Università degli studi di Pisa Facoltà di Ingegneria Corso di Laurea Specialistica in Ingegneria Biomedica Studio dell’arto inferiore, sostituzione protesica e introduzione all’ingegneria tissutale Di Francesco Strulato Anno Accademico 2004/2005 Esame di Nuove Tecnologie in Chirurgia Del Prof. Ing. Paolo Giusti 1 1 L’osso 1.1 Anatomia e fisiologia L’osso è un tessuto connettivo; esso è costituito da cellule viventi (osteociti) e da sostanza intercellulare che risulta impregnata di sali minerali, tra i quali prevale il fosfato di calcio. La presenza di sali minerali conferisce all’osso la durezza che lo contraddistingue come l’unico tessuto connettivo rigido. Incluse nella matrice calcificata vi sono numerose fibrille costituite da collagene. L’unità fondamentale dell’osso è l’osteone, un cilindretto di tessuto osseo attraversato da un canale centrale, detto di Havers, in cui entrano un vaso sanguigno ed un nervo (spesso contengono un solo grande capillare, talvolta però si possono riscontrare un’arteriola, una venula o vasi linfatici). Intorno al canale di Havers la sostanza fondamentale del tessuto osseo è disposta a formare molteplici lamelle concentriche, come in figura. L’insieme del canale e delle lamelle è detto sistema di Havers. Le cellule ossee occupano piccoli spazi chiamati lacune che si trovano fra le lamelle. Canali microscopici (canalicoli) si irradiano in tutte le direzioni, partendo dalle lacune, per connetterle ai canali di Havers dando la possibilità ai liquidi interstiziali di raggiungere le cellule ossee. Del tessuto osseo esistono due varianti riconoscibili dal diverso arrangiamento lamellare: il tessuto osseo compatto ed il tessuto osseo spugnoso (spongioso). Nell’osso compatto i sistemi haversiani sono 2 fittamente addensati l’uno all’altro ed i piccoli spazi interposti sono riempiti da lamelle interstiziali. Nell’osso spugnoso invece, vi sono parecchi spazi vuoti compresi tra esili processi ossei (trabecole) che sono uniti gli uni agli altri quasi come le travi di una impalcatura. Le ossa non sono strutture prive di vita, come sembrano essere; si ha la tendenza a considerarle tali forse perché, quando le osserviamo, vediamo soltanto la sostanza intercellulare effettivamente non vitale. Insieme a questo materiale duro e inanimato vi sono molte cellule vitali che devono continuamente rifornirsi di sostanze nutritive ed ossigeno e liberarsi dai rifiuti, quindi l’afflusso di sangue all’osso è importante e deve essere abbondante. Numerosi vasi sanguigni dal periostio (membrana che riveste l’osso) penetrano nell’osso stesso tramite i canali di Volkmann che vanno a congiungersi ai vasi dei canali di Havers. Infine una o più arterie giungono al midollo osseo che si trova nella cavità midollare delle ossa lunghe o nelle lacune dell’osso spugnoso. Nell’osso è presente un continua attività di trasformazione e rimodellamento dell’architettura interna, tendente a rendere le ossa stesse più adeguate alle esigenze funzionali delle varie età. Vi sono infatti processi di edificazione di nuove lamelle nelle zone dell’osso che vanno irrobustite e processi di demolizione nelle zone che possono essere alleggerite. I processi di edificazione sono dovuti alla proliferazione degli osteoblasti, quelli di demolizione agli osteoclasti che esplicano attraverso il meccanismo del riassorbimento lacunare. Gli osteoclasti hanno la capacità di consumare lentamente il tessuto osseo grazie alla secrezione di acido lattico, che scioglie i minerali di calcio e di magnesio depositati sull’osso, e di uno speciale enzima proteolitico che scompone e digerisce la sostanza organica del tessuto osseo in cui i sali sono contenuti. I processi di calcificazione e di demolizione si svolgono parallelamente sullo stesso osso ma in zone diverse determinando le seguenti trasformazioni: 1. Fase fetale: le ossa hanno una struttura intermedia fra quella a fibre intrecciate (del periodo embrionale) e quella lamellare. 2. Fase finale dell’attività infantile: i processi di erosione e costruzione lamellare sono attivi e già si distinguono i sistemi interni di apposizione lamellare mentre sempre più si ingrandisce l’interno canale midollare. 3. Fase adulta: l’attività costruttiva periferica rende più spessa e compatta la parte esterna dell’osso, mentre l’interno canale midollare si amplia maggiormente. 3 4. Fase senile: inoltrandosi nell’età senile le lacune dell’erosione osteoclastica si allargano e minano la compattezza e la solidità dell’osso: questo è il quadrodell’osteoporosi senile che diradando e allargando l’intera trame del tessuto osseo rende le ossa porose, leggere e fragili ovvero più soggette frattura. 4 1.2 Proprietà biomeccaniche I test meccanici si effettuano applicando delle forze al campione e osservando come varia la deformazione. Si definisce stress (σ) il rapporto fra la forza applicata al campione (F) e l’area in esame (A0) mentre lo stran (ε) è, invece, il rapporto tra lunghezza del campione (L), quando è sottoposto ad un certo stress, e la lunghezza originale dello stesso (L0). Se prendiamo un provino cilindrico ed vi applichiamo una forza F uniassiale, lo stress risulta: σ = F A0 mentre la deformazione è data da: ε= ∆L L − L0 = L0 L0 dove L0 rappresenta la lunghezza a riposo e A0 la sezione. Al variare del carico applicato si può rilevare la misura della deformazione. Nell’osso osserviamo un andamento stressstrain come in figura : 5 Vediamo come fino a certi valori di stress l’andamento della curva è praticamente lineare (σ = Εε, dove E è il modulo elastico) poi abbiamo un punto detto di snervamento (120 MPa) a partire dal quale finisce il comportamento elastico del campione osseo ed inizia quello plastico. 6 Analizzando il comportamento in trazione possiamo dire che per piccole deformazioni l’osso è lineare, plastico per grandi deformazioni. Lo snervamento può essere valutato geometricamente, basta spostarsi lungo l’asse degli strain di un tratto pari alla percentuale della deformazione non recuperata e tracciare una retta parallela al tratto lineare di curva. Tale retta interseca la curva nel punto di snervamento. Il punto di rottura dell’osso è 0.015. Per l’osso le curve stress-strain sono funzione della velocità di deformazione; infatti per diverse velocità si ottengono differenti pendenze della curva, uno spostamento del punto di snervamento e del punto di rottura: si nota che l’osso si irrigidisce (aumento del modulo di Young) al crescere della velocità di deformazione. In figura sono rappresentate alcune curve stress-strain in funzione della velocità di deformazione. L’osso è un materiale viscoelastico non omogeneo, anisotropo, non lineare. Per le nostre applicazioni si ipotizza che l’osso sia un materiale lineare il cui comportamento è descritto da una equazione costitutiva del tipo: σij = Cijkl εkl dove Cijkl è un tensore del quarto ordine, mentre σij e εkl sono due tensori del secondo, rispettivamente delle tensioni e delle deformazioni. Essendo l’idrossiapatite un componente fondamentale del tessuto osseo, possiamo pensare di sfruttare le sue simmetrie cristallografiche, come punti di riferimento, per ottenere una semplificazione delle equazioni costitutive nel seguente modo: σi = Cij εj 7 dove Cij è la matrice di rigidezza. Tali simmetrie sono determinate dalle forze d’interazione fra atomi e molecole. Con tale descrizione, tuttavia, si omette la caratteristica fondamentale dei tessuti biologici: quella di interagire con l’ambiente esterno (legge di Woolf: tessuti animali e vegetali adattano la struttura locale in base ai carichi esterni). Perciò si deve parlare di simmetrie tessutali indotte dalle forme esterne e quindi dal tensore degli stress. Si può ottenere una condizione d’isotropia se si crea uno stato tensionale idrostatico. Allora la matrice di rigidezza assume la forma: La biomeccanica dell’osso comprende anche un effetto piezoelettrico diretto che consiste nella produzione di una polarizzazione elettrica per mezzo di uno sforzo meccanico applicato nel materiale. La relazione che lega la polarizzazione Pi allo sforzo σj in materiale omogeneo è: Pi = dij σj Dove dij è la costante piezoelettrica (notare che i varia fra 1 e 3 mentre j tra 1 e 6), le sue unità di misura sono coulomb su newton (C/N). Esiste anche l’effetto piezoelettrico inverso che fa si che l’applicazione di un campo elettrico al campione di tessuto osseo causi uno stato di deformazione. 1.3 Ossa dell'arto inferiore E’ strutturalmente simile a quella dell’arto superiore, essendo costituito da un’anca, da una coscia, dalla gamba e dal piede. L’anca rappresenta il dispositivo di attacco dell’arto al tronco. Lo scheletro dell’arto inferiore è dato dalla cintura pelvica e dalla parte libera dell’arto. La cintura pelvica è a sua volta formata dalle due ossa dell’anca, fra loro articolate, nelle quale si articola a sua volta il femore e, procedendo in direzione prossimodistale, la tibia e la fibula e, ultimo, il piede. 8 - Osso dell’anca E’ un osso piatto, pari e simmetrico che origina dalla fusione di tre ossa che, nel neonato sono ben distinte sino alla fase pre-adolescenziale, vale a dire: l’ileo, l’ischio e il pube. L’osso dell’anca ha forma irregolarmente quadrilatera, offrendo due facce e quattro margini. La faccia esterna presenta una cavità denominata acetabolo delimitata dal margine dell’acetabolo, di natura ossea. Una parte della superficie dell’acetabolo, liscia e periferica, detta faccia semilunare, assolve alla funzione articolare, mentre più in profondità, la fossa dell’acetabolo, offre inserzione ad un legamento. Superiormente all’acetabolo, sulla faccia esterna dell’osso dell’anca, è situata la faccia glutea, divisa in tre zone di origine dei tre muscoli glutei da due linee rugose ad andamento semilunare. Denominate linee glutee anteriore e posteriore. Inferiormente all’acetabolo è presente il forame otturatorio, chiuso da una membrana fibrosa, punto di attacco per i muscoli. Nella faccia interna è presente la linea arcuata che la divide obliquamente in due territori e, al di sopra di essa, in corrispondenza della parte inferiore della cavità addominale, si estende una superficie piana, la fossa iliaca, punto di origine dell’omonimo muscolo. La faccetta auricolare del sacro, punto articolare per l’osso dell’anca, è posto immediatamente dietro l’origine della linea arcuata e al davanti rispetto alla tuberosità iliaca, area accidentata che offre inserzione ai legamenti sacroiliaci posteriori. Il margine anteriore dell’osso può scomporsi in due porzioni, una verticale ed una mediale che, con la prima, forma un angolo di circa 140°. Le spine iliache anteriori sono poste una sopra l’altra, sempre sul margine anteriore, separate da un incisura che offre passaggio al muscolo ileopsoas. Il margine posteriore è molto più accidentato, nella sua parte superiore si trovano le spine iliache posteriori e, a seguire verso il basso, la grande incisura ischiatica delimitata dalla spina ischiatica che, a sua volta, forma il margine superiore della piccola incisura ischiatica Il margine superiore, denominato cresta iliaca, è leggermente incurvato ad S e delimitato da due labbri, interno ed esterno. Il margine inferiore inizia con la tuberosità ischiatica e termina con una faccetta ovalare: la faccetta della sinfisi pubica, punto di articolazione con la corrispondente faccetta del alto opposto. 9 - Il bacino nel suo insieme E’ un complesso osseo formato dalle due ossa dell’anca, dal sacro e dal coccige. Ha approssimativamente forma di tronco di cono con l’apice rivolto verso la regione perianale. La cavità pelvica ha forma ad imbuto, suddivisa in due zone: la grande e la piccola pelvi, la prima facente parte della cavità addominale, la seconda della cavità pelvica. Il limite fra questo due zone è dato stretto superiore, costituito dall’eminenza ileopettinea anteriormente e dalle ali del sacro posteriormente. La grande pelvi è delimitata posteriormente dalla colonna vertebrale e dall’ileo, lateralmente dalle ali iliache e, anteriormente, dalla parete addominale anteriore. La piccola pelvi presenta un’apertura superiore, una inferiore, e una cavità. Le dimensioni della cavità pelvica e lo studio dei suoi diametri, sono rilevanti sia in ambito anatomo-antropologico che pratico, in ostetricia. - Il femore E’ un osso lungo che forma lo scheletro della coscia, e si pone obliquamente nella stazione eretta, atteggiamento più pronunciato nella femmina per le maggiori dimensioni del bacino. Nel femore distinguiamo un corpo e due estremità. Il corpo non è esattamente rettilineo ma presenta una concavità posteriore. E’ prismatico e ci si possono dunque considerare tre facce e tre margini. Le facce sono lisce e leggermente convesse i margini, ad eccezione di quello posteriore denominato linea aspra, sono smussi. Lungo il suo decorso è presente il foro nutritizio. In basso la linea aspra si biforca e, ciascuno dei suoi due rami, termina in corrispondenza di un condilo, delimitando il triangolo popliteo. In alto, la linea aspra, è tripartita, originando la linea pettinea, punto di inserzione del muscolo pettineo, e la linea del muscolo vasto mediale, da cui prende origine l’omonimo capo del quadricipite femorale. Sull’estremità superiore riscontriamo due rilievi, denominati trocanteri, ed una testa sferica, diretta in alto, in avanti e medialmente, destinata ad articolarsi con l’acetabolo. La testa è sostenuta dal collo anatomico, alla cui base originano due robuste eminenze: il grande e il piccolo trocantere, uniti da una cresta intertrocanterica. Immediatamente al di sotto del piccolo trocantere, si trova il collo chirurgico, che segna la fine tra dialisi ed epifisi e, medialmente al grande trocantere, è evidente la fossa 10 trocanterica. L’estremità inferiore del femore presenta anteroinferiormente una vasta superficie articolare per tibia e patella.E’ strutturata con due masse ossee laterali: i condili, separati da un’incisura denominata intercondiloidea, diretta continuazione della gola della troclea. La fascia dei condili da attacco ai legamenti crociati. Superiormente e al di dietro dell’epicondilo mediale, si trova il tubercolo del grande adduttore, punto di inserzione dell’omonimo muscolo. La dialisi femorale è formata da un astuccio di tessuto osseo compatto, all’interno del quale è presente un canale midollare. Le epifisi sono invece costituite da una lamina superficiale compatta che avvolge un trabecolato spugnoso. - La rotula E’ un osso sesamoide compreso nello spessore del tendine di inserzione del quadricipite. E’ breve, appiattito e sommariamente triangolare. La faccia anteriore, o cutanea, è convessa in ogni direzione con irregolari striature verticali, la faccia posteriore è divisa in una porzione superiore, liscia corrispondente al femore, ed una inferiore rugosa e corrispondente alla massa adiposa del ginocchio. Fra le due superfici è interposta una cresta trasversale. La base è volta verso l’alto e offre inserzione al tendine del muscolo quadricipite, l’apice è volto distalmente e si continua nel legamento patellare. La sua conformazione interna è tipica delle ossa brevi. 