Fiora L., Alciati L. (2008) – The varieties of stones of Italian cities. L

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Fiora L., Alciati L. (2008) – The varieties of stones of Italian cities. L’Informatore del Marmista, 561, Giorgio
Zusi Editore, Verona, 32-41
PIETRE DELLE CITTA’ ITALIANE
La guida petrografica (geo-architettonica) è attualmente disponibile per molte città del mondo, rappresentando
sia un mezzo didattico, sia un supporto per molti specialisti (architetti, geologi, storici e restauratori), oltre che
uno strumento di valorizzazione turistica (Fiora et al., 2007). Alla metà del Novecento il geologo Francesco
Rodolico, mineralogista e Professore presso la Facoltà di Architettura di Firenze, pubblicò “Le pietre delle città
d’Italia” (1953), libro che è la prima guida petrografica delle principali città italiane, punto di riferimento ancora
oggi per chi si occupa dei materiali del costruito urbano italiano, che rappresentano un riferimento mondiale
unico. Attualmente, pur essendo aumentato molto il grado di conoscenza sulle stones delle città italiane in
seguito a studi archeometrici, pur essendo disponibile in alcuni casi la guida geologica (Siena, Firenze, Torino,
Rimini, Trento…..) e in molti altri casi essendo stati indagati i materiali lapidei di numerose singole costruzioni,
non esiste un’opera unica che riunisca globalmente queste conoscenze. L’opera di Rodolico evidenzia lo stretto
legame geologia-costruito e nonostante qualche imprecisione sull’uso di qualche materiale rappresenta uno
sguardo d’insieme sulle rocce usate nelle principali costruzioni storiche italiane. Essa è lo specchio della
geologia italiana: infatti l’autore evidenzia soprattutto i materiali prossimi al luogo di utilizzo, caratterizzando
spesso anche il loro stato di conservazione. Il libro, ricco dei riferimenti bibliografici essenziali nell’analisi dei
materiali lapidei di 97 città (di cui 94 in Italia, 1 in Svizzera e 2 in Croazia), rappresenta l’unico caso di
osservazioni geologiche sulle stones delle città di un intero paese. Le città di cui viene fornita la guida geoarchitettonica sono raggruppate a seconda delle aree geografiche individuate come: 1) Alpi Occidentali e
Liguria, 2) Alpi Centrali e Pianura Padana, 3) Alpi Orientali e Costa Adriatica, 4) Appennino Settentrionale, 5)
Appennino Toscano, 6) Appennino Centrale, 7) Antiappennino Pugliese, 8) Antiappennino Laziale-Campano, 9)
Appennino Meridionale, 10) Sicilia e 11) Sardegna. L’Autore evidenzia soprattutto i materiali osservabili in
esterno, identificandoli con il nome popolare/commerciale e definendone la provenienza geologica. Egli
sottolinea anche il prevalente materiale costruttivo: ad esempio, nella pianura padana abbonda il cotto (Cremona
è la città da lui definita “più laterizia”). Vengono descritti i materiali lapidei di più facile approvvigionamento
per la vicinanza degli affioramenti alle città; qualora questi non siano disponibili o non posseggono proprietà
idonee, quelli trasportati da regioni più lontane. Il trasporto per via d’acqua ha enormemente agevolato l’uso di
materiali alloctono: si veda, ad esempio, la città di Pavia, per la cui costruzione furono usati i materiali
trasportati per via fluviale dall’Ossola o la grande diffusione della “Pietra d’Istria” nelle città adriatiche e in
quelle localizzate lungo il fiume Po. Le vicende storiche hanno profondamente connotato le pietre delle città: in
passato soprattutto i Romani impiegarono molte varietà provenienti da diversi paesi dell’impero. In alcuni casi
sono state impiegate rocce decisamente insolite nell’ambito dell’edilizia: è il caso del gesso a Bologna o della
roccia vulcanica detta “selagite” a Volterra. Le stones sono descritte da Rodolico nei vari monumenti e
costruzioni in ordine cronologico a partire dalle realizzazioni più antiche. Si tratta sia di rocce ancora estratte
oggi, sia di materiali storici per cui c’è spesso ripresa di coltivazione per il restauro. L’allegata carta geologica
evidenzia lo stretto legame geologia/costruito.
References
Fiora L., Alciati L., Borghi A., Zusi V. (2003) – Italian geological map of natural stones. IMBS 2003, Istanbul
September 15-18 2003, 201-208
Fiora L., Carando M. (2008) – Pietre di Torino, multimedia petrographic guide. www.pietreditorino.com
Fiora L., Carando M., Sandrone R. (2007) – Multimedia petrographic guide of the city of Torino, Italy. Per.
Mineral, 76, 2-3, 91-97 with references
Rodolico F. (1953) – Le pietre delle città d’Italia. Le Monnier, Firenze, 475 pp.
MAIN IMPORTANT STONES OF ITALIAN CITIES (RODOLICO, 1953)
Aosta: Travertine, puddinga, gneiss, calcschist (“Pietra di Morgex”), marble (“Aymaville”) alabaster
(gypsum) (“Alabastro di Courmayeur ”).
Torino: Gneiss (“Pietra di Luserna”, “Pietra di Malanaggio”, “Pietra della Val di Susa”, “Pietra di
Cumiana”), quartzite (“Bargiolina”), marbles (“Pont Canavese”, “Brossasco”, “Chianocco e Foresto”,
“Frabosa”, “Val Germanasca”), calcschist, prasinite, breccia (“Breccia di Casotto”), ophicalcite (“Verde di
Susa”, “Verde Alpi”) , limestone (“Pietra di Gassino”), alabaster (“Onice di Busca”), (brick).
Asti: Sandstone (“Tuff”), gneiss, (brick).
Genova: Limestone (“Pietra Colombina”, “Pietra di Promontorio”), slate (“Lavagna”), biocalcarenite
(“Pietra di Finale”), ophicalcites (“Verde Polcevera”, “Rosso Levanto”), marbles (“Apuan Marbles”),
granite (“Sardinia Granite”).
Savona: Limestone, gneiss, schists, metagranites, slate (“Lavagna”), Marbles (“Apuan Marbles”).
Albenga: Puddinga (“Pietra di Cisano”), limestones, biocalcarenite (“Pietra di Finale”).
Domodossola: Gneiss (“Serizzi”, “Beole”), Soapstone, marble (“Crevola”), granite (“Rosa Baveno”).
Bellinzona (Swiss): Gneiss, micaschist, pegmatite, marbles (“Castione”).
Sondrio, Chiavenna: Gneiss (“Serizzo Valmasino”, “Ghiandone”), serpentinite (“Serpentino Val
Malenco”), soapstone (“Pietra di Tresivio”), marble.
Bolzano: Sandstone “Arenaria Val Gardena”, porphiry, limestones (“Marmi di Trento ”).
Como: Black limestone (“Pietra di Moltrasio”), white limestone (“Maiolica”), red limestone, marble
(“Musso”), sandstone, gneiss (“Serizzo”, “Ghiandone”), serpentinite, limestone breccia (“Arzo Marble”).
Bergamo: Sandstone (“Sarnico”), white limestone (“Zandobbio”), red limestone (“Entratico”), black
limestone (“Riva di Solto”), granite (“Rosa Baveno”, “Grigio Montorfano”), marble (“Bianco di Musso”),
gypsum (“Volpinite), limestone (“Verona Red”).
Brescia: Limestone (“Botticino”), Sandstone (“Pietra Simona”), limestone (“Verona Red”).
Verona: Limestones and calcarenites (“Biancone”, “Rosso Verona”, “Bronzetto”,”Nero di Roverè”,
“Tufo”, “Pietra Gallina”).
Vicenza: Limestones (“Pietra Tenera dei Colli Berici”, “Pietra Tenera dei Colli Lessini”, “Pietra di Nanto”,
Chiampo”, “Rosso Verona”), volcanic stones (“Trachite Euganea”, ”Basalto di Vicenza”).
Milano: Granites (“Rosa Baveno”, “Bianco Montorfano”, “Bianco Alzo”), marbles (“Candoglia”,
“Ornavasso”, “Strona”, “Crevoladossola”), conglomerate (“Ceppo”), sandstones (for example “Pietra di
Saltrio”, “Pietra di Viggiu’”), serpentinite (“Pietra di Omegna”), limestone (“Nero Varenna”), dolostone
(“Pietra di Angera ), limestone breccia (“Arzo”).
Cremona: Limestones (“Calcari Veronesi”, “Botticino”), trachyte (“Trachite Euganea”), gneiss (“Serizzo”,
“Beola”), conglomerate (“Ceppo”), sandstones, granite (“Rosa Baveno”), Marbles (“Carrara”,
“Candoglia), marbles and stones (reuse), (brick).
Mantova: Limestones (“Calcari Veronesi”), sandstones, (brick).
Ferrara: Limestones (“Calcari Veronesi”, “Pietra d’Istria”), black and white limestone breccia, (brick).
Pavia: Sandstones, “Serizzo”, “Beola”, marbles (“Crevola”, “Ornavasso”, Candoglia”, “Carrara”), breccia
(“Arzo)”, dolostone (“ Pietra di Angera”, sandstones, granite (“Rosa Baveno”), (brick).
Piacenza, Parma: Sandstones, limestones (“Calcari Veronesi”), gneiss (“Ghiandone”), marble
(“Candoglia”), granite ( “Rosa Baveno”), conglomerate (“Ceppo”), dolostone (“ Pietra di Angera”, (brick).
Modena, Reggio Emilia: Sandstones, limestones (“Calcari Veronesi”), marble, trachyte (“Trachite
Euganea”), gneiss ( “Beola”), granito (“Rosa Baveno”), (brick).
Bologna: Sandstones (“Masegna”), Gypsum (Selenite), Limestones (“Calcari Veronesi, “Piet ra d’Istria”),
(brick).
Trento: Limestones (red, white, black, “verdello”), “Porphiry”.
Belluno: Limestones (“Valdart”, “Castellavazzo”, “Pietra Soccher”, “Pietra del Cansiglio”), sandstones.
Trieste: Sandstone (“Masegno”), Limestones (“Aurisina”, “Pietra di Corgnale”, “Pietra d’Istria”).
Parenzo, Pola (Croatia): Limestones (“Pietra d’Istria o Pietra Orsera”), marbles (reuse)
Udine, Cividale: Limestones (“Nero Carnico” “Calcari del Carso”, “Pietra d’Istria”, sandstone (“Pietra
Piasentina”), marble (“Greek Cipollino” – reuse), (brick).
Treviso: Limestone (“Pietra di Castellavazzo”),Limestones (“Calcari del Carso”,“Pietra d’Istria”, “Rosso
Verona”, “Pietra tenera di Vicenza”), trachyte (“Trachite Euganea”), granite, (brick).
Venezia: Limestones (“Pietra d’Istria” “Calcari Veronesi”), marbles and other stones (“Greeek “,
“Cipollino”, “Pavonazzetto”, “Tessaglia Green”, “Green Porphyry”, “Red Porphyry” - reuse).
Padova: Limestones (“Verona limestones”, “Vicenza limestone”), volcanic rocks (“Trachite Euganea”,
“Basalto”), (brick).
Ravenna: “Istria stone”, “Verona limestones”, “Euganean Trachyte”, Greek marbles and stones (reuse),
(brick).
Faenza, Forlì: Biocalcarenite (Spungone, Pietra Mora), sandstones, “Istria Stone”, “Verona Limestones”,
(brick).
Rimini: Limestones (San Marino Limestone and other), biocalcarenite (Spungone), sandstones, limestones
(“Istria Stone”, “Verona Red”), volcanic rocks (“Egyptian Red Porphiry”, “Green Antique Porphiry”reuse).
Pesaro, Fano: Limestones, sandstones (“St. Ippolito Stone and other”), “Istria stone”, (brick).
Ancona: Sandstones (”Tufo”), limestones (“Calcari del Monte Conero”), limestone (“Pietra d’Istria”,
marbles (“Imetto”) and stones (reuse).
Prato: Limestone (“Alberese”), sandstone (Macigno”), serpentinite (“ Verde di Prato” or “Nero di Prato”
or “Ranocchiaia”), gabbro (“Granitone”).
Firenze: Sandstone (“Macigno - Pietra serena- Pietra bigia”, “Pietraforte”), marmo (“Carrara”), breccia
(“Seravezza”), serpentinite, limestones (“Alberese”, “Red Marble”), Marbles (“Greek”, – reuse; “Lasa”, restoration).
Arezzo: Sandstone (“Macigno, Pietra Serena, Pietra Bigia” ), travertino “Rapolano”.
Cortona: Sandstone (“Macigno, Pietra Serena”), travertine.
Città di Castello: Sandstone (“Macigno, Pietra serena”), limestone, (brick).
Carrara: Marbles (“White”, “Statuario”, “Bardiglio”, “Nero di Colonnata”), Breccias.
Lucca, Pisa: Sandstones (“Pietra di Guamo” or “Pietra Bigia”, “Pietra Gonfolina”, “Panchina”),
limestones, marbles, breccia, serpentinite (“Prato Green”), marbles (Greek) and other stones (reuse);
granites (“Elba”, “Giglio”, “Sardinia”).
Volterra: Sandstone (“Panchina”), limestone (“Tufo di Pignano”), volcanic rock called selagite (or
“Montecatini Stone”), serpentinite (“Ulignano Serpeninite” or “Gabbro”).
Siena: Sandstones (“Pietra Serena”), marbles (white, red, yellow “Giallo Siena”), limestone, serpentinite
(“Marmo Nero”), travertine, (brick).
Pienza, Montepulciano: Limestones, sandstone (“Tufo”), travertine, (brick).
Gubbio: Limestones (“Palombino” and other), sandstones (Pietra Spugna”, “Pietra Serena”).
Perugia: Limestones (“Pietra Caciolfa”), travertine, sandstone (“Pietra Serena”), Apuan Marbles, Greek
Marbles and other stones (reuse), (brick).
Assisi: Limestones ( “White Stone”, “Red Ammonitic Stone”), travertine (yellow).
Spoleto: Limestones (“Pietra Caciolfa” and other), Greek marbles and granite (reuse).
L’Aquila: Limestones.
Sulmona: Limestones.
Urbino: Limestones, sandstone, travertine, (brick).
Camerino: Sandstones, limestones, (brick).
Ascoli Piceno: Travertine (“Lapis Ausculanus”).
Teramo: Limestone, travertine, (brick).
Barletta, Trani: Limestone, calcarenite (“Carparo”, “Tufo”).
Bari: Calcarenite (“Tufo”), limestone.
Brindisi: Calcarenite (“Tufo”, “Pietra Gentile”), limestone.
Lecce: Calcarenite (“Pietra di Lecce”, “Pietra di Cursi”).
Matera: Sandstone (“Tufo”).
Orvieto: Tuff (“Tufo Lionato”), volcanic rock (“Basalt”), travertine, limestone, Serpentinite, Apuan
marble.
Viterbo: Tuff (“Peperino”), travertine, limestone.
Roma: Travertine (Tivoli Travertine”or “Lapis Tiburtinus”), tuffs, volcanic rocks. Marbles, granites and
stones (reuse).
Napoli: Tuff (“Piperno”), limestone, dolostone. Marbles and other stones (reuse)
Salerno: Limestone, dolostone, travertine, marble.
Campobasso: Limestone.
Benevento: Limestone, tuff, Marbles and other stones (reuse), (brick).
Melfi: Volcanic rock (haunofiro), tuff, limestone.
Potenza: Limestone (Pietra di Montocchio”), (brick).
Cosenza: Calcarenite (Tufo di Mendicino”).
Catanzaro: Calcarenite (“Tufo”, “Pietra Morta”), granite and gneiss (“Pietra Viva”), ophicalcite (Marmo
di Gimigliano”).
Tropea: Sandstone, granite.
Messina, Reggio Calabria: Limestones (“Pietra di Lazzaro”, “Rosso Taormina” and other), marbles,
calcarenite (“Pietra di Siracusa”), basalt (“Etna Basalt”).
Palermo: Calcarenite (“Tufo”, “Pietra dell’Aspra”, “Pietra di Solanto”), limestones (Pietra di Billiemi”),
marbles.
Trapani: Calcarenite (“Pietra di Trapani”, limestones (“Pietra Misca” or lumachella, “Pietra di Sciarre”,
“Pietra dell’Argenteria”).
Agrigento: Calcarenite, limestone (“Pietra Matta”), gypsum.
Modica, Ragusa: Limestone and calcarenites (“Pietra Latina”, “Pietra Carruvara”, “Pietra Pece”).
Siracusa, Noto: Limestones and calcarenites (“Pietra di Siracusa”, “Pietra Giuggiolena”).
Catania, Randazzo: Basalt, limestones, calcarenites (“Tufo”).
Cagliari: Calcarenite (“Tufo”), limestone, granite, trachyte, trachitic tuff.
Sassari: Calcarenite (“Pietra bianca”), limestone, trachyte (“Pietra di Sant’Anatolia”), tuff, phillyte.
Alghero: Calcarenite (“Tufo” or “Massacà”), limestone, trachyte.
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Fiora L., Alciati L. (2009) – Italian Stones: from the past to the future. 4th Int. Congress
“Science and Technology for the Safeguard of Cultural Heritage in the Mediterranean Basin.
Cairo, 2009, 23-24
ITALIAN STONES: FROM THE PAST TO THE FUTURE
Italian stones are a unique cultural heritage of international standing. Building, architectural, sculptural, bridge,
garden, fountain and street and square furnishing stones characterise the identity of the entire country, ensuring
a strong bond between natural and human environments. Used as shapeless stones and cobbles, rough-finished
or processed into decorative elements and with various surface treatments, stone embraces a background of
knowledge and highly specialised craftsmen who are equally a unique heritage of world standing. The quarry is
a place of memory that must be documented: sometimes quarries become overgrown and hidden, at other times
they are re-used - often as an authentic open-air museum combining nature, traditions and art. The cultural
heritage of Italian stone is unique all over the world and inasmuch should be viewed as a combination of the
entire stone production cycle, starting from the outcrops in various geological units through to quarry sites that
should be valorised as testimony of quarrying in the past, as well as places for the procurement of material to be
used in restoration and the production of modern works destined themselves to become historic in the future.
Buildings and monuments, rocks in outcrops and quarries should therefore be considered in global terms as a
unique cultural heritage. The enormous variety of rocks employed is based on the geology of Italy, that can also
be seen through the stones used to build villages and cities, once time of local origin or easily transported by
water. This was clearly witnessed in the mid-1900s in Francesco Rodolico's book “The stones of Italian cities”
(1953) - a mirror of the Italian geology through buildings and the first petrographic guide to the cities of an
entire country. Despite a few inaccuracies, it is still a unique reference work. In recent times, archeometric
studies into buildings have extended the sphere of knowledge: it would be in any case necessary to develop a
work that summarises the extent of knowledge of the stones found in modern Italian cities, from historic
materials through to the recent varieties available on the international market introduced as a replacement for
local rocks or chosen for new applications by leading architects (Fiora et al., 2007). As is well-known, stone
plays a vital role in the historical and cultural qualification of cities: its use today also assumes new status in
urban qualification, such as the reduction of crime risks, as defined by indications in European standards
currently being developed (Barboni & Montagna, 2009 with references),. Italy until the end of the 1900s was the
leading country in the stone sector in terms of its wealth of lithotypes with suitable physical-mechanical and
aesthetic properties and the background of practical knowledge concerning quarrying, processing, use and
restoration. The production reality today is profoundly different and has changed in view of the environmental
problematics that restrict exploitation and the emergence of new producer countries by now authentic giants in
the sector (China, India, Brazil, Turkey, Egypt and Iran). Thousands of new varieties are available on the
international market and are very competitive with Italian materials, especially as regards the cost factor, and are
increasingly used in new constructions and renovation of historic centres. Italian stones are currently
characterised by a different situation from region to region, from quarry area to quarry area. First and foremost,
there are the traditional rocks used in Italy and abroad for which exploitation activity continues with significant
local economic advantages: porphyry (Trentino), Alpine gneiss (for example, “Luserna stone”), marbles (for
example, “Carrara”,“Lasa” and “Fior di Pesco Carnico”), travertine, limestones such as “Botticino” or “Red
Verona”, several sandstones such as “Serena stone” and calcarenites such as “Leccese Stone” that are still used
on an international scale; their prestige is linked with historical use. Then there are rocks of prevalently local
value, such as “Valmalenco serpentine” or “Adamello granite”. Other rocks are worked in small quarries and
limited quantities, essentially for restoration: for example, “Pietra di Vico” sandstone from Piedmont or some
coulred Alpine “marbles”. Many rocks are also not worked but are nevertheless very intersting in terms of
restoration. Knowledge of these materials must be expanded: examples include the ophycarbonatic rocks of
Piedmont such as the “Susa Green Marble”, used since the early 1900s not only in Europe but also in Asia and
America, the Veneto basalt also used for ornamental purposes, as in monuments in Verona, the so-called
selagite vulcanite used to build the city di Volterra and evaporitic rocks such as chalk and anidrite.
References Barboni R.M., Montagna R. (2009) – Man made hazards: a way to reduce the criminal risks in new
housing. International Conference “Vulnerability of 20th century cultural heritage”, Delos22-24 april 2009, 1724 with references - Fiora L., Carando M., Sandrone R. (2007) – Multimedia petrographic guide of the city of
Torino, Italy. Per. Mineral, 76, 2-3, 91-97 with references - Rodolico F. (1953) – Le pietre delle città d’Italia.
Le Monnier, Firenze, 475 pp.
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Fiora L. (2009) – Le varietà dei marmi bianchi italiani. L’Informatore del Marmista. Giorgio Zusi Editore,
Verona, 573, 80-92
MARMI BIANCHI ITALIANI
Il marmo bianco è una roccia metamorfica con struttura saccaroide, cioè simile allo zucchero, e grana assai
variabile, da fine a grande e talora anche pegmatitica (Fiora, 2007). La roccia di partenza è un protolite
carbonatico (roccia sedimentaria calcarea o dolomitica). Infatti il carbonato (o i carbonati, calcite e/o dolomite)
ne rappresentalo almeno il 95%. Nel bacino mediterraneo celebri marmi bianchi calcitici sono quello italiano di
Carrara, quelli greci di Paros e Naxos, mentre famosi marmi dolomitici sono il Thasos (Grecia) e il Sivec
(Macedonia).
Il marmo bianco italiano più famoso è quello indicato genericamente come “Marmo di Carrara”, notissimo
commercialmente e ben caratterizzato dal punto di vista geo-petrografico. Altre varietà merceologiche bianche o
occasionalmente bianche sono oggetto di coltivazione attuale (ad esempio, “Marmo di Lasa” in Alto Adige).
Molte altre varietà sono state usate in passato quando la presenza di un giacimento marmoreo bianco anche se di
cubatura limitata rappresentava una ricchezza da sfruttare il più possibile per le difficoltà di trasporto del
materiale da lontani bacini estrattivi. Se il materiale era idoneo, lo si usava per opere scultoree oltre che per
realizzare elementi architettonici (è il caso, ad esempio, del “Marmo di Pont Canavese” in Piemonte: infatti i
costi e le difficoltà di trasporto dalle Apuane alle regioni alpine erano notevoli). Il marmo bianco locale è
sempre stato anche sorgente di materiale per calce e/o cemento: in alcuni casi attualmente questo è l’utilizzo
principale (ad esempio, “Marmo di Vipiteno”, che fu in passato anche roccia ornamentale).
I marmi bianchi italiani si sono perlopiù originati per metamorfismo regionale e solo raramente per
metamorfismo di contatto (ad esempio, la “Predazzite” delle Alpi Meridionali, trasformata in marmo dal
contatto con il Complesso Plutonico-Vulcanico di Predazzo).
L’importanza archeometrica dei marmi bianchi italiani è notevole: sovente si richiede la caratterizzazione e la
determinazione di provenienza di marmi bianchi puri in reperti archeologici e in realizzazioni storico-culturali
varie. In questi casi la composizione mineralogica fondamentale, quella delle fasi accessorie e la tessitura sono
spesso sufficienti, oltre che la determinazione dell’intervallo di variazione di MGS (maximum grain size): nei
casi dubbi ci si avvale di più tecniche analitiche combinate: ad esempio, catodoluminescenza, analisi degli
elementi in traccia, analisi degli isotopi stabili di O e C. Si ricorda che le indagini archeometriche sui marmi
bianchi, iniziate nel 1965 da Rybach & Nissen, comprendono ormai una vasta banca dati soprattutto per l’area
mediterranea. Uno studio petrografico e in catodoluminescenza sulle principali varietà italiane è opera di Lodola
(1997). Un’analisi completa dei riferimenti bibliografici e delle diverse tecniche di indagine è opera di
Lazzarini (2004).
