Fiora L., Alciati L. (2008) – The varieties of stones of Italian cities. L’Informatore del Marmista, 561, Giorgio Zusi Editore, Verona, 32-41 PIETRE DELLE CITTA’ ITALIANE La guida petrografica (geo-architettonica) è attualmente disponibile per molte città del mondo, rappresentando sia un mezzo didattico, sia un supporto per molti specialisti (architetti, geologi, storici e restauratori), oltre che uno strumento di valorizzazione turistica (Fiora et al., 2007). Alla metà del Novecento il geologo Francesco Rodolico, mineralogista e Professore presso la Facoltà di Architettura di Firenze, pubblicò “Le pietre delle città d’Italia” (1953), libro che è la prima guida petrografica delle principali città italiane, punto di riferimento ancora oggi per chi si occupa dei materiali del costruito urbano italiano, che rappresentano un riferimento mondiale unico. Attualmente, pur essendo aumentato molto il grado di conoscenza sulle stones delle città italiane in seguito a studi archeometrici, pur essendo disponibile in alcuni casi la guida geologica (Siena, Firenze, Torino, Rimini, Trento…..) e in molti altri casi essendo stati indagati i materiali lapidei di numerose singole costruzioni, non esiste un’opera unica che riunisca globalmente queste conoscenze. L’opera di Rodolico evidenzia lo stretto legame geologia-costruito e nonostante qualche imprecisione sull’uso di qualche materiale rappresenta uno sguardo d’insieme sulle rocce usate nelle principali costruzioni storiche italiane. Essa è lo specchio della geologia italiana: infatti l’autore evidenzia soprattutto i materiali prossimi al luogo di utilizzo, caratterizzando spesso anche il loro stato di conservazione. Il libro, ricco dei riferimenti bibliografici essenziali nell’analisi dei materiali lapidei di 97 città (di cui 94 in Italia, 1 in Svizzera e 2 in Croazia), rappresenta l’unico caso di osservazioni geologiche sulle stones delle città di un intero paese. Le città di cui viene fornita la guida geoarchitettonica sono raggruppate a seconda delle aree geografiche individuate come: 1) Alpi Occidentali e Liguria, 2) Alpi Centrali e Pianura Padana, 3) Alpi Orientali e Costa Adriatica, 4) Appennino Settentrionale, 5) Appennino Toscano, 6) Appennino Centrale, 7) Antiappennino Pugliese, 8) Antiappennino Laziale-Campano, 9) Appennino Meridionale, 10) Sicilia e 11) Sardegna. L’Autore evidenzia soprattutto i materiali osservabili in esterno, identificandoli con il nome popolare/commerciale e definendone la provenienza geologica. Egli sottolinea anche il prevalente materiale costruttivo: ad esempio, nella pianura padana abbonda il cotto (Cremona è la città da lui definita “più laterizia”). Vengono descritti i materiali lapidei di più facile approvvigionamento per la vicinanza degli affioramenti alle città; qualora questi non siano disponibili o non posseggono proprietà idonee, quelli trasportati da regioni più lontane. Il trasporto per via d’acqua ha enormemente agevolato l’uso di materiali alloctono: si veda, ad esempio, la città di Pavia, per la cui costruzione furono usati i materiali trasportati per via fluviale dall’Ossola o la grande diffusione della “Pietra d’Istria” nelle città adriatiche e in quelle localizzate lungo il fiume Po. Le vicende storiche hanno profondamente connotato le pietre delle città: in passato soprattutto i Romani impiegarono molte varietà provenienti da diversi paesi dell’impero. In alcuni casi sono state impiegate rocce decisamente insolite nell’ambito dell’edilizia: è il caso del gesso a Bologna o della roccia vulcanica detta “selagite” a Volterra. Le stones sono descritte da Rodolico nei vari monumenti e costruzioni in ordine cronologico a partire dalle realizzazioni più antiche. Si tratta sia di rocce ancora estratte oggi, sia di materiali storici per cui c’è spesso