, a consentirci di avere qualche sospetto sulla sua visione di quell’assemblea. Insomma, Tucidide può bensì cedere talora ai propri sentimenti o alle proprie idee, ma non falsifica mai i fatti. Anche il modo in cui lo storico ateniese utilizza le fonti si espone a qualche obiezione, perché egli non ha messo in condizione il lettore di verificarne l’affidabilità. Infatti, pur affermando (I 22, 2) di aver sottoposto le fonti a un attento vaglio, tuttavia: 1) non cita mai la propria fonte; 2) riporta direttamente la versione dei fatti da lui ritenuta più veritiera, senza spiegare che cosa lo abbia indotto a preferire quella versione piuttosto che un’altra. In questo modo, chi legge non è in grado né di controllare l’attendibilità della fonte (che non è citata), né di valutare se la scelta di presentare un fatto in una determinata maniera sia convincente oppure no. In una parola, noi siamo nella condizione di doverci fidare ciecamente della capacità di giudizio, dell’intelligenza e della buona fede di Tucidide. Il quale, sebbene possedesse queste qualità al massimo grado, era pur sempre un uomo. Il problema è aggravato dal fatto che, per larghi tratti della sua storia, Tucidide è a tutt’oggi l’unico testimone, per cui non abbiamo la possibilità di confrontare il suo racconto con quello di altre fonti, e non possiamo che prendere per buono quanto egli ci racconta22. È certamente vero, come molti sostengono, che Tucidide ha comunque il merito di assumersi tutta la responsabilità di ciò che scrive, superando così il metodo un po’ pilatesco di Erodoto del relata refero (= «riferisco cose [a me] riferite»), in cui, in modo acritico, venivano allineate più versioni di uno stesso fatto (alcune anche del tutto fantasiose) lasciando al lettore la facoltà di scegliere quella più credibile. Ma è anche vero che, forse, sotto il profilo della correttezza deontologica, il sistema erodoteo, con la sua ingenuità, potrebbe in fondo risultare preferibile. Un’altra questione non da poco circa l’attendibilità di Tucidide riguarda la sua affermazione di aver raccontato avvenimenti a cui egli era stato presente (I 22, 2). Anche a voler trascurare il fatto che, a dar retta a V 26, 7, dal 424 a.C. egli fu esiliato per vent’anni e che dunque nel corso di quei vent’anni non poté mettere piede nel territorio ateniese, avendo a disposizione solo notizie di seconda mano, il problema si presenta anche per il periodo antecedente al suo esilio. Ora, dal momento che la guerra si svolgeva contemporaneamente su più campi, è ovvio che Tucidide non potesse essere presente a tutti gli avvenimenti; è presumibile che egli godesse di una visione diretta solo o prevalentemente degli eventi che si svolgevano ad Atene. Ma a quali fatti e a quali discorsi svoltisi ad Atene, tra tutti quelli che racconta, egli fu effettivamente presente? Finley si domanda, per esempio: «(Tucidide) era personalmente presente all’assemblea in cui Cleone e Diodoto discussero dei destini di Mitilene (III 36-49?»23. Noi non abbiamo elementi per accertarlo, dal momento che lo storico solo in due occasioni attesta la propria partecipazione agli eventi: nel caso della peste di Atene, dalla quale anch’egli fu colpito (II 48, 3) e nella vicenda di Anfipoli, quando, da stratego, arrivò in ritardo con i soccorsi e la città finì nelle mani del generale spartano Brasida (IV 104-107). Infine, la questione della veridicità dei discorsi. Il passo del capitolo metodologico (I 22, 1) in cui Tucidide illustra i criteri da lui seguiti nel riportarli è uno di più dibattuti di tutta l’opera: 22 La sua indiscussa autorità, specie per gli studiosi moderni, si basa in parte anche su questa circostanza non secondaria. Infatti, quando siamo in condizione di effettuare un confronto con altre testimonianze, possiamo verificare, anche nella narrazione di uno storico attento come Tucidide, la presenza di omissioni o di errori interpretativi. 