I marmi toscani rappresentano un riferimento importante nel panorama mondiale: la loro conoscenza scientifica
è approfondita (Meccheri et al, 2007), come dimostra, ad esempio, la realizzazione della carta geologicostrutturale delle varietà merceologiche dei marmi del carrarese (Meccheri, 1996 e 2000 con rif. biblio.). Oggetto
di estrazione da più di duemila anni i marmi apuani, metamorfosati in facies scisti verdi, sono distinti in
differenti varietà merceologiche, quali “Bianco Ordinario”, “Bianco Venato”, “Nuvolato”, “Statuario”,
“Calacatta”, “Bardiglio”, Arabescato”, Cremo”, “Zebrino”, “Paonazzo” ecc. , corrispondenti a diverse variazioni
litostratigrafiche primarie dell’originaria piattaforma carbonatica del Dominio Toscano.
Il regno del marmo bianco italiano è senza dubbio rappresentato dalle Alpi Apuane, come scrisse Federico
Sacco (1934) nell’opera “Le Alpi”, definendo la serie carbonatica qui affiorante “una grandiosa pila calcarea”.
La prima varietà di marmo apuano (“marmo lunense”) in epoca romana fu coltivata nella lente di Punta Bianca
(Franzini, 2003). L’uso fu già etrusco, importante in epoca romana, subì una stasi nel Medioevo, per essere poi
ampiamente usato nel Rinascimento da parte di grandi artisti: è ben nota storicamente la visita di Michelangelo
Buonarroti in cava nel 1515 per scegliere personalmente i blocchi.
Nella regione alpina molte lenti marmoree bianche o parzialmente bianche sono state sfruttate fin dall’antichità.
In Piemonte, ad esempio, il marmo bianco proviene da lenti di limitata cubatura afferenti a diverse unità
geologiche. Alcuni materiali sono ben noti per essere stati usati in celebri monumenti: tra questi si ricordano il
marmo dolomitico del complesso di Foresto Chianocco in Valle Susa e quello di Frabosa (Mondovì). Uno
studio archeometrico incompleto per la rappresentatività dei campioni e per le varietà prese in esame di marmi
piemontesi è opera di Borghi et al.(2009) : non viene tra l’altro considerata una varietà bianca (“Bianco
Frabosa”) di notevole importanza in opere di scultura e di architettura nel territorio piemontese. Mancano marmi
bianchi puri in Valle d’Aosta, mentre in Lombardia le varietà più celebri sono quelle di Musso e di Olgiasca
(Como), oltre a varietà minori quali il “Marmo di Santa Perpetua” a Tirano (Sondrio) e altre intercalazioni
marmoree calcitiche o calcitico-dolomitiche della media e alta Valtellina.
Il Trentino Alto Adige è l’areale di provenienza dei celebri marmi bianchi di Lasa e di Covelano a grana
medio-fine (Franzen & Mirwald, 2002). Si tratta di calcari depositatisi nel Devoniano che sono stati
metamorfosati in età ercinica (400-300 milioni di anni fa): le varietà bianche hanno aspetto zuccherino, sono
composti da calcite (rara dolomite) e molto subordinatamente da flogopite, clorite e quarzo. Questi marmi
bianchi sono e sono stati ottimi per scultura e architettura. Nella regione molte altre lenti marmoree più o meno
bianche sono state sfruttate in passato: ad esempio, il “Marmo Schlurendhof” del Maso della Selva (usato
essenzialmente per calce a causa dell’elevato stato di fatturazione) o il “Marmo di Vipiteno”(“Marmo di Sasso
Maretta”), coltivato attualmente non a scopo ornamentale in una lente affiorante entro gneiss e micascisti (cava
Kristallina e cava Pratone nel comune di Racines). In Trentino sono noti alcuni marmi storici, quali il “Marmo
di Predazzo” (“Predazzite”), marmo a brucite, Mg(OH)2, a grana fine, usato storicamente come materiale
ornamentale in altari e statue in chiese e cimiteri della regione, il “Marmo di Breguzzo”, bianco a grana da
media a grossolana, usato sotto forma di lastre e per sculture nei secoli 15° e 16°. Altre lenti marmoree di questa
regione non sono quasi mai bianche (ad esempio, il marmo trentino “Grigio Perla”).
In Friuli Venezia Giulia i celebri calcari Devoniani metamorfosati non sono bianchi.
La conoscenza di tutte le varietà di marmo bianco affioranti nella regione alpina si basa sulla bibliografia
geologica, sui documenti storici di costruzioni e monumenti (statue, lapidi e reperti museali vari) e sulle recenti
indagini archeometriche. Con il progredire degli studi, l’elenco delle varietà bianche è destinato ad aumentare.
In particolare, tra i marmi piemontesi si annovera una quindicina di varietà diverse tra loro per importanza
storica e periodo di impiego (Berti, 1985): molte provengono dal Massiccio Cristallino Dora Maira, alcune
afferiscono ad altre unità geologiche (Badino & Frisa Morandini, 1993; Barelli, 1835; Catella, 1969; Giuliani,
2004; Lombardo, 2002; Peretti, 1938; Sacco, 1907 e 1934). Tra le numerose varietà marmoree del Piemonte
meridionale si ricorda il “Marmo di Valdieri” (Valle Gesso), assai sfruttato nel Settecento, essendo la cava di
proprietà di Casa Savoia almeno dal 1743. Catella (1929) parla di un’iscrizione in cava (attualmente non
trovata) sul materiale perlopiù bardiglio, eccezionalmente bianco (Frisa et al., 2000) già estratto dai Romani.
Sacco (1907) lo definisce “marmo compatto, sonoro al colpo, duro a lavorarsi, simile al Carrara e durevole”:
infatti la grana medio-fine e la composizione prevalentemente calcitica lo rendono simile alla varietà apuana.
Altro marmo bianco storico è il “Marmo di Garessio” (“Grappiolo”), estratto in passato in Valle Tanaro, è
composto da calcite prevalente su dolomite, quarzo, mica bianca (Giuliani, 2004). Il raro “Marmo di Frabosa”
nella varietà bianca fu usato per opere di statuaria e di architettura diffuse sul territorio piemontese e tra l’altro
presenti in Torino (Fiora & Carando, 2006): anch’esso è calcitico a grana medio-fine con bassi tenori di clorite e
di mica bianca che diventano abbondanti nella più diffusa varietà “Verzino”. Molto usato fu il “Marmo di
Brossasco-Isasca” (Valle Varaita), bianco o venato con noduli eclogitici, affiorante nella lente del Bric
Monforte e oggetto di importante attività estrattiva nel Seicento e Settecento (Barelli, 1835; Lombardo, 2002): la
sua composizione mineralogica è data da calcite e dolomite, associate a vari silicati. Materiale ornamentale oltre
che da calce petrograficamente simile fu il “Marmo di Paesana/Calcinere” della bassa Valle Po. Il marmo
statuario più importante del Piemonte è il “Marmo di Pont Canavese” nella bassa Valle dell’Orco, estratto a
partire dal 1772 e impiegato per colonne e statue (tra cui le tombe reali di casa Savoia e il gruppo marmoreo
cosiddetto “La Fama che incatena il tempo” nel Palazzo Università) in Torino. Ai primi del Novecento le cave
di statuario furono però chiuse per l’insostenibile concorrenza con il marmo di Carrara. In Valle Susa Il “Marmo
di Chianocco e Foresto” composto da dolomite, calcite e silicati (tra cui talco) (Fiora & Audagnotti, 2002)è di
colore da bianco a grigio chiaro, talora listato, spesso vacuolare. Esso fu già usato dai Romani (ad esempio, per
l’Arco di Augusto a Susa, oltre che in molti reperti archeologici ed epigrafi), mentre l’ampia diffusione della
roccia sul territorio torinese è da collegare alla vicinanza dei luogo di estrazione alla Dora Riparia: il materiale,
infatti, veniva trasportato da Bussoleno ad Alpignano su chiatte trainate da una fitta successione di traini dette
“lezate” e successivamente raggiungeva Torino via terra. Questo marmo fu molto usato in Torino. Sempre in
Valle Susa fu coltivato il “Marmo di Venaus” di colore perlopiù grigio, talora bianco, a calcite, dolomite e
silicati vari, di impiego solo locale. Analogo è il “Marmo del Moncenisio”.
Altri marmi piemontesi appartenenti alla copertura del Massiccio Dora Maira sono quelli della Valle
Germanasca o Marmi Gaggini (dal nome del cavatore), noti anche come marmi saccaroidi di Praly, San
Martino, Faetto, Maniglia e Salza, usati per statuaria, scale, pavimenti e ornamenti vari. Essi sono caratterizzati
da calcite prevalente su dolomite in associazione con vari silicati.
Altro marmo bianco piemontese evidenziato nel corso di indagini su costruzioni storiche è quello di
“Massucco”, calcitico con rara dolomite. Esso affiora nel Comune di Rassa (Vercelli), in Valle Sorba affluente
di destra del fiume Sesia. Si tratta di diverse lenti comprese nei micascisti eclogitici della Zona Sesia Lanzo. La
cava storica è una grotta carsica lunga una cinquantina di metri, posta a 1800 m di altezza. All’imbocco della
grotta sono evidenti tracce di coltivazione e una lastra spessa. Esso fu coltivato fin dal Seicento soprattutto per la
statuaria religiosa, per lastre cimiteriali e come materia prima per calce.
Altre lenti marmoree afferenti alla Zona Sesia Lanzo affiorano in diverse località piemontesi e valdostane (ad
esempio, “Marmo di Fontainmore”): si tratta di marmi impuri facilmente identificabili, non di colore bianco
assoluto. Le altre unità geologiche presenti in Valle d’Aosta non contengono marmi bianchi, sì che già i Romani
utilizzarono materiale di importazione per la decorazione marmorea bianca di Aosta romana e in particolare per
la Porta Pretoria, per cui fu probabilmente usato marmo di Carrara (Mirti et al., 1997), mentre sulla base della
tecnica di lavorazione storica si presume una provenienza pirenaica per altri reperti.
L’altra zona marmifera importante in Piemonte è l’Ossola, dove sono estratti ancora oggi diversi marmi bianchi
e colorati (Lodola, 1997). I marmi di Candoglia-Ornavasso e Valle Strona (Sanbughetto) appartengono
geologicamente alla Zona Ivrea-Verbano e furono usati fin dall’epoca romana. Le varietà completamente
bianche sono rare: si ricorda, ad esempio, quella estratta a Marmo in Valle Strona (marmo a calcite e silicati
vari) e il Candoglia Bianco, anch’esso calcitico. Il “Marmo di Crevola”, composto da dolomite, è in genere
impuro per flogopite, feldspati e quarzo (“Palissandro”).
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STONES USED IN BERGAMO ARCHITECTURE
Key words: Bergamo; Credaro and Simona stones; Sarnico sandstone; Ceppo conglomerate; Arabescato
Orobico and Zandobbio marbles.
Abstract.
The Stones used in the town of Bergamo are described in a geo-architectonical journey from the
Lower Town (“Città Bassa”) to the Upper Town (“Città Alta”). Our attention focuses on
characteristic building materials employed in the medieval area around “Piazza Vecchia” (the old
square), defined by the famous architect Le Corbusier “the best square all over the world”. “It
should be a shame to change just only a stone” he remarked during the International Architecture
Modern Exposition on 1949. Le Corbusier was really fascinated by the beauty of the
architectonical elements forming a mix of different styles and periods and he also appreciated the
preciousness of the local building materials. Most of the stones used in the architecture of Bergamo
are sandstones and carbonate rocks (limestones and dolostones), although stones from the whole
Lombardy, Veneto and Ticino’s areas are present too (AA.VV., 2003-a, 2003-b; Bugini et al.,
2004; Chiesa et al., 1994; Facchin, 2002; Marchetti, 2003; Merisio, 2002; Paganoni, 1987;
Primavori, 2006; Signori, 2002, 2007). The Renaissance architect Vincenzo Scamozzi (1548-1616)
named the first ones “pietre forti” (literally “hard stones”) and the second ones “marmorine”
(literally “soft or small marbles”) (Rodolico, 1953; Scamozzi, 1615). Various kinds of sedimentary
rocks are employed as building materials and decorative stones. Undoubtedly sandstones are the
most widespread in the Upper Town, commonly used since ancient times because of the great
outcropping on the hills of Bergamo (Astino, Castagneta, Madonna del Bosco, Sombreno and San
Vigilio) (Jadoul et al., 2002). Among them the “Credaro Stone” stands out, nowadays quarried in
the homonymous locality in the province, which is a calcareous sandstone, golden-hazel in colour,
coming from the Flysch of Bergamo Formation (Campanian time) (AA.VV., 2003-c). It was used
to make building blocks for rustic tower-houses (the “Three Towers”), the Venetian city walls and
the “Torre dei Caduti”, situated along the main street in the Lower Town. Another prominent and
common stone in the Upper Town is a reddish-violet sandstone, of Permian age, named “Simona
Stone”, nowadays quarried in Boario Terme (Brescia), which was utilized in the rose window of
the famous Colleoni Chapel (1470-76) by Giovanni Antonio Amadeo (1447-1522) and in many
claddings and pavements (Paganoni, 1987; Facchin, 2002). Then there is the “Sarnico Sandstone”,
a quartz arenite, Coniacian in age, nowadays coming from Paratico and Darfo (Brescia), which was
used in the “Gombito Tower”, in the “Basilica of Santa Maria Maggiore” and in the “Palazzo della
Ragione” all in the Upper Town. The XX century architecture (Piacentini style) of the Lower Town
widely used the “Sarnico Sandstone” and a polygenic conglomerate of alluvial and glacial origin,
quaternary in age, named “Ceppo”, quarried in the Adda and Brembo valleys and on the Lake Iseo.
We can for example recognize “Ceppo Gentile”, once quarried in Brembate Sotto (Bergamo) in the
Lower Town Cemetery “Famedio” (literally “temple of the fame”) and the “Sentierone”
compound. Other two examples, nowadays quarried on the Lake Iseo, are “Ceppo di Grè”
(AA.VV., 2003-d) and “Ceppo Poltragno”: they are widespread in the Lower Town since the end
of XIX century (palaces of “Bank of Italy”, “Donizzetti Theatre”, “Chamber of Commerce” and
“Balilla’s house”). Carbonate rocks are present too. We have the white-pinkish “Zandobbio
marble”, widely used during the Roman ages, the Renaissance and up to the present time (the
Roman column of Sant’Alessandro, “San Giacomo gate”, “Palazzo Nuovo”, now municipal library
“Angelo Mai”, the “Contarini” fountain, “former casa del Fascio”, “Prato columns”) (Paganoni,
1987; Vola et al., 2009), the “Botticino or Rezzato marble”, the “San Benedetto” or “Avana
marble”, the “Entratico Red marble”, the “Nembro Grey marble”, the “Gazzaniga black marble”
also called “Black Absolute of Italy” (Ghisetti et al., 2006), the “Riva di Solto black marble”, the
“Cene black marble” also called “pietra paragone”, or “comparison stone”, the “Arabescato
Orobico marble” (polished slabs on the lateral altar of the Colleoni Chapel, by Bartolomeo Manni
built on 1676 and a lateral altar of the Dome built on the XVIII century are the most remarkable
examples in the Upper Town) (AA.VV., 2003-e; Vola, 2007; Vola et al., 2008) and the “Rosso
Verona”. The use of an evaporitic rock, named “Volpinite” or “Bardiglio of Bergamo”, was
unusual. The magmatic intrusive rocks are represented by the “Granites of the Lakes”, namely the
“Rosa Baveno” (“Frizzoni Palace” now the municipal town hall and the gates of “Porta Nuova”)
and “Bianco Montorfano”. The metamorphic rocks are slates, namely the “Grey Porfiroide of
Branzi” (AA.VV., 2003-f) and the “Dark-Grey Porfiroide of Valleve” (AA.VV., 2003-g), both
adopted for roofing slates (“piöde”) and pavements, marbles s.s. from Lombardy (“Musso marble”)
and also different varieties from the Apuane Alps. The Lower Town contemporary architecture still
uses local stones together with others coming from the international market (Fiora et al., 2003;
Fiora, 2007; Pieri, 1964).
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SERIZZI ALPINI
I cosiddetti “Serizzi” (“Sarizzi”, “Pietre Risse”) sono rocce di diversa composizione chimicomineralogica, provenienti da differenti unità geologiche della catena montuosa delle Alpi, di
uso diffuso sia costruttivo che ornamentale in molte regioni alpine (Fiora, 2008). Conci
squadrati, elementi decorativi, frammenti irregolari, “pietre da torrente” (ciottoli) sono stati
sovente utilizzati in edifici, ponti, murature di confine di proprietà, elementi scultorei vari e
talora sono stati anche in elementi di copertura e di pavimentazione.
Innanzitutto con tale termine si indicano degli gneiss, cioè rocce metamorfiche silicatiche in
cui abbondano quarzo e feldspati, di colore grigio, talora anche occhiadini (“ghiandoni” o
“ghiandonati”), cioè tipici per la presenza di cristalli centimetrici feldspatici.
Le rocce più note sono i “Serizzi” ossolani, gneiss (ortogneiss) provenienti dalla Falda
Antigorio delle Unità Pennidiche Inferiori (“Serizzo Antigorio”, “Serizzo Formazza” e
“Serizzo Sempione”) e dalla Zona Monte Rosa delle Unità Pennidiche Superiori (“Serizzo
Monte Rosa”) : la roccia di partenza è un granito o una granodiorite di età Permiana, metamorfosato
durante l’orogenesi alpina. La composizione mineralogica è quarzo, feldspato potassico, plagioclasio,
biotite, mica bianca e allanite (epidoto radioattivo) come tipico accessorio. Le differenti varietà di
“Serizzo” rappresentano una notevole risorsa economica nel panorama ossolano (Bigioggero &
Zezza, 1997; Cavallo et al., 2004; Sandrone et al., 2004). Si tratta di rocce molto durevoli data la loro
composizione silicatica: feldspato bianco, quarzo grigio, biotite nera e mica bianca. Il “Serizzo
Antigorio”, che è la varietà più abbondante, si contraddistingue per la grana media e il colore grigio
scuro data l’abbondanza del fillosilicato biotite ( o mica nera), essendo questa roccia la più scura dei
serizzi ossolani. Il “Serizzo Formazza” ha grana più grossolana e colorazione più chiara. Il “Serizzo
Sempione” è ben foliato, a grana più fine e colore chiaro. Il “Serizzo Monte Rosa” è occhiadino per la
presenza di feldspato potassico centimetrino, presenta grana grossolana e colore grigio chiaro
(Cavallo et al., 2004). La caratteristica mineralogica peculiare del “serizzo” coltivato in Ossola è
l’abbondanza di biotite, in base alla quale il materiale è facilmente distinguibile dagli altri gneiss
piemontesi provenienti dal massiccio cristallino Dora-Maira. Questi tipi di gneiss, che hanno avuto e
hanno un commercio mondiale, connotano in particolare l’edilizia storica di molte città dell’Italia
settentrionale: in primo luogo Domodossola per la vicinanza degli affioramenti. A Milano fu usato fin
dal Medio Evo fin dal Quattrocento per la facilità di trasporto lungo le vie d’acqua (Fiora, 2008): ne
sono esempio le colonne dell’Ospedale Maggiore divenuto sede dell’Università, mentre nel Duomo
costituisce il nucleo interno dei pilastri e in molti edifici novecenteschi è il tipico materiale da
rivestimento. A Torino il “Serizzo dell’Ossola” fu scelto dall’Architetto Piacentini per il rifacimento
di parte di via Roma, dove è stato usato per colonne, pilastri, rivestimenti e pavimentazioni
(www.pietreditorino.com). Il materiale di uso storico più antico fu estratto da trovanti.
Anche altre rocce gneissiche piemontesi sono state storicamente chiamate “Sarizzi”, oltre che
“Pietre”: nei documenti d’archivio altre varietà di gneiss provenienti dal Massiccio Cristallino DoraMaira hanno avuto questa denominazione d’uso: il Serizzo” o “Pietra di Cumiana” ne è un esempio,
oltre alla “Pietra di Luserna”, alla “Pietra di Malanaggio”, agli gneiss della Valle Susa e a quello di
Brossasco.
In Lombardia è stato molto usato il “Serizzo Val Masino”, di composizione dioritica, impiegato per
costruzioni, monumenti e opere funerarie anche al di fuori dell’areale di coltivazione. Assieme al
“Ghiandone”, granodiorite porfirica, e al “granito di San Fedelino”, appartiene al plutone Val MasinoBregaglia, affiorante a nord della linea del Tonale prevalentemente in Italia e subordinatamente in
Svizzera. Come molte altre rocce alpine, il “Serizzo Val Masino” prima che in cava fu coltivato a
partire dai massi erratici depositati in pianura dai ghiacciai quaternari (Bonsignore et al., 1970). La
roccia è stata diffusamente usata nell’edilizia locale (Rodolico, 1953), ma ha anche spesso varcato i
confini regionali.
Altre rocce storicamente note come “Serizzi” sono petrograficamente dei calcemicascisti
(scisti carbonatici), provenienti dalla Formazione dei Calcescisti con Pietre Verdi: in
Piemonte queste rocce sono state in passato chiamate “Pietre Risse” o “Sarizzi” per
l’analogia cromatica con gli gneiss. Si tratta però di litotipi molto differenti dalle rocce
metamorfiche ortogneissiche, essendo il carbonato (prevalente calcite, subordinata ankerite)
uno dei componenti mineralogici fondamentali: queste rocce sono più tenere, quindi più
facilmente lavorabili, ma meno resistenti soprattutto con la diffusione delle piogge acide che
solubilizzano la calcite. Esempio è il “Serizzo di Piasco” (Valle Varaita), pietra da taglio
usata, tra l’altro, nella città di Torino. Esempi di uso di calcescisto in Torino sono la scala
laterale del Duomo, mensole e fasce nel Palazzo Università, portali e colonne in Piazza
Vittorio. Calcescisti provenienti dal cuneese (in modo particolare dalla Valle Varaita) sono
anche segnalati da Sacco in Torino sotto forma di lastre per balconi e stipiti.
In calcemicascisto sono state anche realizzate molte costruzioni alpine, quali fortificazioni,
ponti ed edifici rurali. La valdostana “Pietra di Morgex”, di cui è cessata l’attività estrattiva, è
un calcemicascisto.
Esiste inoltre nelle Alpi il “Serizzo Verde”, petrograficamente definibile come scisto verde o
prasinite, la cui composizione mineralogica fondamentale è data da clorite, anfibolo, epidoto
e albite. Una delle prasiniti più tipiche è quella cosiddetta “ocellare”, riconoscibile per gli
“occhi” millimetrici di albite bianca. In Torino l’esempio più noto di utilizzo è in Palazzo
Carignano, oltre che nella muratura esterna dell’edificio Ex Ospedale Maggiore della città
(Fiora & Carando, 2008). In ambiente urbano la roccia denota incremento di fatturazione,
crosta nera e cristallizzazione di Sali, con decoesionamento, mancanze ed esfoliazione.
Federico Sacco, sottolineando che “tra le tante bellezze delle Alpi, non ultima è quella di
alcune sue pietre, cita la prasinite tra le pietre “belle” e “buone” (cioè utili), ricordando l’uso
di quella affiorante presso Avigliana (bassa valle di Susa) sia in Avigliana stessa che nella
Sacra San Michele, dove fu inizialmente usata per muratura e sculture e utilizzata poi negli
archi rampanti da Alfredo D’Andrade agli inizi del Novecento (Fiora & Pastero, 1999; Fiora
& Gambelli, 2003). Alfredo D’Andrade, responsabile dei restauri del patrimonio storico nella
provincia di Torino dal 1883 al 1915, utilizzò la pietra verde, già usata in epoca medievale
per la realizzazione dell’edificio, per realizzare pilastri e archi che hanno impedito il crollo
dell’edificio. Dalla cava, nota oggi come “Cava D’Andrade”, dove la roccia era estratta e
semilavorata, avveniva il trasporto al cantiere del restauro tramite teleferica. Anche alcuni
sarcofaghi della chiesa realizzati per i membri della famiglia Savoia sono in prasinite.