ripresa di coltivazione per il restauro. L’allegata carta geologica evidenzia lo stretto legame geologia/costruito. References Fiora L., Alciati L., Borghi A., Zusi V. (2003) – Italian geological map of natural stones. IMBS 2003, Istanbul September 15-18 2003, 201-208 Fiora L., Carando M. (2008) – Pietre di Torino, multimedia petrographic guide. www.pietreditorino.com Fiora L., Carando M., Sandrone R. (2007) – Multimedia petrographic guide of the city of Torino, Italy. Per. Mineral, 76, 2-3, 91-97 with references Rodolico F. (1953) – Le pietre delle città d’Italia. Le Monnier, Firenze, 475 pp. MAIN IMPORTANT STONES OF ITALIAN CITIES (RODOLICO, 1953) Aosta: Travertine, puddinga, gneiss, calcschist (“Pietra di Morgex”), marble (“Aymaville”) alabaster (gypsum) (“Alabastro di Courmayeur ”). Torino: Gneiss (“Pietra di Luserna”, “Pietra di Malanaggio”, “Pietra della Val di Susa”, “Pietra di Cumiana”), quartzite (“Bargiolina”), marbles (“Pont Canavese”, “Brossasco”, “Chianocco e Foresto”, “Frabosa”, “Val Germanasca”), calcschist, prasinite, breccia (“Breccia di Casotto”), ophicalcite (“Verde di Susa”, “Verde Alpi”) , limestone (“Pietra di Gassino”), alabaster (“Onice di Busca”), (brick). Asti: Sandstone (“Tuff”), gneiss, (brick). Genova: Limestone (“Pietra Colombina”, “Pietra di Promontorio”), slate (“Lavagna”), biocalcarenite (“Pietra di Finale”), ophicalcites (“Verde Polcevera”, “Rosso Levanto”), marbles (“Apuan Marbles”), granite (“Sardinia Granite”). Savona: Limestone, gneiss, schists, metagranites, slate (“Lavagna”), Marbles (“Apuan Marbles”). Albenga: Puddinga (“Pietra di Cisano”), limestones, biocalcarenite (“Pietra di Finale”). Domodossola: Gneiss (“Serizzi”, “Beole”), Soapstone, marble (“Crevola”), granite (“Rosa Baveno”). Bellinzona (Swiss): Gneiss, micaschist, pegmatite, marbles (“Castione”). Sondrio, Chiavenna: Gneiss (“Serizzo Valmasino”, “Ghiandone”), serpentinite (“Serpentino Val Malenco”), soapstone (“Pietra di Tresivio”), marble. Bolzano: Sandstone “Arenaria Val Gardena”, porphiry, limestones (“Marmi di Trento ”). Como: Black limestone (“Pietra di Moltrasio”), white limestone (“Maiolica”), red limestone, marble (“Musso”), sandstone, gneiss (“Serizzo”, “Ghiandone”), serpentinite, limestone breccia (“Arzo Marble”). Bergamo: Sandstone (“Sarnico”), white limestone (“Zandobbio”), red limestone (“Entratico”), black limestone (“Riva di Solto”), granite (“Rosa Baveno”, “Grigio Montorfano”), marble (“Bianco di Musso”), gypsum (“Volpinite), limestone (“Verona Red”). Brescia: Limestone (“Botticino”), Sandstone (“Pietra Simona”), limestone (“Verona Red”). Verona: Limestones and calcarenites (“Biancone”, “Rosso Verona”, “Bronzetto”,”Nero di Roverè”, “Tufo”, “Pietra Gallina”). Vicenza: Limestones (“Pietra Tenera dei Colli Berici”, “Pietra Tenera dei Colli Lessini”, “Pietra di Nanto”, Chiampo”, “Rosso Verona”), volcanic stones (“Trachite Euganea”, ”Basalto di Vicenza”). Milano: Granites (“Rosa Baveno”, “Bianco Montorfano”, “Bianco Alzo”), marbles (“Candoglia”, “Ornavasso”, “Strona”, “Crevoladossola”), conglomerate (“Ceppo”), sandstones (for example “Pietra di Saltrio”, “Pietra di Viggiu’”), serpentinite (“Pietra di Omegna”), limestone (“Nero Varenna”), dolostone (“Pietra di Angera ), limestone breccia (“Arzo”). Cremona: Limestones (“Calcari Veronesi”, “Botticino”), trachyte (“Trachite Euganea”), gneiss (“Serizzo”, “Beola”), conglomerate (“Ceppo”), sandstones, granite (“Rosa Baveno”), Marbles (“Carrara”, “Candoglia), marbles and stones (reuse), (brick). Mantova: Limestones (“Calcari Veronesi”), sandstones, (brick). Ferrara: Limestones (“Calcari Veronesi”, “Pietra d’Istria”), black and white limestone breccia, (brick). Pavia: Sandstones, “Serizzo”, “Beola”, marbles (“Crevola”, “Ornavasso”, Candoglia”, “Carrara”), breccia (“Arzo)”, dolostone (“ Pietra di Angera”, sandstones, granite (“Rosa Baveno”), (brick). Piacenza, Parma: Sandstones, limestones (“Calcari Veronesi”), gneiss (“Ghiandone”), marble (“Candoglia”), granite ( “Rosa Baveno”), conglomerate (“Ceppo”), dolostone (“ Pietra di Angera”, (brick). Modena, Reggio Emilia: Sandstones, limestones (“Calcari Veronesi”), marble, trachyte (“Trachite Euganea”), gneiss ( “Beola”), granito (“Rosa Baveno”), (brick). Bologna: Sandstones (“Masegna”), Gypsum (Selenite), Limestones (“Calcari Veronesi, “Piet ra d’Istria”), (brick). Trento: Limestones (red, white, black, “verdello”), “Porphiry”. Belluno: Limestones (“Valdart”, “Castellavazzo”, “Pietra Soccher”, “Pietra del Cansiglio”), sandstones. Trieste: Sandstone (“Masegno”), Limestones (“Aurisina”, “Pietra di Corgnale”, “Pietra d’Istria”). Parenzo, Pola (Croatia): Limestones (“Pietra d’Istria o Pietra Orsera”), marbles (reuse) Udine, Cividale: Limestones (“Nero Carnico” “Calcari del Carso”, “Pietra d’Istria”, sandstone (“Pietra Piasentina”), marble (“Greek Cipollino” – reuse), (brick). Treviso: Limestone (“Pietra di Castellavazzo”),Limestones (“Calcari del Carso”,“Pietra d’Istria”, “Rosso Verona”, “Pietra tenera di Vicenza”), trachyte (“Trachite Euganea”), granite, (brick). Venezia: Limestones (“Pietra d’Istria” “Calcari Veronesi”), marbles and other stones (“Greeek “, “Cipollino”, “Pavonazzetto”, “Tessaglia Green”, “Green Porphyry”, “Red Porphyry” - reuse). Padova: Limestones (“Verona limestones”, “Vicenza limestone”), volcanic rocks (“Trachite Euganea”, “Basalto”), (brick). Ravenna: “Istria stone”, “Verona limestones”, “Euganean Trachyte”, Greek marbles and stones (reuse), (brick). Faenza, Forlì: Biocalcarenite (Spungone, Pietra Mora), sandstones, “Istria Stone”, “Verona Limestones”, (brick). Rimini: Limestones (San Marino Limestone and other), biocalcarenite (Spungone), sandstones, limestones (“Istria Stone”, “Verona Red”), volcanic rocks (“Egyptian Red Porphiry”, “Green Antique Porphiry”reuse). Pesaro, Fano: Limestones, sandstones (“St. Ippolito Stone and other”), “Istria stone”, (brick). Ancona: Sandstones (”Tufo”), limestones (“Calcari del Monte Conero”), limestone (“Pietra d’Istria”, marbles (“Imetto”) and stones (reuse). Prato: Limestone (“Alberese”), sandstone (Macigno”), serpentinite (“ Verde di Prato” or “Nero di Prato” or “Ranocchiaia”), gabbro (“Granitone”). Firenze: Sandstone (“Macigno - Pietra serena- Pietra bigia”, “Pietraforte”), marmo (“Carrara”), breccia (“Seravezza”), serpentinite, limestones (“Alberese”, “Red Marble”), Marbles (“Greek”, – reuse; “Lasa”, restoration). Arezzo: Sandstone (“Macigno, Pietra Serena, Pietra Bigia” ), travertino “Rapolano”. Cortona: Sandstone (“Macigno, Pietra Serena”), travertine. Città di Castello: Sandstone (“Macigno, Pietra serena”), limestone, (brick). Carrara: Marbles (“White”, “Statuario”, “Bardiglio”, “Nero di Colonnata”), Breccias. Lucca, Pisa: Sandstones (“Pietra di Guamo” or “Pietra Bigia”, “Pietra Gonfolina”, “Panchina”), limestones, marbles, breccia, serpentinite (“Prato Green”), marbles (Greek) and other stones (reuse); granites (“Elba”, “Giglio”, “Sardinia”). Volterra: Sandstone (“Panchina”), limestone (“Tufo di Pignano”), volcanic rock called selagite (or “Montecatini Stone”), serpentinite (“Ulignano Serpeninite” or “Gabbro”). Siena: Sandstones (“Pietra Serena”), marbles (white, red, yellow “Giallo Siena”), limestone, serpentinite (“Marmo Nero”), travertine, (brick). Pienza, Montepulciano: Limestones, sandstone (“Tufo”), travertine, (brick). Gubbio: Limestones (“Palombino” and other), sandstones (Pietra Spugna”, “Pietra Serena”). Perugia: Limestones (“Pietra Caciolfa”), travertine, sandstone (“Pietra Serena”), Apuan Marbles, Greek Marbles and other stones (reuse), (brick). Assisi: Limestones ( “White Stone”, “Red Ammonitic