23 Finley, Tucidide. La guerra del Peloponneso, cit., introd., p. 8. - www.loescher.it/mediaclassica - 17 Kai\ o3sa me\n lo/gw| ei]pon e3kastoi h2 me/llontej polemh/sein h2 e)n au)tw|~ h!de o1ntej, xalepo\n th\n a)kri/beian au)th\n tw=n lexqe/ntwn diamnhmoneu=sai h]n e)moi/ te w[n au)to\j h1kousa kai\ toi=j a1lloqe/n poqen e)moi\ a)pagge/llousin: w(j d’ a2n e)do/koun moi e3kastoi peri\ tw=n ai)ei\ paro/ntwn ta\ de/onta ma/list’ ei)pei=n, e)xome/nw| o3ti e)ggu/tata th=j cumpa/shj gnw/mhj tw=n a)lhqw=j lexqe/ntwn, ou3twj ei1rhtai. «E quanto ai discorsi che tennero gli uni e gli altri sia in procinto di far la guerra che durante, tenere a mente le parole precise di quei discorsi era difficile tanto per me, nel caso in cui le avessi udite personalmente, quanto per quelli che me le riferivano da qualche altro posto; ma, a seconda di quanto ciascuno a mio parere avrebbe potuto dire nel modo più adatto nelle diverse situazioni successive, così si parlerà nella mia opera, ché io mi terrò il più possibile vicino al pensiero generale dei discorsi effettivamente pronunciati». Intanto, è bene rimarcare come qui Tucidide si dimostri pienamente consapevole del fatto che l’introduzione dei discorsi diretti in un’opera storica costituisce un problema, perché implica la necessità di dimostrare che quelle furono le parole effettivamente pronunciate da questo o quel personaggio in questa o quella occasione. Tucidide sa di non poterlo dimostrare, perché né lui né i suoi informatori sono in grado di ricordare in modo esatto ciò che fu detto, e allora spiega a quali criteri si è attenuto per ovviare a questa difficoltà. Ma anche solo essersi posto il problema lo colloca anni luce avanti rispetto alla quasi totalità degli storici antichi e ne fa il precursore della moderna storiografia scientifica. Basti pensare che tutti gli storici greci e latini che lo seguirono inserirono discorsi nelle loro opere senza farsene minimo scrupolo (solo Polibio, che pure non rinuncia ai discorsi, prende posizione contro chi se li inventa, falsificando la realtà). Inoltre, proprio in questo ambito, possiamo misurare la grande differenza di mezzi che separa lo storico antico da quello moderno, per il quale un problema insormontabile come quello di riportare esattamente i discorsi viene facilmente risolto dalla disponibilità di registrazioni audio e video; esse lo mettono in condizione – a meno che non vengano appositamente rese inaccessibili – di conoscere perfettamente le parole pronunciate da un personaggio in qualsiasi circostanza pubblica (e talvolta anche privata, grazie alle intercettazioni telefoniche o ambientali che possono essere messe a disposizione dall’autorità giudiziaria). Tra l’altro, nel caso di Tucidide le difficoltà erano accresciute dal fatto di vivere in un’epoca in cui l’uso della scrittura non era ancora diffuso e consolidato. È sempre utile tenere presenti queste distanze prima di essere troppo severi con gli storiografi del mondo antico. Veniamo ora ai principî seguiti da Tucidide nel riportare i discorsi pubblici. Egli sostiene che riferirà ciò che «secondo lui» era necessario che fosse detto dagli oratori a seconda delle diverse circostanze, mantenendosi al tempo stesso fedele al senso generale delle parole realmente pronunciate. L’affermazione sembra essere contraddittoria, perché se si intende ricostruire con verisimiglianza il pensiero generale di un oratore, lo si dovrà fare anche quando le idee da lui espresse non paiono adattarsi alla situazione. Si è dunque provato a scindere la frase tucididea, isolando due principi, cui lo storico ubbidirebbe alternativamente: 1) ricostruzione personale di ciò che un oratore avrebbe dovuto dire (ta\ de/onta); 2) ricostruzione fedele del pensiero generale di un oratore. È chiaro che tra i due principî c’è una bella differenza: mentre il secondo sarebbe «del tutto accettabile anche per lo studioso di oggi»24, il primo potrebbe portare anche molto lontano dalla verità storica, perché introduce un pensiero