La prasinite, di uso in molte costruzioni storiche della pianura piemontese, è anche uno dei
materiali con cui è stato edificato il complesso fortificato di Fenestrelle in Valle Chisone. La
prasinite è stata anche molto usata in valle d’Aosta: rilevante, ad esempio, il suo impiego a
Verrès e Issogne: il campanile della Chiesa di Saint Gilles a Verrès ha un campanile con
mensole, statue e decorazioni varie in prasinite.La fontana all’interno del cortile del castello
di Issogne (“Fontana del Melograno”) di forma ottagonale con decorazioni è in prasinite, che
l’acqua ha degradato intensamente. In Valle d’Aosta sono note diverse opere di scultura
lapidea in questa roccia metamorfica. Attualmente una prasinite valdostana è
commercializzata come “Verde Dorato”: essa è coltivata nella cava Cheran di Verrayes sotto
forma di blocchi informi per lo stato di fatturazione che sono lavorati nello stabilimento di
Champagne (frazione di Verrayes). Lavorata con diverse modalità (lucidatura, levigatura,
sabbiatura) essa trova impiego in esterni per pavimentazioni, ad esempio, in Chatillon e in
Aosta, dove è anche impiegata nelle fiorire. Per interni è usata in top da cucina, piatti doccia
e scale.
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BASALTO VENETO
L’attività vulcanica basica in Veneto si è manifestata in una dozzina di fasi tutte di breve durata e
coprenti l’arco temporale che va dal Paleocene superiore all’Oligocene (Era Terziaria). Le rocce più
diffuse sono basalti, alcalibasalti e basaniti con subordinate hawaiiti, trachibasalti e andesiti
basaltiche (De Vecchi & Sedea, 1995 con rif. biblio.). Queste vulcaniti si sono intruse in vari livelli
della copertura sedimentaria delle Alpi Meridionali (“Pietre tenere”) su un’area che va dal Lago di
Garda al fiume Brenta e dalla regione di Trento ai Colli Euganei. Esse sono associate nei Lessini a un
importante lineamento tettonico (“Linea di Castelvero”), che si attivò alla fine del Paleocene proprio
con l’attività vulcanica. Nei Colli Euganei si è poi sviluppato nell’Oligocene Inferiore anche un
vulcanesimo acido che ha prodotto la celebre “Trachite Euganea”. Le aree di affioramento di basalto
s.l. sono essenzialmente riferibili al settore Euganeo-Berico- Lessineo con più modeste
manifestazioni fino ai dintorni di Trento e negli altipiani vicentini: si possono osservare affioramenti
nei Monti Lessini, nei Monti Berici, nell’area di Marostica, nel l’altopiano di Asiago, al Monte Baldo e
nei Colli Euganei. Artini (1941) ricorda che “espansioni basaltiche di grande entità si hanno nel
Veneto nelle provincie di Verona e di Vicenza (Monti Lessini) specialmente nelle Valli dell’Alpone e
dell’Agno; più ad oriente hanno pure grande diffusione: a Marostica si osserva una bellissima forma
di ossidiana basaltica; scarsi e limitati sono nei Colli Euganei” . La valle dell’Alpone nei Lessini
meridionali è incisa in basalti, piroclastiti, oltre che nella Scaglia Rossa Cretacea e nei calcari
nummulitici eocenici. Le località dei basalti sono San Giovanni Ilarione, Roncà e Montecchia di
Crosara. La coltivazione avviene attualmente in quest’ultima località con produzione di pietrisco per
massicciate ferroviarie e stradali. In particolare a San Giovanni Ilarione ci sono basalti colonnari
originatesi dal consolidamento di lave, con sezione trasversale poligonale, esagonale o pentagonale
di altezza decametrica. Federico Sacco tra le “pietre belle e buone delle Alpi” ricorda i basalti del
Veronese e del Vicentino, usati in vario modo per costruzione e pavimentazione” (Sacco, 1934). La
“pietra nera del colore del ferro lavorato alla fucina” (Scamozzi, 1694), è visibile in diverse località
del veronese e del vicentino sia negli affioramenti e negli alvei dei fiumi, che nelle costruzioni. Talora
è presente con la tipica fessurazione colonnare (celebri sono i basalti colonnari di San Giovanni
Ilarione). Sovente mostra fenocristalli (cioè cristalli individuabili macroscopicamente) di plagioclasio
chiaro e pirosseno augitico nero immersi nella massa di fondo ricca di vetro. Il basalto veneto può
essere compatto e massivo, oppure bolloso, contenendo cavità a zeoliti e carbonati di genesi
secondaria (zeolite natrolite in quello di Altavilla Vicentina). Il colore della roccia fresca è nero o
grigio scuro, talora nero-bluastro, mentre la patina di alterazione è bruna. Il materiale è assai duro
da lavorare, mentre l’estrazione è agevolata dalla presenza di numerosi giunti.
Il basalto veneto fu usato un tempo soprattutto per selciato (scivoloso però per i cavalli), materiale
da muratura, pietra da macina (ad esempio, estratte a Montecchio Maggiore), vasi e ornamenti vari
di opere monumentali. Si osserva nelle pavimentazioni di Verona e nel selciato di Vicenza (Rodolico,
1953). In Verona fu anche usato in sei tondi del diametro di 20-25 cm incastonati nel marmo bianco
sulla facciata della Chiesa di Sant’Anastasia; compare anche sotto forma di ciottoli nelle murature
delle fortificazioni di Verona, ma lo si rinviene come materiale da costruzione nelle zone di
affioramento o, nel caso di ciottoli, anche lontano da esse.
BASALTI
I basalti sono rocce magmatiche effusive a chimismo femico contenenti meno del 52% di SiO2: sono
gli equivalenti vulcanici dei gabbri e rappresentano le rocce vulcaniche più diffuse sulla terra. Il loro
colore è grigio scuro/nero e la loro densità è elevata. I geologi distinguono geochimicamente due tipi
di basalti che rappresentano i capostipiti di serie magmatiche, cioè i basalti alcalini e i basalti sub
alcalini (comprendenti i tholeitici). Il basalto più diffuso è quello tholeitico caratterizzato da elevati
tenori di ferro e di titanio e da assenza di olivina. Il basalto alcalino è ricco di alcali e sovente
contiene olivina, ma ha tenori inferiori di ferro e di titanio.
Talora sull’affioramento i basalti si caratterizzano per la tipica fratturazione colonnare (detta anche
prismatica), di cui è celeberrimo esempio il lastricato dei Giganti (Giants Causeway) in Irlanda.
Possono essere compatti o bollosi con vacuoli in cui cristallizzano carbonati e zeoliti (ad esempio, i
basalti dei monti Lessini contengono natrolite).
I componenti mineralogici fondamentali dei basalti sono il plagioclasio calcico (con contenuto di
anortite superiore al 50%) e il clinopirosseno. La struttura dei basalti è perlopiù porfirica con
fenocristalli immersi in una massa di fondo a grana fine. La loro struttura può anche essere afirica,
cioè priva di fenoscristalli. I basalti costituiscono sia grossi espandimenti formati da diverse colate
sovrapposte, sia filoni.
Quando le colate sono avvenute sul fondo oceanico presentano pillows (forme di raffreddamento a
cuscino). Molti vulcani sono costituiti da lave basaltiche (ad esempio, l’Etna). Enormi espandimenti
basaltici contraddistinguono molte regioni: quelli del Deccan di età Cretacea coprono un’area di circa
cinquecentomila km2 con uno spessore medio di seicento m, quelli Miocenici del Columbia River
potenti oltre 1500 m coprono duecentomila km2; altri grandi espandi menti sono nel Paranà in
Brasile, in Africa (Etiopia-Somalia-Kenia e Karroo in Sudafrica), in Siberia, Islanda, Groenlandia e
Scozia. In Italia ne affiorano in Veneto, Trentino, Sicilia e Sardegna. In molti altri paesi sono da
sempre usati per costruzioni: ad esempio, in Siria, Giordania, Germania, Boemia, Azzorre, Canarie,
Capo Verde etc. Le rocce basaltiche rappresentano il materiale di un importante patrimonio artistico
mondiale: ad esempio, nell’altopiano dell’Hauran tra Siria e Giordania molti monumenti sono stati
completamente realizzati in basalto (Marino, 2006).
I basalti sono rocce resistenti al weathering. Da sempre sono usati per lastricati di strade e per
massicciate stradali. Essi sono inoltre la materia prima per la produzione di “fibre” o “lane”.
FIBRA DI BASALTO
La roccia vulcanica basaltica è oggi utilizzata per la produzione di fibre naturali dotate di peculiari
proprietà e ottenute fondendo la roccia a temperature di circa 1.400°C. Il fuso è fatto passare
attraverso un ugello con 200-500 fori, ottenendo dei filamenti che sono poi avvolti da una
spolettatrice previa applicazione di un legante. Questa fibra resiste fino a temperature di 650°C;
possiede inoltre elevata resistenza meccanica, è resistente ad agenti chimici, ha basso assorbimento
di acqua, ha un costo inferiore a quello di altre fibre, è durevole e riciclabile, quindi l’impatto
ambientale del uso impiego è ridotto. Rispetto alla fibra di vetro quella basaltica possiede maggior
resistenza a trazione e modulo elastico più elevato, essendo inoltre caratterizzata da resistenza
termica superiore di 150°C. Con essa si realizzano, tra l’altro, fili, reti, tessuti (unidirezionali e multi
assiali), feltri, nastri, che trovano applicazioni svariate (produzione di pale eoliche, cilindri e cisterne,
imbarcazioni, elementi per industria automobilistica, barre di rinforzo del cemento, attrezzi sportivi
ecc.). Molti tessuti di interni di imbarcazioni, vetture e aerei sono ora realizzati con fibre di basalto.
References
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Rocce storiche di Merano
La conca di Merano fu già frequentata nel Mesolitico e successivamente nel Neolitico, come
testimoniato da diversi reperti litici (ad esempio, asce in “pietre verdi” e spole di telai in arenaria). In
epoca romana Merano segnava il confine tra la “X Regio” e la provincia della Rezia: vi passava la via
Claudia Augusta, come testimoniato a Lagundo da un pilone del ponte sull’Adige costruito
dall’Imperatore Claudio nel 50 d.C. Nel Medioevo la città appartenne ai Principi-Vescovi di Trento,
che la diedero in feudo ai conti di Tirolo. Questi la scelsero come capitale: Merano divenne
importante centro economico, decadendo a partire dal 1420 con lo spostamento della capitale tirolese
a Innsbruck. Quando agli inizi dell’Ottocento tornò all’Austria, si trasformò in rinomata stazione di
soggiorno climatico-termale, ruolo che conserva ancora oggi.
Nella città sono state usate inizialmente e fino all’Ottocento solo rocce affioranti in Alto
Adige, oltre che rocce sedimentarie carbonatiche prevalentemente del Trentino. Nel
Novecento si diffuse l’uso di materiali lapidei di altre regioni, mentre ai giorni nostri, come in
ogni città, si utilizzano rocce del mercato globale.
Il Foglio di riferimento della Carta Geologica d’Italia in scala 1:1000.000 è quello Merano,
contraddistinto da due unità tettoniche dell’orogeno alpino, cioè le Alpi Meridionali
(Sudalpino) e l’Australpino, che vengono in contatto lungo un tratto della grande linea di
dislocazione chiamata Insubrica, qui denominata Giudicarie-Pusteria. Le Alpi Meridionali
sono costituite da un basamento cristallino pre-Permiano (paragneiss, micascisti, marmi) e da
una copertura sedimentaria (arenaria) e vulcanica (porfido). L’Austroalpino è rappresentato
da diverse falde, tra cui la Campo-Silvretta (cui appartiene, tra l’altro, il marmo di LasaCovelano).
I materiali lapidei meranesi, utilizzati come rocce da costruzione e/o da ornamento in base
alle proprietà meccaniche ed estetiche, sono essenzialmente quattro e cioè:
-
“Granito “ grigio (granodiorite/granito, metagranito porfirico, tonalite)
-
“Porfido” (riolite, riodacite, ignimbrite)
-
“Arenaria di Val Gardena”
-
Marmo (“Bianco Lasa”, “Bianco Tel”, marmo grigio, marmo a silicati)
Il “Granito Grigio” è rappresentato da rocce magmatiche intrusive, cioè essenzialmente
una granodiorite (Ivigna) e una tonalite (Rieserferner), oltre che da uno gneiss granitoide
porfirico. La fonte di approvvigionamento è stata inizialmente il materiale reperibile nel
fiume Passirio, nel cui greto abbondano i massi facilmente lavorabili anche di grandi
dimensioni. La coltivazione degli affioramenti è stata successiva. La granodiorite è ricca
di autoliti (concentrazioni biotitiche) e di xenoliti. Essa è ottimo materiale da costruzione,
estremamente durevole, che si rinviene nelle costruzioni sotto forma di ciottoli, conci
squadrati (a superficie a spacco, spuntata o rigata), portali, contorno di finestre, scale,
lastre di pavimentazione, fontane, pilastri di ponti, pilastri di cancellate e dissuasori.
Analogo è l’uso del metagranito porfirico, mentre subordinato è quello della tonalite.
Materiali sostitutivi recenti sono il “Granito Sardo” e il “Serizzo Ossolano”.
La roccia più celebre del Trentino-Alto Adige ( “porfido”) è diffusamente usata in
Merano. Si tratta di rioliti, riodaciti e ignimbriti di età Permiana provenienti dalla
Piattaforma Porfirica Atesina. Usato sotto forma di ciottoli nelle parti più antiche delle
murature e di conci squadrati, esso è il materiale per eccellenza delle pavimentazioni per
la grande resistenza all’usura da calpestio. E’ stato inoltre usato nei ponti, nei rivestimenti
delle case (come conci squadrati e come mosaico), in muri e muretti. La varietà più
diffusa ha colore rossastro, subordinata è quella verde-grigia: la combinazione delle due
varietà conferisce una bicromia particolare alle facciate. La sua superficie è a spacco
naturale: solo recentemente è stato impiegato in pavimenti con superficie emilucidata.
Eccezionalmente è stato usato anche a scopo ornamentale (capitelli con bassorilievi). Lo
stato di conservazione è buono, osservandosi solo biodegrado.
La roccia sedimentaria clastica usata in Merano è un’arenaria (“Arenaria di Val
Gardena”) di colore prevalentemente rosso, talora giallo o grigio-beige, appartenente
geologicamente al Sudalpino e in particolare all’omonima Formazione di età Permiano
superiore, presente in un banco potente da 70 a 500 m, che giace in discordanza sul
Porfido da cui proviene e che ha a tetto la Formazione a Bellerophon. In essa sono stati
rinvenuti resti vegetali e impronte fossili (celebre è il giacimento di BletterbachButterloch). Talora essa presenta manifestazioni metalliche, quali quelle a galena, blenda
e pirite sul versante destro della valle dell’Adige tra Merano e Bolzano: essa è stata
intensamente coltivata in passato sia per l’estrazione di metalli che come pietra
ornamentale e da costruzione. Attualmente la sua produzione è ridotta e diretta al restauro
e all’edilizia locale. Petrograficamente si tratta di un’arenaria quarzoso-feldspaticomicacea con cemento siliceo e clasti di vulcaniti. La matrice è argillosa e ricca di ossidi di
ferro che la pigmentano. Storicamente in Merano è stata usata in murature, per
decorazioni interne ed esterne, a contorno di porte e finestre (talora un intonaco rossoviolaceo la imita) e come base di acquasantiere. Le statue realizzate con essa sovente
presentano tracce di pittura o doratura. Il suo stato di conservazione appare buono, dato
l’elevato livello di manutenzione delle costruzioni. Tra i quattro materiali lapidei tipici di
Merano, è il meno durevole per la presenza di argille e per la porosità (Franzen & Mirwald,
2000). Attualmente si fa uso di arenarie di importazione (ad esempio, nella
pavimentazione del piazzale delle terme).
Il marmo usato in Merano è soprattutto quello diffusamente affiorante nella valle Venosta
(Fiora & Ferrarotti, 2001). Il più celebre è quello di Lasa-Covelano, ma tutte le lenti
marmoree nelle vicinanze della città sono state coltivate (ad esempio, marmo di Tel nel
comune di Parcines). Il marmo usato a Merano è bianco puro o grigio o venato, con grana
medio-fine, ben lavorabile e ottimo per sculture nella varietà calcitica pura.
Geologicamente appartiene alla falda Scarl-Campo del basamento metamorfico
Austroalpino, costituito da paragneiss, filladi e micascisti, con intercalazioni di pegmatiti,
gneiss granitici e anfiboliti. La roccia originaria è un calcare Devoniano, che è stato
trasformato in marmo calcitico in età ercinica. Le cave attuali sono in media valle
Venosta a circa 1600 m (Lasa) e a circa 2000 m (Covelano): le prime forniscono le
varietà “Bianco Lasa” e “Listato Lasa”, mentre le seconde quelle “Bianco Covelano” e
“Vena Oro”. La varietà bianca ha colorazione omogenea, talora con piccole macchie
grigie e grana medio-fine. La venatura è data da lamelle brune di flogopite. Già usato
nella preistoria per realizzare menhir, esso è il materiale scultoreo per eccellenza con cui
sono state realizzate in città ornamentazioni architettoniche e statue.
Tra le costruzioni storiche meranesi la più celebre è il Duomo di San Nicolò, simbolo
della città, costruzione gotica realizzata nei secoli XIV e XV con alto campanile e più
volte restaurata nel corso dei secoli (i lavori più recenti risalgono agli anni 1993-1997). I
suoi materiali lapidei sono le tipiche rocce di Merano e cioè l’arenaria, il “porfido”, il
“granito” grigio e il marmo. L’arenaria di Valgardena è usata esternamente e
internamente (pilastri, archi, rosone, pulpito, base acquasantiere, bassorilievi e statue (tra
cui la celebre statua dipinta di San Nicola collocata esternamente). La facciata occidentale
è in gran parte intonacata: nelle lacune si osservano elementi granitici a superficie rigata.
Numerose lapidi l’arricchiscono: il materiale più usato è il marmo locale bianco,oltre al
Calcare Rosso Ammonitico e al Calcare Nero. Dietro l’abside sorge la Chiesa di Santa
Barbara, che risale alla prima metà del Quattrocento. I materiali usati nella sua
costruzione sono gli stessi. In particolare il portale è in arenaria passante a micro
conglomerato.
Il fulcro dell’attività commerciale medioevale era rappresentato dai Portici, strutturati
ancora oggi in lotti stretti e lunghi. La pietra dei pilastri è il “Granito Grigio” o il
“Porfido”, perlopiù intonacato. I portici sono pavimentati in porfido e sono abbelliti da
fontane in “Granito Grigio”.
Nel centro di Merano sorge il quattrocentesco Castello Principesco, nel cui piccolo
cortile interno sono raccolte lapidi ed elementi vari in prevalenza marmorei.
La Chiesa di Santo Spirito è un gioiello gotico in arenaria, porfido e granito. Fondata nel
1271, essa fu totalmente distrutta nel 1419 dall’alluvione conseguente allo straripamento
del Lago della tribolazione in Valle Passiria. I due massi alluvionali granitici antistanti ne
sono la prova.
La Chiesa Evangelica di Gesù Cristo (1883-1885) è in pietra con porfido rosso, porfido
grigio-verde e grano diorite.
La Polveriera è un grosso parallelepipedo poggiante su roccia affiorante, con muratura in
grossi ciottoli e frammenti di pietra, con porta contornata da arenaria e granito.
I ponti sono numerosi. Il cosiddetto “Ponte Romano” risale al Seicento. E’ stato
realizzato in muratura di ciottoli e scapoli con abbondante malta e conci delle arcate in
porfido prevalente su granito. Si ritrova anche la pietra artificiale ricoperta da lastre di
porfido con licheni, mentre la pavimentazione è in lastre di granodiorite. Il Ponte della
Posta (1906) è in pietra artificiale con decorazioni in ferro battuto. Il porfido protegge le
parti a contatto con l’acqua e costituisce la pavimentazione stradale sotto forma di cubetti.
Altri ponti son quello del Teatro e quello delle Terme.
Tra le varie costruzioni neoclassiche e liberty si ricorda il Teatro Puccini, con facciata
parzialmente in marmo (pannelli decorativi in marmo di Lasa e colonne in un marmo
grigio a grana grossa e il Kurhaus, costruzione intonacata con ornamentazione in pietra
artificiale. La Merano “moderna” vede l’impiego di rocce di altre regioni italiane (ad
esempio, ceppo, travertino, botticino).
Anche le antiche mura con porte della città sono in pietra: la quattrocentesca Porta
Bolzano è in porfido e in granito.
La pietra è inoltre elemento di arredo dei numerosi giardini, sia come affioramento che
come elemento costruttivo o decorativo. I giardini della Passeggiata Lungo Passirio
furono creati dopo la costruzione dell’argine successivo all’alluvione del 1817. Al Ponte
della Posta essa si sdoppia in Passeggiata d’Estate (che inizialmente presenta il Giardino
di Elisabetta con la celeberrima statua in marmo di Lasa di Hermann Klotz dedicata
all’Imperatrice d’Austria e Regina d’Ungheria) e in Passeggiata d’Inverno. Dopo il Ponte
Romano si prosegue con la Passeggiata Gilf fino a Castel San Zeno. Altra passeggiata
celebre è quella Tappeiner: singolare lungo essa l’affioramento roccioso levigato
dall’azione glaciale e segnalato con una targa. In generale nelle aiuole di questi giardini è
usato il porfido, in idoneamente sostituito da tufo laziale. I giardini più celebri sono quelli
di Castel Trauttmansorf: qui l’ingresso è un edificio rivestito da lastre lucidate di un
particolare “granito”, cioè un metaconglomerato rosso brasiliano. Il castello è stato
realizzato con porfido e granito: l’ornamentazione è in marmo di Lasa. Prevale ovunque il
porfido nei muretti e nelle pavimentazioni. Elementi di arredo sono grossi massi fluviali
in granodiorite e blocchi informi di gneiss, micascisti e rioliti. Alcune fioriere sono in
Tonalite dell’Adamello. Le rocce regionali sono l’oggetto del”Mosaico Geologico”, carta
geografica in ceramica con blocchi e ciottoli dei più tipici litotipi (porfido quarzifero di
Bolzano, arenaria di Valgardena, vulcanite nera Triassica, dolomia dello Schiliar, dolomia
principale, paragneiss, scisto, tonalite Rieserferner, gneiss fittamente ripiegato, fillite,
marmo di Lasa, gneiss granitoide porfirico, granodiorite Ivigna, quarzite e anfibolite
granatifera). Diverse litologie alpine compaiono anche nel giardino giapponese, mentre il
padiglione “Piante ornamentali da tutto il mondo” è costituito da blocchi di pietra che
rappresentano i vari continenti: migmatite rossa per Australia, marmo di Carrara per
Europa, oficalce per America, “Granito Nero “ per Africa e calcare beige per Asia. Un
ciottolame in marmo di Lasa è la base dell’organo di bambù.
Lo stato di conservazione di tutte le tipologie di costruzioni in Merano appare buono per
la costante manutenzione. Tra le forme di degrado si segnala la crosta nera su qualche
lapide marmorea del Duomo e il degrado biologico sul porfido. Le calamità naturali
hanno comunque influenzato molto il degrado. Innanzitutto le piene del fiume Passirio
hanno arrecato gravi danni ad esempio alla Chiesa di Santo Spirito, che è stata ricostruita.
Inoltre l’area di Merano è soggetta a forti terremoti causati dal lento movimento della
microplacca adriatica verso l’avampaese europeo. L’importante linea tettonia Insubrica (o
Periadriatica), che dal Passo del Tonale attraversa la città nei pressi di Castel San Vigilio
per proseguire in valle Pusteria, separando l’Austroalpino a Nord dalle Alpi Meridionali a
Sud, è causa di degrado sismico, a cui si è sempre ovviato con idonee tecniche costruttive
e con interventi di restauro.