Stone”), travertine (yellow). Spoleto: Limestones (“Pietra Caciolfa” and other), Greek marbles and granite (reuse). L’Aquila: Limestones. Sulmona: Limestones. Urbino: Limestones, sandstone, travertine, (brick). Camerino: Sandstones, limestones, (brick). Ascoli Piceno: Travertine (“Lapis Ausculanus”). Teramo: Limestone, travertine, (brick). Barletta, Trani: Limestone, calcarenite (“Carparo”, “Tufo”). Bari: Calcarenite (“Tufo”), limestone. Brindisi: Calcarenite (“Tufo”, “Pietra Gentile”), limestone. Lecce: Calcarenite (“Pietra di Lecce”, “Pietra di Cursi”). Matera: Sandstone (“Tufo”). Orvieto: Tuff (“Tufo Lionato”), volcanic rock (“Basalt”), travertine, limestone, Serpentinite, Apuan marble. Viterbo: Tuff (“Peperino”), travertine, limestone. Roma: Travertine (Tivoli Travertine”or “Lapis Tiburtinus”), tuffs, volcanic rocks. Marbles, granites and stones (reuse). Napoli: Tuff (“Piperno”), limestone, dolostone. Marbles and other stones (reuse) Salerno: Limestone, dolostone, travertine, marble. Campobasso: Limestone. Benevento: Limestone, tuff, Marbles and other stones (reuse), (brick). Melfi: Volcanic rock (haunofiro), tuff, limestone. Potenza: Limestone (Pietra di Montocchio”), (brick). Cosenza: Calcarenite (Tufo di Mendicino”). Catanzaro: Calcarenite (“Tufo”, “Pietra Morta”), granite and gneiss (“Pietra Viva”), ophicalcite (Marmo di Gimigliano”). Tropea: Sandstone, granite. Messina, Reggio Calabria: Limestones (“Pietra di Lazzaro”, “Rosso Taormina” and other), marbles, calcarenite (“Pietra di Siracusa”), basalt (“Etna Basalt”). Palermo: Calcarenite (“Tufo”, “Pietra dell’Aspra”, “Pietra di Solanto”), limestones (Pietra di Billiemi”), marbles. Trapani: Calcarenite (“Pietra di Trapani”, limestones (“Pietra Misca” or lumachella, “Pietra di Sciarre”, “Pietra dell’Argenteria”). Agrigento: Calcarenite, limestone (“Pietra Matta”), gypsum. Modica, Ragusa: Limestone and calcarenites (“Pietra Latina”, “Pietra Carruvara”, “Pietra Pece”). Siracusa, Noto: Limestones and calcarenites (“Pietra di Siracusa”, “Pietra Giuggiolena”). Catania, Randazzo: Basalt, limestones, calcarenites (“Tufo”). Cagliari: Calcarenite (“Tufo”), limestone, granite, trachyte, trachitic tuff. Sassari: Calcarenite (“Pietra bianca”), limestone, trachyte (“Pietra di Sant’Anatolia”), tuff, phillyte. Alghero: Calcarenite (“Tufo” or “Massacà”), limestone, trachyte. --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Fiora L., Alciati L. (2009) – Italian Stones: from the past to the future. 4th Int. Congress “Science and Technology for the Safeguard of Cultural Heritage in the Mediterranean Basin. Cairo, 2009, 23-24 ITALIAN STONES: FROM THE PAST TO THE FUTURE Italian stones are a unique cultural heritage of international standing. Building, architectural, sculptural, bridge, garden, fountain and street and square furnishing stones characterise the identity of the entire country, ensuring a strong bond between natural and human environments. Used as shapeless stones and cobbles, rough-finished or processed into decorative elements and with various surface treatments, stone embraces a background of knowledge and highly specialised craftsmen who are equally a unique heritage of world standing. The quarry is a place of memory that must be documented: sometimes quarries become overgrown and hidden, at other times they are re-used - often as an authentic open-air museum combining nature, traditions and art. The cultural heritage of Italian stone is unique all over the world and inasmuch should be viewed as a combination of the entire stone production cycle, starting from the outcrops in various geological units through to quarry sites that should be valorised as testimony of quarrying in the past, as well as places for the procurement of material to be used in restoration and the production of