11 - La tibia E’ un osso lungo e voluminoso, posto nella parte anteromediale della gamba. Non è rettilinea e presenta delle concavità che le conferiscono una forma simile ad una S. Presenta inoltre una torsione intorno al proprio asse. Ha un corpo e due estremità. Il corpo è prismatico triangolare, offre pertanto a considerare tre facce e tre margini. La faccia mediale, in rapporto con lo strato tegumentario è leggermente convessa, quella latrale è concava superiormente, per offrire insersione al muscolo tibiale anteriore. La faccia posteriore è liscia e convessa in tutta la sua lunghezza, pur essendo attraversata, nella sua porzione superiore, da una cresta rugosa, punto d’inserzione del soleo. Al di sotto di questa linea si apre il foro nutritizio. L’estremità superiore è assai sviluppata, e si espande in due masse ossee, i condili tibiali e, la faccia superiore di entrambi, presenta una lieve fossa glenoidea per l’articolazione con i condili femorali. Tra le due cavità sorge un rilievo: l’eminenza intercondiloidea, formata da due tubercoli. Davanti e dietro ai tubercoli si estendono due aree rugose di forma triangolare, sono le aree intercondiloidee anteriore e posteriore. Le cavità glenoidee poggiano su due robusti capitelli, quello esterno offre una superficie articolare piana per la fibula. L’estremità inferiore, meno sviluppata , presenta una superficie articolare alla sua base, concava e divisa in due versanti da una cresta sagittale, corrisponde alla cresta dell’astragalo. L’estremità inferiore si espande medialmente nel malleolo mediale, di forma quadrilatera e conformazione robusta. La sua faccia mediale corrisponde ai tegumenti, 12 quella laterale presenta una faccetta articolare piana che si contrappone alla porzione mediale della superficie articolare astragalica. - La fibula o perone E’ un osso lungo, laterale rispetto alla tibia, più sottile di quest’ultima e che presenta un corpo e due estremità. Il corpo è rettilineo, con forma prismatica triangolare. La sola faccia liscia, salvo che al centro dove offre inserzione ai muscoli peronieri mediante una concavità, è quella laterale. Delle altre due, quella mediale è percorsa dalla cresta interossea, quella posteriore è rugosa a causa delle varie inserzioni muscolari offerte. L’estremità superiore presenta una faccetta articolare piana, diretta in alto e medialmente, in rapporto con la faccetta articolare della tibia. Lateralmente offre a considerare una sporgenza piramidale: il processo stiloideo della fibula, punto d’inserzione del bicipite femorale. L’estremità inferiore si rigonfia originando il malleolo laterale, la sua superficie mediale si articola in alto con la corrispondente faccetta tibiale e, in basso con la superficie articolare dell’astragalo. La faccia laterale del malleolo corrisponde ai tegumenti. - Ossa del piede 1. Il tarso E’ un complesso osseo organizzato in due file: prossimale e distale. Le ossa che lo compongono rientrano tutte fra le ossa brevi, e sono: 2. L’astragalo E’ un oso cuboide interposto fra le ossa della gamba, il calcagno e lo scafoide. Si distinguono un corpo, una testa ed un collo e sei facce. La faccia superiore è interamente occupata da una troclea, la faccia inferiore si articola mediante due faccette articolari con il calcagno, queste ultime sono fra loro divise dal solco dell’astragalo che, assieme ad una doccia presente sul calcagno, forma il seno del tarso. Di queste due faccette, quella anteromediale è a sua volta divisa in una faccetta anteriore ed una media. 13 3. Il Calcagno E’ un osso breve, posto al di sotto dell’astragalo, con sei facce. Quella superiore si articola, ovviamente, con l’astragalo in maniera perfettamente corrispondente, la faccia inferiore, irregolare, presenta un rilievo: la tuberosità posteriore del calcagno. Da qui si dipartono due tubercoli: laterale e mediale. Sulla faccia laterale si nota il processo trocleare, inframmezzato con due solchi destinati al passaggio di tendini e muscoli peronieri. La faccia mediale presenta la doccia calcaneale mediale, che offre decorso a tendini, vasi e nervi che, dalla gamba, si portano alla pianta del piede. La faccia anteriore si articola mediante un’articolazione a sella con il cuboide. La faccia posteriore, infine, è inclinata e corrisponde alla sporgenza del tallone, offre inserzione, in basso, al tendine d’achille. 4. Il cuboide E’ un osso irregolarmente cubico, posto davanti al calcagno, lateralmente allo scafoide. La sua faccia superiore è rugosa e non articolare, quella plantare ha una marcata cresta per l’attacco del legamento plantare lungo. La faccia laterale è concava per consentire il passaggio del tendine peroniero lungo, quella mediale, più estesa, offre la faccetta articolare per il 3° cuneiforme. La superficie posteriore del cuboide si articola con l’omologa faccia del calcagno. Anche la superficie anteriore, ripartita in due faccette, si articola con le basi del 4° e 5° metacarpale. 5. Scafoide E’ un osso a forma di navicella, anteriore rispetto alla testa dell’astragalo, a contatto con la faccia prossimale dei tre cuneiformi. Delle due facce, quella posteriore, è provvista di una cavità glenoidea che accoglie la testa dell’astragalo, quella anteriore, invece, ha tre faccette articolari per gli altrettanti cuneiformi. L’estremità mediale è provvista di un grosso processo osseo, la tuberosità dello scafoide, punto di inserzione del tendine principale del tibiale posteriore. 6. Cuneiformi Sono tre ossa a forma di prismi triangolari, lungo il loro perimetro sono provvisti di varie faccette articolari piane, destinate all’articolazione con il cuboide, con lo scafoide e con le prime quattro ossa metatarsali. Il primo cuneiforme è il più voluminoso, il secondo si distingue per essere il più breve. 14 7. Ossa del metatarso Sono cinque piccole ossa lunghe, poste fra le ossa tarsali e le falangi prossimali. Ciascun osso metatarsale ha un corpo e due estremità. Il corpo ha forma prismatica triangolare e descrive un arco a concavità inferiore. Le estremità prossimali hanno faccette articolari per le ossa del tarso e per le ossa metatarsali vicine, le estremità distali presentano superfici articolari convesse, accolte nelle cavità glenoidee delle falangi prossimali. Le ossa metatarsali sono 5, il primo è il più corto e robusto, e presenta una sola faccetta articolare e, sulla sua superficie plantare prende inserzione il tendine del peroniero lungo. All’angolo inferolaterale presenta la tuberosità del 1° metatarsale, anch’essa punto d’inserzione per il peroniero lungo. Il secondo metatarsale ha l’estremità prossimale incastrata fra i tre cuneiformi, il terzo si articola con il terzo cuneiforme e con 4° e 2° metatarsale. Il quarto si distingue per la superficie articolare a contatto del cuboide che è quadrilatera. Il quinto metatarsale è il più sottile e, la sua estremità prossimale, presenta la tuberosità del 5° metatarsale, inserzione del tendine del peroniero breve. 8. Falangi Sono piccole ossa lunghe, meno sviluppate, seppur omologhe, a quelle della mano. 15 2. Il Muscolo scheletrico 2.1 Anatomia e fisiologia Indagando nella struttura di questo tipo di tessuto muscolare si può evidenziare un ordine gerarchico (vedi figura 2.1 ). I Fascicoli sono la struttura macroscopica principale, essi sono delimitati e circondati da tessuto connettivo e al loro interno contengono un insieme ordinato di fibre muscolari che sono l'elemento di base del muscolo scheletrico. Ogni fibra è una singola cellula polinucleata e, per soddisfare al fabbisogno energetico della stessa, si hanno centinaia di mitocondri. Queste vanno da un estremo all'altro del muscolo, o ne attraversano solo parte, terminando in tessuto connettivo o tendineo. Dimensionalmente si hanno diametri di 10-60 µm e lunghezze variabili da qualche millimetro fino a mezzo metro nei muscoli lunghi. All'interno di ogni fibra si ha una suddivisone longitudinale del citoplasma in Miofibrille che hanno diametri dell'ordine del µm ed all'indagine microscopica con coloranti sotto e l'uso di luce appositi polarizzata, appaiono striate (per questo motivo il nome di tessuto muscolare striato). Questa caratteristica è dovuta al fatto che all'interno della miofibrilla vi sono 16 sostanze che interagiscono col piano di polarizzazione della luce e che delimitano due bande distinte: quella isotropa I e quella anisotropa A, le quali sono bisecate rispettivamente da altre due bande più sottili, che vanno sotto il nome di Z ed H (ci si aiuti con la figura 2.2) Figura 2.2 : il sarcomero e la nomenclatura delle sue bande 17 Il meccanismo di contrazione dei sarcomeri non è ancora precisamente compreso. Si sono succedute nel tempo varie ipotesi e teorie per spiegare il funzionamento dei miofilamenti, alle quali hanno fatto seguito i relativi modelli matematici. Tra queste, quella più accreditata è la cosiddetta cross bridge theory, la quale vede la formazione di ponti trasversali ATP-dipendenti tra le teste della miosina e gli appositi siti dell'actina con il conseguente movimento relativo tra i due sliding filaments. I muscoli scheletrici vengono attivati dai motoneuroni afferenti dal sistema nervoso volontario, ma possono essere stimolati anche con impulsi elettrici o chimici. La singola stimolazione sopra soglia del muscolo scheletrico produce un evento meccanico di tipo contrattile che va sotto il nome di twitch della durata di una frazione di secondo (circa 150 ms). L'effetto di questa stimolazione elettrica è quello di triggerare il rilascio di ioni calcio dalle sacche del reticolo sarcoplasmatico, i quali migrano all'interno della cellula e attivano i cross link tra le teste della miosina e i siti specifci dell'actina. Sperimentalmente si osserva che l'ampiezza ed il tipo di forza contrattile sviluppata è funzione della frequenza della stimolazione. Dalla figura 2.3 si nota infatti che stimolazioni con frequenza inferiore a 6,6 Hz (una ogni 150 ms) producono una serie di twitch identici; aumentando la frequenza si osserva un fenomeno di sommazione e di fusione dei singoli twitch, con relativo aumento della forza contrattile, fino ad un limite al di là del quale aumenti della frequenza di stimolazione non producono più aumenti della forza contrattile, la quale si stabilizza ad un valore massimo: questa condizione di funzionamento va sotto il nome di regime tetanico e la corrispondente frequenza critica è, nei mammiferi, dell'ordine dei 50-60 Hz. Purtroppo questa è anche la frequenza tipica di molte reti elettriche, ma queste scoperte sono ovviamente successive all'installazione di queste. 18 Figura 2.3 : sommazione dei twitch e regime tetanico 2.2 Proprietà biomeccaniche Per descrivere in modo completo le prestazioni di un muscolo scheletrico è sufficiente prendere in considerazione solo tre variabili: forza, lunghezza e tempo (dalle quali sono derivate velocità e lavoro). Solitamente si mantiene costante una delle tre e si ricavano le relazioni tra le altre due. Con questo approccio analizziamo le due tipologie di contrazione possibile in questo tipo di muscolo: • contrazione isometrica: il muscolo (o, nello specifico, il singolo sarcomero) è stimolato nel mentre che è mantenuto a lunghezza costante. Da questa contrazione si nota anzitutto che la tensione sviluppata dal sarcomero è funzione della sua lunghezza, in termini di sovrapposizione dei miofilamenti: per lunghezze superiori a 3,7 µm non si ha sviluppo di forza a causa della non interazione tra i miofilamenti; analogamente succede per lunghezze inferiori a quella ottimale L0 a causa dell'interferenza tra questi che provoca un'alterazione del meccanismo di attivazione e della geometria dei sarcomeri. In pratica, la tensione massima è sviluppata quando il muscolo è mantenuto a lunghezze fisiologiche e la σ corrispondente è un valore pressochè costante nei muscoli dei mammiferi: circa 2Kg/cm2. Inoltre è importante notare che la caratteristica meccanica esterna del muscolo è la somma di due stati: quello 19 attivo, determinato dalla tensione sviluppata dal sarcomero in fase di contrazione, e quello passivo, determinato dalla rigidezza dei costituenti del tessuto (fondamentalmente connettivo e tendineo) a riposo. Per quanto riguarda quest'ultimo è possibile dare una forma empirica di tipo esponenziale: σ = µeαε − β • contrazione isotonica: il muscolo è lasciato libero di accorciarsi/allungarsi sotto l'imposizione di un carico costante. Gli esperimenti di questo tipo sono solitamente quelli di quick release: si prepara il muscolo (o anche il singolo sarcomero) attaccandogli un carico predeterminato e portandolo alla lunghezza ottimale per lo sviluppo di forza L0 di cui si è appena parlato, dopodichè si stimola in regime tetanico, lo si lascia libero di accorciarsi/allungarsi tramite un fermo elettromeccanico e si misura la velocità di contrazione come pendenza della caratteristica sforzo-deformazione. Notare infine la discontinuità tra i due regimi di accorciamento ed allungamento, attribuibile al cambio di comportamento del muscolo rispettivamente da contrazione ad allungamento. 20 2.3 Muscoli dell'arto inferiore - L'ileopsoas E’ situato nella regione lomboiliaca e nella regione anteriore della coscia. E’ formato da due porzioni fra loro distinte: il grande psoas, e il muscolo iliaco. Si uniscono per inserirsi nel femore.Il grande psoas è fusiforme ed origina dalle facce laterali dei corpi dell’ultima vertebra toracica, dalle prime quattro vertebre lombari e dai dischi interposti, e dalla base dei processi trasversi delle prime quattro vertebre lombari. Si porta in basso, lateralmente, passa sotto al legamento inguinale e, giunto nella coscia termina inserendosi al piccolo trocantere. Durante il suo percorso prende rapporto anterosuperiormente con l’arco diaframmatici, con il rene, colon, vasi renali, vena cava inferiore. Tra il robusto tendine terminale e la capsula fibrosa dell’articolazione dell’anca, è interposta una borsa mucosa.Il muscolo iliaco ha forma a ventaglio e origina dal labbro interno della cresta iliaca, dalle due spine iliache anteriori e dall’incisura fra di esse interposta, dalla fossa iliaca e dall’ala del sacro. I fasci che decorrono inferiormente vanno a fondersi, in parte, con quelli del muscolo grande psoas. Il muscolo ileopsoas è innervato da rami del plesso lombare e dal nervo femorale. Contraendosi flette la coscia sul bacino, adducendola e ruotandola esternamente. Se prende punto fisso sul femore flette il tronco e lo inclina dal proprio lato. - Piccolo psoas E’ un muscolo di modeste dimensioni, fusiforme, anteriore rispetto al grande psoas. Origina dalle facce laterali dei corpi dell’ultima vertebra toracica e dalla prima lombare. Da qui va ad inserirsi sull’eminenza ileopettinea e sulla fascia iliaca. Con la sua contrazione tende la fascia iliaca. - Grande gluteo 21 E’ il più superficiale, e al contempo il più sviluppato, muscolo della regione glutea. Origina dalla parte posteriore del labbro esterno della cresta iliaca, dalla linea glutea posteriore, e dalla superficie dell’osso dell’anca, dalla cresta laterale del sacro e del coccige, e dalla fascia del medio gluteo. Questi numerosi fasci convergono verso la linea aspra del femore, per inserirsi sulla tuberosità glutea. Il grande gluteo si trova compreso fra i tegumenti della natica, superficialmente, il medio gluteo, i gemelli, l’otturatorio, in profondità. E’ innervato dal nervo gluteo inferiore, sotto il cui controllo estende e ruota lateralmente il femore. Contribuisce al mantenimento della stazione eretta ed alla deambulazione prendendo punto fisso sul femore. - Medio gluteo E’ un muscolo piatto, di forma triangolare, posto sotto il grande gluteo. Origina dall’osso dell’anca, dal labbro esterno della cresta iliaca, e dalla spina iliaca.I suoi fasci muscolari convergono a ventaglio, si raccolgono in un tendine che va ad inserirsi sulla faccia esterna del grande trocantere. Il muscolo è ricoperto da uno spesso foglietto della fascia glutea, dal grande gluteo, e dal tensore della fascia lata. E’ innervato dal nervo gluteo superiore e, sotto la sua azione, abduce il femore e lo ruota esternamente. Prendend punto fisso sul femore estende ed inclina lateralmente il bacino. - Piccolo gluteo Anch’esso di forma triangolare, prende origine dalla faccia esterna dell’osso dell’anca, anteriormente alla linea glutea e dal labbro esterno della cresta iliaca. I suoi fasci convergono inferiormente, prendendo inserzione sulla superficie anteriore del grande trocantere del femore. Il muscolo è compreso fra il medio gluteo, l’ala iliaca, e l’articolazione dell’anca. E’ innervato dal nervo gluteo superiore e, contraendosi, abduce e ruota il femore. Con punto fisso a livello femorale inclina omolateralmente il bacino. - Muscolo piriforme E’ appiattito e triangolare, posto parzialmente all’interno e parzialmente all’esterno della pelvi.Origina dalla faccia anteriore de sacro, lateralmente al 2°, 3° e 4° foro sacrale. Si dirige lateralmente ed in fuori, i suoi fasci vanno all’esterno tramite il grande forame ischiatico e si inseriscono sull’estremità 22 superiore del grande trocantere. Il muscolo piriforme divide il grande forame ischiatico in sovrapiriforme e sottopiriforme. E’ in rapporto anteriormente con l’intestino retto e, profondamente, appoggia sul sacro. Nella parte extrapelvica