PRINCIPALI STONES DELL’ALTO ADIGE
-
Porfido Val Sarentino e Val d’Ega (Bolzano)
-
Arenaria Val Gardena Provincia di Bolzano
-
Marmo Lasa-Covelano
-
Marmo di Vipiteno (attualmente usato per produrre calce)
-
Grune Quartzit Val di Vizze, Vipiteno (Bolzano)
-
Serpentino di Fundres Val di Fundres (Bolzano)
Si ricorda inoltre nella regione atesina l’uso storico ornamentale di altri marmi (ad
esempio, aVipiteno) e di deversi “graniti” (ad esempio, Granito di Bressanone). Tra
le pietre contemporanee è stato coltivato negli ultimi anni un “granito”,
petrograficamente una pegmatite, commercialmente detto “Plima Granitpegmatit”.
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Marmo Fior di Pesco Carnico
Il Fior di Pesco Carnico è un pregiato marmo con caratteristiche estetiche uniche. Il suo colore è
grigio/bianco con vene e plaghe avorio, rosa e gialle. L’Arch. Cesar Pelli , che lo ha utilizzato in
significative costruzioni ha sottolineato che esso“si armonizza con tutti gli altri marmi, accordandosi
molto piacevolmente perché contiene in sé tutti i vari colori”. Il materiale estratto in Carnia
(metacalcare) è uno speciale “Fior di Pesco”. Esso ha un antenato celeberrimo, cioè il “Marmor
Chalcidicum”o “Fior di Pesco Greco”, calcare cataclastico usato localmente in età ellenistica, molto
apprezzato dai Romani che lo diffusero in tutto l’Impero: Lazzarini (2007) segnala, tra l’altro, un
caso unico di impiego che è significativo del suo pregio, cioè una tavola da gioco conservata nel
museo di Avenches in Svizzera. Questo marmo antico fu poi di larghissimo riuso in epoca barocca
(Lazzarini, 2004). I suoi impieghi furono pavimenti, rivestimenti parietali, colonne e piccole vasche.
La caratteristica di questo materiale greco è di essere alquanto eterogeneo cromaticamente, con plaghe
bianche o grigie alternate ad aree rosa, rosse o brune. Anche se il colore rosa come quello del fiore del
pesco è limitato, esso ha dato il nome alla roccia, che fu molto apprezzata nell’antichità e di cui
furono ricercati materiali simili in altre aree. Oltre al materiale friulano si ricorda il “Fior di Pesco
Classico” delle Apuane, metabreccia molto usata in Toscana dai Medici. “Fior di Pesco” è pertanto un
termine generico applicato a marmi di varia colorazione con una componente rosa o rosa-violacea
(Fiora, 2007).
La storia della scoperta del “Fior di Pesco Carnico”iniziò nel cimitero di Forni Avoltri dove sono
conservate alcune lastre cimiteriali di particolare bellezza lavorate dai locali scalpellini che le avevano
recuperate nei massi fluviali del torrente. Fu colpito dalla bellezza del marmo Rinaldo Colledan che
scoprì il giacimento nel 1923, dopo averlo individuato in queste lapidi funerarie di rara bellezza per la
venatura rosata (“Il cimitero di Forni Avoltri è una superba raccolta di marmi meravigliosi”, scrisse il
Colledan dopo averlo visitato nel 1922 in occasione di un funerale a un parente). Rimase anche
colpito dall’accurata lavorazione di queste tombe, volendo conoscere personalmente gli scalpellini
che le avevano realizzate e che avevano appreso il mestiere a Klagenfurt in Austria ai primi del
Novecento. Con essi risalì il fiume Degano e individuò l’affioramento marmoreo. Interpellò il Prof.
Michele Gortani dell’Università di Bologna, che relazionò su questi materiali (“I calcari marmorei di
Pierabach sono di due tipi, bianco-venati e violaceo-fettucciati…Sono tra i marmi più antichi d’Italia
spettando ai primi periodi del Paleozoico. Le tinte sono bellissime e possono competere
vittoriosamente con quelle dei migliori fra i nostri marmi colorati…”). Fino al 1927 Colledan gestì la
cava da solo. Poi si associò all’Industria Marmi Vicentini, che è attualmente l’azienda Margraf di
Chiampo, titolare in esclusiva della concessione dei diritti di scavo. Negli anni Sessanta del
Novecento la coltivazione avvenne in cinque cave (Avanza, Navastol, Zocclas e Bordaglia, Carulli &
Onofri, 1966), alcune delle quali lavorarono trovanti. Le maestranze della cava Avanza sono sempre
state altamente specializzate. Ne è prova il loro impiego nel taglio dei templi di Abu Simbel in Alto
Egitto al fine dello spostamento per la costruzione della diga di Assuan.
Macroscopicamente il Fior di Pesco della Carnia è un marmo venato, di colore di fondo bianco/grigio
e vene e plaghe rossee-persi chine talora violacee. Compare anche una tonalità avorio. Il pigmento è
ematitico - manganesifero. La calcite è il componente mineralogico fondamentale, assai subordinati
sono il quarzo, il feldspato e la dolomite.
Il sito estrattivo del Fior di Pesco Carnico (Cava Avanza) è in un ambiente naturale di rara bellezza,
nel comune di Forni Avoltri (Udine) in località Pierabech circa 4 chilometri dall’abitato, sulle pendici
orientali del monte Navastolt nel gruppo del monte Avanza in sponda destra del torrente Degano (area
occidentale delle Alpi Carniche). Il Fior di Pesco è una roccia antichissima: infatti è di età Devoniana
(410 – 355 milioni di anini fa). Esso è collocato alla base di una scaglia tettonica appartenente
all’Unità dei Marmi Massicci del basamento cristallino (metacalcari e metacalcari dolomitici con
listature di età Siluriano p.p. – Devoniano). Numerose fratture interessano la formazione potente circa
450 m. Essi sono in contatto tettonico con metapeliti e metarenarie molto pieghettate con colore
dominante violaceo, più raramente verdastro, di cui si riconoscono diversi blocchi informi sul piazzale
di cava. All’interno della massa calcarea dei Marmi Massicci si trova il giacimento di Fior di Pesco,
limitato a tetto da metacalcari neri.
La denominazione Fior di Pesco Carnico è marchio registrato. Il materiale è adatto all’uso in esterni
perché resistente al gelo. Esso è prodotto sotto forma di blocchi, lastre, modulmarmo e lavorati
speciali. L’80% della produzione è esportata (soprattutto Stati Uniti, Cina, India).
La cava a cielo aperto dalla fine degli anni Venti del Novecento ai giorni nostri ha prodotto 250.000
tonnellate di grezzo al netto degli sfridi con una resa lorda di quattro milioni di m2 per lo spessore
convenzionale di 2 cm (Carlo Montani, comunicazione personale).
Il pregio estetico del marmo è notevole (Pieri, 1964). Usi celebri storici sono pavimenti e rivestimenti
di vari edifici italiani, quali la “Palazzina Reale” della stazione ferroviaria di Firenze (1935), le
stazioni ferroviarie di Milano (1930) e di Venezia (1956), il Palazzo Mostra del Cinema a Venezia
(1938), La Banca Nazionale del Lavoro di Milano (1952), Genova (1953), Mantova (1955) e Roma
(1940), il Casinò di Venezia (1959), l’Istituto Agronomico di Firenze per l’Africa Italiana (1940),
l’interno della Cattedrale di Vittorio Veneto (TV) (1942-1944), l’albergo Astoria a Livorno (1950), la
Banca d’Italia a Como (1951-1953), il Santuario del Sacro Cuore a Milano (1955), la Cassa di
Risparmio di Firenze (1957), la sede RAI di Torino (1968) e in Roma il Palazzo del Governatore
(1938), l’ingresso del Supercinema (1948) e il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari
all’EUR (1960) .
Usi recenti significativi sono: Coca Cola Building (Atlanta, Arch. Heery & Heery, 1985), Canary
Wharf Main Tower (Londra, Arch. Cesar Pelli, 1986) Winter Garden di New York (Arch. Cesar Pelli,
1987), interni di edifici in Washington D.C. e Forth Worth (Texas) e Kuwait Insurance Company
(Kuwait City, Arch. Serge Georges Khalaf, 2002.
La sapiente posa a libro aperto e soprattutto a macchia aperta aumenta il pregio delle superfici
lucidate di elementi di varia dimensione,
La coltivazione avviene nel rispetto dell’ambiente alpino, rappresentando un fattore positivo per
l’economia locale di Forni Avoltri. Essa avviene con tre seghe a filo diamantato e una segatrice a
catena. Il fronte di cava si inserisce nel paesaggio circostante caratterizzato da creste rocciose e
accumuli di detrito di falda diffusi tra i boschi. L’accumulo antropico del materiale scartato e
collocato a valle della cava è stato rinverdito totalmente. E’ in previsione il rimodellamento
morfologico oltre che la rinaturazione di tutte le aree circostanti la cava. Il progetto ambientale
finalizzato alla conservazione e valorizzazione della risorsa è oggetto di costante attenzione da parte
dell’azienda.
I blocchi informi sono localmente riutilizzati come materiale da scogliera negli argini fluviali. Il
materiale di pezzatura inferiore è riutilizzato nel ripristino ambientale. In parte si realizza anche una
graniglia di vario uso.
References
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Giorgio Zusi Editore, Verona, 73-78
Le risorse lapidee di Guardialfiera nel Molise
“ La costituzione de’ monti è di calcare grossolana e terrosa, disposta a strati alti, e
divisa tratto tratto da crepacci, alcuni de’ quali … sembrano prodotti da terribili
cataclismi”
La descrizione fatta nel 1836 da G.Del Re1 riassume bene la morfologia del territorio di Guardialfiera
e, per molti aspetti, è estensibile a molti altri comuni del Molise. Dal punto di vista litoapplicativo il
Molise è ricco di “pietre” (rocce sedimentarie carbonatiche, calcareniti e calcari) più o meno
compatte che sono state diffusamente impiegate nelle costruzioni storiche più significative, ma
anche nella edilizia locale più minuta influendo in maniera pesante, talvolta determinante, sulle
procedure della costruzione e sull’economia locale. Un esempio significativo è Guardialfiera2, località
che presenta una ricca storia di utilizzo dei materiali lapidei locali, essenzialmente biocalcareniti, e
che oggi sembrano vivere un momento di rinnovato interesse sia per interventi di restauro che per
nuove costruzioni.
Dal punto di vista geologico a Guardialfiera c’è un importante contatto tra due unità stratigraficostrutturali, che durante l’orogenesi appenninica si sono sovrapposte verso est ai terreni
dell’Avanfossa Bradanica e dell’Avanpaese Apulo: sono le Unità M. Pizzi-Agnone e Colle dell’AlberoTufillo e Unità Monti della Daunia (Vezzani3). La prima si sovrappone alla seconda lungo un fronte di
sovrascorrimento ad andamento NW-SE che taglia a metà l’abitato di Guardialfiera, isolando dal
resto del paese il nucleo meridionale su cui sorge l’antica cattedrale di Santa Maria Assunta che è
impostata su calcilutiti, calcari marnosi e marne di colore beige con intercalazioni di biocalcareniti
della Formazione Tufillo di età Tortoniano-Serravalliano. Ad Est dell’edificio affiorano marne grigie
passanti al tetto ad arenarie/argille della Formazione Messiniana di Vallone Ferrato.
Il materiale lapideo tradizionalmente impiegato può essere suddiviso in pietre di torrente (“pietre
lisce del vallone”4 tratte prevalentemente dal Cervaro, che nasce dal Monte Mauro e si immette nel
Biferno) e pietre di cava5. Assimilabili alle pietre di torrente sono quelle ottenute per bonifica
1
G.Del Re, Descrizione topografica fisica, economica, politica de’ Reali dominj al di qua del faro nel Regno delle
due Sicilie, III, Napoli 1836.
2
A.Aquilano, Tradizioni costruttive nel Basso Molise. L’area di Guardialfiera, tesi di laurea in Architettura
(rel. L.Marino), Firenze 1996-97.
3
L.Vezzani, Carta Geologica del Molise. SELCA, Firenze 2004.
4
Progetto e stato estimativo della spesa per la costruzione della Strada Maestra nel Comune di Guardialfiera
dalla Torretta fino al Camposanto, 14 marzo 1844, A.S.Cb., fondo Intendenza di Molise, b. 517, f. 10.
5
In una lettera del 21 settembre 1924 (Corpo Reale del Genio Civile, Ufficio di Campobasso in ASCCB, b. 77,
f. 360) sono ricordate diverse cave. La prima “trovasi vicino allo scoscendimento franoso che scende sul
Vallone della Terra … a picco sul Vallone di modo ché le pietre dopo scavate se ne scendono sul vallone. Più
sotto … trovasi una cava di sabbia … La detta cava non è in esercizio, ma annualmente franando, rotola
materiale buono sia per la muratura interna che per il paramento”. La seconda cava è collocata alla “sommità
agricola, cioè raccolte nei campi e che sono state impiegate, nella maggior parte dei casi, negli
apparecchi murari dell’edilizia rurale previo sommarie lavorazioni a spacco e allettamenti di malta
grossolana (alle angolate venivano comunque riservate preferibilmente pietre di cava e, non di rado,
laterizi).
Le cave di pietra di Guardialfiera6 si presentano, sotto uno strato di terra, in strati pseudorizzontali
calcarei (intervallati da livelli di terra), ben stratificati, di spessori variabili caratterizzati, a seconda
del livello, da materiali tendenti al bianco (quelli superiori), al giallo, al rossiccio e al marrone, fino al
grigio-nero. Della decina dei materiali riconoscibili macroscopicamente soltanto tre sembrano
essere definiti con una denominazione caratteristica: quella bianca (paglierino 1), la avana/marrone
(paglierino 2) e la noce (o nocino). Le proprietà fisico-meccaniche di queste varietà commerciali sono
riassunte in Tab. 1.
La pietra bianca è stata impiegata soprattutto per basolati e per la formazione di elementi di
apparecchio murario7 di varia forma e pezzatura, mentre la marrone è stata impiegata
prevalentemente per cordonature e selciati di marciapiedi vista la buona resistenza alla gelività. La
pietra noce, coltivata a profondità maggiori e certamente più rara (ma di non minore lavorabilità), è
stata tradizionalmente riservata alla realizzazione di elementi di maggiore pregio: rivestimenti,
caminetti e, sia pure più raramente, portali8 e altari9. In tutti i casi, dopo una sommaria lavorazione
di spianatura delle facce (attozzatura) e regolarizzazione degli spigoli, eseguita a pie’ d’opera
piuttosto che in cava10, con un martello a punta (martiell p’attozza’) e talvolta Le cave di pietra di
della stradetta che va verso Lupara, dove si voleva fare una volta il ponte” mentre l’altra si trova “a monte della
frana, verso la masseria di Baranello”.
Un’altra cava è segnalata in contrada Maccarone il 6 ottobre dello stesso anno (Progetto dei Lavori di
consolidamento dell’abitato di Guardialfiera minacciato da frane. Analisi dei prezzi, in A.S.Cb., fondo Genio
Civile II, b.77, f.360). Altre cave storiche sono note in Contrada Morricini e Valle Cupa.
6
Le indagini sulle risorse lapidee del Molise, tra i fiumi Trigno e Biferno, svolte da R.Nevini e PG.Malesani
(Pietre parlanti. Giacimenti ed analisi petrografiche, Firenze 2002) hanno preso in considerazione anche le
cave di Guardialfiera in località Valle Cupa (calcarenite avana, calcarenite beige e biancastra) e Frassino
(calcarenite beige laminata).
7
F.Jovine (Viaggio nel Molise, Campobasso 1967) descrive Guardialfiera come “…tutta di pietra: chiara, dura,
di minutissima grana adatta all’arte degli impareggiabili scalpellini che hanno inciso fregi araldici sui portali, e
tagliati con grazia i sostegni dei balconi e delle finestre”. L’ex cattedrale dedicata a S.M.Assunta (A.Caruso,
L’antica Cattedrale di Guardialfiera, Campobasso 2005) rappresenta l’elemento di maggiore interesse.
L’attuale edificio è il risultato delle ricostruzioni postsisma del 1688, ma numerosi elementi scultorei inseriti
nella muratura confermano una datazione all’epoca longobarda. La cripta è dell’XI secolo.
8
A Guardialfiera sopravvivono, in buone condizioni, portali databili tra ‘700 e ‘800 ma talvolta più recenti
(metà del 1900) spesso decorati ad altorilievo. Le mensole dei balconi e alcune finestre sagomate costituiscono
elementi ai quali si dovrebbero prestare maggiori attenzioni e impegni nella manutenzione. Di grande interesse,
perché sempre più rari, sono manufatti in pietra scavati a formare vasche e trogoli.
9
Si tratta di altari apparecchiati con uno/due tipi di pietra nei quali, più frequentemente, sono incastonate lastre
di pietre colorate.
10
Di solito le scaglie e i frammenti che ne risultavano venivano impiegati come pulci da usarsi nel sacco di
riempimento tra i due paramenti posti a serrare i mazziacan e zavorrre costituiti da sassi non utilizzabili come
elementi di cortina. Il Capitolato Speciale d’Appalto per lavori di consolidamento della parte nordest dell’abitato
di Guardialfiera del 1934 (A.S.Cb., Fondo Genio Civile II, b 76, f. 359) prevede che “la pietra da adoperarsi per
ogni lavoro sarà di natura calcarea e di struttura compatta, sana, dura, convenientemente resistente alla pressione
e di qualità riconosciuta inalterabile all’azione dell’acqua , del gelo e delle altre vicende atmosferiche” mentre la
pietra da taglio “dovrà essere di qualità dura e resistente , sarà senza peli, caranfole, sfaldature od altro difetto
che la rendano meno adatta all’uso cui deve servire”. La costruzione della muratura “dovrà farsi progredire a
strati orizzontali … i vani fra pietra e pietra (devono) essere i più piccoli possibili (e) ogni pietra dovrà essere
completamente avviluppata di malta e fortemente battuta col martello … e la malta dovrà rifluire”.
Guardialfiera11 si presentano, sotto uno strato di terra, in strati pseudorizzontali calcarei (intervallati
da livelli di terra), ben stratificati, di spessori variabili caratterizzati, a seconda del livello, da materiali
tendenti al bianco (quelli superiori), al giallo, al rossiccio e al marrone, fino al grigio-nero. Della
decina dei materiali riconoscibili macroscopicamente soltanto tre sembrano essere definiti con una
denominazione caratteristica: quella bianca (paglierino 1), la avana/marrone (paglierino 2) e la noce
(o nocino). Le proprietà fisico-meccaniche di queste varietà commerciali sono riassunte in Tab. 1.
La pietra bianca è stata impiegata soprattutto per basolati e per la formazione di elementi di
apparecchio murario12 di varia forma e pezzatura, mentre la marrone è stata impiegata
prevalentemente per cordonature e selciati di marciapiedi vista la buona resistenza alla gelività. La
pietra noce, coltivata a profondità maggiori e certamente più rara (ma di non minore lavorabilità), è
stata tradizionalmente riservata alla realizzazione di elementi di maggiore pregio: rivestimenti,
caminetti e, sia pure più raramente, portali13 e altari14. In tutti i casi, dopo una sommaria lavorazione
di spianatura delle facce (attozzatura) e regolarizzazione degli spigoli, eseguita a pie’ d’opera
piuttosto che in cava15, con un martello a punta (martiell p’attozza’) e talvolta scalpelli a punta e
taglio, l’elemento lapideo veniva sottoposto a diverse tipologie di finitura (prevalentemente la
schiantinatura, la puntillatura e, più recentemente, la bocciardatura a seconda dell’uso previsto
dell’elemento finito e, cosa non secondaria, del costo che il committente avrebbe potuto sostenere.
La composizione di queste rocce sedimentarie carbonatiche16 è data in prevalenza dal carbonato di
calcio (calcite), il cui tenore varia da 94 a 99%, essendo inoltre presenti minerali argillosi e talora
quarzo. I granuli sono sia intraclasti (15-25%) che bioclasti (25-75%) rappresentati da foraminiferi,
11
Le indagini sulle risorse lapidee del Molise, tra i fiumi Trigno e Biferno, svolte da R.Nevini e PG.Malesani
(Pietre parlanti. Giacimenti ed analisi petrografiche, Firenze 2002) hanno preso in considerazione anche le
cave di Guardialfiera in località Valle Cupa (calcarenite avana, calcarenite beige e biancastra) e Frassino
(calcarenite beige laminata).
12
F.Jovine (Viaggio nel Molise, Campobasso 1967) descrive Guardialfiera come “…tutta di pietra: chiara, dura,
di minutissima grana adatta all’arte degli impareggiabili scalpellini che hanno inciso fregi araldici sui portali, e
tagliati con grazia i sostegni dei balconi e delle finestre”. L’ex cattedrale dedicata a S.M.Assunta (A.Caruso,
L’antica Cattedrale di Guardialfiera, Campobasso 2005) rappresenta l’elemento di maggiore interesse.
L’attuale edificio è il risultato delle ricostruzioni postsisma del 1688, ma numerosi elementi scultorei inseriti
nella muratura confermano una datazione all’epoca longobarda. La cripta è dell’XI secolo.
13
A Guardialfiera sopravvivono, in buone condizioni, portali databili tra ‘700 e ‘800 ma talvolta più recenti
(metà del 1900) spesso decorati ad altorilievo. Le mensole dei balconi e alcune finestre sagomate costituiscono
elementi ai quali si dovrebbero prestare maggiori attenzioni e impegni nella manutenzione. Di grande interesse,
perché sempre più rari, sono manufatti in pietra scavati a formare vasche e trogoli.
14
Si tratta di altari apparecchiati con uno/due tipi di pietra nei quali, più frequentemente, sono incastonate lastre
di pietre colorate.
15
Di solito le scaglie e i frammenti che ne risultavano venivano impiegati come pulci da usarsi nel sacco di
riempimento tra i due paramenti posti a serrare i mazziacan e zavorrre costituiti da sassi non utilizzabili come
elementi di cortina. Il Capitolato Speciale d’Appalto per lavori di consolidamento della parte nordest dell’abitato
di Guardialfiera del 1934 (A.S.Cb., Fondo Genio Civile II, b 76, f. 359) prevede che “la pietra da adoperarsi per
ogni lavoro sarà di natura calcarea e di struttura compatta, sana, dura, convenientemente resistente alla pressione
e di qualità riconosciuta inalterabile all’azione dell’acqua , del gelo e delle altre vicende atmosferiche” mentre la
pietra da taglio “dovrà essere di qualità dura e resistente , sarà senza peli, caranfole, sfaldature od altro difetto
che la rendano meno adatta all’uso cui deve servire”. La costruzione della muratura “dovrà farsi progredire a
strati orizzontali … i vani fra pietra e pietra (devono) essere i più piccoli possibili (e) ogni pietra dovrà essere
completamente avviluppata di malta e fortemente battuta col martello … e la malta dovrà rifluire”.
16
Le rocce molisane qui prese in esame rientrano nella categoria commerciale dei “marmi” beige, rappresentati
in prevalenza da calcari (limestones), cioè da rocce sedimentarie formatesi per precipitazione del carbonato di
calcio da una soluzione presente in un bacino marino o lacustre, la cui colorazione è legata alla dispersione di
poche p.p.m. di ferro. Spesso queste rocce di deposizione chimica sono anche ricche di fossili o contengono una
frazione detritica (calcareniti/biocalcareniti).
lamellibranchi, echinodermi e briozoi, immersi in una matrice micritica/microsparitica e con
cemento calcitico. La colorazione dipende dalla percentuale in idrossidi di ferro (goethite/ferrydrite)
e ossidi di ferro (ematite). Questi minerali cromofori sono anche concentrati in anelli di Liesegang,
cioè in anelli secondari concentrici causati da precipitazione ritmica in una roccia satura di fluidi17.
Talora le bande ritmiche risultano fagliate con ricristallizzazione di calcite spatica in vene.