modern works destined themselves to become historic in the future. Buildings and monuments, rocks in outcrops and quarries should therefore be considered in global terms as a unique cultural heritage. The enormous variety of rocks employed is based on the geology of Italy, that can also be seen through the stones used to build villages and cities, once time of local origin or easily transported by water. This was clearly witnessed in the mid-1900s in Francesco Rodolico's book “The stones of Italian cities” (1953) - a mirror of the Italian geology through buildings and the first petrographic guide to the cities of an entire country. Despite a few inaccuracies, it is still a unique reference work. In recent times, archeometric studies into buildings have extended the sphere of knowledge: it would be in any case necessary to develop a work that summarises the extent of knowledge of the stones found in modern Italian cities, from historic materials through to the recent varieties available on the international market introduced as a replacement for local rocks or chosen for new applications by leading architects (Fiora et al., 2007). As is well-known, stone plays a vital role in the historical and cultural qualification of cities: its use today also assumes new status in urban qualification, such as the reduction of crime risks, as defined by indications in European standards currently being developed (Barboni & Montagna, 2009 with references),. Italy until the end of the 1900s was the leading country in the stone sector in terms of its wealth of lithotypes with suitable physical-mechanical and aesthetic properties and the background of practical knowledge concerning quarrying, processing, use and restoration. The production reality today is profoundly different and has changed in view of the environmental problematics that restrict exploitation and the emergence of new producer countries by now authentic giants in the sector (China, India, Brazil, Turkey, Egypt and Iran). Thousands of new varieties are available on the international market and are very competitive with Italian materials, especially as regards the cost factor, and are increasingly used in new constructions and renovation of historic centres. Italian stones are currently characterised by a different situation from region to region, from quarry area to quarry area. First and foremost, there are the traditional rocks used in Italy and abroad for which exploitation activity continues with significant local economic advantages: porphyry (Trentino), Alpine gneiss (for example, “Luserna stone”), marbles (for example, “Carrara”,“Lasa” and “Fior di Pesco Carnico”), travertine, limestones such as “Botticino” or “Red Verona”, several sandstones such as “Serena stone” and calcarenites such as “Leccese Stone” that are still used on an international scale; their prestige is linked with historical use. Then there are rocks of prevalently local value, such as “Valmalenco serpentine” or “Adamello granite”. Other rocks are worked in small quarries and limited quantities, essentially for restoration: for example, “Pietra di Vico” sandstone from Piedmont or some coulred Alpine “marbles”. Many rocks are also not worked but are nevertheless very intersting in terms of restoration. Knowledge of these materials must be expanded: examples include the ophycarbonatic rocks of Piedmont such as the “Susa Green Marble”, used since the early 1900s not only in Europe but also in Asia and America, the Veneto basalt also used for ornamental purposes, as in monuments in Verona, the so-called selagite vulcanite used to build the city di Volterra and evaporitic rocks such as chalk and anidrite. References Barboni R.M., Montagna R. (2009) – Man made hazards: a way to reduce the criminal risks in new housing. International Conference “Vulnerability of 20th century cultural heritage”, Delos22-24 april 2009, 1724 with references - Fiora L., Carando M., Sandrone R. (2007) – Multimedia petrographic guide of the city of Torino, Italy. Per. Mineral, 76, 2-3, 91-97 with references - Rodolico F. (1953) – Le pietre delle città d’Italia. Le Monnier, Firenze, 475 pp. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Fiora L. (2009) – Le varietà dei marmi bianchi italiani. L’Informatore del Marmista. Giorgio Zusi Editore, Verona, 573, 80-92 MARMI BIANCHI ITALIANI Il marmo bianco è una roccia metamorfica con struttura saccaroide, cioè simile allo zucchero, e grana assai variabile, da fine a grande e talora anche pegmatitica (Fiora, 2007). La roccia di partenza è un protolite carbonatico (roccia sedimentaria calcarea o dolomitica). Infatti il carbonato (o i carbonati, calcite e/o dolomite) ne rappresentalo almeno il 95%. Nel bacino mediterraneo celebri marmi bianchi calcitici sono quello italiano di Carrara, quelli greci di Paros e Naxos, mentre famosi marmi dolomitici sono il Thasos (Grecia) e il Sivec (Macedonia). Il marmo bianco italiano più famoso è quello indicato genericamente come “Marmo di Carrara”, notissimo commercialmente e ben caratterizzato dal punto di vista geo-petrografico. Altre varietà merceologiche bianche o occasionalmente bianche sono oggetto di coltivazione attuale (ad esempio, “Marmo di Lasa” in Alto Adige). Molte altre varietà sono state usate in passato quando la presenza di un giacimento marmoreo bianco anche se di cubatura limitata rappresentava una ricchezza da sfruttare il più possibile per le difficoltà di trasporto del materiale da lontani bacini estrattivi. Se il materiale era idoneo, lo si usava per opere scultoree oltre che per realizzare elementi architettonici (è il caso, ad esempio, del “Marmo di Pont Canavese” in Piemonte: infatti i costi e le difficoltà di trasporto dalle Apuane alle regioni alpine erano notevoli). Il marmo bianco locale è sempre stato anche sorgente di materiale per calce e/o cemento: in alcuni casi attualmente questo è l’utilizzo principale (ad esempio, “Marmo di Vipiteno”, che fu in passato anche roccia ornamentale). I marmi bianchi italiani si sono perlopiù originati per metamorfismo regionale e solo raramente per metamorfismo di contatto (ad esempio, la “Predazzite” delle Alpi Meridionali, trasformata in marmo dal contatto con il Complesso Plutonico-Vulcanico di Predazzo). L’importanza archeometrica dei marmi bianchi italiani è notevole: sovente si richiede la caratterizzazione e la determinazione di provenienza di marmi bianchi puri in reperti archeologici e in realizzazioni storico-culturali varie. In questi casi la composizione mineralogica fondamentale, quella delle fasi accessorie e la tessitura sono spesso sufficienti, oltre che la determinazione dell’intervallo di variazione di MGS (maximum grain size): nei casi dubbi ci si avvale di più tecniche analitiche combinate: ad esempio, catodoluminescenza, analisi degli elementi in traccia, analisi degli isotopi stabili di O e C. Si ricorda che le indagini archeometriche sui marmi bianchi, iniziate nel 1965 da Rybach & Nissen, comprendono ormai una vasta banca dati soprattutto per l’area mediterranea. Uno studio petrografico e in catodoluminescenza sulle principali varietà italiane è opera di Lodola (1997). Un’analisi completa dei riferimenti bibliografici e delle diverse tecniche di indagine è opera di Lazzarini (2004). I marmi toscani rappresentano un riferimento importante nel panorama mondiale: la loro conoscenza scientifica è approfondita (Meccheri et al, 2007), come dimostra, ad esempio, la realizzazione della carta geologicostrutturale delle varietà merceologiche dei marmi del carrarese (Meccheri, 1996 e 2000 con rif. biblio.). Oggetto di