prende rapporto con il grande gluteo e l’articolazione dell’anca. E’ innervato da un ramo collaterale del plesso sacrale. Contraendosi ruota lateralmente il femore ed ha un’azione stabilizzante sull’articolazione coxofemorale. - Muscoli gemelli Decorrono orizzontalmente e possono essere distinti in superiore ed inferiore. Il primo origina dalla faccia esterna e dal margine inferiore della spina ischiatica, l’altro dalla faccia esterna della tuberosità ischiatica. Entrambi vanno ad inserirsi sul tendine del muscolo otturatorio interno e, tramite quest’ultimo, nella fossa trocanterica del femore. Sono in rapporto con l’articolazione dell’anca,anteriormente, e con il grande gluteo, posteriormente. Sonno innervati dai rami collaterali del plesso sacrale e, con la loro azione, ruotano esternamente il femore e stabilizzano l’articolazione dell’anca. - Muscolo otturatorio interno E’ situato tra l’interno e l’esterno della pelvi, prende origine dalla faccia intrapelvica della membrana otturatoria, e dal contorno del foro otturatorio. Da qui si porta verso il piccolo forame ischiatico, per poi volgere lateralmente andando ad inserirsi nella fossa trocanterica del femore. Delimita, nella sua porzione intrapelvica, la fossa ischiorettale. E’ innervato dal nervo otturatorio interno e, contraendosi, ruota lateralmente il femore, contribuendo a stabilizzare l’articolazione dell’anca. - Muscolo otturatorio esterno Origina dal contorno esterno del foro otturatorio e dalla benderella sottopubica, si porta lateralmente, in alto e in basso, circondando l’articolazione coxofemorale, prima di inserirsi nella fossa trocanterica del 23 femore. E’ in rapporto anteriormente con l’ileopsoas, perineo, grande e breve adduttore. E’ innervato dal nervo otturatorio e, con la sua azione, ruota lateralmente il femore e stabilizza l’articolazione dell’anca. - Quadrato del femore E’ un muscolo quadrilatero posto fra la superficie esterna della tuberosità ischiatica e la cresta intertrocanterica del femore. E’ anteriormente in rapporto con l’articolazione dell’anca e con il muscolo otturatorio esterno. Posteriormente al quadrato del femore troviamo il grande gluteo e il nervo ischiatico. E’ innervato da un ramo collaterale del plesso sacrale, agisce ruotando lateralmente il femore e stabilizzando l’articolazione dell’anca. - Muscoli anteriori della coscia 1. Tensore della fascia alata E’ un muscolo fusiforme e superficiale, è posto lateralmente nella coscia. Origina dall’estremità anteriore del labbro esterno della cresta iliaca, dalla spina iliaca e dal medio gluteo. I suoi fasci si dirigono in basso proseguendo in un lungo tendine che la percorre per quasi i due terzi inferiori, per poi inserirsi nel condilo laterale della tibia. Nel suo tragitto, il tendine d’inserzione si fonde con la fascia femorale, formando il tratto ileotibiale. Il ventre muscolare è laterale rispetto al sartorio e anteriore al medio gluteo. Contrae rapporto in superficie con lo strato sottocutaneo e, profondamente, con medio gluteo e vasto laterale. Con la sua azione tende la fascia lata e abduce la coscia, ha anche un’azione estensoria della gamba sulla cosia. 2. Muscolo sartorio Occupa una posizione superficiale e si presenta come un muscolo allungato e nastriforme che attraversa obliquamente, dall’esterno verso l’interno, la faccia anteriore della coscia. La sua inserzione terminale è sul lato mediale del ginocchio, sulla faccia mediale della tibia. Il tendine d’inserzione è comune ai muscoli gracile e semitendinoso e, per la sua forma, è denominato zampa d’oca. La sua faccia superiore è superficiale e, con quella profonda, entra in contatto con il retto del femore e con l’ileopsoas. Delimita la parte laterale del triangolo femorale, assieme al legamento inguinale, che rappresenta la parte superiore, e all’adduttore lungo che rappresenta la parte mediale. Il sartorio è innervato dal nervo 24 femorale e, con la sua azione, flette la gamba sulla coscia e la coscia sul bacino. Può abdurre e ruotare all’esterno la coscia. 3. Quadricipite femorale E’ il muscolo più voluminoso della regione anteriore e, come il suo nome può far dedurre, è composto da quattro capi: il retto del femore, il vasto mediale, il vasto laterale, e il vasto intermedio, raccolti in un unico tendine terminale. Il retto del femore origina dalla spina iliaca anteriore con un tendine diretto e, dalla porzione più alta del contorno dell’acetabolo e dalla capsula articolae, con un tendine riflesso. Il vasto mediale origina dal labbro mediale della linea aspra e dalla linea rugosa che la unisce al collo del femore. Il vasto laterale origina dalla faccia laterale e dal margine anteriore del grande trocantere, dalla linea aspra del femore e dal tendine del grande gluteo. Il vasto intermedio, posto fra vasto laterale e vasto mediale, origina dal labbro della linea aspra e dalle facce anteriori e laterali del femore. I quattro capi convergono in basso, mantenendo la loro individualità. A livello del ginocchio si raccolgono in un tendine, formato dalla sovrapposizione di tre lamine, che trovano quasi totalmente inserzione a livello della patella. Altre fibre vanno ad inserirsi al margine infraglenoideo della tibia, passando al di sopra della patella e costituendo la cosiddetta espansione del quadricipite. Quest’ultima è rinforzata da due benderelle fibrose che si portano dalla patella ai condili della tibia. I fasci più profondi del vasto intermedio prendono inserzione sulle pareti della borsa sinoviale costituendo il muscolo articolare del ginocchio. Il quadricipite è innervato dal nervo femorale e, contraendosi estende la gamba. Partecipa con il retto femorale alla flessione della coscia e, a ginocchio flesso, alla flessione del bacino sulla coscia. - Muscoli mediali e posteriori della coscia 1. Muscolo gracile E’ appiattito e nastriforme, e mediale nella coscia, origina dalla branca ischiopubica, nei presi della sinfisi, per poi inserirsi nella faccia mediale della tibia. Superficialmente è coperto dalla fascia femorale 25 e, in profondità, prende rapporto con gli adduttori grande e lungo. E’ innervato dal nervo otturatorio e, contraendosi, adduce la coscia, flette e ruota medialmente la gamba. 2. Muscolo pettineo E’ situato superomedialmente nella coscia. Origina dal tubercolo pubico della faccia anteriore del pube, dalla cresta pettinea e dal legamento pubofemorale. I suoi fasci, a decorso laterale, si inseriscono in basso, sulla linea pettinea del femore. Superficialmente corrisponde al triangolo femorale, profondamente è in rapporto con la capsula coxofemorale e con l’adduttore breve. E’ innervato dal nervo femorale e, contraendosi, adduce, flette e ruota all’esterno la coscia. 3. Muscolo adduttore lungo E’ un muscolo piatto, di forma triangolare, origina dal ramo superiore del pube, fra il tubercolo e la sinfisi, i suoi fasci vanno ad inserirsi al ramo mediale della linea aspra del femore. La sua faccia superficiale è rivestita dalla fascia femorale. Prende rapporto, profondamente, con sartorio e vasto mediale. Sotto l’innervazione del nervo otturatorio adduce e ruota esternamente la coscia. 4. Muscolo adduttore breve Di forma triangolare è profondo rispetto all’adduttore lungo e superficiale rispetto al grande adduttore. Origina dal ramo superiore del pube, e dalla branca ischiopubica e si inserisce sulla linea aspra del femore. E’ innervato dal nervo otturatorio, adduce e ruota esternamente la coscia. 5. Grande adduttore E’ il più profondo, rispetto agli altri adduttori, ha anch’esso forma triangolare. Origina dalla branca ischiopubica e dalla tuberosità ischiatica. Si dirige in basso e lateralmente e, raggiunto il margine posteriore del femore, termina inserendosi sul labbro mediale della line aspra. L’inserzione del grande adduttore è interrotta da diversi orifizi, punto di passaggio di vasi perforanti, tra i quali l’arteria femorale che, a questo livello, continua nell’arteria poplitea. Si contrae sotto il controllo del nervo otturatorio ed ischiatico adducendo e ruotando all’interno la coscia. - Muscoli posteriori della coscia 26 1. Muscolo bicipite femorale Occupa le regioni posteriore e laterale della coscia e origina con due capi: il capo lungo, che nasce dalla parte superiore della tuberosità ischiatica, e il capo breve, dal labbro laterale della linea aspra del femore e dal setto intermuscolare. I due capi convergono sulla testa della fibula con un tendine comune, posteriormente contrae rapporto con il grande gluteo, anteriormente con grande adduttore, smimembranoso, e vasto laterale. E’ innervato dal nervo tibiale e dal peroniero. Agisce flettendo la gamba ed estendendo la coscia. 2. Muscolo semitendinoso E’ situato superficialmente nella parte posteriore della coscia, in posizione mediale. E’ carnoso nela sua parte superiore e tendineo in quella inferiore. Origina dalla tuberosità ischiatica e discende sino alla parte media della coscia per inserirsi nella parte superiore della faccia mediale della tibia. E’ in rapporto con il grande gluteo posteriormente, grande abduttore e semimembranoso anteriormente. E’ innervato dal nervo tibiale e, contraendosi, flette e ruota all’interno la gamba, estendendo la coscia. 3. Semimembranoso E’ posto in profondità rispetto al semitendinoso, è costituito, superiormente, da una lamina tendinea. Origina dalla tuberosità ischiatica, si porta inferiormente e, a livello del ginocchio, il suo tendine si divide in tre fasci: uno discendente che si inserisce sul condilo tibiale, uno ricorrente che forma il legamento popliteo obliquo ed uno anteriore che si inserisce sul condilo mediale della tibia. E’ innervato dal nervo tibiale ed ha un’azione analoga al semitendinoso. - Muscoli della gamba Anche questi si dividono in anteriori, laterali e posteriori. 1. Muscoli anteriori della gamba Si trovano in una loggia delimitata dalla membrana interossea e dai margini anteriori di tibia e fibula. Muscolo tibiale anteriore 27 E’ il più mediale dei quattro muscoli anteriori, origina dal condilo laterale e dalla faccia laterale della tibia, dalla membrana interossea della gamba, dalla fascia crurale e dal setto intermuscolare. I suoi fasci si portano in basso, per inserirsi al tubercolo del primo cuneiforme e alla base del primo metatarsale, tramite il tendine d’inserzione. Ha rapporto con la fascia crurale superficialmente e con la tibia medialmente. Lateralmente prende rapporto con i muscoli estensori delle dita e dell’alluce, questi ultimi separano dalla cute il tendine d’inserzione. E’ innervato dal peroniero profondo e, con la sua contrazione, flette dorsalmente, adduce e ruota il piede. Muscolo estensore lungo delle dita E’ laterale rispetto al tibiale anteriore. Origina dal condilo laterale e dalla testa della tibia, e dalla faccia media della fibula. I fasci muscolari si dirigono in basso convergendo in un robusto tendine che si divide in 4 tendini secondari ciascuno dei quali destinato ad una delle quattro ultime dita. Nella porzione terminale, ogni tendine secondario, si divide in 3 linguette una delle quali si applica dorsalmente alla seconda falange e, le altre due, alla base della terza falange. E’ innervato dal peroniero profondo e, contraendosi estende le ultime quattro dita contribuendo alla flessione dorsale, all’abduzione ed alla rotazione esterna del piede. Muscolo estensore lungo dell’alluce Origina dalla faccia mediale della fibula e dalla corrispondente porzione della membrana interossea. Si continua in un tendine di inserzione mentre decorre in basso, quest’ultimo si inserisce dorsalmente alla prima falange e alla base della seconda falange dell’alluce estendendolo con la sua contrazione, sotto il controllo del nervo peroniero profondo. Analogamente all’estensore lungo delle dita, partecipa alla flessione dorsale, all’abduzione ed alla rotazione esterna del piede. Muscolo peroniero anteriore E’ in posizione inferolaterale nella parte anteriore della gamba, lateralmente all’estensore lungo delle dita, con il quale a volte è fuso. Origina dalla faccia mediale della fibula e dalla membrana interossea, si inserisce sulla superficie dorsale del 5° osso metatarsale e, contraendosi, abduce e ruota esternamente il piede. 2. Muscoli laterali della gamba 28 Muscolo peroniero lungo E’ più superficiale e più lungo del peroniero breve. Origina dalla testa della fibula e dal suo margine laterale. Si porta verticalmente in basso inserendosi con il suo lungo tendine d’inserzione sulla tuberosità del primo metatarsale, sul primo cuneiforme e alla base del secondo metatarsale. Contrae rapporto con soleo e flessore lungo dell’alluce con la sua faccia posteriore. E’ innervato dal peroniero superficiale e, con la sua azione, abduce e ruota all’esterno il piede. Agisce sulla volta plantare accentuandone la curvatura. Muscolo peroniero breve E’ più profondo rispetto al precedente. Origina dalla faccia laterale della fibula e dai circostanti setti intermuscolari. I suoi fasci passano mediante il tendine nel quale si fondono, dietro al malleolo laterale per fissarsi alla parte dorsale della base del 5° metatarsale. Contraendosi abduce e ruota all’esterno il piede. 3. Muscoli posteriori della gamba Sono disposti in due piani, uno superficiale, l’altro profondo. Muscolo tricipite della sura E’ formato da due muscoli: il gastrocnemio e il soleo che, in basso, convergono in un unico tendine: il tendine d’Achille. Il gastrocnemio è formato da due ventri muscolari: i gemelli della gamba. Il laterale origina dall’epicondilo laterale del femore e dalla regione posteriore della capsula articolare del ginocchio; il mediale origina dall’epicondilo mediale e dalla capsula articolare del ginocchio. Il soleo, posto profondamente ai due gemelli, origina dalla testa, dalla faccia dorsale e dal margine laterale della fibula. I tre capi muscolari si uniscono nel tendine calcaneale che si inserisce sulla faccia posteriore del calcagno. A livello del ginocchio, i margini interni dei tendini dei muscoli gemelli sono separati da uno spazio angolare aperto in alto, e rappresentano il limite inferiore della fossa poplitea. Profondamente i due gemelli sono a contatto con la capsula articolare e, tra di loro, decorre il fascio vascolonervoso della gamba, costituito da vena ed arteria poplitea e dal nervo tibiale. Il soleo è a contatto posteriormente con il gastrocnemio e, anteriormente, con il flessore lungo delle dita. Il tricipite della 29 sura è innervato dal nervo tibiale e, contraendosi, flette plantarmente il piede, ruotandolo all’interno. Concorre alla flessione della gamba sulla coscia. Muscolo plantare E’ un piccolo muscolo, talora assente, posto profondamente al gemello laterale, origina dal ramo laterale della line aspra del femore e dalla capsula articolare del ginocchio. Il lungo tendine decorre fra il gastrocnemio ed il soleo e termina sulla faccia mediale del calcagno. Ha un’azione simile, ma meno potente, al tricipite della sura. Muscolo popliteo E’ un muscolo appiattito, posto sotto al plantare e ai gemelli. Origina dalla faccia esterna del condilo laterale del femore e dalla capsula articolare del ginocchio. Trova inserzione sul labbro della linea obliqua, e sulla faccia posteriore della tibia. Anteriormente corrisponde al condilo laterale del femore e con l’articolazione del ginocchio, posteriormente con i muscoli plantare e gastrocnemio. Con la sua azione flette e ruota all’interno la gamba. Flessore lungo delle dita E’ il più mediale muscolo dello strato profondo, origina dalla linea obliqua e dalla faccia posteriore della tibia e dai circostanti setti intermuscolari. I fasci muscolari convergono in un lungo tendine a livello del terzo inferiore della gamba. Il tendine, dopo essere passato nella doccia calcaneale, attraversa la regione plantare del piede e si divide in quattro tendini terminali che vanno a fissarsi alla base della terza falange terminale delle ultime quattro dita. Ciascun tendine, in corrispondenza delle prime falangi, attraversa un occhiello formato dai rispettivi tendini del muscolo flessore breve delle dita.. Il flessore lungo delle dita flette le ultime quattro dita e concorre alla flessione plantare del piede. Muscolo flessore lungo dell’alluce E’ il più laterale dei muscoli dello strato profondo. Origina dai 2/3 inferiori della faccia posteriore e del margine laterale della fibula, dalla membrana interossea e dai setti intermuscolari circostanti I fasci finiscono su un lungo tendine che, passato sotto al melleolo mediale e giunto nella regione piantare, si porta in avanti e medialmente e va a fissarsi alla base della falange distale dell'alluce. La contrazione 30 del muscolo flessore lungo dell'alluce determina una flessione delle altre quattro dita. Con la sua azione, flette l'alluce e concorre alla flessione delle altre dita e alla flessione piantare del piede. Muscolo tibiale posteriore. E’ situato profondamento rispetto ai due muscoli flessori lunghi delle dita e dell'alluce. Origina dal labbro inferiore della linea obliqua e dalla faccia posteriore della tibia, dalla parte superiore della membrana interossea, dalla faccia mediale della fíbula e dai setti intermuscolari circostanti. Continua quindi in un tendine d'inserzione che va a terminare sul tubercolo dello scafoide. Agisce flettendo plantarmente il piede e partecipa ai movimenti di adduzione e di rotazione interna del piede; accentua anche la curvatura della volta plantare. 