soggettivo (w(j d’ a2n e)do/koun moi) e non verificabile. È inevitabile chiedersi quando Tucidide segua l’uno e quando l’altro dei due criteri, e, soprattutto, quale segua in prevalenza. La maggior parte degli studiosi è oggi incline a credere che, man mano che l’opera procede, sia sempre più il primo ad avere la meglio. Lo si capisce non tanto dal fatto che 24 Meister, op. cit., p. 54. - www.loescher.it/mediaclassica - 18 i discorsi riportati sono certamente più brevi di quelli realmente pronunciati (lo stesso storico dice di volersi attenere al loro contenuto generale) o che lo stile e la lingua, sebbene più elevati e ricercati rispetto alle parti narrative, siano sempre gli stessi, ossia tucididei, senza adattarsi alle caratteristiche dell’eloquio dei singoli oratori (Tucidide non ha mai detto di voler riferire parola per parola ciò che era stato detto); quanto piuttosto dal fatto che lo storico attribuisce ai discorsi quella funzione interpretativa di cui parlavamo in precedenza, facendo di essi lo strumento rivelatore dei moventi e delle forze che indirizzano l’agire umano. Accade così molto spesso che nei discorsi si trovino considerazioni sulle cause degli eventi o riflessioni su temi particolarmente cari a Tucidide, e ricorrenti nella dialettica politica del tempo, che fanno dubitare della loro conformità rispetto alle orazioni pronunciate. Con ciò non si intende dire che lo storico li abbia inventati di sana pianta, ma piuttosto che, attraverso opportune aggiunte e omissioni, li abbia modificati in modo da mettere in risalto gli aspetti che a lui maggiormente interessavano. Senza contare che talvolta anche la loro collocazione cronologica, più che rispettare quella reale, sembra essere studiata in funzione di esigenze ideologiche o narrative dell’autore. Due esempi chiariranno meglio quanto siamo venuti dicendo. A) Nel libro III, capp. 36-49, Tucidide riferisce i discorsi contrapposti di Cleone e di un certo Diodoto, tenutisi in una seduta dell’assemblea in cui veniva ridiscusso un pesantissimo provvedimento preso il giorno prima ai danni della città di Mitilene, colpevole di aver defezionato, nonostante le fosse sempre stata garantita l’autonomia: gli Ateniesi avevano deciso di uccidere tutti gli uomini adulti e di ridurre in schiavitù donne e bambini. I motivi che avevano condotto a ridiscutere la questione erano chiaramente di ordine morale, dal momento che la decisione era di una crudeltà inaudita. Eppure, curiosamente, non solo Cleone, il quale, essendo favorevole alla punizione esemplare, non ne avrebbe ricavato alcun vantaggio, ma nemmeno Diodoto, che era contrario e ne avrebbe avuto tutto l’interesse, fanno quasi cenno alla questione morale, e quest’ultimo non ricorre mai a un argomento “classico” in casi del genere come la necessità di un atteggiamento clemente e pietoso, conforme ai valori del popolo ateniese. I due danno vita, invece, a una sottile schermaglia sull’utilità e sui vantaggi del provvedimento di condanna o di perdono nei confronti degli abitanti di Mitilene, facendo di fatto coincidere ancora una volta il giusto con l’utile: si tratta, come sappiamo, di un tema su cui Tucidide ama insistere. È lecito supporre che lo storico abbia tagliato la parte dei discorsi che lui riteneva meno importante (quella sulla morale), dando invece rilievo agli aspetti per lui maggiormente significativi (quelli relativi al giusto e all’utile). Del resto, la stessa collocazione dell’episodio nell’ambito della struttura narrativa non sembra casuale: «il dibattito», infatti, «funziona come taglio cronologico tra due epoche e ideologico tra due differenti concezioni di democrazia»25, quella di Pericle da una parte e quella di Cleone dall’altra. Questo implicito confronto è confermato da qualche affermazione di Cleone che pare essere stata studiata da Tucidide per contrapporsi ad alcune idee espresse in precedenza da Pericle. Per esempio, così parla Cleone in III 37, 2: «[…] voi non