Dopo un periodo di quasi totale abbandono del materiale lapideo, soprattutto a partire
dall’immediato dopoguerra quando si è diffuso l’uso del laterizio industriale e il cemento armato,
esso sembra destare oggi nuovi interessi. Usata prevalentemente per rivestimenti/pavimentazioni
sia per interni che per esterni, oltre che per per elementi decorativi, la pietra di Guardialfiera ha
denotato un po’ alla volta la ripresa di impieghi anche strutturali18, in coerenza con la lunga
tradizione locale19. Le cave di Guardialfiera20 sono localizzate il località Valle Cupa (cava a cielo
aperta attiva) e in località Frassino (in corso di riapertura). Le cave storiche presentano lunghi fronti
sub verticali alti circa 30 metri e potenzialmente coltivabili fino a un centinaio di metri21. I laboratori
(loc. Frassino) assicurano una buona lavorazione semindustriale, pur essendo sempre più impegnati
a potenziare le lavorazioni artigianali.
Si ricorda inoltre la produzione di oggettistica e di sculture, realizzate con grande cura da artisti
locali, che nelle loro opere sapientemente valorizzano le caratteristiche petrografiche delle diverse
varietà merceologiche. roprietà fisico-meccaniche delle diverse varietà di Pietra di Guardialfiera
17
K.K.E.Neuendorf, J.P.Mehl Jr., J.A.Jakson, Glossary of Geology. American Geological Institute Alexandria,
Virginia 2005.
18
Le pietre di Guardialfiera trovano un ottimo impiego nel restauro degli edifici monumentali dell’area, come
per esempio la ex-cattedrale (M.Civita, 1975) e il castello di Civitacampomarano (C.Civerra, 1995) ma anche
per le riparazioni dei danni causati dal sisma che ha colpito la regione nell’ottobre 2002.
19
Testimonianze significative della tradizione dell’uso della pietra nel Molise sono in A.De Marinis, Il culto
della pietra a Civitacampomarano, Firenze 1992, M. di Tullio, Scalpellini e stuccatori di Pescopennataro,
Agnone 2003. A Oratino è in previsione il Museo della Pietra e una scuola per scalpellini nelle cave comunali
dismesse (nello stesso comune, intanto, sono state scoperte e sequestrate due cave abusive capaci di fornire
15.000 m3 di materiali laapidei).
20
Di proprietà della Eurocave srl.
21
Una campagna di rilievi dei fronti delle cave storiche di Guardialfiera da parte del Dires dell’Università di
Firenze è stata avviata nell’ambito dei programmi di ricerca e didattici previsti dal Centro di documentazione e
formazione nel settore dei Beni Culturali e Architettonici (istituito ai sensi dell’Ordinanza PCM n. 3268/03 –
Art. 15 e approvato con delibera CIPE n. 32/04) e che avrà sede nel castello di Civitacampomarano. Questo
progetto parte dalla necessità di una riflessione sulle modalità di intervento sul patrimonio edilizio tradizionale
in un territorio come quello molisano caratterizzato dalla frequente presenza di eventi traumatici (terremoti,
alluvioni, frane…), generalizzati livelli di abbandono con forme di degrado e dissesto avanzate e una sempre più
grave perdita di conoscenze e abilità operative.
Tab. 1 – Proprietà fisico-meccaniche delle varietà di Pietra di Guardialfiera
Nome
Nome
Composizione Peso
Commerciale Petrografico mineralogica Specifico
(%)
Assorbimento Carico
di
rottura
a
d’acqua
compressione
(% in peso)
(Kg(cm2)
Calcite (94%), 2.70
quarzo,
argille
4.85
0.23
1050
Biocalcarenite
4.83
0.19
1000
(colore beige)
Calcite (95%), 2.69
argille, ossidi
e idrossidi di
ferro
Paglierino 2 Bio(colore avana) calcarenite
Calcite (99%), 2.70
argille
5.19
0.19
1300
Paglierino 1 Bio(colore
calcarenite
bianco)
Noce
Porosità
Fiora L., Alciati L. (2008) – Valorizzazione di siti estrattivi nell’isola di Favignana. Atti Convegno “Le
risorse lapidee dall’antichità ad oggi in area mediterranea”, ADDENDUM, Canosa di Puglia 25-27
settembre 2006, GEAM, Torino, 31-35
VALORIZZAZIONE DI SITI ESTRATTIVI NELL’ISOLA DI FAVIGNANA
Abstract
Favignana Stone is an important example of historic stone materials in Italy: intense quarrying activity has left
important and by now inseparable traces in the natural environment. Valorisation of the history of the island,
to a great extent also the history of this stone, recovery of space for tourist facilities without spoiling the
territory with new buildings and the assurance of economic benefits allowing continued quarrying activity
have seen old quarry sites with adjacent old buildings renovated and turned into hotels.
1. Introduzione
Nell’isola di Favignana (Egadi, Sicilia Occidentale) è coltivata fin dal passato una biocalcarenite quaternaria,
molto porosa, di facile estrazione e lavorabilità, la Pietra di Favignana, impropriamente detta anche “Tufo” o
“Tufo Conchigliare”. Il paesaggio dell’isola con le sue caratteristiche geologico-geomorfologiche, le cavità
geometrizzate delle antiche cave e il costruito è riconosciuto essere un complesso e autentico “monumento” e
un bene eccezionale (Regione Siciliana, Decreto 25 settembre 2003).
La Pietra di Favignana appartiene alla stessa Formazione della Pietra di Trapani, affiorante nella Sicilia
Occidentale sul litorale di Marsala e nella zona di Erice e Paceco, intensamente coltivata per l’edilizia storica
trapanese. Rodolico (1953) ne sottolineò l’importanza nel costruito, definendole “pietre docili al ferro specie
quando siano pregne d’acqua di cava”. Nella città di Trapani l’uso di cantoni di queste calcareniti fossilifere
grossolane è diffuso fin dal Quattrocento: a causa dell’elevata porosità i conci furono spesso trattati con olio
di lino per aumentarne la durabilità.
La roccia di Favignana è un materiale da costruzione che ha avuto anche uso ornamentale in elementi
architettonici finemente lavorati e che, nell’isola, in una varietà più fine, rappresenta ancora oggi materiale da
scultura per pregevoli lavori di intaglio. Essa è un’importante pietra italiana e rientra tra le pietre storiche del
bacino mediterraneo (Fiora & Alciati, 2005).
La roccia del costruito favignanese testimonia il passaggio di tanti dominatori (Saraceni, Normanni, Angioini,
Aragonesi e Genovesi): la calcarenite è stata infatti diffusamente utilizzata nelle diverse epoche storiche,
anche con accorgimenti pratici per renderla più durevole nell’ambiente marino permeato di sali: sovente,
infatti, i conci furono sottoposti a un trattamento protettivo a base di olio di tonno.
L’attività estrattiva di questa pietra fa ormai parte integrante del paesaggio favignanese. Le antiche cave
risultano essere “sculture a scala territoriale” (Regione Siciliana, Decreto 25 settembre 2003). Sovente esse
sono state trasformate in orti, frutteti e vigneti, sì che la coltura agricola appare intimamente connessa
all’attività estrattiva.
Al fine di incrementare l’attività turistica senza intervenire con nuove costruzioni e per valorizzare il ricco
patrimonio di conoscenze e tradizioni di questa pietra, la passata attività estrattiva è stata sfruttata per la
costruzione di hotel.
2. Inquadramento geologico della Pietra di Favignana
Il rilevamento geologico di dettaglio delle isole Egadi e in particolare quello dell’isola di Favignana fu
effettuato attorno agli anni Cinquanta del Novecento dai rilevatori del Servizio Geologico d’Italia (Malatesta,
1955). Lavori ottocenteschi segnalavano solo la presenza di questa roccia (Baldacci, 1886). Al 1919 risale la
descrizione del suo contenuto fossilifero (Gemmellaro, 1919). La geologia è descritta in Catalano & D’Argenio
(1982), le indagini paleogeografiche sono opera di Agnesi et al. (1993), il quadro tettonico è approfondito da
Nigro et al. (2000). Il settore Eguseo della catena montuosa nord-occidentale siciliana comprende le isole
Egadi (le principali delle quali sono Favignana, Marettimo e Levanzo) e il loro off-shore: su un substrato
carbonatico e terrigeno di età mesozoico-terziaria poggiano in discordanza rocce plio-quaternarie. Favignana,
in particolare, è caratterizzata da una dorsale mesozoica con andamento N-S (il Monte Santa Caterina, alto
302 m, detto anche la “Montagna Grossa”), composta da calcari, calcari dolomitici, dolomie, marne e da due
regioni pianeggianti ad E e ad W: in quello orientale affiorano le biocalcareniti, di età Pleistocene inferiore,
presenti anche in parte in quello occidentale al di sopra dei calcari mesozoici, talora con intercalazione di livelli
conglomeratici. Tre sistemi di faglie dislocano tutti i terreni.
3. Riuso di siti estrattivi
L’estrazione è ben evidente in tutta l’isola: soprattutto la parte orientale è ricchissima di siti estrattivi, piccoli e
grandi, che appartengono ormai al patrimonio naturale dell’isola; geologia e coltivazione della pietra sono
inscindibilmente connesse ovunque e addirittura l’impianto urbano è condizionato fortemente dai siti
estrattivi storici, sviluppandosi attorno e in essi. La quantità di roccia estratta è stata veramente notevole,
risultando il piano campagna, nella parte orientale dell’isola, abbassato fino a 20 m di profondità ed essendo
tutto il centro storico e la maggior parte delle abitazioni al di fuori di esso costruiti in vecchie cave. Ovunque ci
si imbatte in case che sfruttano le antiche cave e comuni sono al loro interno i giardini ipogei, dove l’uomo da
sempre coltiva gli alberi da frutta al riparo dai venti e dove fioriscono esotici fiori. Quindi cava recuperata a
casa, cava trasformata in giardino, ora anche cava adibita ad hotel.
4.Valorizzazione turistica delle cave
Nell’ottica della valorizzazione dei siti estrattivi dismessi, un edificio di supporto allo svolgimento del lavoro di
cava è stato utilizzato per edificare un albergo, dove l’estrazione e l’uso della pietra locale sono esaltati. Il
materiale da costruzione è rappresentato da masselli di calcarenite e tutti gli spazi della ricezione alberghiera
sono nella più antica zona di coltivazione. Il giardino e il ristorante si sviluppano nello spazio a fossa tra pilastri
su cui si riconoscono le tracce della coltivazione manuale della pietra. Uno spazio del giardino è dedicato
all’esposizione delle macchine utilizzate per tagliare e trasportare la pietra, mentre per l’arredo interno è stata
impiegata la documentazione storica dell’estrazione e del trasporto della calcarenite (su barche a vela note
come “schifazzi”).
5. Attività estrattiva
La coltivazione attuale della calcarenite di Favignana, realizzata con macchine e a cielo aperto, fornisce
elementi finiti di calcarenite con dimensioni standard tradizionali e pezzi speciali fuori misura con destinazione
il mercato siciliano. Il materiale di scarto è anche utilizzato per la produzione di oggettistica. La polvere residua
di lavorazione trova impiego come materia prima per malte pregiate. Storicamente fu realizzata anche la
coltivazione in sotterraneo, le cui tracce sono ben evidenti, ad esempio, sulla falesia di Cala Rossa. In passato
la coltivazione, opera dei “pirriatori”, cioè dei locali cavatori, avveniva con la “mannara”, utensile tagliente
ibrido tra ascia e piccone, con cui ogni lavoratore realizzava giornalmente tra 25 e 40 conci, con uno scarto del
40% (Montana & Scaduto, 1999; Torre, 1980). L’estrazione restò manuale fino alla metà del Novecento.
6. Conclusioni
Il bagaglio di conoscenze pratiche su questa biocalcarenite è valorizzato anche ospitando in cava i turisti, che
rappresentano la principale risorsa economica dell’isola. Un hotel in cava consente infatti di avvicinare al
mondo estrattivo storico e contemporaneo anche chi ne è lontano e facilita la diffusione della cultura della
pietra che è profondamente radicata negli abitanti di Favignana. Per gli imprenditori la salvaguardia del
settore lapideo passa attraverso il recupero fisico e simbolico degli spazi di cava dedicati ora all’insediamento
turistico: la ricaduta economica di questa attività consente di protrarre la coltivazione della pietra, di cui è
esaltato il patrimonio di conoscenze. La fatica millenaria del cavatore è esemplificata nell’annesso museo con
gli storici macchinari di cava e di trasporto e con la documentazione fotografica. Il passato e il futuro di
Favignana si coniugano così con la sua principale pietra.
7. Bibliografia
Agnesi V., Macaluso T., Orrù P., Ulzega A. (1993) – Paleogeografia dell’arcipelago delle isole Egadi (Sicilia) nel
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Zusi Editore Verona, parte seconda, 526, 35-44
Pietre pugliesi
La Puglia è costituita da rocce sedimentarie di età mesozoica e ceno-neozoica; il Mesozoico
rappresenta la base della successione stratigrafica che inizia con una formazione evaporitica (gessi e
anidriti con calcari) affiorante alla Punta delle Pietre Nere (Gargano) e appartenente al Trias
superiore. Seguono a questa formazione i calcari e le dolomie giurassiche costituenti il nucleo del
promontorio garganico. Simili tipi litologici costituiscono anche le rocce del Cretaceo con le quali si
chiude anche la successione mesozoica: queste rocce rappresentano la maggior parte degli
affioramenti del Gargano, delle Murge e delle Serre salentine. Completano la successione stratigrafica
le rocce del Terziario e del Quaternario, rappresentate da una formazione calcarea (detriticoorganogena) poco estesa, di età paleogenica (Paleocene-Oligocene), che affiora lungo i bordi orientali
del Gargano e del Salento; da una formazione calcarenitica del Miocene, ben nota nel Salento con la
denominazione di “Pietra Leccese” e da una successione plio-pleistocenica che comprende calcareniti,
dette localmente “Tufi”o “Tufi calcarei”, oltre a sabbie ed argille, i cui affioramenti raccordano i
modesti rilievi della regione (Regione Puglia, 1982). L’attività estrattiva di pietra naturale, è
concentrata in tre aree geografiche (L’Incesso & Paglionico, 2000):
-
area garganica nord-occidentale (Apricena-San Giovanni Rotondo);
area murgiana settentrionale e centrale (Minervino, Trani, Ruvo, Fasano);
- area salentina (Cursi, Lecce e località varie di estrazione di tufo).
Per quanto riguarda le pietre da costruzione e da decorazione, si possono distinguere alcuni tipi di
materiali principali: la Pietra di Apricena, la Pietra di Trani, la Pietra Leccese (Pietra di Cursi) e i tufi
calcarei. La Pietra di Apricena è estratta sulle pendici nord occidentali del Gargano, in un’area
compresa tra Apricena, Poggio Imperiale, Lesina e San Giovanni Rotondo mentre la Pietra di Trani
viene estratta sulle Murge settentrionali nei dintorni di Trani, Barletta, Andria, Corato, Minervino e
Fasano. Per quanto riguarda la Pietra Leccese, la zona di estrazione è nel Salento, in particolare nei
dintorni di Cutrofiano, mentre i tufi (tufi calcarei) sono estratti sui margini del rilievo murgiano, ma
anche in altre località di Puglia e Basilicata. La Pietra di Trani e la Pietra di Apricena sono rocce
calcaree (si tratta di termini variabili per grana e tessitura, da calcari a calcareniti ), di età cretacea, di
origine detritica e biochimica, costituite da calcite (oltre il 98%), quarzo, feldspati, ossidi e idrossidi di
ferro, minerali argillosi ed accessori vari. Gli elementi principali di queste rocce sono i granuli ed il
fango calcareo (micrite) associati ai mosaici cristallini di deposizione chimica (cemento). I granuli
comprendono gli intraclasti, i fossili, le ooliti ed i pellets. Gli intraclasti sono formati da frammenti di
fango calcareo litificato, eroso dal fondo marino e ridepositato; i fossili ed i frammenti fossili detti
anche bioclasti rappresentano i resti degli organismi vissuti nei bacini di sedimentazione; le ooliti
corrispondono a minute sfere calcitiche, a struttura concentrica o radiale, mentre i pellets sono
aggregati di fango calcareo privi di struttura interna. Il fango calcareo, formatosi per via meccanica o
precipitato per via chimica o biochimica, costituisce la micrite di fondo, micro e criptocristallina, i cui
sono immersi i granuli suddetti. Le dimensioni dei minuti cristalli calcitici della micrite sono
dell'ordine di 1-4 micron. La calcite spatica, che forma il cemento che occlude parzialmente gli
interstizi tra le particelle detritiche, è viceversa rappresentata da cristalli di diametro superiore a 10
micron; essa si forma per precipitazione chimica delle acque circolanti negli spazi intergranulari del
sedimento (Regione Puglia, 1982). La Pietra Leccese è una calcarenite miocenica di facies marina di
colore bianco sporco, poco cementata con tracce di bioturbazioni e bioclasti di Lamellibranchi,
Echinidi, Briozoi, Anellidi e alghe calcaree (Calò et al., 1992); la sua grana è da fine a media, con
tenore di carbonato di calcio superiore al 90% (calcite in fossili, intraclasti e cemento) e con
componenti non carbonatici (quarzo, feldspati, mica bianca e minerali argillosi). I tufi o tufi calcarei
sono invece calcareniti quaternarie depostesi essenzialmente in ambiente marino ma anche in
ambiente continentale (dune fossili).
Le cave sono sia a fossa che ad anfiteatro con fronti di cava subverticali. La coltivazione avviene
anche in sotterraneo nel caso della Pietra Leccese.
Oltre alle sopraddette varietà di pietre naturali, si ricorda che tutte le rocce affioranti, se
dotate di idonee proprietà, sono state in passato coltivate ed utilizzate nell’edilizia. Per
esempio, a Santa Cesarea (Salento) le murature e le pavimentazioni sono in calcare affiorante
in questo centro costiero, costituendo in alcuni casi parte integrante delle costruzioni.
La Pietra di Apricena
Nel bacino di Apricena affiorano rocce carbonatiche ben stratificate del Cretaceo inferiore, riferite al
tratto medio-alto della formazione dei Calcari di Sannicandro (Boni et al, 1969); su queste poggiano
in trasgressione depositi miocenici (Calcareniti di Apricena) e plio-pleistocenici (Sabbie di Serra
Capriola). L'intervallo stratigrafico interessato dall'attività estrattiva è riferibile al tratto di serie della
Formazione di S. Giovanni Rotondo del Cretaceo inferiore (Berriasiano sup. - Barremiano inf.)
(Ricchetti et al, 1999). Le tre varietà più rappresentative estratte nel bacino di Apricena sono il fiorito,
il biancone, serpeggiante e il bronzetto). Baldassarre et al. (2000) hanno ricostruito le caratteristiche
litologico-petrografiche delle tre successioni stratigrafiche; fiorito, quella del biancone e quella del
pellets e bioclasti. La serpeggiante. La Pietra di Apricena è di uso molto antico. Le prime notizie
storiche sono documentate in alcuni “Atti della provvidenza” dell'epoca di Carlo III Re di Napoli
(1716-1788) per “lo scavo e il trasporto di colonne ed altri pezzi di pietre marmoree per il servizio di
S.M. dalle cave di Apricena” (Baldassarre et al., 2000). Dai dati rilevati nel 2000 (Baldassarre et al.,
2000) risultano censite, nell'area di estrazione, 24 cave, di cui 21 in attività e 3 abbandonate e
parzialmente colmate con il materiale di risulta; la coltivazione si è sviluppata a cielo aperto in fossa.
L'estensione delle cave varia tra 1,5 e 15 ha mentre l'altezza dei fronti di abbattimento è compresa tra
10-15 metri e 70 metri. Nella parte alta di tali fronti sono presenti sabbie (Sabbie di Serra Capriola),
calcareniti (Calcareniti di Apricena), o calcare cretacei; queste rocce costituiscono il cosiddetto
“cappellaccio” che viene posto a discarica al limite dei fronti di abbattimento in cumuli che possono
avere un'altezza di 60-70 metri. Una parte di questo materiale è attualmente destinato alla produzione
di inerti e di calce.
La tagliatrice a catena costituisce la tecnologia oggi più utilizzata nel bacino estrattivo di Apricena,
per effettuare il taglio al monte delle bancate di pietra calcarea; la lavorazione avviene a secco. I tagli
orizzontali al piede della bancata vengono effettuati per mezzo di perforazioni con martelli montati su
slitte. Il successivo distacco avviene con miccia detonante. Per mezzo di martelli montati su carro si
effettua il line drilling e, mediante uso di spaccaroccia (in gergo locale “viggione”) si suddividono le
bancate in blocchi direttamente sul piazzale di cava (Tomà, 2001).
La Pietra di Trani
Il bacino estrattivo delle pietre ornamentali note con il nome di Pietra di Trani è molto vasto; si
estende nelle Murge nord-occidentali e comprende i territori comunali di Trani, Bisceglie, Andria,
Corato, Ruvo di Puglia e Minervino Murge. In queste zone i terreni più antichi sono rappresentati
dalle successioni calcareo-dolomitiche del Cretaceo inferiore e superiore, riferibili al “Calcare di
Bari”, la più antica delle unità formazionali costituenti il Gruppo dei Calcari delle Murge; su questi
poggiano in trasgressione depositi in lembi variamente estesi riferibili alla formazione della
Calcarenite di Gravina di età pliocenica – pleistocenica e una successione di unità litostratigrafiche
plioceniche riferibili ai Depositi Marini Terrazzati (Baldassarre et al, 2001) . In particolare nel
comprensorio Trani-Bisceglie affiorano successioni riferibili alla parte basale del Calcare di Bari. Nel
settore a sud-ovest di Trani lo spessore complessivo della sezione stratigrafica è di circa 165 metri. La
coltivazione è qui compiuta nelle “zone” denominate Puro, Lama Amara, Montericco, Gesù Maria
Nella zona Puro sono coltivati dei calcari biomicritici di colore prevalentemente avorio. Le varietà
più note coltivate in questa zona sono il Massello, Due meno un quarto, il Bove e la Mano dei vecchi.
Le terminologie utilizzate per distinguere le numerose varietà sono nomi locali che trovano significato
più frequente nello spessore o nel colore o nella durezza degli strati o ancora nelle dimensioni e/o
distribuzione dei resti fossili. Nella zona Lama Amara gli strati utili forniscono le varietà
serpeggiante chiaro, gialletto e massello. Nella zona Montericco si estraeva il perlato di Trani e il
broccato. Le varietà coltivate sono dette Nero, Bronzetto, Mano Nera, Carovigno , Fagiolo e verde
smeraldo. La zona Gesù Maria produce le varietà patanoso, la mano nera e la mano di ferro. Nella
Zona Carcano sono prodotti i calcari biancone, il palmo, il massello d'oro, il livido, il lumacone e il
bimandorlo; la denominazione di queste due ultime varietà fanno esplicito riferimento alla presenza di
rudiste o di altri bivalvi (Regione Puglia, 1982). Secondo gli stessi autori, nel 2001 risultavano in
attività 21 cave della quarantina esistenti. In rapporto alle condizioni morfologiche la coltivazione si è
sviluppata a cielo aperto in fossa; l'estensione delle cave varia da 1 ha a 16 ha e l'altezza dei fronti di
abbattimento è compresa tra 12 metri e 40 metri. La coltivazione è attuata con segatrici dentate
elettromeccaniche o a catena e solo in alcune cave con micce detonanti.
La Pietra di Trani è stata tra l’altro utilizzata nella Cattedrale di Trani. L’opera, iniziata nel
1094, ebbe varie fasi costruttive fino al completamento del campanile nella seconda metà del
Trecento. La costruzione ha pianta basilicale con tre navate e transetto con tre absidi. L’asse
longitudinale è parallelo alla riva del mare cui è vicinissima. Per la costruzione sono state
utilizzate quattro diverse varietà di Pietra di Trani.
Il degrado interno comporta scagliatura e polverizazzione con distacco di abbondanti frammenti, oltre
a notevoli efflorescenze saline (De Tommasi et al., 1989). Le condizioni termoigrometriche
dell’interno della chiesa e lo spray marino sono le cause principali di deterioramento (Amicarelli et
al., 1978).