31 3. Articolazioni dell'arto inferiore Le articolazioni sono dispositivi giunzionali che assicurano la mobilità dei diversi segmenti corporei e possono essere suddivise in sinartrosi (articolazioni per continuità) e in diartrosi (articolazioni per contiguità). Nelle SINARTOROSI, la giunzione tra i capi scheletrici è garantita dall'interposizione di tessuto fibroso (sindesmosi), cartilagineo (sincondrosi) o fibrocartilagineo (sinfisi) che permette solo movimenti reciporoci. Nelle sindesmosi si identificano le suture, quando si ha contatto osseo per margini sottili (suture craniche), le gonfosi o articolazioni per infissione di una componente nell'altra (denti - cavità alveolari), le schindelesi o suture ad incastro (rostro - vomere). Tra le sincondrosi si ricordano le articolazioni costo - sternali. Nelle sinfisi (sinfisi pubica) sono presenti le anfiartrosi (articolazioni intersomatiche vertebrali), che contrariamente alle altre sinartrosi, grazie al disco intervertebrale, presentano un certo grado di motilità. Nelle DIARTOSI i capi ossei si affrontano con superfici rivestite di cartilagine ialina e la loro connessione è mantenuta dalla capsula articolare che racchiude i capi ossei nella cavità articolare. La capsula articolare è rivestita internamente dalla membrana sinoviale ed è lubrificata dal liquido sinoviale. La stabilità articolare è garantita dall'apparato legamentoso e tendineo che con la forma dei capi articolari consentono ben precisi tipi di movimento. Tra le diartrosi si distinguono: le artrodie che presentano superfici di contatto piane (tarso metatarsiche); le enartrosi che pesentano i capi ossei a forma di segmento di sfera, uno convesso e l'altro concavo (coxo - femorale ) e presentano il piu' alto grado di motilità; le condiloartrosi , i cui capi articolari sono segmenti di ellissoide, uno pieno (condilo) ed uno cavo (cavità condiloidea), (temporo mandibolare); le pedartrosi o articolazioni a sella: una delle superfici articolari è convessa in una direzione e concava in direzione ortogonale alla prima e la superficie articolare contigua ha curve inverse (trapezio - metacarpale); le articolazioni a ginglimo: i capi articolari sono a segmento di cilindro uno convesso e l'altro concavo. Ginglimo parallelo, o laterale, o trocoide: gli assi longitudinali sono paralleli (atlo - odontoidea); ginglimo angolare o troclea: gli assi dei cilindri sono ortogonali (interfalangee). L' innervazione articolare è assicurata da fibre somatiche e viscerali di cui è ricca la capsula articolare. In alcune articolazioni si trovano i menischi, strutture fibrocartilaginee che facilitano l'adattamento dei capi ossei articolari. Lo scorrimento fra strutture muscolo-tendinee e piano osteolegamentoso è assicurato anche dalle guaine sinoviali di scorrimento tendineo e dalle borse sinoviali periarticolari. 32 - Articolazione sacroiliaca Le superfici articolari che la determinano sono le faccette articolari dell’osso dell’anca e del sacro. Queste faccette non sono piane ma presentano una doppia curvatura che limita le possibilità di reciproco scorrimento fra le ossa. I mezzi d’unione sono dati da una capsula articolare spessa e resistente, rinforzata da legamenti periferici e a distanza. La capsula articolare è rivestita internamente dalla sinovia, e rinforzata dai due legamenti sacroiliaci, uno anteriore ed uno posteriore. Il primo origina da un robusto fascio fibroso con origine la faccia fibrosa del sacro, lateralmente ai primi fori sacrali. Il legamento sacroiliaco posteriore e invece costituito da tre gruppi di fasci posti su altrettanti piani. Partendo dal più profondo incontriamo: il fascio interosseo, teso dalla tuberosità iliaca a quella sacrale, il fascio breve, che congiunge le spine iliache posteriori con il 2° ed il 3° tubercolo della cresta sacrale laterale, il fascio lungo che connette la spina iliaca posteriore ad uno degli ultimi tubercoli della cresta sacrale laterale. I legamenti a distanza sono rappresentati dal legamento ileolombare, teso fra i processi costiformi della 4° e 5° vertebra lombare e la cresta iliaca; dal legamento sacrospinoso, teso fra i margini laterali di sacro e coccige sino alla spina ischiatica; e legamento sacrotuberoso che, dal sacro e dal coccige, si inserisce sulla tuberosità ischiatica. - Sinfisi pubica Unisce anteriormente le due ossa dell’anca, per mezzo di due faccette articolari piane, fra le quali è interposto un disco fibrocartilagineo, denominato disco interpubico, di forma a cuneo a base anteriore. E’ composto da una porzione periferica di consistenza dura ed una centrale di consistenza molle. Nella femmina, lo spessore del disco, è maggiore che nel maschio. Oltre al disco interpubico, la stabilità di questa articolazione è consentita da un manicotto che si continua con il periostio del pube. La capsula è poi rinforzata dal legamento superiore del pube, teso fra i due tubercoli pubici, e dal legamento inferiore del pube. - Articolazione sacrococcigea E’ una sinfisi posta tra apice del sacro e base del coccige, tra le due faccette articolari in questione, è inserito un disco fibrocartilagineo, di dimensioni variabili e, spesso, ossificato nell’adulto, trasformando quella che era una sinfisi, in una sinostosi. I mezzi di rinforzo dell’articolazione sono dati dai legamenti sacrococcigei anteriore, laterali, e posteriore. Il legamento sacrococcigeo anteriore va dalla faccia anteriore dell’ultima vertebra sacrale, all’apice del coccige. I legamenti sacrococcigei 33 laterali si distinguono a loro volta in esterni, medi ed interni. Il legamento sacrococcigeo posteriore comprende un fascio superficiale ed un fascio profondo. L’articolazione sacrococcigea consente movimenti di retropulsione del coccige che ampliano il diametro anteroposteriore dello stretto inferiore. 3.1 Articolazione coxofemorale E’ una tipica enartrosi, e unisce il femore all’osso dell’anca. Si mettono in rapporto l’acetabolo, cavità articolare dell’anca, con la testa del femore, di forma simile ai 2/3 di una sfera piena del diametro di 4 cm circa. Le superfici articolari non sono però esattamente corrispondenti e, il labbro dell’acetabolo, concorre ad ampliare la superficie articolare rendendola adatta ad accogliere la testa del femore, oltre che a contenere l’articolazione stessa. Il labbro acetabolare, infine, trasforma in foro l’incisura dell’acetabolo, passandoci sopra. Al centro della cavità glenoidea è presente una depressione denominata fossa dell’acetabolo, non rivestita da cartilagine ma di periostio. Da qui origina il legamento rotondo del femore, che si inserisce sulla fovea capitis della testa del femore, conferendole ulteriore stabilità. I mezzi d’unione sono rappresentati dalla capsula articolare e da tre legamenti oltre che, naturalmente, il poc’anzi citato legamento rotondo. La capsula articolare è un manicotto fibroso, inserito sul contorno dell’acetabolo e sul labbro acetabolare, sul collo femorale, rendendo intracapsulare la faccia anteriore del collo anatomico del femore. I legamenti di rinforzo sono: l’ileofemorale, l’ischiofemorale, il pubofemorale e i legamenti longitudinali. Questi altro non sono che porzioni ispessite della capsula. Il legamento rotondo del femore è inserito con due radici all’incisura dell’acetabolo e, al contrario degli altri legamenti, non è in tensione. La sinoviale riveste la superficie interna della capsula e le porzioni intracapsulari dei capi ossei. 34 3.2 Articolazione del ginocchio L’articolazione del ginocchio è assai complessa, sia sotto il profilo della classificazione che dal punto di vista funzionale. Le superfici articolari del ginocchio, infatti, lascerebbero supporre un’ampia escursione di movimento, al contrario questo si scontra con i limiti posti dall’apparato legamentoso che li riduce alla sola flessoestensione. A livello del ginocchio si verifica la trasmissione del peso corporeo alla gamba, il che conferisce all’articolazione anche un importante compito statico. Il femore partecipa all’articolazione con la superficie patellare anteriore, a forma di troclea, e con le superfici articolari dei condili. La tibia prende parte con la sua estremità superiore, facendo coincidere le due cavità glenoidee con i condili femorali. Le cavità glenoidee sono poco profonde e, tra loro, si interpone un’area non articolare, leggermente in rilievo: l’eminenza intercondiloidea. La patella partecipa all’articolazione con la sua superficie posteriore, corrispondente alla troclea femorale. L’armonia fra le superfici articolari di femore e tibia è stabilita da due menischi, uno laterale, l’altro laterale. Hanno la forma di semianelli e, il loro spessore, diminuisce procedendo dall’esterno verso l’interno. Con le loro estremità si fissano sulla porzione intercondiloidea della tibia e, anteriormente, sono fra loro uniti dal legamento trasverso del ginocchio. I mezzi d’unione sono rappresentati da una capsula articolare e da legamenti di rinforzo. Lo strato fibroso della capsula articolare costituisce un breve e robusto manicotto, lasso anteriormente. La capsula si fissa ai margini dell’osso a livello della rotula, 35 assottigliandosi al di sopra e al di sotto. La sinoviale ne tappezza la superficie interna, prolungandosi anteriormente al di sotto del muscolo quadricipite, formando la borsa sinoviale sovrapatellare; posteriormente forma una doccia che accoglie i legamenti crociati; lateralmente riveste la superficie interna della capsula fibrosa, per poi ripiegarsi sulle superfici ossee intraarticolari. Si interrompe a livello dei menischi a causa della loro forte aderenza con la capsula fibrosa. I numerosi ispessimenti della capsula fibrosa formano i legamenti anteriori, posteriori, laterali e crociati. Il legamento anteriore è il tratto sottopatellare del tendine del muscolo quadricipite femorale, nel cui spessore risulta iclusa la stessa patella. Il legamento posteriore è formato dai gusci dei condili e dal legamento mediano, intercondiloideo. I legamenti crociati sono intracapsulari e si trovano in un piano verticale tra i condili femorali. Il legamento crociato anteriore si diparte al davanti dall’eminenza intercondiloidea e si porta alla faccia mediale del condilo laterale del femore; il legamento crociato posteriore si estende posteriormente all’eminenza intercondiloidea alla faccia mediale del condilo mediale del femore. La cavità articolare del ginocchio è la più ampia di tutte le articolazioni, includendo l’articolazione femoropatellare e la borsa sovrapatellare. - Articolazione tibiofibulare prossimale E’ una artrodia che si stabilisce fra la faccia fibulare della tibia, ovalare e pianeggiante, e la corrispondente superficie del capitello. I mezzi d’unione sono rappresentati dalla capsula articolare, fissata sul contorno delle superfici articolari, da due legamenti propri, e da un legamento interosseo a distanza. I legamenti propri sono ispessimenti della capsula fibrosa, il legamento interosseo è una dipendenza della membrana interossea della gamba. - Articolazione tibiofibulare distale E’ una sinartrosi tra le estremità distali di tibia e fibula. La tibia presenta una faccetta articolare incavata a doccia, denominata incisura fibulare, in rapporto con una superficie rugosa o piana della fibula. Entrambe le facce, congiunte da un robusto legamento fibroso interosseo, sono rivestite da periostio. I fasci fibrosi del legamento costituiscono, oltre le estremità delle due ossa, i legamenti anteriori e posteriori del malleolo laterale, entrando a far parte dell’apparato di supporto dell’articolazione in oggetto. Sporadicamente, le superfici articolari, non sono rivestite da cartilagine, in questo caso l’articolazione è considerata un’artrodia. 36 3.3 Articolazione tibiotarsica E’ un’articolazione a troclea fra tibia, fibula e astragalo. Tibia e fibula formano un incastro che, per la sua peculiarità, è definito mortaio tibiofibulare. E’ composto, posteriormente, dalla faccia inferiore della tibia, lateralmente dalle superfici mediali dei malleoli fibulare e tibiale. Per quel che riguarda il tarso, la superficie articolare è resa disponibile dalla troclea edalle facce malleolari dell’astragalo. I mezzi di unione sono la capsula articolare, che si estende dai bordi del mortaio tibiofibulare alla superficie articolare dell’astragalo, e i legamenti di rinforzo. E’ sottile in avanti e indietro e ispessita ai lati per la presenza di legamenti mediali e laterali. Il legamento mediale ha forma triangolare, parte dall’apice del malleolo e si divide in quattro fasci, rappresentativi di altrettanti legamenti. Dei quattro legamenti due, anteriori, sono il legamento tibionavicolare e tibioastragaleo, uno medio è il legamento tibiocalcaneale e l’ultimo, posteriore, è il legamento tibioastragaleo posteriore. La membrana sinoviale riveste internamente la capsula fibrosa, fino al contorno delle cartilagini articolari, risulta meno spessa anteriormente e posteriormente. L’articolazione in esame consente solo movimenti di flessoestensione, irrilevanti o nulli sono i movimenti laterali, soprattutto con il piede in estensione. - Articolazioni intermetarsali Le ultime quattro ossa metatarsali si articolano, per mezzo di artrodie, con le loro estremità prossimali mentre, la base del primo metatarsale è connessa a quella del secondo mediante un legamento interosseo. La capsula articolare presenta la sinovia in rapporto di continuità con quella delle articolazioni tarsometatarsali e presenta tre legamenti di rinforzo: i legamenti dorsali delle basi metatarsali, tesi dorsalmente fra le basi di ossa vicine, i legamenti plantari delle basi dei metatarsali, analoghi ai precedenti ma più robusti, i legamenti interossei, tesi fra le rugosità delle facce laterali delle 37 basi dei metatarsali. Le ossa del metatarso sono tenute insieme da un legamento di rinforzo: il legamento trasverso dei capitelli metatarsali. - Articolazioni metaarsofalangee Sono condili analoghi alle metacarpofalangee della mano. Ciascuna articolazione è circondata da una capsula articolare rinforzata da un legamento plantare e da legamenti collaterali. 38 4. Biomeccanica Articolare 4.1 L’Anca L’anca consente il movimento relativo fra coscia e bacino. Il suo funzionamento si basa sull’accoppiamento sferico tra la testa del femore e la coppa acetabolare che la ospita. I movimenti rotatori hanno angoli limitati non solo dalla presenza di strutture legamentose e muscolari, ma anche dall’acetabolo che presenta una struttura a labbro che garantisce la stabilità dell’accoppiamento. Altre articolazioni non presentano questa soluzione ad incastro, come nel caso dell’articolazione scapoloomerale, e così si ha rischio di lussazione con perdita dell’accoppiamento. Nel valutare il funzionamento di un’articolazione occorre considerare, oltre ai tipi e all’entità dei movimenti, anche le sollecitazioni meccaniche trasmesse. Durante l’appoggio bipodalico (entrambi i piedi a terra) il peso corporeo meno il peso degli arti è distribuito uniformemente sulle due articolazioni. Nell’appoggio monopodalico (un solo piede a terra come avviene durante il passo) il baricentro della massa che grava sull’articolazione dell’arto che poggia si sposta verso l’arto sollevato e la massa è uguale al peso corporeo meno l’arto che poggia a terra. Il baricentro O del sistema si abbassa. Le forze agenti sull’anca possono essere identificate in due vettori K e M come si vede nella figura 6.2 La forza K, peso del corpo meno il peso dell’arto portante, è diretta verso il basso lungo l’asse baricentrale. Essa agisce sul punto Ω attraverso il braccio b. La forza M esplicata dagli abduttori agisce su Ω attraverso il braccio a per mantenere la pelvi orizzontale. 