considerate che l’impero che avete è una tirannide, e che si esercita su uomini ostili, i quali non si lasciano comandare di buona voglia e non vi obbediscono grazie a quei favori che voi a prezzo di svantaggi personali fate a loro, ma vi obbediscono solo perché la vostra superiorità è basata più sulla vostra forza che sul loro benvolere». Il concetto sembra l’esatto opposto di quello – lodevole agli occhi dello storico – manifestato da Pericle in occasione dell’orazione funebre per i morti del primo anno di guerra (II 40, 4-5): 25 Giovanna Daverio Rocchi, Tucidide. La guerra del Peloponneso, cit., vol. II, n. 20, p. 960. - www.loescher.it/mediaclassica - 19 «[4] E anche per quanto riguarda la nobiltà d’animo, noi ci comportiamo in modo opposto a quello della maggioranza: ci procuriamo gli amici non già col ricevere benefici ma col farli. Chi ha fatto il favore è un amico più sicuro, in quanto è disposto con una continua benevolenza verso chi lo riceve a tener vivo in lui il sentimento di gratitudine, mentre chi è debitore è meno pronto, sapendo che restituisce una nobile azione non per fare un piacere ma per pagare un debito. [5] E siamo i soli a beneficare qualcuno senza timore, non tanto per aver calcolato l’utilità del beneficio ma per la fiducia che abbiamo negli uomini liberi». B) Alla fine del libro V (capp. 84-113), Tucidide introduce l’episodio del dialogo tra ambasciatori ateniesi e abitanti di Melo, che si svolge in un clima tutt’altro che sereno, visto che i contingenti ateniesi e alleati sono già sbarcati sull’isola, pronti a stringerla d’assedio. In questo caso, esistono molti elementi per mettere in dubbio l’autenticità del dibattito (alla quale non credeva già Dionigi di Alicarnasso, mai tenero del resto con il nostro storico): innanzitutto, la forma dialogica, mai usata da Tucidide se non qui e senza dubbio poco verisimile; poi, il fatto che lo storico non fornisca alcuna indicazione sull’occasione specifica che provocò l’assedio ateniese; ancora, la collettività degli interlocutori («Ateniesi» e «Meli», con formula generica). Ma soprattutto, anche in questa circostanza, il tema centrale è un cavallo di battaglia di Tucidide: il diritto naturale del più forte (su cui già ci siamo soffermati: vedi pp. 9-10) e la trasformazione della lega Delio-attica in un vero e proprio dominio di Atene su alleati in procinto di divenire sudditi. Sembra, insomma, che il dialogo abbia una valenza puramente ideologica e si configuri come una articolata riflessione sull’imperialismo ateniese, destinato a condurre la città alla rovina. Lo storico, infatti, con grande efficacia, colloca l’episodio immediatamente prima dei libri VI e VII, contenenti la narrazione della spedizione in Sicilia, che di quell’imperialismo e della sua arroganza segnerà lo sfacelo. Bibliografia essenziale - - L. Arcese, Uomini ed eventi. Antologia di storici greci, Napoli (Loffredo) 1993, pp. 59-115; H. Bengtson, Storia greca, vol. I, Bologna 1985, trad. di C. Tommasi (titolo dell’edizione originale: Griechische Geschichte, München, C.H. Beck Verlag, 1965); E. Gabba, La storiografia, pp. 175-180, in Da Omero agli Alessandrini. Problemi e figure della letteratura greca, a cura di F. Montanari, Roma 1998; K. Meister, La storiografia greca. Dalle origini alla fine dell’ellenismo, Roma-Bari 19983 (19921), trad. di M. Tosti Croce (titolo dell’edizione originale: Die griechische Geschichtsschreibung: von den Anfängen bis zum Ende des Hellenismus, W. Kohlhammer GmbH, Stuttgart-Berlin-Köln, 1990); G. Perrotta, Disegno storico della letteratura greca, Milano (Principato) 1990 (19641), pp. 234243; L.E. Rossi, Letteratura greca, Firenze (Le Monnier) 1995, pp. 421-434; Tucidide. La guerra del Peloponneso, 3 voll., introd. di M.I. Finley, note di Giovanna Daverio Rocchi, trad. a cura di di F. Ferrari, Milano (BUR) 19987 (19851); A.G. Woodhead, Thucydides’ portrait of Cleon, «Mnemosyne» 1960, pp. 313-316. - www.loescher.it/mediaclassica -