I criteri in base ai quali la Pietra di Apricena e la Pietra di Trani vengono distinte in quella gamma
piuttosto vasta di varietà che si conoscono dal punto di vista commerciale, si riferiscono a
caratteristiche estetiche e strutturali. Così ad esempio le varietà denominate biancone, bronzetto,
livido, gialletto e avorio devono tale denominazione esclusivamente al colore; il cocciolato, il perlato
e il moschettato la devono al sensibile contenuto in fossili di dimensioni rispettivamente grosse, medie
e piccole; il filetto rosso ed il filrosato alle stiloliti impregnate di ossidi di ferro; il filettato, il
serpeggiante, l'ondagata e il silvabella ad una distinta laminazione. Tagliate al verso le bancate
laminari, ricche di stiloliti, danno le varietà fiorito, arabescato, nuvolato, oniciato ecc. (Regione
Puglia, 1982).
La Pietra Leccese
E’ il materiale del “barocco” leccese, fenomeno artistico caratterizzato da grande fastosità decorativa,
traducibile in opera grazie alla lavorabilità della pietra. Petrograficamente la roccia è una
biocalcarenite costituita da frammenti di fossili (foraminiferi) e da clasti (quarzo, feldspati, fosfati e
glauconite) in una matrice di calcite micritica, talora arricchita di minerali argillosi. Sono tipiche le
bioturbazioni che indicano un rimescolamento del sedimento da parte di organismi viventi. La roccia
nell’antichità era sottoposta a stagionatura: infatti si era notato che il materiale andava incontro a
“carie”, ma che questa era ridotta se i manufatti erano posti in luoghi asciutti e ventilati per un certo
tempo prima dell’utilizzo, fino all’attecchimento di flora crittogamica. La tecnica fu impiegata dai
Romani e utilizzata per tutto il Seicento. La roccia degradata si presenta attualmente tipicamente
“cariata”: la caratteristica “alveolizzazione” è da correlare con le particolari tessiture di bioturbazione.
Altre forme di deterioramento superficiale sono efflorescenze saline e sub-efflorescenze, croste nere,
decoesionamento granulare, fratturazione. In alcuni casi si ha cedimento strutturale correlabile con la
diminuzione di resistenza meccanica per imbibizione di acqua meterorica (Zezza et al., 1989). I bacini
estrattivi sono quello inattivo di Lecce e quello in esercizio di Cursi-Melpignano-Martano (Pietra di
Cursi). Le varietà di Pietra Leccese sono: piromafo, cucuzzara, dura, bianca, dolce, gagginara,
saponara, bastarda. Una varietà storica è il lecciso (o gentile).
La facciata della Basilica Santa Croce in Lecce è la più celebre realizzazione in Pietra Leccese.
I Tufi calcarei
Si possono distinguer i tufi del Gargano (tufo bianco, tufo giallo), delle Murge (tufo di Gravina, tufo
di Monte Castiglione) e del Salento (ad es., tufo di Andrano). I nomi d’uso sono:
- tufi tenaci (Mazzaro, Carparo)
- tufi fossiliferi (Cozzarolo, Scorzo, Cozzoso, Rognoso)
- tufi fini (Zuppigno, Mollica, Gentile)
Altre varietà sono: Marmoriato, Granuloso, Cuzzigno, Verdatiero, Stagna, Chiumegnu, Arrone ecc.
(Primavori, 2001).
I “tufi” sono un tipico materiale da costruzione, utilizzato ancora oggi per murature di case in
elementi a forma di parallelepipedo. Sono inoltre un materiale ornamentale utilizzato nelle ricche
decorazioni barocche, oltre che roccia da scultura. Sovente in passato queste rocce erano intonacate
con calce, sia bianca che variamente pigmentata, per aumentarne la durevolezza.
Il tufo calcareo di Gallipoli
La calcarenite quaternaria della zona di Gallipoli fu usata come pietra da costruzione e ornamentale
nella cittàdina del Salento, di cui caratterizza le costruzioni delle diverse epoche. Fondata dai Greci
che la chiamarono Anxa, Gallipoli divenne colonia romana di notevole importanza strategica
soprattutto con l’apertura della via Traiana (109 d.C.) che la mise in comunicazione con Brindisi e
quindi con la rete delle vie consolari. Fu successivamente roccaforte dell’Impero d’Oriente fino
all’invasione normanna. Subì numerosi assalti saraceni (all’inizio del 900 fu occupata per circa tre
decenni dagli Arabi) e fu conquistata da diversi dominatori (Normanni, Angioini, Aragonesi) che
lasciarono tracce nelle costruzioni. Anche i Veneziani la conquistarono per un breve periodo (a partire
dal 1484) e successivamente vi giunsero gli Spagnoli. Già nel Settecento si teneva una fiera
internazionale annuale. Nel 1880 fu raggiunta dalla ferrovia. La Chiesa di Santa Maria del Canneto,
rifacimento seicentesco di un precedente edificio, è riccamente ornata nell’interno da “tufo” finemente
lavorato. Anche la statua di San Nicola è in calcarenite intonacata. Nel centro spicca la Piazza del
Duomo con la settecentesca Torre dell’Orologio e il cinquecentesco Palazzo Pirelli, ornato di un
elegante balcone-loggia con arco a bifora. La Cattedrale presenta una scenografica facciata con la
parte sommitale in stile tardo barocco leccese. Tutta la costruzione è in tufo. In ogni angolo del centro
storico di Gallipoli si osservano realizzazioni pregevoli: ad esempio, Palazzo Muzio con ornato
portale, Palazzo Fontana con fastosa facciata vuota dietro la quale c’è una scala a cielo scoperto,
Palazzo di Spagna con ricco portale, Palazzo Briganti con frantoio seicentesco restaurato e le
numerose e caratteristiche corti pavimentate in calcare. Il trionfo dell’apparato decorativo barocco si
osserva in Palazzo Senape, mentre altre celebri costruzioni storiche sono Palazzo Venneri con
balcone a carena di nave e Palazzo Tafuri, tipica residenza nobiliare seicentesca. Tra le costruzioni
religiose si segnalano le Chiese del Crocefisso (1741, finestra con cornice molto ornata) e di S.
Domenico (1516, facciata convessa con elementi scultorei vari), la Chiesa di San Francesco
(scenografica facciata settecentesca), la Chiesa di Sant’Angelo con scalinata rococò, la Chiesa della
Purità, seicentesca costruzione collocata di fronte al mare con pavimento interno in ceramica di
fattura locale, la cinquecentesca Confraternita di San Giuseppe e della Buona Morte, anch’essa
pavimentata internamente in maiolica. Il tufo è il materiale utilizzato per rivestimenti, portali, colonne
ed elementi decorativi vari. Spesso esso è intonacato, come ad esempio nel Palazzo dei Talano,
celebre famiglia di mercanti e banchieri. Anche le mura della cittadina (Bastioni) sono state realizzate
in tufo. Dal punto di vista conservativo il tufo denota alvelizzazione e degrado biologico. Il
biodegrado si manifesta con crescita di vegetazione (alberi di alto fusto, ad esempio, nella Biblioteca
Comunale), con muschi (nelle zone umide e poco soleggiate) e con licheni, la cui presenza altera
cromaticamente la superficie litica.
Le pietre pugliesi, e in particolare i tufi e la pietra leccese, sono state anche utilizzate nelle
numerosissime fortificazioni costiere del Salento. Disseminate lungo la costa, risultavano essere
circa ottanta da un censimento a metà del Settecento. Oggi sono in numero ridotto, alcune in stato di
rudere, molte recentemente restaurate.
Ne sono esempio la Torre del Serpe, antico faro della città di Otranto, la Torre Mozza, a forma
cilindrica, la Torre di San Giovanni, profondamente rimaneggiata, la Torre dell’Uluzzo a forma
tronco-piramidale e parzialmente crollata, la Torre di San Isidoro divisa in tre piani da due tori
marcapiano, l’imponente Torre Lapillo con scalinata, la Torre Miggiano, con basamento troncoconico in muratura di pietre irregolari rinforzata da pilastri di pietra squadrata.
Spesso i materiali da costruzione sono stati ricavati nelle immediate vicinanze delle torri: ne è
esempio la cava localizzata a qualche decina di metri dalla Torre Miggiano, dove sono ben evidenti le
tracce delle antiche “tagliate”.
Cause di degrado dei monumenti pugliesi
In generale le cause di degrado dei monumenti pugliesi possono essere sinteticamente
riassunte come segue:
- imbibizione di acqua (Zezza et al., 1989);
- temperatura dell’aria e sue variazioni (Baldassare et al., 1989);
- spray marino (Laurenzi Tabasso et al., 1989);
- crescita di licheni (Seaward, et al., 1989);
- inquinamento atmosferico (Dell’Anna et al., 1989).
Il degrado è sempre correlabile con le caratteristiche strutturali e tessiturali ed è assai marcato in
corrispondenza dei resti fossili. Il degrado dei granuli e della matrice induce tipiche forme vacuolari
(alveolizzazione).
Si parla di “carie”, indicando con questo termine la degradazione selettiva che si imposta
sulle disomogeneità (tessiture, bioturbazioni) che sono caratterizzate da differente porosità. Il
fenomeno è ben evidente, tra l’altro, nel bugnato del paramento della Chiesa di Santa Croce a
Lecce.
Il biodegrado indica un livello moderato di inquinamento, che consente la crescita di licheni
strettamente ancorati al substrato, quali quelli che creano un mosaico di colori sulle Mura di Gallipoli.
Marcata è soprattutto l’azione dello spray marino soprattutto sulle varietà più porose di rocce pugliesi.
Altree pietre pugliesi sono (Pieri, 1963):
-
Rosso di Puglia, calcare estratto in provincia di Bari
Rossi delle Murge
Gialli delle Murge
Rosati delle Murge
Lumachella Rosata, estratta in provincia di Brindisi
- Onice (Brindisi e diverse località, ad es. Alberobello), alabastrite
- Marmo grigio (Brindisi)
- Marmo striato (Brindisi)
- Marmo grigio-perla (Brindisi)
Nel Gargano si ricordano inoltre la breccia rossa e la Breccia bigia di S. Angelo, usate, tra l’altro,
nella Reggia di Caserta.
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Fiora L. (2006) – L’ottagono misterioso di Castel del Monte. L’Informatore del Marmista,
540, Giorgio Zusi Editore, Verona, 6- 12
L’ottagono misterioso di Castel del Monte
Castel del Monte, fatto erigere da Federico II di Svevia, rappresenta una delle costruzioni più
note e affascinanti della Puglia. La sua fondazione è fatta risalire al 1240. Utilizzato per varie
funzioni, rimase incustodito per molti secoli e fu soggetto in più riprese a devastazione e
asportazione di materiali. Acquistato dallo stato italiano nel 1876, quando ormai l’apparato
decorativo marmoreo era stato in gran parte asportato, fu sottoposto a restauri fin dal 1879;
successivamente nel Novecento fu oggetto di diversi interventi di consolidamento e di
demolizione di strutture non originarie. Esso è stato inserito dall’UNESCO nel 1992 nella
lista dei Monumenti Patrimonio Mondiale dell’Umanità.
Enigmatico resta lo scopo della costruzione, mentre definite sono ora le tipologie e le
provenienze dei materiali (Zezza, 2005).
La scelta del sito caratterizza l’opera e la rende spettacolare: infatti essa poggia direttamente
sui banchi calcarei brecciati affioranti sulla cima di una collina.
L’elemento caratterizzante è il numero otto: la costruzione monumentale è infatti un ottagono
ai cui spigoli sorgono torri ottagonali. In origine il cortile interno, anche esso a forma di
ottagono, era abbellito da una grande vasca marmorea ottagonale.
Il castello è suddiviso in due piani, separati da una fascia marcapiano. Maestoso è il portale
sulla facciata principale, cromaticamente differente dal resto della muratura.
Tutto il maniero è stato costruito nella pietra da taglio calcarea, diffusamente cavata ed
utilizzata in Puglia. Il bianco calcare delle Murge nella varietà a grana fine è stato impiegato
nelle parti scolpite, mentre quello più grossolano è stato usato nei conci levigati delle
murature. Molti elementi degradati sono stati sostituiti durante i vari restauri del Novecento
con materiale simile. Le porzioni originali mostrano differenti morfologie di degrado
(fessurazione, efflorescenze, degrado differenziale, scagliature e mancanze).
L’ornamento del castello è dato da altri litotipi, in modo particolare da una breccia e da
diversi marmi. La prima è nota come “Breccia Corallina” per la somiglianza con una simile
roccia di uso storico proveniente dall’attuale Turchia. Essa adorna il portale, contorna le
finestre e le porte, costituisce soglie, nicchie, colonne e diversi elementi architettonici
decorativi. Si tratta di una roccia sedimentaria con clasti di dimensione variabile grigi,
bianchi, gialli e più raramente verdi, immersi in un cemento di colore rosso mattone per la
microdispersione di ematite, che le caratteristiche micropalentologiche e litologiche hanno
fatto attribuire alle unità garganiche (Zezza, 2005). Il degrado, che si evidenzia con
decoesionamento e mancanze, è più marcato nelle porzioni più ricche di cemento.
I marmi bianchi, bigi o venati, caratterizzanti le colonne delle sale interne e le finestre
esterne, sono varietà di Proconnesio estratte nell’isola turca di Marmara. Le colonne interne
mostrano spesso intensa colorazione rossa per applicazione di un pigmento rosso, simbolo di
regalità E’ inoltre presente il Cipollino Verde Greco in una lastra di rivestimento ai lati di un
camino al piano superiore.
Alcuni elementi marmorei bianchi sono stati individuati come greci (Marmo Attico), al pari
di alcuni fusti di colonne in Bigio Antico. Il Pavonazzetto turco (metabreccia a cemento
violaceo coltivata nel distretto di Afyon) caratterizza alcune colonne.
I resti di mosaico pavimentale al piano terra denotano la presenza di cotto, calcare bianco e
calcare nero (Nero Antico, tunisino o greco), mentre nelle lunette delle finestre è segnalato il
Porfido Verde di Grecia (andesite) e il “marmo “ Verde antico di Tessaglia (oficalce).
Riferimenti bibliografici
Zezza F. (2005) – Castel del Monte: la pietra e i marmi. Adda Editore, Bari, 102 pp.
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------Fiora L. (2007) – Restauro della Cattedrale di Noto: utilizzati 300 mila pezzi di
biocalcarenite locale. L’Informatore del Marmista, 545, Giorgio Zusi Editore, Verona, 30-36
La pietra di Noto
Viene riaperta alla fine di maggio 2007 la cattedrale del “Giardino di Pietra”, definizione che
Cesare Brandi usò per le costruzioni in biocalcarenite della cittadina di Noto. La chiesa,
costruita a più riprese a partire dal 1693, crollò rovinosamente il 13 marzo 1996. Le cause
furono l’elevata sismicità del luogo, la struttura a sacco dei pilastri, riempiti originariamente
di ciottoli e scapoli di pietra (al pari della crollata Torre di Pavia), inidonei interventi di
manutenzione (in particolare l’indebolimento della struttura creato dal rifacimento del tetto in
calcestruzzo). Ora la costruzione è stata rifatta con l’impiego di oltre trecentomila pezzi di
pietra locale e con rinforzo delle navate e della cupola con elementi in fibra di carbonio.
Noto, in provincia di Siracusa, fu fondata nella tarda età del Bronzo sulle rive del fiume
Asinaro. Abitata da greci, romani e arabi, fu distrutta da un terremoto nel 1693 e ricostruita a
partire dal 1694 in un nuovo sito a circa cinque chilometri di distanza dall’antica città.
La “Nuova “ Noto fu ricostruita con l’uso della biocalcarenite locale su un rilievo collinare
(“Pianazzo del Meti”) ad una quota di circa 160 m sul livello del mare. Fu scelto un impianto
della città reticolare. Nella prima metà dell’Ottocento la struttura urbana originaria subì
modifiche: in particolare, il piano stradale fu abbassato e le strutture di fondazione degli
edifici e dei monumenti si trovarono così parzialmente scoperte.
Nell’area di Noto affiorano formazioni sedimentarie calcaree della “Successione degli Iblei”;
presso la città, affiorano le rocce calcarenitiche fossilifere, porose, di età miocenica (Pietra di
Noto o Pietra da intaglio, Alessandrini et al., 1992) e calcari molto porosi (Pietra tufigna).
La biocalcarenite (Formazione di Palazzolo) è presente in strati potenti fino a due metri,
intercalati a marne. Sono evidenti in essa tipiche strutture sedimentarie di forma cilindrica
con sezione da 0.5 a 2 cm (“tubuli”), che sono di origine animale: esse rappresentano infatti
le tracce lasciate dagli organismi che vivevano nel sedimento prima che esso fosse
diageneizzato, cioè compattato e litificato. Gli affioramenti sfruttati per ottenere il materiale
lapideo della città sono estesi in tutta la zona a monte dell’odierno abitato. In particolare, le
cave della pietra utilizzata nella ricostruzione sono localizzate presso il luogo di utilizzo e
precisamente nei paesi di S.Corrado, Madonna della Scala e Porcari. Al microscopio la roccia
appare costituita da abbondanti fossili e frammenti di fossili cementati da calcite spatica. Rari
sono i clasti mineralogici (quarzo). Abbondanti sono le cavità (0.05-0.2 mm): la roccia
possiede infatti una porosità del 31% (Alessandrini et al., 1992).
La forma di degrado tipica è l’alveolizzazione, cioè la formazione di cavità di diversa forma e
dimensioni, talora anche interconnesse. La causa della formazione di questi “alveoli” è la
cristallizzazione di sali nell’originaria struttura sedimentaria. Secondo Alessandrini et al.,
1992, il tubulo è sempre presente nello sviluppo degli alveoli. La zona tra tubulo e roccia
rappresenta infatti una via preferenziale per l’evaporazione dell’acqua, sì che in tale zona si
ha cristallizzazione salina. L’abbondanza di sali è anche da correlare con la mancanza di
adeguata rete fognaria che ha caratterizzato la città per lungo tempo: l’alveolizzazione è più
marcata nelle zone basse degli edifici e si evidenzia fino a 1.5 – 2 m di altezza. La pressione
di cristallizzazione dei sali provoca la decoesione della matrice calcitica. Secondo Bocci et
al., 1991, anche il tipo di lavorazione influenza il degrado: la bocciardatura induce infatti una
diffusa microfratturazione che favorisce il degrado.
La Pietra di Noto è estratta attualmente nelle cave di Villa Vela e Fondi Nuovi Palazzolo.
Nella prima la coltivazione viene eseguita in pozzo con livelli orizzontali discendenti
mediante tagliatrice elettrica a disco (“sarracco”). La profondità è considerevole e le pareti
sono stabili. Nelle aree di cessata attività estrattiva sono in corso lavori di recupero
ambientale con riempimento dei vuoti lasciati dalla precedente coltivazione. I blocchi estratti
in profondità hanno dimensioni medie di 0.70 X 2 X 2.50 m. Nelle zone più superficiali si
ottengono blocchetti di dimensioni medie 20 X 25 X 50 cm. Nella cava Fondi Nuovi
Palazzolo Acreide si estraggono in genere blocchi di grosse dimensioni e subordinatamente
blocchetti.
La roccia è localmente usata per murature a faccia vista, archi, piedritti, volte ecc. Notevoli
anche gli elementi decorativi prodotti (mascheroni, capitelli, balaustre, fontane, scale,
mensole ecc.). Le lavorazioni più frequenti sono eseguite con bocciarda, “schianetto” e
subbia.
La Pietra di Noto è anche utilizzata al di fuori della zona di produzione: è infatti
commercializzata nell’Italia settentrionale, in diversi paesi europei ed è addirittura esportata
in Australia.
Altre pietre naturali dell’area ibleo-siracusana
Pietra di Comiso – calcisiltite bianca
Pietra di Modica – biocalcarenite bianca/giallina
Pietra giuggiolena – calcirudite giallastra
Pietra asfaltica (Pietra pece) biocalcarenite grigia
La Pietra di Comiso proviene dal Membro Leonardo (Formazione Ragusa). Deriva
dalla cementazione di una sabbia calcarea finissima di età oligocenica superiore. Il
bacino estrattivo è ubicato a Nord di Comiso. Questa pietra è stata sapientemente
intagliata in splendidi oggetti di artigianato.
La Pietra di Modica proviene dal Membro Irminio (Formazione Ragusa). E’ di età
Oligocene superiore. Il materiale attualmente a disposizione proviene da bonifica
agricola. Gli usi principali sono conci per zoccolature ed elementi di pavimentazione.
La Pietra giuggiolena è di età pleistocenica inferiore-media. Si rinviene in particolare
nella contrada Isola a Sud di Siracusa. E’ molto vacuolare e ricca di fossili biancastri
immersi in un cemento giallo.
La Pietra pece era un tempo usata per l’estrazione del bitume e per pavimentazioni e
scale. Attualmente viene anche impiegata per rivestimenti interni, per complementi di
arredo e nel restauro.
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Rosso Levanto e Portoro, “marmi” colorati dalle proprietà estetiche uniche
Tra i materiali lapidei “teneri”, cioè costituiti da minerali con durezza 3-4 nella scala Mohs,
correntemente chiamati “marmi”, sono sempre stati molto ricercati quelli colorati dotati di
elevato pregio estetico. Fin dall’antichità, ad esempio, nei paesi che si affacciano sul
Mediterraneo sono stati sfruttati calcari, brecce, conglomerati e rocce equivalenti
metamorfosate, di vari colori, quali, ad esempio, il calcare “Giallo di Numidia” (Tunisia),
l’oficalce “Verde di Sparta” (Grecia), il marmo ad ematite “Rosso Antico” (Grecia), la
breccia “Portasanta” (Grecia”) e quella detta “Marmo Africano” (Turchia) (Fiora & Alciati,
2005). Tra i “marmi” italiani due provenienti dalla provincia di La Spezia (Liguria) rivestono
particolare importanza storica, oltre che contemporanea nell’attuale mercato globalizzato: si
tratta del calcare venato “Portoro” e della breccia ofiolitica “Rosso Levanto”, senza dubbio
due dei materiali lapidei italiani più prestigiosi, molto utilizzati per ornamento soprattutto in
interni di costruzioni, essendo inoltre impiegati diffusamente come marmi cimiteriali nel XX
secolo. Per questi materiali la cava è da un lato sito estrattivo da conservare per i significativi
manufatti storici che ivi hanno avuto origine, dall’altro è luogo da sfruttare per una
produzione limitata e rispettosa dell’ambiente, sì da fornire materiale che è ancora unico sul
mercato internazionale.
Dal punto di vista geologico il “Portoro” proviene dalla Formazione dei “Calcari di
Portovenere” della “Falda Toscana” e ha età Trias Superiore-Cretaceo Inferiore. Esso
petrograficamente è un calcare micritico nero con vene gialle contenenti limonite e solfuri. La
calcite è il componente mineralogico fondamentale, la dolomite è subordinata, inoltre sono
presenti idrossidi di ferro (“limonite”) responsabili del colore giallo della vena e minerali
argillosi (Fiora et al., 2003). Il colore nero deriva dalla sostanza organica, bitume e solfuri
provenienti da un ambiente anaerobico; l’intensità del colore nero diminuisce sia nelle zone
che hanno subito processi di ricristallizzazione, sia, posato in opera, sulle superfici esposte
agli agenti naturali (Cimmino et al., 2004).
L’area di affioramento è situata in prossimità della città di La Spezia, sui versanti dei monti
Castellana, Muzzerone e Bermego e sulle isole Palmaria e Tino. In passato furono anche
coltivate le varietà brecciate di “Portoro” affioranti in territorio apuano (Bartelletti &
Amorfini, 2003).
Delle trenta cave censite nel 1862, di cui cinque all’isola Palmaria, ne rimangono attualmente
aperte solo tre nel Comune di La Spezia (due nella località Castellana e una ad Anime).
Il Portoro, che già usarono i Romani inizialmente come pietra da costruzione, fu coltivato
manualmente fino al XVIII secolo, avvalendosi di cunei prima di legno e poi di ferro. Tra la
fine del ‘700 e l’inizio dell ‘800 cominciò l’escavazione tramite esplosivo introdotto in fori,
mentre verso la fine dell’800 si utilizzò la sega con sabbia silicea come abrasivo. La
coltivazione del pregiato “marmo” avveniva anche in sotterraneo, dove l’isolamento del
blocco era più difficoltoso. Il blocco estratto veniva imbragato e con l’ausilio di argani a
mano era portato all’esterno della cava; successivamente esso era lizzato fino al mare o a una
strada principale, da dove era avviato ai centri di lavorazione o di smercio. All’inizio degli
anni ‘80 è iniziata l'estrazione con tagliatrice a filo diamantato.