39 Figura 6.2 : Forze che agiscono sull’articolazione dell’anca nel caso di appoggio bipodalico (a) e di appoggio monopodalico (b). O: baricentro, C: peso corporeo; F: forza agente sull’articolazione; m: muscoli abduttori; R: forza generata dalla contrazione dei muscoli abduttori; M: momento generato dalla contrazione dei muscoli abduttori. 40 L’equilibrio del bacino, rispetto all’articolazione, impone l’annullamento del momento del peso del tronco più quello dell’arto sollevato. La somma dei momenti agenti su è Ω nullo: K •b− M •a = 0 Il valore della forza M può essere calcolata con la seguente formula: K •b M = a La forza M può essere scomposta in due componenti attive (figura 6.3): la forza PM componente verticale, e QM componente orizzontale. Le forze agenti su Ω della testa del femore sono PM e K dirette verticalmente mentre QM è diretta orizzontalmente. La risultante delle forze sono PM, K e QM corrisponde alla forza R. Figura 6.3: Composizione delle forze agenti sull’anca 41 Per motivi di semplificazione si pone PR = PM + K componente verticale di R ed inoltre QR = QM, come componente orizzontale di R. Figura 6.4: Derivazione delle forza R, risultante delle forze verticali, PM e K, e della forza orizzontale QM. Alla forza R si contrappone una forza uguale e contraria corrispondente alla contro spinta proveniente dall’urto del piede con il terreno. Questa forza, indicata con R1, ha direzione obliqua, sviluppa una forza di taglio ed una di pressione: si indica la prima con Q e la seconda con P. Figura 6.4 : Alla forza R si oppone una forza R1 uguale e contraria, prodotta dalla contro spinta del suolo. 42 La forza Q spinge la testa femorale all’interno dell’acetabolo e presenta intensità e direzione opposta a QM. La forza P ha intensità e direzione uguale a PM. Complessivamente sull’anca gravano carichi estremamente elevati (valori fino a sette volte il peso corporeo in condizioni dinamiche) e ciclici pertanto, mentre nelle strutture ossee possono indurre risposte di rimodellamento, nelle protesi producono fenomeni di fatica. 4.2 Il ginocchio Permette la flessione ed estensione dell’arto nel piano saggitale (cernira) e una relativa rotazione interno-esterno; sostiene elevati carichi. La stabilità del ginocchio è fornita dai legamenti, dai menischi e dai muscoli. Presenta un’elevata vulnerabilitìa: in particolare dei legamenti e dei menischi. I muscoli che attraversano il ginocchio lo proteggono, ne determinano e controllano i movimenti elementari : • Flesso-estensione: l'asse di movimento pur passando sempre attraverso i condili femorali,cambia continuamente posizione. Questo è dovuto al fatto che la superficie articolari dei condili femorali non ha uno, ma infiniti raggi di curvatura. Essi eseguono sui condili tibiali un duplice movimento:uno di rotolamento dall'avanti all'indietro,ed uno di scorrimento in senso contrario limitatamente ai primi 25º di flessione. • Inclinazione laterale: importanza trascurabile. • Movimenti rotatori(prono-supinazione): si attuano intorno ad un asse verticale,che per alcuni passa per il tubercolo mediale della spina tibiale, si distinguono in combinati e indipendenti. • Movimenti rotatori combinati: si accompagnano a movimenti di fesso-estensione. • Movimenti rotatori indipendenti: avvengono sotto la spinta di forze esterne o di particolari gruppi muscolari. 43 Il ginocchio riesce a sopportare carichi cospicui grazie alle caratteristiche fisiche delle strutture che lo compongono. La cartilagine riveste le superfici articolari ammortizzando le sollecitazioni meccaniche,offre una buona resistenza a sforzi di compressione(157 Kg\cm2) mentre presenta delle resistenze a sforzi di torsione e taglio scadenti (rispettivamente 24 e 35 Kg\cm2) . Le forze che si trasmettono al ginocchio lungo l'asse anatomico del femore sono di 2 tipi: statiche e dinamiche. Per far luce sulla distribuzione del carico meccanico vediamo come sono equilibrati al ginocchio i vari momenti statici generati dall'inclinazione reciproca degli assi anatomici del femore e della tibia. Ecco un esempio degli squilibri provocati da uno spostamento laterale sul piano frontale dell'asse meccanico(di carico): Nello studio biomeccanico ricoprono una funzione fondamentale anche i legamenti crocati che hanno le seguenti proprietà a seconta del legamento in esame: - Il legamento crociato posteriore (PCL) 1. Fa traslare posteriormente il femore durante la flessione (Roll-Back), cosa fondamentale per ottenere una buona ampiezza di movimento 2. Limita la iper-estensione 44 - Il legamento crociato anteriore (ACL) riporta il femore nella sua posizione naturale (anteriore rispetto alla tibia) durante l’estensione. Lo studio biomeccanico vero e proprio del ginocchio rappresenta tutt’ora argomento di frontiera e di ricerca in quanto le numerose variabili non eliminabili ( al contrario dell’anca) rendono questo tipo di approccio molto complesso sia da un punto di vista computazionale sia strettamente meccanico. Tuttavia la descrizione dei movimenti e dei carichi che producono forze e momenti sono sufficienti per l’individuazione standard di caratteristiche tipiche di questa articolazione così complessa. Come vedremo più avanti infatti le protesi sostitutive classiche e comunque attualmente in uso si limitano a riprodurre un singolo movimento o al più due, ovviamente quello più importante della flessoestensione, supportando i carichi tipici di questo movimento, togliendo alcuni gradi di libertà all’articolazione ma permettendo comunque un corretto ciclo di passo. 45 5. Protesi Articolari 5.1 L’anca Le protesi d’anca sono costituite da quattro elementi come in figura 5.1: uno stelo metallico infisso nel canale midollare del femore, una testina sferica metallica, un elemento articolare acetabolare (cotile), in genere polimerico, ed un supporto metallico (metal back) che lo vincola alle ossa del bacino. Figura 5.1: a) Componenti di una protesi d’anca b) Protesi impiantata Nel progettare la protesi occorre tenere in considerazione certe specifiche anatomiche, funzionali e di biocompatibilità che derivano dallo studio del normale funzionamento dell’articolazione sana e dall’esperienza clinica. Una protesi deve: 1. consentire il movimento; 2. sopportare gli sforzi a cui è sottoposta l’articolazione; 3. resistere alla fatica meccanica (l’articolazione dell’anca è sottoposta in 10 anni a 10 milioni di cicli di carico da un soggetto che conduce una normale attività fisica); 4. resistere all’usura; 46 5. essere biocompatibile; 6. avere un tempo di vita medio lungo; 7. essere tecnologicamente perfetta (possibilità di esser sottoposta a microlavorazioni che consentano la migliore adattabilità al sito d’impianto). 8. essere sterilizzabile, maneggiabile, pratica da impiantare e da rimuovere in caso di danneggiamento o necessità di sostituzione. 5.1.1 Protesi non cementate e cementate Le protesi non cementate sono ancorate all’osso mediante semplice incastro meccanico (press-fit) tra una parte metallica (stelo) ed il canale di dimensioni inferiori ricavato nell’osso. Successivamente sono sviluppate protesi cementate per le quali, l’ancoraggio, è dovuto ad una miscela di materiali che, polimerizzando e indurendo, determina la stabilità d’interfaccia. 5.1.1.1 Protesi non cementate Tali protesi si basano sull’osteointegrazione, cioè il contatto diretto fra osso e protesi senza tessuto connettivo interposto. Il contatto diretto deve garantire la stabilità del sistema nel senso che le forze sviluppate all’interfaccia non si devono tradurre in movimento relativo fra protesi ed osso, quindi un primo aspetto da considerare riguarda la quantità di superficie dello stelo a contatto con l’osso. Il chirurgo prepara il canale nell’osso corticale per garantire il contatto. È però estremamente difficile ottenere una geometria del canale tale che tutta la superficie laterale dello stelo sia a contatto con l’osso. Minore è la superficie di contatto, maggiori sono gli sforzi locali che possono in alcune zone danneggiare l’osso. Dove non c’è contatto non vengono trasmesse sollecitazioni e può esserci riassorbimento osseo. Inoltre la geometria dello stelo deve essere tale che, sotto il continuo carico, la protesi non sprofondi nel canale midollare. Avviene frequentemente che una protesi non cementata scarichi le forze provenienti dal bacino nella sua zona distale ed in tal modo il tratto osseo prossimale risulta poco sollecitato e può andar incontro a riassorbimento. Quindi occorre garantire la massima stabilità possibile tramite precompressione in fase di impianto che a sua volta dipende non solo dall’abilità del chirurgo, ma anche dalla forma dello stelo e dal canale ricavato. La finitura superficiale (scelta di materiali macroporosi o presenza di fori attraverso lo stelo) possono svolgere un ruolo importante per l’osteointegrazione delle protesi non cementate che è quel processo di 47 contatto che interviene senza interposizione di tessuto non osseo tra osso normale rimodellato e un impianto in grado di sostenere e accogliere il trasferimento e la distribuzione di un carico dell’impianto fino ed entro il tessuto osseo. Uno stelo molto liscio si ancora difficilmente all’osso ed ha la tendenza a non trasmettere sforzi tangenziali generando movimenti relativi. Le soluzioni adottate prevedono l’ottenimento di porosità superficiali con pori di dimensioni dell’ordine di 100 µm, in modo da permettere l’alloggiamento degli osteoni e l’inglobamento nella matrice ossea, così come il semplice aumento della rugosità superficiale. I materiali usati per realizzare il rivestimento poroso sono titanio e leghe del titanio. Con il titanio si possono realizzare diverse tipologie di rivestimento: • Plasma spray; • Microsfere sinterizzate; • Fibre sinterizzate; I processi di rivestimento avvengono ad alta temperatura e questo può portare ad un indebolimento della struttura superficiale del metallo. Un’altra problematica di tali tecnologie è costituita dall’aumento della superficie esposta alla corrosione e dal conseguente incremento del rilascio ionico. Talvolta si procede con un rivestimento dello stelo con idrossiapatite: l’osso ha la tendenza a riconoscerla, essendo la componente minerale dell’osso corticale, e quindi a legarsi con essa. Un’ulteriore espediente è la copertura a base di polimero. Il metodo rende buoni risultati: il polimero trasferisce meglio i carichi dalla protesi all’osso e previene il rilascio di ioni da parte del metallo. Tuttavia si genera un’interfaccia debole tra rivestimento e stelo, producendo un effetto limitante nell’applicazione di carichi dinamici. Infine sono allo studio tecniche in grado di accelerare la ricrescita dell’osso che prevedono l’applicazione di stimoli elettrici o elettromagnetici. Un altro aspetto rilevante delle protesi cementate è la rigidità dello stelo. La maggiore rigidità della protesi rispetto all’osso che la ospita tende a produrre il fenomeno dello stress-shielding, cioè a far sì che sia la protesi a sopportare i carichi mentre l’osso risulta scarico e tende ad atrofizzarsi cioè in presenza di uno stelo rigido, il carico applicato (5-8 volte il peso corporeo) si trasferisce dallo stelo all’osso essenzialmente in zona distale (stress shielding), in tali condizioni nelle protesi non 48 cementate l’osso in zona prossimale, meno sollecitato rispetto alla condizione fisiologica, tende a riassorbirsi ciò può portare a mobilizzazione dello stelo, con anche possibile insorgenza di fenomeni di fatica localizzati al terzo distale dello stelo. Quindi risulta opportuno progettare steli cementati poco rigidi che dovrebbero avere: • basso momento di inerzia: dimensioni contenute • basso modulo di elasticità: in lega di titanio (110 GPa) • rivestimenti osteoconduttori solo in zona prossimale: per favorire presa prossimale anziché distale e minimizzare i rischi di rottura per fatica Figura 5.2 Diverse soluzioni per favorire l’adesione degli steli femorali: a) con fori passanti nei quali può crescere l’osso; b) con superficie rugosa; c) con superficie microporosa; d) con superficie rivestita in idrossiapatite. 49 Figura 5.3: a) prove di trazione su AISI 316L e tessuto connettivo; b) spostamenti della testa del femore con e senza protesi. Tabella 5.1 Proprietà meccaniche dei materiali usati per la realizzazione di protesi. 50 Per quel che riguarda la biocompatibilità il problema principale è la corrosione. I metalli principalmente usati nella realizzazione degli steli sono: • Leghe Titanio-6Al-4V • Acciaio inox 316L • Leghe CoCrMo Le leghe del titanio resistono bene all’aggressività dell’organismo, tuttavia è nota loro suscettibilità alla corrosione per sfregamento. Le altre leghe subiscono l’attacco di tutte le forme di corrosione generalizzata e localizzata. Gli effetti della corrosione localizzata associata a sollecitazioni cicliche possono portare a cedimenti dello stelo per fatica meccanica. Infine queste leghe tendono a rilasciare ioni liberi che a seconda della quantità e della capacità dell’organismo di smaltirli possono esser dannosi per le cellule. I problemi chirurgici principalmente derivano dalla preparazione del canale che viene effettuata mediante raspe ed è tanto più difficile quanto più complessa risulta la forma dello stelo. In genere la superficie di contatto stelo-corticale è inferiore a quella ideale, e se troppo piccola, può causare il fallimento dell’impianto. A parità di dimensioni dello stelo, le protesi non cementate necessitano di un canale di sezione inferiore rispetto a quelle cementate e quindi rendono agevole anche un successivo impianto, eventualmente cementato. L’espianto, generalmente, risulta poco distruttivo per l’osso ospite ad eccezione per gli steli porosi dove la neoformazione può richiedere procedure complesse e traumatiche per l’estrazione. 5.1.1.2. Protesi cementate Il nome cemento per ossa indica una classe di materiali a base di polimetilmetacrilato (PMMA). L’impiego primario è quello di sostanza di riempimento degli spazi fra protesi ed osso con lo scopo di migliorare la distribuzione degli sforzi trasmessi durante il carico e di assorbire gli urti. La migliore distribuzione degli sforzi trasmessi riduce la concentrazione degli sforzi stessi e la conseguente necrosi ossea che si osserva con una protesi non cementata mal impiantata. Quindi in presenza di uno stelo poco rigido il carico applicato si trasferisce dallo stelo al cemento essenzialmente in zona prossimale, in tale situazione il cemento viene eccessivamente sollecitato e può frammentarsi per fenomeni di fatica e quindi provocare una progressiva mobilizzazione dello stelo. Quindi gli steli devono essere rigidi e pertanto dovrebbero avere: • Alto momento d’inerzia: dimensioni non eccessivamente contenute. • Alto modulo di elasticità: in lega di cobalto (230 GPa). 51 • Superficie liscia: per favorire la subsidenza e fare sì che la sollecitazione all’interfaccia cemento/osso sia di compressione e non di taglio. Un secondo scopo dell’uso del cemento è quello di ridurre il dolore dovuto ai micromovimenti relativi tra protesi ed osso. Il cemento per ossa di uso commerciale viene fornito in una confezione che comprende un componente solido ed uno liquido. Il cemento viene ottenuto per polimerizzazione radicalica del MMA utilizzando il perossido di benzoile come iniziatore radicalico. L’aggiunta di polibutilmetacrilato (PBMA) serve a migliorare le proprietà meccaniche complessive del cemento. L’ossido di zirconio e il solfato di bario rendono il materiale radio opaco. Il perossido di benzoile si decompone ad una temperatura di circa 70-80 °C. Per questo motivo si ricorre ad una ammina aromatica, la N,N-dimetil-p-toluidina, che lo decompone a temperatura ambiente. L’idrochinone, infine, serve ad impedire la polimerizzazione spontanea del monomero che risulta molto reattivo. Quando i due componenti sono mescolati inizia un nuovo processo di polimerizzazione che produce polimeri a catena lunga che penetrano fra le microsfere del PMMA e le legano insieme formando un’unica massa di sostanza. Tabella 5.2: Cemento per ossa: composizione. 52 Figura 7.4: Stelo di una protesi d’anca applicato con cemento per ossa. L’impiego del cemento per ossa deve affrontare alcune problematiche: • Tossicità: Tutte le componenti del cemento sono tossiche (monomeri e l’idrochinone), il perossido di benzoile è un sospetto cancerogeno. • Esotermia: Il processo di indurimento del cemento ha tre tempi caratteristici: il tempo di mescolamento, il tempo di indurimento ed il tempo di lavorazione. Tali tempi sono mostrati nel diagramma tempo-temperatura di figura 7.5. 53 Figura 7.5: Tempi caratteristici del cemento per ossa: 1) t1 tempo di mescolamento; 2) t2 tempo di indurimento; 3) t3 tempo di lavorazione. 1. Il tempo di mescolamento è l’intervallo di tempo per il quale è possibile mescolare il cemento prima che si attacchi ai guanti chirurgici, la sua durata è circa 2-3 minuti. 2. Il tempo di indurimento è il tempo, misurato a partire dall’unione dei componenti, perché la massa raggiunga la metà della sua temperatura massima. Il tempo di indurimento è in genere compreso fra 8-10 minuti. Il processo di polimerizzazione provoca un aumento di temperatura nei tessuti circostanti. Il calore si sviluppa omogeneamente e si trasmette verso la superficie da dove viene smaltito. Per questo motivo la temperatura di superficie assume valori crescenti con la massa di materiale polimerizzato. Lo stelo metallico, con la sua capacità termica e il suo coefficiente di trasmissione del calore, e la circolazione sanguigna dei tessuti circostanti favoriscono la dissipazione del calore prodotto. 3. Il tempo di lavorazione è la differenza fra i tempi sopra citati. • Ritiro volumetrico Il cemento è applicato ancora fluido in un canale che viene preparato dal chirurgo di dimensioni maggiori dello stelo e quest’ultimo inserito nella massa di cemento prima che indurisca. In fase di 54 indurimento si può avere un ritiro volumetrico che si spinge persino al 21-22 % impedendo l’ancoraggio della protesi. La contrazione è parzialmente compensata da un’espansione dovuta all’aumento di temperatura conseguente il procedere della polimerizzazione ed all’esposizione ai fluidi biologici. • Porosità La presenza di porosità nel materiale dipende molto dalla modalità di mescolamento del componente solido con quello liquido in quanto tale operazione favorisce l’intrappolamento di aria nella miscela. In genere le porosità riducono le proprietà meccaniche del cemento fra cui la sua resistenza alla fatica meccanica. Il cemento per ossa non è un materiale adesivo, dopo l’indurimento non si riesce ad aumentarne la quantità aggiungendone di nuovo in quanto non c’è adesione con il vecchio. Il cemento non aderisce con il metallo anche se questo è pulito ed asciutto. Per avere adesione fra cemento e metallo quest’ultimo viene prerivestito con un sottile strato di monomero che entra in contatto con quello preparato all’atto dell’impianto nei primi istanti successivi al mescolamento: più tardi avviene il contatto peggiore è l’adesione. Tra le tecniche per supportare l’interfaccia protesi-cemento ci sono quelle che prevedono l’apposizione di materiali di rinforzo attorno allo stelo della protesi per resistere meglio ai carichi radiali. Si possono utilizzare cementi compositi di PMMA e fibre, sempre per i medesimi scopi, anche se questo diminuisce l’estensibilità. Figura 5.6: Rinforzo dell’osso attorno alla protesi cementata per aumentare la resistenza radiale incorporando una fibra, di titanio o carbonio, che si adatta alle irregolarità dello stelo della protesi e che può essere montata durante l’operazione oppure prefabbricata in fase di costruzione della protesi 55 Con l’uso del cemento si ottiene la massimizzazione della superficie di contatto. Nel tempo si può avere degradazione del PMMA ad opera dei tessuti circostanti, con riduzione delle proprietà meccaniche e dell’integrità dell’osso all’interfaccia dovuta ai traumi termici. Tali eventi possono addurre ad una mobilizzazione della protesi. La rimozione di una protesi cementata è complicata dalla necessità di rimuovere completamente il cemento ed i suoi frammenti dall’osso; l’impianto di una nuova protesi avviene in un osso fortemente traumatizzato e di spessore ridotto.. 5.1.2 Il giunto articolare Il giunto articolare ha il doppio obiettivo di trasmettere i carichi attraverso l'articolazione e di permettere i movimenti articolari. Tali obiettivi devono essere raggiunti limitando l'usura del giunto e garantendone la stabilità spesso compromessa da una ridotta o assente funzionalità dei legamenti normalmente presenti nelle articolazioni naturali. L'articolazione naturale è costituita da due corpi solidi, le terminazioni ossee, ciascuna delle quali è rivestita da uno strato elastico e poroso, la cartilagine. Fra le cartilagini si trova la sinovia che è un liquido lubrificante viscoso composto da plasma contenente acqua con proteine, sali e acido ialuronico. Il liquido sinoviale, a seconda del tipo di articolazione, può separare più o meno completamente le cartilagini fra loro. L'intero sistema articolare o contenuto in una capsula sigillante. In condizioni di funzionamento normale questo sistema lubrificato non subisce usura grazie a meccanismi idrodinamici e elastoidrodinamici. Il coefficiente d'attrito normalmente è compreso fra 0.005 e 0.025. Le patologie che riducono la capacità lubrificante del liquido sinoviale, ovvero che danneggiano le superfici articolari, aumentano il coefficiente di attrito inducendo l'usura delle superfici con conseguente dolore, perdita della funzionalità articolare e necessità di impianto di una protesi. 56 Tabella 5.3: Combinazioni di materiali impiegati per le superfici articolari delle protesi d’anca I giunti articolari artificiali non sono in grado di riprodurre l’efficacia del sistema naturale nel ridurre il coefficiente di attrito e l'usura. In genere la mancanza del lubrificante sinoviale, che peraltro è particolarmente dannoso in presenza della protesi sia perché tende a degradare i materiali polimerici, sia perché corrode quelli metallici, determina il contatto diretto fra le superfici articolari generando attrito ed usura. Nella tabella 7.3 sono riportati i principali accoppiamenti impiegati per le protesi d'anca. Attualmente la soluzione più comunemente adottata per le protesi d'anca è l'accoppiamento di testine in acciaio austenitico o in lega Co-Cr-Mo e di cotili in polietilene ad altissimo peso molecolare (UHMWPE), il peso molecolare è compreso fra 2·106 e 10·106. Con questi accoppiamenti si ottengono usure lineari medie di circa 0.15mm all'anno in condizioni di uso normale. I tentativi di utilizzare altri materiali polimerici al posto dell'UHMWPE non hanno dato risultati accettabili. L'accoppiamento fra allumina (Al2O3) e allumina produce, in condizioni corrette di posizionamento e di tolleranze dimensionali, un'usura lineare ci circa 8 µm all'anno. Nel caso invece in cui il contatto non avvenga in modo corretto, evenienza molto probabile dovuta alla difficoltà di ottenimento di strette tolleranze dimensionali, si ha un aumento della pressione di contatto che può produrre un'usura catastrofica per il cosiddetto effetto valanga: i grani di allumina si staccano 57 progressivamente dalla massa di materiale. Anche l'accoppiamento fra testine di allumina e cotili in UHMWPE ha mostrato bassi coefficienti di attrito con un'usura lineare compresa fra 0.05 e 0.013 mm all'anno. L'accoppiamento fra testine e cotili entrambi in lega Co-Cr-Mo usato prima degli anni '60 ha dato risultati peggiori dell'accoppiamento con cotili in UHMWPE. Ciò però si ritiene fosse dovuto a problemi di produzione tecnologica che non garantivano né la finitura superficiale né le tolleranze dimensionali necessarie. Di fatto se l'accoppiamento viene realizzato a regola d'arte, la coppia metallometallo mostra un'usura lineare di soli pochi micron all'anno. L'usura delle superfici articolari conduce ad alcuni problemi che possono causare il fallimento dell'impianto. Fra questi la modificazione geometrica e quindi cinematica del giunto, il dislocamento o lussazione dell'articolazione (questa può in parte dipendere anche dai fenomeni di creep del componente polimerico), ma soprattutto la produzione di detriti polimerici che, come mostrato nel seguito, possono portare alla mobilizzazione della protesi. È opportuno sottolineare che il metal back, necessario nel caso di cotile in UHMWPE, serve ad evitare che i micromovimenti fra il cotile e l’osso generi l'usura massiccia del polietilene con elevata produzione di detriti. Sia l'usura, sia le caratteristiche meccaniche dell'accoppiamento dipendono, oltre che dai materiali con cui è realizzato l'accoppiamento e della finitura superficiale delle superfici articolari, anche dalle dimensioni dell'accoppiamento sferico, cioè dalle dimensioni della testina. Attualmente le testine più impiegate hanno diametro pari a 28 o 32 mm, ma esistono anche diametri inferiori o superiori. Questi ultimi sono maggiormente frequenti nel caso in cui la testina sia realizzata solidalmente con lo stelo (protesi monolitica). Testine di diametro molto maggiori sono state impiegate in protesi senza il componente acetabolare. 5.1.3. Aspetti di biocompatibilità delle protesi articolari E' importante dare un quadro generale che consenta di considerare tutti gli aspetti che, spesso fra loro correlati, concorrono a determinare la biocompatibilità di una protesi articolare in generale e dalla protesi d'anca in particolare. La funzione primaria della protesi d'anca è quella di sostituire la funzione articolare garantendo nel tempo sia la cinematica, sia la trasmissione dei carichi. Di fatto l'esperienza clinica mostra come l'affidabilità nel tempo della protesi d'anca sia limitata da una serie di fattori che concorrono con priorità diverse a seconda del tipo di protesi, del tipo di ancoraggio, del tipo di materiali, della tecnica chirurgica, delle condizioni del paziente, ecc., all'insuccesso dell'impianto dopo un periodo molto variabile da caso a caso. L'insuccesso è determinato dalla mobilizzazione della 58 protesi che consiste nella perdita della stabilità meccanica dell'interfaccia fra protesi e osso, nella perdita della funzionalità cinematica o in fenomeni di risposta biologica dei tessuti che provocano dolore nel paziente. • Un primo aspetto da considerare è pertanto quello della stabilità dell'interfaccia protesi-osso nel lungo periodo. Un primo tipo di interfaccia è quello in cui la stabilità fra protesi e osso è dovuta all'attrito che si genera successivamente alla forzatura della protesi nell'osso. Questo tipo di interfaccia è tipico dei mezzi di osteosintesi impiegati per favorire la guarigione delle fratture e che usano viti e placche per stabilizzare i segmenti ossei. La forza di contatto, quindi l'attrito, può diminuire nel tempo a causa di fenomeni di creep, rilassamento degli sforzi, necrosi ossea e rimodellamento osseo. Il disegno di una protesi che preveda questo tipo di interfaccia e difficile in quanto non esistono conoscenze consolidate sulla risposta dell'osso al carico pressorio indotto dalla forzatura della protesi. • Un secondo tipo di interfaccia è quello che prevede l'uso del cemento a base di PMMA. Dopo un certo periodo dall'impianto si giunge in una situazione stazionaria nel senso che si ritiene l'interfaccia matura. In questa situazione in genere fra lo stelo ed il cemento è interposta una membrana fibrosa spessa 50-100 µm. Una simile membrana è interposta anche fra il cemento e l'osso. Questa seconda membrana, il cui spessore varia da 50 µm e 1.5-3 mm, previene la perdita della stabilità se è di spessore inferiore a 1 mm. In genere la membrana è relativamente priva di cellule e può essere di natura infiammatoria se aumenta di spessore o quando ci sono movimenti relativi fra cemento e osso. Il cemento può migrare all'interno dell'osso anche per spessori di 1-1.5 cm senza provocare reazioni dannose nell'osso. • Un terzo tipo di interfaccia è quello che si stabilisce quando l'osso è a contatto con una protesi dalla superficie porosa che lascia crescere, almeno in parte, l’osso all’interno dei pori favorisce l'interfaccia per penetrazione. La superficie dei pezzi ottenuti per fusione non è porosa, ma può avere una elevata rugosità favorendo pertanto la penetrazione. La superficie sinterizzata può permettere l'ottenimento di porosità controllate grazie alla scelta opportuna di polveri o grani di forma e dimensioni opportune. La superficie con deposito ottenuto per plasma spray di polveri in genere non è porosa, ma produce un aumento importante di estensione dell'area di contatto per unità di superficie. Infine si può ricoprire una superficie con una struttura fibrosa tipo feltro 59 o tipo tessuto che può costituire una matrice di porosità controllata. La crescita dell'osso nella porosità superficiale può essere favorita dall'uso di sostanze con proprietà osteogeniche. Figura 7.7: Diversi tipi di interfaccia fra protesi e osso. a: cementata; b: aderente; c: penetrata. Un ultimo tipo di interfaccia è quello in cui si ha adesione fra l'osso e la superficie della protesi. Questo fenomeno può avvenire su superfici lisce di titanio puro o su superfici trattate con rivestimenti di ceramiche bioattive in presenza di modesti carichi dell'interfaccia. In genere i rivestimenti che sono fragili hanno spessori inferiori a 500 µm e l'adesione non presenta una membrana di separazione fra l'osso e la protesi. La presenza di ceramiche bioattive mostra talvolta uno stato amorfo dello spessore di 1-100 µm che contiene sostanze quali collagene o polisaccaridi. Figura 5.8: Strutture superficiali. a: ottenuta per fusione; b: ottenuta per sinterizzazione; c: ottenuta per plasma spray; d: ottenuta per rivestimento con strutture fibrose. 60 I differenti tipi di interfaccia producono diverse sollecitazioni meccaniche locali, l'entità delle quali può indurre micromovimenti relativi all'interfaccia. L'entità dei micromovimenti può determinare, nel tempo, la perdita di tenuta dell’interfaccia. A questo proposito bisogna anche considerare la differente capacità di trasmettere e sopportare i carichi dei diversi tipi di interfaccia. Infatti l'interfaccia cementata consente movimenti relativi fra la protesi e l'osso che vengono assorbiti dal cemento che ha un modulo di elasticità inferiore a quelli di osso e protesi. Pertanto tali movimenti e le sollecitazioni associate non determinano danni alle interfacce osso-cemento e cemento-protesi. L'interfaccia con osso penetrato nella porosità mostra una capacità media di assorbire i movimenti in quanto l'osso vicino all'interfaccia è meno duro dell'osso corticale e quindi più elastico. L'interfaccia aderente è invece la più fragile. Se l’interfaccia è meccanicamente stabile nel primo periodo dopo rimpianto della protesi, la modificazione successiva è dovuta alla risposta biologica dei tessuti ospiti. Tale risposta può essere correlata con i carichi trasmessi all'interfaccia e con gli aspetti biologici e meccanici che si correlano nel meccanismo del rimodellamento osseo. Per certo una volta che il processo di mobilizzazione inizia diventa irreversibile e procede inesorabilmente anche se con velocità diversa da un paziente all'altro. La mobilizzazione della protesi è sempre associata a dolore. Un aspetto molto importante da considerare per la stabilità nel tempo dell'interfaccia è la produzione di detriti (debris) di polietilene. Infatti l'attrito nelle superfici articolari produce nel cotile in polietilene detriti che in genere escono dall'accoppiamento e si depositano sulla superficie femorale. L'accumulo di particelle di polietilene in questa zona induce il richiamo di macrofagi, induce cioè una reazione da parte dall'organismo che tende ad eliminare le particelle come corpi estranei. Laddove le particelle di polietilene sono particolarmente grosse i macrofagi si aggregano formando cellule giganti polinucleate. Se, come spesso accade, i macrofagi non riescono ad eliminare il debris perché le particelle sono troppe e/o troppo grosse, si instaura un processo infiammatorio. 