Le cave sono a mezza costa, con coltivazioni sia a cielo aperto che in sotterraneo e taglio dei
blocchi lungo il “secondo” al fine di evidenziare la qualità del verso di macchia. Le cave in
sotterraneo sono costituite da grandi camere sostenute da pilastri di forma irregolare. In
passato l’estrazione del marmo nelle cave dell’isola di Palmaria era più difficoltosa rispetto a
quella sulla terraferma, in quanto il livello basale estrattivo partiva da pochi metri sul livello
del mare per poi abbassarsi fin sotto ad esso. Risultava pertanto indispensabile l’asportazione
quotidiana dell’acqua dalle gallerie prima dell’inizio dei lavori. Attualmente sul’isola di
Palmaria non vi è alcuna cava attiva: in seguito a un’ordinanza emessa nel 1982-‘83
dall’Amministrazione Comunale, preoccupata per il degrado ambientale divenuto ormai
evidente, fu chiusa l’ultima in esercizio, cioè quella cosiddetta Caletta, situata di fronte
all’isola del Tino, dove si trovano ancora i resti di attrezzature e dove giacciono diversi
blocchi che potrebbero essere utilizzati.
Questo “marmo”, noto all’estero anche con il nome “Black and Gold”, è commercializzato
essenzialmente in due varietà, “Portoro Macchia Larga”, caratterizzato da vene dorate di
dimensioni anche decimetriche e “Portoro Macchia Fine” con vene di dimensioni inferiori.
Ognuna delle due varietà merceologiche è suddivisa in ulteriori classi a seconda del colore
delle macchie: la qualità “Extra” ha vene brillanti di color oro su sfondo nero, mentre le
qualità “Prima” è caratterizzata da macchie gialle e bianche miste o macchie di colore giallo
pallido e la “Seconda” (“Portoro Corrente”) da vene di colore giallo, grigio e bianco e massa
di fondo grigia. In passato è stata distinta anche la varietà “Portoro Rosso”. Esiste poi una
varietà secondaria, genericamente detta “Portoro Macchia Argento” (“Portargento”), nota
anche come “Portovenere Bianco e Nero”, caratterizzata da fondo nero o grigio con macchie
unicamente bianche, oltre al “Portorino”, simile al precedente ma con vene molto fini.
L’importanza di questo “marmo” nero venato è stata elevata fin dai secoli passati, quando fu
impiegato in chiese e palazzi di tutta l’Europa, sì che il termine “Portoro” ha identificato una
particolare sub-categoria commerciale di “marmo nero”. Si continua ad utilizzarlo in
relizzazioni attuali importanti in tutto il mondo. Sono noti altri materiali simili, ad esempio,
tra quelli storici, le varietà estratte nelle Alpi (“Portoro di Nava” del Piemonte Meridionale,
tipico per la venatura molto fine, Fiora & Alciati, 2006; “Portor de Saint Maximin” del Var)
e nei Pirenei (“ Portor des Pyrénées”, “Portor des Pyréneées Bramevaque”). Il grande
valore estetico della roccia ligure e la sua scarsità hanno fatto sì che negli ultimi anni fossero
ricercati in molti paesi dei materiali sostitutivi: sono così stati introdotti il “Portoro
Leonardo” (Namibia) e il “Portoro Santo Domingo” proveniente dalla Repubblica
Dominicana (Fiora et al., 1999), oltre ad una varietà a macchia fine coltivata in Cina
(“Portoro”). Nessuno di questi materiali può però competere per pregio estetico con il vero
“Portoro”, cioè quello ligure, che è perciò un materiale lapideo di elevatissimo valore
economico.
Il “Rosso Levanto” dal punto di vista geologico (Cortesogno & Palenzona, 1986; Cortesogno
et al., 1980) appartiene al Dominio Ligure, unità tettonica strutturalmente più a Est degli
Appennini Settentrionali, formata da sedimenti molto deformati di età compresa tra il
Giurassico e il Paleocene, depositatisi sulla crosta oceanica di rocce basiche (basalti e gabbri)
e ultrabasiche (serpentiniti). Il nome è commerciale e si riferisce ad una breccia serpentinitica
simile per composizione ai “Marmi Verdi”, quali, ad esempio, le numerose varietà
valdostane, da cui però si differenzia per la diffusa colorazione rossa dei clasti serpentinitici e
delle vene carbonatiche. Le brecce serpentinitiche (o rocce oficarbonatiche, dette un tempo
oficalci), che hanno età Giurassica, sono rocce sia metamorfiche,
formatesi per
metamorfismo di fondo oceanico con circolazione di fluidi caldi, sia sedimentarie, poggianti
sulle precedenti (Perrier, 1996). La causa della diffusa colorazione rossa, che aumenta il
valore estetico di queste oficalci rispetto alle tipologie verdi, è dovuta all’ematite che si è
originata per trasformazione dell’originaria magnetite ad opera di fluidi idrotermali. I
minerali del gruppo del serpentino che si ritrovano nella roccia ligure sono tipici di grado
metamorfico basso e sono lizardite e crisotilo.
La roccia presenta venatura sia irregolare che regolare. Per gli usi più tipicamente
ornamentali fu utilizzata prevalentemente la breccia ad andamento regolare delle vene, nota
anche come “Breccia di Levanto” (“Rosso Levanto s.s.”), mentre per gli elementi
architettonici (architravi, colonne, stipiti, etc.) la prevalenza è andata alla breccia con
venatura più irregolare, geologicamente nota come “Breccia di Framura” (“Rosso
Framura”) o “Breccia di Bonassola”, che sta al tetto della Formazione ed è di origine
sedimentaria. Per “Breccia di Rossola” s’intende la varietà che comprende clasti di gabbro e
basalto oltre che di serpentinite.
L’areale di affioramento di queste brecce è compreso tra le località di Velva, Pavareto, Carro,
Ziona, Mezzema, Framura, Bonassola e Levanto. Ad est l’area è delimitata dai monti Rossola
e Guaitarola (Cimmino et al., 2004; Vercesi del Castellazzo et al., 1981).
Dal punto di vista merceologico il marmo “Rosso Levanto” si distingue attualmente in due
varietà, la “Prima”, con sfondo rosso prevalente, poche macchie verdi e vene bianche e la
“Seconda”, con sfondo misto di rosso e verde a macchie e vene bianche. Il materiale più
pregiato è quello con clasti equidimensionali e colori rosso, verde e bianco brillanti.
Le cave in esercizio negli ultimi anni sono ubicate nei comuni di Deiva, Framura e
Bonassola.
In cava sulla superficie tagliata con il filo elicoidale si distinguono nettamente i diversi ordini
di frattura riempiti da carbonati. Le fratture più antiche presentano molto evidente
l’arricchimento in ematite, generatasi dall’ossidazione della magnetite. Sovente le fratture
hanno andamento concentrico e isolano così degli elementi tondeggianti rossi.
La più importante opera ligure costruita con impiego massiccio di queste brecce ofiolitiche
rosse è la Cattedrale di San Lorenzo in Genova, dove fu impiegato in colonne il materiale
proveniente dalla “cava delle colonne”; in molti centri storici della Liguria sono frequenti le
applicazioni anche in esterni, quali rivestimenti di negozi, di palazzi e scale.
I primi manufatti realizzati con questo materiale sono opere funerarie etrusche (Rovereto,
1939). La produzione ebbe il suo culmine tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo,
poi seguì una lenta diminuzione della produzione, tranne che negli anni ’60 quando si ebbe
un forte impulso dell’attività estrattiva (Cimmino et al., 2004).
Secondo Pieri (1957) simile al “Rosso Levanto” è la varietà “Rosso Deiva” coltivato
nell’omonima località presso Levanto. “Rosso Antico d’Italia” è il nome storico della breccia
serpentinitica della zona di Chiavari. “Rosso Polcevera” è la varietà poco diffusa rossa del
“Marmo Verde Polcevera”, coltivato nei dintorni di Genova. Altra oficalce italiana che
presenta occasionalmente colore rosso è quella storica estratta unitamente al “Verde Alpi
Cesana” dell’alta Valle Susa (Piemonte), detta “Rosso Cesana” (Di Pierro & Fiora, 1998).
Nessuna varietà di “Marmo Verde” (roccia oficarbonatica) sia valdostana, che greca, come
pure indiana, presenta arricchimento in ematite. L’unico sostituto del mercato internazionale
del “Rosso Levanto” è attualmente il “Rosso Lepanto” o “Rosso Levanto Turco”,
metabreccia tettonica detta anche “Elazig Cherry” proveniente dalla Turchia, ricca di ematite
rossa sia nei clasti serpentinitici che nelle vene calcitiche (Fiora, 2007).
In commercio è stato introdotto da alcuni anni un materiale artificiale che imita la breccia
naturale.
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Giorgio Zusi Editore Verona, 543, 6-16
Fiora L., Alciati L. (2006) – I marmi colorati del Piemonte. L’Informatore del Marmista, 533,
Giorgio Zusi Editore, Verona, 16-22 con allegata carta geologica
Fiora L., Alciati L., Audagnotti S. (2003) – Pregio ed eleganza del Portoro Ligure.
L’Informatore del Marmista, 497, 22-34.
Fiora L., Semiani F., Cosi M. (1999) – Graniti e Marmi neri. Marmi Graniti Pietre, David
Trade Corporation lugano, gennaio-febbraio 1999, 14-18
Perrier R. (1996) - Les marbres rouges de type Rosso Levanto. Le Mausolée, n°720, 62-71
Pieri M. (1957) – Pigmentazioni e tonalità cromatiche dei marmi. Ulrico Hoepli, Milano, 181
pp.
Rovereto G. (1939) – Liguria geologica. Mem. Soc. Geol. It., 2, 743 pp.
Vercesi Del Castellazzo G.,Principi G.,Galbiati B.,Cortesogno L.(1981) - Carta geologica
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Ofioliti Mediterranee. CNR, Firenze.
http://www.comune.framura.sp.it/
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Fiora L. (2007) – Il patrimonio lapideo della città di Verona. L’Informatore del Marmista,
549, Giorgio Zusi Editore, Verona, 60-70
Pietre di Verona
Dal 2000 il Comitato UNESCO ha inserito Verona nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità “per la
struttura urbana, l’architettura e le caratteristiche di città fortificata, che ne fanno esempio
eccezionale di centro urbano sviluppatosi nel corso di due millenni con l’integrazione di elementi
lapidei della più alta qualità e delle diverse epoche storiche”. Il ricco patrimonio lapideo
rappresentato dalle costruzioni, dalle pavimentazioni, dalle mura e dai monumenti veronesi
concorre a connotare profondamente la città, sì da renderla unica.
Le pietre in essa utilizzate sono soprattutto quelle estratte nel Veneto, cioè i calcari dei Lessini
Veronesi e Vicentini e dell’altopiano di Asiago, le calcareniti dei Colli Berici e la trachite dei Colli
Euganei. In maniera subordinata in passato sono stati usati marmi e pietre del Bacino Mediterraneo.
Essendo poi diventata l’area veronese il comprensorio più importante al mondo per la lavorazione
della pietra, le opere del Novecento e soprattutto dei nostri giorni evidenziano una grande quantità
di litologie provenienti da molti paesi.
Una passeggiata petrografica nel centro cittadino consente pertanto di riconoscere innanzitutto i
materiali lapidei storici, di origine prevalente locale: si tratta delle rocce sedimentarie, cioè dei
celebri “marmi”, che Rodolico (1953) chiamò “pietre vive” (calcari rossi, bianchi, gialli e rosati) e
delle calcareniti più o meno ricche in fossili, note come “tufi”. Nei ciottoli delle alluvioni fluvioglaciali si osservano inoltre numerose litologie alpine, sia magmatiche intrusive ed effusive, che
metamorfiche. I terreni argillosi locali hanno altresì favorito l’uso del laterizio. Al citato Autore si
deve la guida geologica più completa della città, mentre altre opere (ad es., Brugnoli, 1997)
approfondiscono soprattutto la storia dell’edificato attraverso i secoli.
La calcarenite nummulitica della Val Gallina (“Pietra Gallina”, “Pietra di Avesa”, “Pietra di Quinzano”)
ha rappresentato un materiale di facile estrazione e lavorazione. La roccia affiora fin nella città,
come testimonia lo scavo del materiale utilizzato nel Teatro Romano. Di essa sono inoltre visibili in
diversi luoghi urbani (ad esempio, nel Giardino Giusti) le tracce dell’antica coltivazione.
Le rocce tipiche di Verona per l’uso locale, ma celebri anche in tutto il mondo, sono i calcari liassici,
giuresi e cretacei di vari colori: sono, ad esempio, i “lastrami” (o ”lastami”) bianchi o rosa,
appartenenti alla Scaglia, facilmente estraibili per la presenza di sottili livelli argillosi nella matrice
carbonatica, lungo cui la roccia si spacca facilmente e i “Nembri” giuresi (“Nembro Chiaro” e
“Nembro Rosso”), sia compatti che nodulari (“Broccati”, “Broccatelli”), come pure brecciati
(“Mandorlati”). In essi abbondano i macrofossili (Ammoniti), spesso anche di considerevoli
dimensioni. Altri “marmi” importanti sono quelli gialli (ad esempio, “Giallo Reale”), verdognoli
(“Verdello”), grigi e quelli neri (ad esempio, il calcare argilloso “Nero di Roveré”, estratto nei Lessini).
Celebri anche le “Lumachelle”, tra le quali si ricorda il calcare marnoso ricco di bivalvi noto come
“Lumachella di San Vitale”.
Già i Romani utilizzarono il “tufo” (biocalcarenite) e i “marmi”(calcari) bianchi e rossi, estratti nella
vicina Valpantena, che collegarono con una strada basolata alla città. Le pietre romane in epoca
medioevale furono poi spesso reimpiegate assieme a ciottoli. Diverse costruzioni romaniche si
caratterizzano per la bicromia data dal laterizio associato al “tufo” e nelle parti più importanti delle
costruzioni (ad esempio, portali di chiese) dei celebri “marmi”: la facciata di San Zeno è in cotto e
“tufo”. Anche la Torre dei Lamberti e il Palazzo Comunale presentano questa tipica zebratura
bicromatica.
Solo nel Rinascimento ai calcari bianchi, rosa e rossi si aggiunsero quelli neri di Roveré, come
testimonia, ad esempio, il portale di Sant’Anastasia. Nelle principali chiese cittadine le
pavimentazioni interne sono state realizzate con questi tre tipi di calcari. Il bianco dei portali delle
chiese (Sant’Anastasia e Duomo) è anche rappresentato da marmo bianco di importazione
(prevalente “Marmo Proconnesio” dell’isola di Marmara in Turchia).
Nelle parti esterne di costruzioni particolarmente significative si osservano anche altri materiali
lapidei, in particolare una vulcanite nera nei tondi alla base di Sant’Anastasia e un porfido rossoviolaceo (probabile “Porfido Imperiale Egiziano”) in una colonnina collocata presso l’ingresso laterale
del Duomo.
Le decorazioni degli interni delle Chiese veronesi sono il trionfo del calcare rosso e delle pregiate
“lumachelle” (calcari a rudiste), riconoscibile ad esempio nell’interno del Duomo cittadino, oltre a
molte rocce di importazione (ad esempio, “Verde Antico di Sparta”, “Porfido Imperiale”. “Breccia di
Arzo”, “Marmo Cipollino”).
Oltre che nelle costruzioni cittadine una ricca collezione di lastre di “marmi” locali è visibile presso il
Museo di Scienze Naturali di Verona.
In conclusione, passeggiando per la città sono ovunque sotto gli occhi i calcari di vari colori
appartenenti all’Ammonitico di età Giurese (molto decorativi sono soprattutto il Rosso Verona, il
Broccato Rosso, il Rosa Corallo, il Giallo di Verona, il Verdello) oltre al celebre Chiampo (assai usato in
epoca tardo barocca e nel moderno) e alle Pietre Tenere dei Colli Berici, di età eocenica. Anche le
manifestazioni vulcaniche dei Colli Euganei hanno fornito trachite e altre vulcaniti che i costruttori di
Verona hanno impiegato fin dall’antichità. Nelle pavimentazioni, oltre alla trachite euganea, fu
utilizzata anche una roccia basaltica dei Monti Lessini. Nei lastricati attuali si osservano inoltre
diversi graniti grigi di varia provenienza, tra cui la tonalite dell’Adamello, ricca di inclusi femici. Le
pavimentazioni, oltre che da lastricati calcarei con superficie a spacco, spuntata o rigata, spesso
ricchi di macrofossili (Ammoniti), sono rappresentati da acciottolati: il più antico di essi è quello a
prevalente porfido, talora associato ai calcari bianchi. L’acciottolato usato recentemente per
integrazioni è invece quello delle alluvioni del Ticino con differenti litologie alpine. Le pavimentazioni
in cubetti di porfido sono anche assai comuni.
Lo stato di conservazione delle rocce usate in Verona è strettamente correlato alla composizione
chimico-mineralogica e alla porosità. Ad esempio, il calcare nodulare veronese (noto in tutto il
mondo come “Rosso Verona”) è una micrite con ematite e minerali argillosi (illite, montmorillonite),
che a seconda del tenore in ferro e del suo stato di ossidazione assume colori diversi, essendo la
rossa per ematite la varietà più celebre, quella gialla dovendo il colore alla limonite, mentre in quella
verzolina è il ferro ferroso responsabile della colorazione. Soprattutto la presenza di fasi argillose
espandibili ne causa il degrado con decoesionamento granulare, esfoliazione e vistose mancanze.
Anche la “Pietra di Nanto” o “di San Germano” è poco durevole per la presenza di argilla
montmorillonitica, mentre la “Pietra tenera di Vicenza” o “di San Gottardo” o “di Custoza”,
biomicrite ricca di macro e microfossili, è più pura, ma assai porosa.
Per tutte queste rocce lo stato di conservazione dipende essenzialmente dalla loro natura
carbonatica delle rocce, denotando con il tempo le forme di alterazione/degrado tipiche di questi
materiali. In primo luogo si evidenzia la crosta nera a gesso di colore scuro per la presenza di
particelle carboniose, che si origina in zone riparate dal dilavamento.
Per quanto riguarda il degrado delle rocce usate nelle pavimentazioni, i graniti mostrano in generale
buon stato di conservazione, fatta eccezione per la macchiatura ruggine conseguente ad alterazione
di solfuri, la trachite è solo occasionalmente interessata dal degrado centrale (o a scodella), mentre
più usurati dal calpestio appaiono i calcari, deturpati ovunque da tracce di gomma da masticare
impregnata di smog.
Riferimenti bibliografici
Brugnoli P. (1997) – Le pietre di Verona. CIERRE Edizioni, Caselle di Sommmacampagna
(VR), 125 pp.
Rodolico F. (1953) - Le pietre delle città d'Italia. Le Monnier, Firenze, 475 pp.
Principali “marmi colorati” di uso storico in Verona
Calcari Rossi: “Rosso Verona”, “Rosso Broccato”, “Rosso Broccatello”, “Rosso Grezzana”, “Rosso
Chiaro”, “Rosso Sanguigno”, “Rosso Fiamma”, “Rosso Asiago” (“Rosso Magnaboschi”);
Calcari Bianchi/Rosa: “Bianco Verona”, “Biancone”, “Pietra di Prun” (“Pietra Prescichina”), “Rosa
Corallo”, “Nembro Rosato Caprino”, “Mandorlato”, “Rosa Vegerana”, “Chiaro Selva”, “Rosa
Perlato”;
Calcari Gialli: “”Giallo Broccatello Oro”, “Giallo Reale”, “Giallo Verona”, “Giallo San Francesco”,
“Giallo San Zeno”, “Gialletto” (“Nembro Gialletto”);
Calcari Grigio-Verdognoli: “Bronzetto” (“Pergamena”), “Verdello” (“Nembro Verdello”), “Verdello
Grezzana”,
Calcari Bruni/Neri: “Lumachella Nero Nube Conchigliato”, “Grigio di San Vitale” (“Grigio Oniciato
di San Vitale”), “Nero Nube”, “Nero di Roveré;
Biocalcareniti: “Chiampo” (“perlato”, “Mandorlato”, “Paglierino”, “Rosato”, “Serpeggiante”),
“Pietra di Vicenza” (“di Nanto”, “ di Custoza”, “di San Gottardo”); “Pietra Gallina” (“Pietra di
Avesa”, “Tufo di Quinzano”).
Brecce:
-
colore rosso: “Breccia Pernice”;
colore viola: “Breccia Viola Antico”;
colore rosso-viola: “Breccia di Castelvero”
policrome: “Breccia Macchia Vecchia Italiana”, “Breccia Avorio”, “Avana del Garda”, Rosa
del Garda”.
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Fiora L. (2008) – Stones of Rimini. L’Informatore del Marmista, 559, Giorgio Zusi Editore,
Verona, 35-43
Pietre di Rimini
La città di Rimini vuole proporsi per il futuro come una delle nuove capitali del Mediterraneo
con l’ambizioso progetto di riqualificazione del Lungomare Tintori e del Lungomare Murri,
sì da aumentare l’attività turistica in tutto l’anno, creando nuove costruzioni e nuovi spazi
pedonali ed usando in maniera sostenibile le risorse naturali. I progetti architettonici
presentati durante il XXIII Congresso Mondiale di Architettura (Torino, 2008) testimoniano
l’intento di progettare in una nuova alleanza con la natura, riqualificando la valenza
ambientale del luogo: il Lungomare Murri sarà ricostruito in base al progetto di Foster e
Partners di Londra, mentre il lungomare Tintori e lo spazio antistante il Grand Hotel
(“Kursaal”) saranno opera dell’Atelier Jean Nouvel.
La città di Rimini possiede forte valenza storica, testimoniata anche dalle rocce locali e di
importazione utilizzate nei suoi monumenti e comprendenti una gran varietà di “marmi” e
“graniti” di diversa provenienza mediterranea. Rodolico (1953) descrisse le rocce usate nei
suoi “monumenti d’eccezione” (in primo luogo il Tempio Malatestiano) e nelle numerose
costruzioni che arricchiscono il centro storico. Tra le rocce locali è segnalato il calcare del
Monte Titano (o Calcare di San Marino), di colore bianco, giallo o grigio, ricco in fossili
(briozoi) e di età Miocenica. Le cave sono sulla sommità del monte, dove secondo la
tradizione trovò riparo il tagliapietre cristiano fuggito dall’isola di Arbe e dalla città di
Rimini. Al di sotto la serie Miocenica comprende calcari bruno-giallastri e arenarie, di cui
furono usati i ciottoli per pavimentare inizialmente le strade. Presso Rimini affiora il Pliocene
con un “tufo” calcareo (“spungone”), che già coltivarono i Romani: si ritrova nelle murature
e nelle porte cittadine. Già i Romani importarono rocce da altre regioni italiane e dall’Istria
ed usarono il laterizio, realizzato con le argille dei depositi prossimi alla città di età
Pliocenica o più recente. Molte costruzioni medioevali hanno murature in cotto e la pietra è
riservata a qualche elemento (ad esempio, capitelli e basi di colonne nel Palazzo
dell’Arengo). Le costruzioni rinascimentali sono invece il trionfo della pietra: l’edificio più
celebre è il Tempio Malatestiano, la cui facciata, opera di Leon Battista Alberti, è rivestita in
Pietra d’Istria, Pietra Rossa di Verona, porfidi rossi e verdi antichi e marmi (Rodolico, 1953).
Nei palazzi dal Cinquecento al Settecento rocce sedimentarie carbonatiche locali (calcare di
San Marino) si associano sovente alla Pietra d’Istria, facilmente trasportabile via mare (si
veda, ad esempio, il cinquecentesco Palazzo Lettimi con decorazione della facciata in pietra
d’Istria e cordonata in calcare di San Marino). La Pescheria costruita nel Settecento in
mattone ha banchi e fontane in Pietra d’Istria, mentre il Tempietto di Sant’Antonio nella
Piazza Tre Martiri è rivestito nella pregiata Pietra d’Istria nei lati più visibili e negli altri in
locale calcare di San Marino.