61 Figura 7.9: Fenomeni che avvengono nell’intorno di una protesi d’anca a seguito dell’usura del cotile in polietilene edella conseguente produzione di detriti. Le cellule giganti inducono, fra i vari fenomeni, la produzione di sostanze che attivano la reazione osteoclastica e quindi la degradazione del tessuto osseo circostante la zona prossimale dello stelo. In queste condizioni la stabilità dell'interfaccia diminuisce progressivamente spostandosi verso zone sempre più distali. In queste zone aumenta l'entità del carico trasmesso e nel tempo di arriva alla mobilizzazione. Questo fenomeno è stato osservato in maniera drammatica in quei cotili privi di metal back i quali subivano un'elevatissima usura nella zona posteriore a causa dei micromovimenti contro l'osso del bacino. Infine, un aspetto importante della biocompatibilità delle protesi articolari è quello legato alla corrosione dei metalli con cui sono fabbricati. Da una parte la corrosione localizzata può portare, in associazione con la fatica meccanica, ad una precoce rottura della protesi (dello stelo femorale nel caso 62 dell'anca). Dall'altra la produzione di ioni metallici può determinare effetti dannosi nell'organismo ospite, sia a livello locale, sia a livello sistemico. Nella tabella 7.4 sono riportate, per i diversi tipi di metallo contenuto nelle leghe di uso ortopedico, le quantità normalmente contenute nel sangue, nel siero e nell’urina umana. Tabella 7.4: Quantità di metalli contenuti in alcuni fluidi biologici umani. Nei pazienti con protesi metalliche questi valori risultano aumentati così come si trovano concentrazioni anomale di metalli nei tessuti sia localmente, vicino alla protesi, sia in zone remote. Questi valori elevati permangono cronicamente. In genere però non sono completamente noti gli effetti di quantità elevate di metallo nell’organismo anche se di alcuni metalli si conoscono le attività di esaltazione di certi processi metabolici e catabolici, ad esempio il cobalto esalta la sintesi proteica e il cromo la regolazione dell’energia metabolica. Inoltre i metalli, combinandosi con alcune proteine, possono attivare la risposta del sistema immunitario inducendo una allergia al metallo. Fra i metalli che maggiormente inducono risposte allergiche si ricordano il cobalto, il cromo e soprattutto il nichel, mentre l'alluminio, il titanio, il molibdeno ed il manganese non sembrano essere allergizzanti ed il ruolo del vanadio in questi fenomeni non è ancora chiarito. 63 5.1.4. Intervernto chirurgico: Artroprotesi dell’anca In funzione del tipo di accesso chirurgico utilizzato, l’intervento viene eseguito con il paziente supino oppure sdraiato sul fianco opposto a quello in cui si deve operare (posizione decubito laterale). Un posizionamento corretto del paziente è essenziale per assicurare il corretto orientamento della coppa acetabolare e dello stelo. Si pratica un’incisione cutanea nella regione laterale dell’anca, tra gluteo e coscia e, spostando i fasci muscolari e la pelle con un divaricatore (retrazione dei tessuti), si raggiunge l’articolazione. Questa fase prende il nome di fase di apertura dell’accesso chirurgico ed è quella in cui si inserirà l’analisi. In questo studio si è fatto riferimento a due accessi chirurgici distinti: nella modellazione della pelle è stato considerato l’approccio laterale (Fig.5.10 1)), mentre nella modellazione del rectus femoris si è fatto riferimento all’approccio anterolaterale (Fig.5.10 2)). Fig.5.10: 1) approccio laterale: posizione del taglio A); retrazione della pelle B). 2) approccio anterolaterale: posizione dell’incisione della pelle A) e B); 64 Una volta asportata la capsula articolare, viene lussata l’articolazione con movimenti combinati di adduzione, flessione e extra rotazione dell’arto (Fig.5.11). Fig.5. 11: lussazione dell’articolazione Utilizzando una sega oscillante viene asportata la testa del femore mediante osteotomia alla base del collo femorale. Successivamente si prepara l’acetabolo per l’alloggiamento del cotile protesico con frese di diametro crescente, si asporta la parte midollare e spongiosa del gran trocantere, si fresa il canale femorale (Fig.5.12) e si completa la preparazione con un’apposita raspa, sagomata come lo stelo da inserire, mossa alternativamente dal chirurgo lungo l’asse della diafisi (Fig.5.13). Fig.5. 12: fresatura del canale femorale 65 Fig.5.13: raspatura del canale femorale Se lo stelo è del tipo non cementato la componente femorale viene inserita a pressione (Fig.5.14) Fig.5.14 : stelo non cementato Nel caso, invece, di steli cementati si riempie l’incavo femorale con cemento chirurgico e si inserisce lo stelo protesico togliendo il cemento in eccesso. Per le protesi che presentano una caratteristica modulare (testina non di pezzo con lo stelo) si inseriscono il collo e la testina più adatti, regolando con la dimensione e la direzione degli elementi scelti la dismetria tra gli arti. Ripristinata l’articolazione, si ricompongono i tessuti sottocutanei e cutanei. L’intervento ha una durata complessiva di 45-90 minuti. La riuscita di un impianto protesico dipende essenzialmente da questi parametri: • Materiali utilizzati; • Geometria della protesi, • Tecnica chirurgica; • Condizioni fisiopatologiche dei tessuti circostanti l’impianto. 66 5.2 Il ginocchio Due sono le principali tipologie di protesi di ginocchio: quella di ricostruzione delle superfici articolari (più conservativa) e quelle in cui la protesi sostituisce una certa porzione delle estremità di tibia e femore. In figura 7.15 è mostrata una protesi di ginocchio del primo tipo. E' costituita da un componente metallico in Co-Cr-Mo che sostituisce i condili femorali e che si articola su piatto tibiale in UHMWPE. Quest'ultimo è supportato da una base metallica generalmente in Ti6A14V. I due componenti metallici devono garantire la stabilità meccanica dell'interfaccia osso-protesi. Come nel caso dell'anca possono essere cementati o non cementati. Se necessario si può anche rivestire la parte interna della rotula con un componente in polietilene e metallo. Figura 7.15: Protesi di ginocchio: ricostruzione delle superfici articolari. Rotazione La protesi di secondo tipo che prevede la sostituzione totale dei condili femorali e del piatto tibiale è ovviamente molto più distruttiva della precedente e in genere si considera l'ultima soluzione prima di bloccare definitivamente l'articolazione. La soluzione prevede l'ancoraggio della protesi mediante dei 67 fittoni, simili allo stelo femorale della protesi d'anca, che si bloccano nel femore e nella tibia. In genere questo tipo di ginocchio artificiale è costituito da un giunto il cui movimento è la rotazione piana intorno ad un asse fisso o traslante. Si tratta quindi di una cerniera stabile e i due componenti non sono disaccoppiabili. Mobilità antero – posteriore Figura 7.16: Mobilità della protesi: la complessità dei movimenti riproducibili dipende dal trauma subito dall’articolazione 68 Il componente femorale della protesi di ginocchio (nella figura abbiamo come esempio la protesi GSP della SAMO) ha i condili con profilo sagittale a raggio di curvatura costante lungo la maggior parte dell’arco di flessione (da -10 a 70 gradi): Asse trans-epicondilare L’asse che congiunge i centri dei condili artificiali si posiziona approssimativamente lungo l’asse transepicondilare quando il componente femorale è impiantato con una extra-rotazione di circa 3° . I condili hanno profilo frontale circolare con raggio analogo a quello sagittale, le superfici condilari sono quindi sferiche La curvatura frontale consente di mantenere una elevata area di contatto anche quando uno dei due condili si solleva (“lift-off”), cosa che può accadere anche con protesi ben impiantate. Il profilo sagittale a raggio costante evita l’iper-pressione rotulea e favorisce il rimodellamento della rotula naturale. L’inclinazione laterale riduce il rischio di lussazione rotulea 69 Piano sagittale Asse trans-epicondilare Piano di resezione della tibia Extra-rotazione (circa 3°) Lift off 70 Profilo sagittale a raggio costante Inclinazione laterale anatomica Il solco rotuleo ha una profondità simile a quello naturale La sezione è più simile a quella naturale della classica sezione circolare con raggio di un pollice in modo da poter accogliere meglio la rotula naturale 71 Andamento della forza di contatto femoro-rotulea con l’angolo di flessione Forza femoro-rotulea 9 8 7,8 Peso corporeo X 7 6,5 6 5 4 3,3 3 2 1 0,5 0 9 60 90 130 Angolo di flessione [°] Il componente tibiale della protesi GSP è del tipo a “menisco mobile” (mobile bearing) Il razionale delle protesi a menisco mobile è: • Suddividere il movimento articolare su due superfici di scorrimento al fine di massimizzare l’area di contatto • Una ampia area di contatto limita la pressione di contatto • Se la pressione di contatto non è elevata anche l’usura degli inserti in polietilene si mantiene bassa 72 La protesi GSP è disponibile in due versioni distinte: • A conservazione del legamento crociato posteriore, detta CR (da Cruciate Retaining) • A sostituzione del legamento crociato posteriore, detta PS (da Posterior Stabilised) Le due versioni si differenziano per: - componente femorale - inserto tibiale - cinematica articolare Il piatto tibiale resta lo stesso Andiamo ora ad analizzare le cinematiche delle due versioni di protesi GSP evidenziando le differenze esistenti soprattutto riguardo all’attenzione rivolta rispettivamente ai legamenti dei quali dovrebbero sostituire buona parte delle funzioni. Cinematica della versione CR - La congruenza femoro-tibiale è massima (massima area di contatto e minime tensioni di contatto) - La traslazione A-P è affidata al legamento crociato posteriore - Movimenti possibili dell’inserto sul piatto tibiale: ROTAZIONE E TRASLAZIONE 73 La traslazione A-P è affidata al LCP Massima congruenza sul piano frontale Massima congruenza sul piano sagittale Cinematica della versione PS - La congruenza femoro-tibiale è massima solo nel piano frontale - La traslazione A-P è garantita dall’interazione tra camma femorale e rilievo dell’inserto - Movimenti possibili dell’inserto sul piatto tibiale: SOLO ROTAZIONE - Il meccanismo camma-rilievo 1. Riporta il componente femorale nella sua posizione “base” durante l’estensione 2. Limita la iper-estensione 74 La traslazione A-P è data dall’interazione tra camma e inserto Massima congruenza sul piano frontale Altezza di lussazione elevata Congruenza parziale sul piano sagittale 75 Studi numerici preliminari con metodo FEM - Risultato saliente: la versione CR consente una riduzione della pressione di contatto del 14% rispetto ad un inserto a menisco fisso di tipo “dished” preso come riferimento Studi sperimentali di validazione - Misura del tasso di usura con simulatore del passo 10 mg/milione di cicli (versione CR prova secondo ISO 14243-1) - Verifica della resistenza a fatica dei piatti tibiali Prova secondo la norma ISO 14879-1 76 5.2.1 Intervento chirurgico: Artroprotesi del gionocchio Inizialmente viene posizionato il paziente nel modo migliore per ottenere un’ottimo allineamento femorale,otteniamo ciò facendolo sdraiare sul letto e facendogli inclinare le gambe in modo che il ginocchio abbia un angolo di circa 45°. Qiundi procediamo alla lussazione del femore ottenendo così l’allineamento femorale mostrato in figura 1, per poi andare ad eseguire un pre-taglio femore anteriore, successivamente si procede con una resezione femore distale e smussi femorali (figura 2), poi passiamo all’allineamento tibiale intra ed extra midollare (figura 3) con la successiva resezione del piatto tibiale con una verifica dell’allineamento (figura 4). Applichiamo in fine una riduzione di prova (figura 5) per poi passare alla preparazione della rotula(figura6). Terminiamo con l’impianto definitivo (figura 7): Figura 1 Figura 2 77 Figura 3 Figura 4 Figura 5 78 Figura 6 Figura 7 79 6. Ingegneria tissutale come soluzione alla sostituzione protesica In questo capitolo tratterò l’argomento dell’ingegneria tissutale come soluzione alternativa alla sostituzione protesica che come detto in precedenza può essere molto invasiva, di durata breve e può comportare problemi di natura allergica e di biocompatibile. Queste motivazioni hanno indotto ad uno studio parallelo nel campo protesico a quello già esistente con materiali sostanzialmente artificiali che si propone di sostituire le componenti malfunzionanti con le componenti autologhe del paziente tramite la produzione in laboratorio grazie all’ingegneria tissuatale. Ovviamente ancora siamo molto lontani dalla realizzazione di strutture molto complesse e multcompartimentali come ossa e muscoli ed è per questo che in questo progetto ho deciso di porre l’attenzione su quella componente essenziale sia dell’articolazione dell’anca che del ginocchio che già viene prodotta con i metodi dell’ingegneria tissutale e che è la Cartilagine . Tuttavia anche se viene prodotta e commercializzata da qualche anno essa non ha le caratteristiche di una buona cartilagine articolare cioè sotto carico, pressione, sforzi di taglio e biocompatibilità prerequisiti fondamentali questi per un funzionamento duraturo ed efficace. Quindi risulta necessario sia un approfondito studio sia sulla sua fisiologia, sulle patologie da essa derivanti e sulla sua produzione in bioreattori. Tramite questi passaggi vorrei fornire una panoramica adeguata di questa componente apparentemente semplice delle nostre articolazioni ed evidenziarne la sua importanza in modo da proporre una valida alternativa alla sostituzione protesica. Ovviamente la cartilagine da sola non può sostituire un’intera articolazione ma con un ampio progetto anche a livello sanitario di prevenzione potrebbe essere un valido strumento per evitare l’invasività dell’artroscopia o quanto meno eliminare tutti quei problemi derivanti dall’avere un oggetto, per quanto biocompatibile ma pur sempre estraneo, nel corpo. Considerando quindi le statistiche riguardo a pazienti che hanno la necessità di ricorrere all’impianto di protesi ed evidenziando il fattore dell’età, osserviamo che il maggior numero di protesi impiantate è proprio dovuto all’artrosi, patologia tipica negli anziani e che ci mostra la ridotta capacità della cartilagine di “assistere” l’articolazione a causa di degradazione o riduzione delle proprie funzionalità. Individuando quindi un’età media in cui tale patologia comincia ad avere effetti degradanti anche per l’osso potremmo agire non più con una sostituzione totale ma aggiungendo semplicemente il cuscinetto di cartilagine che andrebbe a sostituire quello ormai eroso dall’età. Questo tuttavia rimane un discorso puramente teorico perché gli studi attuali sulla cartilagine prodotta non ci danno le certezze qualitative e quantitative tali da poter passare ad una pratica clinica così 80 rigidamente, certo è che la struttura monocompartimentale e la relativa semplicità del cuscinetto cartilagineo rendono questa frontiera molto più raggiungibile che non la produzione di ossa e muscoli in laboratorio sia per un fatto tecnologico che meramente economico. 