Le pietre dei principali monumenti di Rimini in tempi recenti sono state oggetto di una
pubblicazione specifica (Rossi & Grillini, 2007), dove accanto alle informazioni di Rodolico
sopra riportate sono indicate altre varietà di litotipi di differente provenienza. Questa guida
petrografica individua sette monumenti cittadini, descrivendo con particolare riguardo le
rocce usate in esterni e all’interno della costruzione più celebre, cioè del tempio Malatestiano.
Il percorso geo-architettonico suggerito consente al turista di apprezzare le rocce usate nella
romana “Ariminum”, che fu centro di grande importanza strategica e commerciale, e quelle
dell’edificio rinascimentale più significativo della città. Il percorso tocca opere con uso di
materiali locali dell’Appennino romagnolo (Pietra di San Marno, Pietra di Montecodruzzo,
Arenaria di Covignano) e di materiali veneto-istriani (Pietra Aurisina, Trachite Euganea,
Biancone di Verona, Rosso Verona, Grigio di Noriglio, Pietra Tenera di Vicenza), oltre che
le pietre di riuso provenienti da diverse località del Mediterraneo (Porfido Imperiale d’Egitto,
Diorite Egiziana, Porfido Verde di Sparta, Marmo Verde Tessaglia, Pavonazzetto Antico,
Marmo Rosso Iassense, Marmo Proconnesio, Breccia di Arbe…). In particolare pregiati
“marmi” e “graniti” alloctoni sottolineano l’elegante decorazione della facciata del Tempio
Malatestiano, eretto per esaltare come un antico imperatore romano Sigismondo Pandolfo
Malatesta, signore di Rimini tra il 1432 e il 1468. Tutta la facciata è rivestita in calcare
(Biancone di Verona), con alcuni elementi in Pietra d’Istria e cordonature in Rosso Verona. Il
Calcare Grigio di Noriglio si ritrova nel portale e nei due festoni laterali, oltre che in lapidi.
All’interno della costruzione lo stesso calcare, usato in sculture, appare grigio nero per
trattamenti superficiali (si vedano, in particolare, gli elefanti telamoni nella Cappella di San
Sigismondo, arricchita con diversi marmi, cioè Pentelico, Pario, Proconnesio e Carrara, oltre
che Pavonazzetto Antico ). In diversi punti all’interno della costruzione sono stati usate sia la
Pietra d’Istria che la Pietra di Aurisina, oltre che la Pietra della Cesana, calcare appartenente
alla Formazione Maiolica. L’alta balaustra della Cappella dei Pianeti è un traforo in Rosso
Verona, sovrastato dalla Breccia Mandorlata di Arbe (Croazia). Anche il Marmo di
Candoglia compare all’interno del Tempio Malatestiano, costituendo i capitelli, le vasi dei
pilastri, mensole e festoni nella Cappella delle Muse e delle Arti Liberali.
La duecentesca Porta Galliana è in laterizio e locale arenaria; nell’Arco di Augusto fu usata la
Pietra di Aurisina; l’antica muratura di cinta cittadina fu edificata con blocchi di Arenaria di
Covignano, mentre per l’Anfiteatro i Romani usarono mattone e conglomerato cementizio. Il
Ponte di Augusto e Tiberio fu realizzato con grossi blocchi di “Aurisina” (prevalente
“Aurisina Fiorita” e scarsa “Roman Stone”): i successivi rifacimenti videro l’impiego “Pietra
d’Istria”. I muri d’ala di epoca romana sono in laterizio con alla base blocchi di “Trachite
Euganea”.
La Rimini novecentesca ha nel Grand Hotel la sua costruzione più celebre: inaugurato nel
1908, divenne il simbolo della Rimini della Belle Epoque, luogo di frequentazione di
personaggi illustri, al pari del Kursaal, il più antico stabilimento balneare, distrutto nel
Novecento, la cui costruzione nel 1873 aveva segnato la nascita della Rimini turistica. Anche
la Fontana dei Quattro Cavalli, monumento inaugurato nel 1928, fu rimossa alla metà del
Novecento, per essere poi ripristinata nel 1983.
References
Rodolico F. (1953) – Le pietre delle città d’Italia. Le Monnier, Firenze, 497 pp.
Rossi P.L., Grillini G.C. (2007) – Rimini: la città raccontata dalle pietre. Geoitalia 2007, 24
pp.
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Fiora L. (2008) – Marble and sandstone in the province Massa Carrara. L’Informatore del
Marmista, 561, Giorgio Zusi Editore, Verona, 42-54
Marmo e arenaria nella Provincia di Massa Carrara
Abstract
Nella provincia toscana di Massa Carrara l’attività estrattiva lapidea è importantissima: il
comprensorio del celeberrimo marmo apuano rappresenta da millenni una realtà unica al mondo, ma
anche rocce “minori” rivestono localmente grande importanza, come nel caso dell’arenaria della
Lunigiana. Il marmo apuano (meglio sarebbe dire “i marmi”, dal momento che le varietà
merceologiche sono molte) è caratterizzato da una storia estrattiva di almeno duemila anni. Ci sono
tre grandi bacini: Colonnata, Miseglia-Fantiscritti e Torano, con la maggior parte delle cave coltivate
a gradoni a cielo aperto. E’ però presente anche la coltivazione in sotterraneo per camere e pilastri.
Nelle cave di marmo da alcuni anni vengono realizzati spettacoli artistici itineranti di musica, prosa e
danza con grande effetto scenografico: l’edizione 2008 “Festival Lunatica” (la quattordicesima,
organizzata dalla Provincia di Massa Carrara e dedicata a Piero Cascella) ha previsto quest’anno una
serata musicale sul piazzale Fantiscritti, mentre in precedenti edizioni fu usata la suggestiva cava in
sotterraneo del Ravaccione. Gli spettacoli in cava avvicinano un pubblico eterogeneo alla realtà
estrattiva locale, che è di grande valore economico e di elevata valenza storico-artistica, proponendo il
bacino apuano come realtà primaria locale ricca di tradizioni e conoscenze uniche, contrastando la
diffusa convinzione che cava sia solo sinonimo di ferita all’ambiente. Le forme scultoree in marmo di
Carrara sono senza dubbio la più nota realizzazione anche di arte contemporanea, che nel 2008 ha
trovato una variegata esposizione in Carrara. La Provincia di Massa comprende anche parte della
Lunigiana, regione storico-geografica che si estende in Toscana, Liguria ed Emilia. Crocevia di
strade importanti nel Medio Evo, fu terra percorsa da pellegrini celebri e sconosciuti lungo la via
Francigena e le sue numerose diramazioni. Il nome deriva da Luni, l’antico porto romano, fondato nel
177 a.C.. Ai giorni nostri la Lunigiana appare come un ambiente naturale assai ben conservato.
Numerose sono in Lunigiana le località di interesse storico-artistico, realizzate sempre con materiale
lapideo locale, che è l’arenaria, usata fin dalla preistoria nelle celebri statue stele, impiegata nelle
costruzioni di varie epoche come pietra da taglio, oltre che come pietra ornamentale in portali,
cantonali, stipiti, cornici, marcapiani e sculture (quali i volti sopra i portali o nelle facciate di case);
inoltre servì per macine, contenitori di acqua ed olio, pavimentazioni e coperture di tetti, che
testimoniano un impiego millenario grazie alle capacità di lavorazione di scalpellini sia locali, che di
altra provenienza (nel Rinascimento, in particolare, vi operarono maestranze lombarde, comasche e
luganesi). Pontremoli. Fivizzano, Gragnola, Malgrate sono alcune delle numerose località dove la
pietra locale, ancora coltivata ai giorni nostri, è stata realizzata in pregevoli realizzazioni
architettoniche e artistiche.
Nella provincia toscana di Massa Carrara l’attività estrattiva lapidea è importantissima: il
comprensorio del celeberrimo marmo apuano rappresenta da millenni una realtà unica al mondo, ma
anche rocce “minori” rivestono localmente grande importanza, come nel caso dell’arenaria della
Lunigiana. Il marmo apuano (meglio sarebbe dire “i marmi”, dal momento che le varietà
merceologiche sono molte; Carmignani, 2007) è caratterizzato da una storia estrattiva di almeno
duemila anni: infatti datazioni con Carbonio 14 su paleosuoli in discarica fanno risalire all’epoca
preromana l’attività di coltivazione. L’estrazione di epoca romana è testimoniata da “tagliate”, da
blocchi riquadrati e da diversi elementi architettonici, oltre che da fonti storiche. La prima carta
geologica dell’area fu opera di D. Zaccagna (1932), ricordato anche con una targa marmorea sulla
facciata della casa natale in Carrara. Attualmente, oltre alla carta geologico-strutturale (Carmignani,
1985) è anche disponibile la carta delle varietà merceologiche (Meccheri, 1996).
Ci sono tre grandi bacini estrattivi del marmo: Colonnata, Miseglia-Fantiscritti e Torano, con la
maggior parte delle cave coltivate a gradoni a cielo aperto. E’ però presente anche la coltivazione in
sotterraneo per camere e pilastri. Le varietà più diffuse nel bacino di Colonnata sono “Bianco
Ordinario”, “Bianco Venato”, “Arabescato” e “Bardiglio” (o “Marmo Azzurro Variegato” di
Strabone). A Miseglia-Fantiscritti, notissimo per i Ponti di Vara, tratto dell’antica ferrovia marmifera
costruita nella seconda metà dell’Ottocento per collegare i tre bacini con le segherie e il porto di
Carrara, sono coltivati differenti marmi: “Bianco Ordinario”, “Venato”, “Nuvolato”, “Cremo” e
“Zebrino”. A Fantiscritti, il cuore di tutti i bacini marmiferi, esiste anche la cava in sotterraneo del
“Ravaccione”. Nel bacino di Torano si estraggono, tra l’altro, “Statuario”, “Calacata”, “Cremo” e
“Arabescato”. La celebre cava in cui si sarebbe approvvigionato Michelangelo è quella “Polvaccio”
(“Cave Michelangelo”). Una targa su un edificio in Carrara ricorda il soggiorno in città dell’artista
che sceglieva personalmente i blocchi. L’intenso traffico di autocarri che trasportano i blocchi a valle
è ora evitato attraverso i centri abitati, essendo stata realizzata l’apposita “ Via dei Marmi”.
Nelle cave di marmo da alcuni anni vengono realizzati spettacoli artistici itineranti di musica, prosa e
danza) con grande effetto scenografico: l’edizione 2008 “Festival Lunatica” (la quattordicesima,
organizzata dalla Provincia di Massa Carrara e dedicata a Piero Cascella) ha previsto quest’anno una
serata musicale sul piazzale Fantiscritti, mentre in precedenti edizioni fu usata la suggestiva cava in
sotterraneo del Ravaccione. Gli spettacoli in cava avvicinano un eterogeneo pubblico alla realtà
estrattiva locale, di grande valore economico e storico-artistico, proponendo il bacino estrattivo
apuano come realtà primaria locale ricca di tradizioni e conoscenze uniche, contrastando la diffusa
convinzione che cava sia solo sinonimo di ferita all’ambiente.
L’intensa coltivazione dei marmi di Carrara soprattutto nella seconda metà del Novecento ha prodotto
l’accumulo di una notevole quantità di scarti nei cosiddetti “ravaneti”: e’ stato calcolato che il 50% di
tutto il marmo sia stato estratto a partire dagli anni Sessanta del Novecento (Coli et al., 2000). I
ravaneti rappresentano oggi un enorme accumulo di marmo che si estende sul 60% dei giacimenti.
Attualmente gli scarti possono rappresentare importante materia prima seconda, destinata a diversi
settori industriali. Gli scarti servivano in passato anche a realizzare le vie di lizza, ripidi percorsi dei
blocchi fatti scendere su lizze, cioè grosse slitte in legno. La “lizzatura storica” è proposta ogni anno
ai turisti come memoria del passato (“…la lizza, uno scivolo, un piano inclinato nello scheggiame e
nel tritume: un greve e bianco cubo vi si affaccia dal ripiano della cava e quasi pencola in sommo:
discende lentissimo, per piccoli strappi inavvertiti: cade un centimetro alla volta, imbragato nei cavi:
sdrucciola sulle tavole saponate che si appoggiano a traverse di legno, arriva allo spazzo dopo ore,
dopo giorni”; Carlo Emilio Gadda “Le Meraviglie d’Italia”).
Gli usi dei marmi di Carrara sono molteplici e ben conosciuti. Un utilizzo locale è rappresentato dalle
conche del lardo, vasche in “marmo vetrino” a grana finissima, utilizzato per la preparazione del
celebre prodotto gastronomico. Le forme scultoree sono senza dubbio la più nota realizzazione anche
di arte contemporanea, che nel 2008 ha trovato una variegata esposizione in Carrara. Nel Convento di
San Francesco, che ospita il Centro Arti Plastiche Internazionali e Contemporanee, è stata allestita la
XIII Biennale Internazionale di scultura di Carrara, “Nient’altro che scultura” (27 luglio – 28
settembre 2008), articolata in diverse sezioni che suggeriscono l’approfondimento di questo
importante settore artistico con opere sia di artisti affermati che di giovani scultori. Altre opere
scultoree si possono ammirare al Parco della Padula, nella Chiesa del Suffragio, presso l’Accademia
Belle Arti e in altri luoghi cittadini. In occasione della Biennale quindici importanti laboratori cittadini
sono stati aperti al pubblico per consentire la visione di opere in corso di realizzazione: in particolare
nei “Laboratori Artistici di Scultura Nicoli & Lyndman”, attivi da sei generazioni, si possono
ammirare realizzazioni importanti in corso d’opera, quali, tra l’altro, quelle commissionate da
Santiago Calatrava.
Lunigiana: strade storiche, statue-stele, castelli e fortezze
La Lunigiana è una regione storico-geografica che si estende in Toscana, Liguria ed Emilia. Crocevia
di strade importanti nel Medio Evo, è stata terra percorsa sia da pellegrini celebri che sconosciuti
lungo la via Francigena e le sue numerose diramazioni. Il nome deriva da Luni, l’antico porto romano,
fondato nel 177 a.C.. Ai giorni nostri la Lunigiana appare come un ambiente naturale assai ben
conservato. Numerose sono le località lunigianesi di interesse storico-artistico, realizzate sempre con
materiale lapideo locale: ad esempio, Aulla, Bagnone, Filattiera, Fivizzano, Gragnola, Mulazzo,
Podenzana, Pontremoli, Tresana, Villafranca Lunigiana, Zeri e altre, dove esistono Beni Cultuali di
enorme pregio. La pietra è l’arenaria, usata fin dalla preistoria nelle celebri statue stele, impiegata
nelle costruzioni come pietra da taglio, oltre che come materiale ornamentale in portali, cantonali,
stipiti, cornici, marcapiani, sculture (quali i volti sopra i portali o nelle facciate di case), scelta anche
per macine, contenitori di acqua ed olio, pavimentazioni, coperture di tetti. Tutte le realizzazioni
diffuse sul territorio testimoniano un impiego millenario grazie alle capacità di lavorazione di
scalpellini sia locali, che di altra provenienza (in particolare nel Rinascimento vi operarono
maestranze lombarde, comasche e luganesi). Pontremoli sorge attorno alla rocca del Piagnaro,nella
valle del fiume Magra in alta Lunigiana. Le prime notizie storiche risalgono al X secolo. Nel Castello
fortificato del Piagnaro (il nome deriva dalle lose arenacee di copertura, dette “piagne”) è ospitato il
“Museo delle statue stele Augusto Cesare Ambrosi”, che raccoglie la più importante raccolta europea
di scultura megalitica, cioè le sculture in arenaria realizzate a partire da cinquemila anni fa e in uso
fino al II secolo a.C. La posizione strategica della città, sorta sulla storica via Francigena, ne fece un
centro importante che fu fortificato, la cui parte più antica è il mastio, con un sistema di mura più
volte distrutte e rifatte. Nella Chiesa di San Pietro è conservato un bassorilievo medievale in arenaria
noto come “Labirinto”. A Fivizzano, città colta dove nel 1471 furono stampati libri con i primi
caratteri tipografici italiani, come testimoniato nel “Museo della Stampa Jacopo da Fivizzano”,
l’uomo ha lasciato molte tracce fin dalla preistoria. Tra le importanti realizzazioni del territorio, si
annovera il Castello della Verrucola, complesso fortificato, residenza dei Bosi fino al XII secolo,
ricostruito nel Trecento dai Malaspina. Il castello, totalmente in pietra, residenza-atelier dello scultore
Piero Cascella, sorge su uno sperone roccioso e si raggiunge con una scala tra edifici medievali.
Sempre nel territorio di Fivizzano, sorge il Castello dell’Aquila, che domina dall’alto di un colle il
borgo medioevale di Gragnola (“Forum Clodi” della Tabula Peuntigeriana, il più antico atlante
europeo risalente ai primi secoli dell’Alto Medioevo). Le origini di questa fortificazione risalgono al
Medioevo per il controllo dei transiti che dal centro Europa raggiungevano Roma. Abbandonato nel
Novecento, si ridusse a stato di rudere, finché importanti restauri negli ultimi anni lo riportarono
all’antico splendore. Durante i lavori di scavo nel 2004 venne alla luce lo scheletro di un cavaliere
trecentesco, ucciso da un colpo di balestra alla gola, venuto alla ribalta internazionale perché oggetto
di studi antropologici e medico-legali. Le pietre della costruzione sono l’arenaria, il calcare, il calcare
marnoso e il “travertino” (“calcare cavenoso”). A poca distanza da Fivizzano nella frazione di
Cerignano sorge il Convento del Carmine, di origine cinquecentesca. Le pitture murali adornanti le
lunette del chiostro, opera di Stefano Lemmi, sono state restaurate e i lavori sono appena terminati.
Importanti lavori di restauro hanno anche interessato la chiesa del convento, gravemente danneggiata
dall’incuria per molto tempo e da terremoti sia nell’Ottocento che nel Novecento. Nel territorio
comunale di Fivizzano, in località Rometta Soliera, è in avanzato stato di costruzione la “Piazza dei
Parchi” (tre parchi: Apuane, Cinque Terre e Appennino Emiliano), pavimentata in arenaria e arredata
con grande fontana, panchine e bancali in marmo di Carrara (progetto Piero Cascella). A Malgrate
l’imponente castello le cui origini risalgono al Trecento fu ridotto allo stato di rudere fin
dall’Ottocento. Oggi appare totalmente restaurato dopo l’intervento conservativo strutturale degli anni
Ottanta del Novecento. Questa fortezza medievale è dominata dal mastio, torre circolare alta 25 m, ed
è totalmente circondato da mura.
Statue stele della Lunigiana
Dall’Eneolotico all’Età del Ferro nella valle del fiume Magra si sviluppò un fenomeno artistico
particolare, quello di stele antropomorfe che rappresentano uomini e donne, di cui sono stati ritrovati e
raccolti nel museo di Pontremoli oltre sessanta esemplari. Le raffigurazioni femminili (“donne di
arenaria”) testimoniano l’importante ruolo femminile nella società ligure - apuana. Scoperte a partire
dalla prima metà dell’Ottocento, perlopiù durante lavori di bonifica agricola, recuperate anche in
costruzioni dove erano state usate come materiale da muratura e da ornamento o in muretti di confine,
esse forniscono informazioni sulla cultura e religione delle antiche popolazioni locali. Esse sono oggi
raccolte nel “Museo delle Statue Stele Lunigianesi” nel Castello del Piagnaro a Pontremoli. Tutte
sono nella locale arenaria, roccia facilmente modellabile con strumenti prima di pietra (selce), poi di
ferro, mentre per lisciarle furono usati ciottoli di arenaria e sabbia silicea come abrasivo. Le stele più
antiche (Gruppo A) sono rappresentazioni stilizzate con testa appena abbozzata; le stele del Gruppo B
mostrano una elaborazione stilistica accurata, realizzata dai lapicidi lunigianensi, tipicamente con
capo distinto a forma di mezzaluna e con ricchi ornamenti. Le stele più recenti del gruppo C sono
vere e proprie statue, lavorate a tutto tondo. Le statue stele della Lunigiana rappresentano un
patrimonio unico nella statuaria preistorica, che conta numerosi esempi in molti paesi: Spagna,
Francia, Svizzera, Italia (Valle d’Aosta, Valcamonica, diverse località delle Alpi Orientali, Puglia e
Sardegna), Germania, Turchia, Bulgaria, Romania, Moldavia e Ucraina.
Le pietre del costruito in Lunigiana
Dal punto di vista geologico, in Lunigiana affiorano Unità del Dominio Toscano e Unità dell’Insieme
Ligure-Emiliano (Di Battistini et al., 2000; A.A. V.V., 1994). La pietra più tipica è un’arenaria, cioè
una roccia sedimentaria terrigena, correlabile con diverse Unità. Le varietà più importanti
appartengono alla Formazione Macigno di età Oligocene Superiore – Miocene Inferiore (Di Battistini
& Rapetti, 2002) e all’Unità di Monte Gottero, affiorante nel settore settentrionale della Lunigiana di
età Cretaceo Superiore - Paleocene (Cimmino & Robiano, 2005). Il Macigno della Lunigiana è
petrograficamente un’arenaria silicoclastica quarzoso-feldspatico-micacea con granulometria mediofine, con colore perlopiù grigio o localmente giallastro. L’Arenaria di Monte Gottero è simile. La
pietra della Lunigiana è talora anche identificata come “Pietra Serena”, essendo però il termine di
“Pietra Serena” commercialmente usato per l’arenaria di Firenzuola. Si tratta di materiale dotato di
buone proprietà fisico-meccaniche (in particolare con basso coefficiente di imbibizione), che ha
profondamente connotato l’edilizia locale (Di Battistini & Rapetti, 2002; Di Battistini et al., 1999; Di
Battistini et al., 2000). Facilmente lavorabile, utilizzata come materiale da costruzione nelle murature
e come materiale strutturale e decorativo, ha trovato impiego anche nelle pavimentazioni e nelle
coperture dei tetti (le lose a Pontremoli sono dette “ piagne “, mentre “piagnoni” e “piastroni” sono le
spesse lastre di pavimentazione). Particolarmente importante è il suo uso storico nelle statue stele.
Tutte le costruzioni storiche del territorio ne denotano l’uso: chiese, cappelle, case, castelli e torri ne
vedono l’utilizzo sia in conci squadrati che in ciottoli fluviali (Bargossi et al., 1998; Di Battistini et
al., 1999). Coltivata in passato in diversi siti estrattivi (l’inizio della coltivazione risale al
Quattrocento), essendo Pontremoli e Fivizzano i maggiori centri, fu sempre lavorata da abili
scalpellini. La roccia riveste importanza notevole per il restauro, oltre che per l’edilizia
contemporanea. A partire dal 2001 nel territorio di Pontremoli è stata riaperta la cava di Pian di
Lanzola che fornisce un materiale impiegato diffusamente sul territorio. Sono esempi di utilizzo il
Castello dell’Aquila a Gragnola (Massa), dove è stata usata per stipiti, soglie, davanzali e architravi di
porte e finestre, il chiostro della Certosa di Calci (Pisa) e quello del Palazzo Arcivescovile di Pisa
(lastre di pavimentazione), oltre che la pavimentazione del vialetto della Torre di Pisa. E’ stata
utilizzata anche per monumenti contemporanei (ad esempio, sotto forma di cinque stele moderne nel
Parco Nazionale delle Cinque Terre). Altra cava è quella Pontia di Pognana nel territorio di Fivizzano
(Bargossi et al., 1998), ma in numerose località furono in passato aperte cave ora abbandonate.
L’arenaria della Lunigiana è roccia durevole, come testimoniato dal costruito storico. Le forme di
degrado talora osservate comprendono esfoliazione (anche tipico degrado a scodella nelle lastre di
pavimentazione), disgregazione, biodegrado (licheni e muschi) e patina (Di Battistini et al., 1999).
Oltre all’arenaria, in Lunigiana sono stati utilizzati altri materiali lapidei affioranti in loco: in
particolare nelle murature si rinvengono calcari e calcari marnosi, oltre al “travertino” o “pietra
spugna” (“calcare cavernoso”), utilizzato, tra l’altro, sotto forma di conci attorno a porte e finestre nel
Castello di Gragnola.
Riferimenti bibliografici
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