6.1 Anatomia, fisiologia e biomeccanica della cartilagine articolare: La cartilagine è un tessuto connettivo con il compito di diminuire lo stress meccanico dei capi articolari e di facilitare lo scorrimento. La cartilagine articolare è formata da tessuto di origine mesenchimale (cartilagine di cartilagine ialina incrostazione per o l'aspetto translucido). E' presente in tutte le diartrosi, con spessore variabile e con un colore azzurrognolo, presentando una superficie che ad occhio nudo appare liscia. La nutrizione è garantita dal liquido sinoviale, infatti la cartilagine non è vascolarizzata e solo gli strati più profondi fruiscono del plesso subcondrale. La componente cellulare è rappresentata dai condrociti che si trovano nella sostanza fondamentale o matrice, nella quale si ritrovano le fibre collagene. L'architettura della cartilagine articolare presenta piu' strati: - lamina splendens - strato superficiale o tangenziale - strato intermedio o di transizione - strato profondo o radiale - strato calcificto 81 Al microscopio elettronico si evidenzia che la superficie della cartilagine articolare non è liscia, ma presenta irregolarità, nei cui avvallamenti si trova il liquido sinoviale, che favorisce la lubrificazione delle superfici articolari; questi avvallamenti aumentano con l'eta'. Nella cartilagine articolare si trovano: la componente cellulare (condrociti), la componente fibrillare (fibre collagene) e la sostanza fondamentale (essenzialmente proteoglicani). I condrociti: sono più numerosi e metabolicamente più attivi nella cartilagine fetale e giovanile e la loro attività metabolica sembrerebbe essere stimolata dalle sollecitazioni meccaniche della struttura fibrillare che avvalorerebbe quindi l'importanza del movimento per il normale trofismo cartilagineo. Fibre collagene: nei vertebrati sono state riconosciute almeno venti diverse catene che caratterizzano 11 tipi di collagene con diversa localizzazione tissutale. Il collagene di tipo II è quello più rappresentato a livello di cartilagine articolare sana. Sostanza fondamentale: è composta essenzialmente dai glicosaminoglicani ( composti polisaccaridici ), che contribuiscono alle doti di elasticità e di resistenza della cartilagine. Questi glicosaminoglicani 82 sono rappresentati da: condroitinsolfato, cheratansolfato e acido ialuronico. Le catene di glicosaminoglicani si legano covalentemente ad una catena proteica centrale (core protein) e formano una catena di proteoglicano (unità proteoglicanica). Le catene di proteoglicani hanno una rete di cariche elettronegative che per reciproca repulsione danno rigidità al sistema e mantengono legata una elevata quantità di molecole di acqua, che protegge questi complessi macromolecolari da eccessive deformazioni. Queste interazioni spiegano come una noxa patogena possa alterare le doti di elasticità e resistenza alla pressione della cartilagine articolare. Il flusso del liquido ha tre ruoli fondamentali: - apporto elementi nutritivi /eliminazione prodotti - controllo della deformazione del tessuto - lubrificazione delle superfici dell’articolazione. Importante ruolo dei PG, carichi compressione La cartilagine articolare adulta possiede solo una capacità di riparo limitata, che presuppone il coinvolgimento patologico anche della sottostante zona subcondrale. Le lesioni superficiali, invece, non possono essere sanate spontaneamente : al contempo la fibrocartilagine che eventualmente si rigenera nel caso di lesioni profonde non garantisce le proprietà meccaniche necessarie al tessuto, divenendo spesso sede di insorgenza di fenomeni osteoartritici. Attualmente le lesioni superficiali vengono curate per abrasione. Se la lesione interessa anche gli stati profondi si esegue un trapianto di cartilagine autologa sana nel sito danneggiato o l’impianto di un dispositivo protesico. Spesso questi trattamenti non producono gli effetti desiderati, viste le recidive, la limitazione introdotta dai prelievi di cartilagine sana, la difficoltà di modellare opportunamente gli impianti, l’emivita limitata della protesi e l’alta incidenza delle rotture dell’interfaccia protesi/tessuto ospite. I trattamenti terapeutici che utilizzano culture di controcidi sono volti a produrre neocartilagine sintetizzata in vivo utilizzando colture di controcidi isolati o ad associare le cellule a matrici organiche di supporto o a scaffolds polimerici tridimensionali. 83 Nel primo approccio controcidi primari vengono ottenuti per via artroscopica da un’area sana, passati serialmente in vitro e successivamente reimpiantati nel paziente in forma di sospensione densa nel sito della lesione. Questo approccio ha dato risultati positivi in modelli sperimentali animali e più recentemente anche su soggetti umani. Col secondo approccio invece i controcidi primari vengono mescolati ad un gel di fibrina prima dell’impianto, in modo da creare in vitro una struttura cartilaginea che può essere modellata sulla forma della lesione. La possibilità di associare condrociti a scaffolds biodegradabili quali quelli composti da acidi polilattico(PLA), poliglolico(PGA), Vicril o Dacrin ha le maggiori potenzialità di risolvere lesioni articolari profonde. In condizioni di coltura appropriata le cellule possono colonizzare il biomateriale, secernere la matrice ed essere reimpiantate. Costrutti di questo tipo sono già stati analizzati in esperimenti preliminari come impianti sottocutanei in topo nudo, e le analisi istologiche relative hanno evidenziato la formazione di cartilagine iraniana. I vantaggi di questi approcci sono : (a) quantitativi minimali di cartilagine sana richiesta per l’ottenimento della coltura primaria; (b)la possibilità di applicare tecniche computerizzate per la realizzazione di scaffold tridimensionali ad hoc, sia per dimensioni che per la velocità di riassorbimento; (c) la possibilità di reimpiantare il costrutto cellule/polimero che mantiene una elevata plasticità. 6.2 Isolamento dei condrociti Sono stati descritti numerosi sistemi di coltura che riproducono significativamente la sequenza di eventi osservati durante il differenziamento e la maturazione dei controcidi in vivo. In tutti questi sistemi, nonostante le differenze rilevabili circa la popolazione iniziale e le condizioni di coltura, una diminuzione della proprietà di adesione delle cellule e delle interazioni cellula-substrato (associabili ad un arrotondamento della morfologia cellulare) sono requisiti fondamentali per l’induzione/mantenimento del fenotipo condrocitario. Le procedure qui di seguito proposte consentono l’espansione in vitro di controcidi della cartilagine articolare umana al fine di riparo di lesioni articolari , anche se possono essere adattate per ottenere colture primarie di controcidi da cartilagine murina, ovina, bovina e di pollo. Il tessuto cartilagineo (nel caso di prelievi sull’uomo, il frammento bioptico dello stesso) viene attentamente ripulito dal tessuto molle e dall’osso eventualmente presenti, sotto cappa a flusso laminare ed in condizioni sterili. La cartilagine è molto sensibile alla degradazione batterica ed all’autolisi: ne segue che i campioni disponibili devono essere processati rapidamente ed entro poche ore dal prelievo. L’integrità della cartilagine ialina dipende in larga misura anche dal contenuto e dalla normale 84 distribuzione dell’acqua nel tessuto, pertanto i campioni devono sempre essere mantenuti in condizioni di idratazione. Si deve anche ricordare che i controcidi rappresentano solo 1% del volume dell’intera cartilagine, essenzialmente costituita da una matrice proteica, e che ne sono l’unica componente vitale, essendo il tessuto completamente avascolarizzato. La cartilagine viene sminuzzata con un bisturi e levata in soluzione salina sterile. I frammenti vengono sottoposti a digestioni della matrice, utilizzando opportune attività enzimatiche; normalmente queste includono: - proteasi non-specifiche, quali tripsina e pronasi(la tripsina utilizzata in concentrazioni 0.05%0.25% in soluzioni 0.02% EDTA; la pronasi in concentrazione 1-2 mg/mL); - proteasi collagene-specifiche, quali Collagenasi I e II (7-10U/mL); - proteasi proteoglicano-specifiche, quali la ialuronidasi (1-2 mg/mL) quest’ultima viene utilizzata nel caso di cartilagini derivate da mammifero. La digestione viene condotta per circa 16-18 ore a 37°C. Molti protocolli includono una feltratura su garza sterile al termine di ogni ciclo di digestione per evitare di recuperare anche grossi ammassi di matrice e cellule non ancora digeriti. Alternativamente si possono digerire i frammenti per 30-60’ con pronasi (2mg/mL) per poi completare le digestioni con le sole collagenasi e ridurre i tempi. Tutte le digestioni enzimatiche vengono mormalmente bloccate levando le cellule in mezzo contente 10% serio. Un protocollo più rapido prevede invece l’utilizzo contemporaneo di tutte e tre i tipi di proteasi descritte, a concentrazioni maggiori, con risospensione dei frammenti e delle cellule rilasciate dalla matrice ogni quindici minuti, per diversi cicli digestivi, ciascuno della durata di un’ora. Quando i frammenti sono completamente digeriti le cellule vengono recuperate per configurazione, lavate estensivamente in PBS e piastrate. 6.3 Ingegnerizzazione dei tessuti cartilaginei La cartilagine articolare, che fornisce alle articolazioni una superficie quasi senza attrito in grado di distribuire uniformemente i carichi, ha una capacità molto limitata di rigenerarsi in modo funzionale e duraturo. L’ingegnerizzazione di cartilagine in vitro è motivata dalla necessità di sviluppare nuove possibilità di trattamento per la riparazione di lesioni alla cartilagine articolare, per esempio a seguito di patologie traumatiche. Le terapie attualmente in uso, incluse quelle innovative che includono autotrapianti di cartilagine o di cellule, non sono in grado di riparare grandi lesioni articolari in modo riproducibile e duraturo. Un approccio alternativo alla riparazione della cartilagine consiste nel generare costrutti cartilaginei funzionali impiantabili. Rispetto all’uso di cellule non organizzate in un tessuto preformato, tali impianti ingegnerizzati avrebbero la possibilità di essere meno vulnerabili ai carichi meccanici e agli sbalzi metabolici che vengono osservati nel sito d’impianto, e quindi 85 supportare una migliore riparazione del tessuto. Costrutti cartilaginei sono stati generati in vitro grazie all’uso integrato di tre componenti: (i) cellule condrogeniche che possono essere prelevate da una piccola biopsia e tramite isolamento espanse in numero, (ii) “scaffold” polimerici che forniscono una struttura tridimensionale definita per lo sviluppo del tessuto e vengono degradati ad una velocità controllata, e (iii) bireattori che forniscono un ambiente controllato in cui viene favorita la controgenesi. Per riuscire a mantenere la validità e attività delle cellule in scaffold tridimensionali che devono essere di spessore fino a 6 mm (tale è lo spessore massimo della cartilagine umana nel ginocchio), è necessario un trasporto efficiente di fattori molecolari bioattivi. Tecniche di coltura statiche sono inadeguate da questo punto di vista, e inducono la formazione di grandi regioni in cui le cellule muoiono per necrosi o per un meccanismo di morte programmata per frammentazione del nucleo, nota come “apoptosi”. Possibili soluzioni a questo problema includono l’utilizzo di scaffold con maggiore porosità; tale possibilità comporta però il notevole svantaggio di compromettere l’integrità meccanica del sistema. Un approccio alternativo consiste nell’aumentare il trasporto di massa esponendo il costrutto ad un ambiente di fluido dinamico all’interno di un bireattore. Le condizioni idrodinamiche in diversi bireattori sono state utilizzate con successo per modulare la composizione e le proprietà meccaniche della cartilagine ingegnerizzata. In particolare, controcidi bovini sono stati seminati su materiali fibrosi a base di acido poliglicolico e coltivati per 6 settimane (i) in “static flask”, con i costrutti fissi in una posizione e il terreno non rimescolato; (ii) in “mixed flask”, con i costrutti fissi in 86 una posizione ed esposti a flusso turbolento unidirezionale; e (iii) in “rotating vessel”, con i costrutti sospesi in un flusso laminare dinamico. Nelle colture statiche, i glicosaminoglicani (GAG) solfati tipici della matrice cartilaginea si sono accumulati per lo più alla periferia dei costrutti, molto probabilmente a causa dei vincoli nella diffusione e nel trasferimento di massa. Nelle “mixed flask”, lo shear turbolento ha indotto la formazione di una spessa capsula fibrosa esterna con pochi GAG. Soltanto nelle “rotating vessel” la colorazione per GAG è risultata intensa e uniforme su tutta la superficie di una sezione centrale. Il contenuto di GAG (come percentuale del peso del tessuto) nei costrutti coltivati nelle “rotating vessel” è arrivato ad essere solo di poco inferiore a quello misurato in espianti di cartilagine, ma circa il doppio di quello dei costrutti coltivati nelle fiasche, “static” o “mixed”. Il modulo di elasticità è paragonabile nei costrutti coltivati per 6 settimane nelle fiasche “static” e “mixed”, ma per ben 4 volte superiore a seguito di coltura nelle “rotating vessel”, anche se ancora più basso rispetto ai valori misurati nella cartilagine naturale. Lo stesso andamento è stato misurato nella resistenza dinamica dei costrutti. La permeabilità idraulica risulta essere inferiore nei costrutti che hanno un più alto modulo di elasticità. 87 E’ quindi chiaro che la coltura di costrutti cartilaginei in “rotatine vessel” migliora la struttura, composizione e funzionalità della cartilagine ingegnerizzata. La spiegazione di questo effetto può essere relativa alla dinamica dei cambiamenti nella direzione e intensità delle forze idrodinamiche che agiscono sui costrutti nel flusso rotatorio delle “rotating vessel”, tale da simulare alcuni aspetti dei carichi dinamici fisiologici. E’ comunque da ricordare che il flusso di fluidi e il mixing nel sistema descritto in vitro generano forze che sono di natura e intensità diversa da quelle che derivano dalla compressione e shear fisiologici nelle articolazioni. Per questo motivo, costrutti di cartilagine ingegnerizzata potrebbero essere coltivati in bireattori che applicano regimi controllati di compressione diretta o shear. E’ noto che specifici stimoli meccanici influenzano lo sviluppo, il mantenimento e il rimodellamento di molti tessuti, inclusa la cartilagine, attraverso un processo noto come “meccanotrasduzione”. Diversi studi hanno dimostrato che la risposta cellulare a forze fisiche dipende da vari fattori, come ad esempio la direzione di carico, l’intensità e la frequenza della deformazione. L’utilizzo di bireattori può essere sfruttato per fornire ai costrutti ingegnerizzati in fase di sviluppo un condizionamento meccanico appropriato. Le tecniche ingegneristiche di controllo di processo possono poi essere utilizzate per variare il regime dello stimolo meccanico fornito, in modo da adattarlo alle diverse necessità del costrutto durante il tempo del suo sviluppo in vitro. 6.4 Integrazione dei tessuti ingegnerizzati Un problema fondamentale nella ricerca di soluzioni valide a lungo termine per la riparazione di tessuti consiste nello studio della capacità dei tessuti ingegnerizzati di integrarsi con i tessuti sani circostanti l’impianto. Tale problema è particolarmente importante nel caso del tessuto cartilagineo, il quale ha 88 una capacità di integrazione molto limitata. Lo sviluppo di bioreattori, in particolare i rotating vessel, in cui cellule di cartilagine (controcidi) sono in grado di riprodurre matrice extracellulare in modo pseudo-fisiologico è stato utilizzato per valutare la capacità di integrazione di cartilagine ingegnerizzata in cartilagine sana appena spiantata. Costrutti cilindrici di cartilagine precedentemente ingegnerizzati in bireattori sono stati inseriti all’interno di dischi di cartilagine nativa e i composti sono stati coltivati fino a 8 settimane negli stessi bioreattori. L’integrazione tra le due strutture è stata poi valutata sia istologicamente sia dal punto di vista biomeccanico, misurando la forza necessaria per rompere il legame tra i due tessuti. I risultati hanno messo in luce che costrutti ingegnerizzati immaturi, ovvero coltivati per un tempo minore in vitro, nonostante siano meccanicamente meno stabili hanno un più alto potenziale di integrazione, in quanto le cellule contenute in essi depositano matrice extracellulare a una velocità superiore. Inoltre, tale sistema ha consentito di dimostrare che l’utilizzo di enzimi che degradano la matrice cartilaginea nativa è in grado di migliorare l’integrazione dei tessuti ingegnerizzati, probabilmente per il fatto che rendono la cartilagine nativa più permeabile e stimolano le sue cellule a produrre nuova matrice, che si può così integrare a quella della cartilagine ingegnerizzata. 89