estrazione da più di duemila anni i marmi apuani, metamorfosati in facies scisti verdi, sono distinti in differenti varietà merceologiche, quali “Bianco Ordinario”, “Bianco Venato”, “Nuvolato”, “Statuario”, “Calacatta”, “Bardiglio”, Arabescato”, Cremo”, “Zebrino”, “Paonazzo” ecc. , corrispondenti a diverse variazioni litostratigrafiche primarie dell’originaria piattaforma carbonatica del Dominio Toscano. Il regno del marmo bianco italiano è senza dubbio rappresentato dalle Alpi Apuane, come scrisse Federico Sacco (1934) nell’opera “Le Alpi”, definendo la serie carbonatica qui affiorante “una grandiosa pila calcarea”. La prima varietà di marmo apuano (“marmo lunense”) in epoca romana fu coltivata nella lente di Punta Bianca (Franzini, 2003). L’uso fu già etrusco, importante in epoca romana, subì una stasi nel Medioevo, per essere poi ampiamente usato nel Rinascimento da parte di grandi artisti: è ben nota storicamente la visita di Michelangelo Buonarroti in cava nel 1515 per scegliere personalmente i blocchi. Nella regione alpina molte lenti marmoree bianche o parzialmente bianche sono state sfruttate fin dall’antichità. In Piemonte, ad esempio, il marmo bianco proviene da lenti di limitata cubatura afferenti a diverse unità geologiche. Alcuni materiali sono ben noti per essere stati usati in celebri monumenti: tra questi si ricordano il marmo dolomitico del complesso di Foresto Chianocco in Valle Susa e quello di Frabosa (Mondovì). Uno studio archeometrico incompleto per la rappresentatività dei campioni e per le varietà prese in esame di marmi piemontesi è opera di Borghi et al.(2009) : non viene tra l’altro considerata una varietà bianca (“Bianco Frabosa”) di notevole importanza in opere di scultura e di architettura nel territorio piemontese. Mancano marmi bianchi puri in Valle d’Aosta, mentre in Lombardia le varietà più celebri sono quelle di Musso e di Olgiasca (Como), oltre a varietà minori quali il “Marmo di Santa Perpetua” a Tirano (Sondrio) e altre intercalazioni marmoree calcitiche o calcitico-dolomitiche della media e alta Valtellina. Il Trentino Alto Adige è l’areale di provenienza dei celebri marmi bianchi di Lasa e di Covelano a grana medio-fine (Franzen & Mirwald, 2002). Si tratta di calcari depositatisi nel Devoniano che sono stati metamorfosati in età ercinica (400-300 milioni di anni fa): le varietà bianche hanno aspetto zuccherino, sono composti da calcite (rara dolomite) e molto subordinatamente da flogopite, clorite e quarzo. Questi marmi bianchi sono e sono stati ottimi per scultura e architettura. Nella regione molte altre lenti marmoree più o meno bianche sono state sfruttate in passato: ad esempio, il “Marmo Schlurendhof” del Maso della Selva (usato essenzialmente per calce a causa dell’elevato stato di fatturazione) o il “Marmo di Vipiteno”(“Marmo di Sasso Maretta”), coltivato attualmente non a scopo ornamentale in una lente affiorante entro gneiss e micascisti (cava Kristallina e cava Pratone nel comune di Racines). In Trentino sono noti alcuni marmi storici, quali il “Marmo di Predazzo” (“Predazzite”), marmo a brucite, Mg(OH)2, a grana fine, usato storicamente come materiale ornamentale in altari e statue in chiese e cimiteri della regione, il “Marmo di Breguzzo”, bianco a grana da media a grossolana, usato sotto forma di lastre e per sculture nei secoli 15° e 16°. Altre lenti marmoree di questa regione non sono quasi mai bianche (ad esempio, il marmo trentino “Grigio Perla”). In Friuli Venezia Giulia i celebri calcari Devoniani metamorfosati non sono bianchi. La conoscenza di tutte le varietà di marmo bianco affioranti nella regione alpina si basa sulla bibliografia geologica, sui documenti storici di costruzioni e monumenti (statue, lapidi e reperti museali vari) e sulle recenti indagini archeometriche. Con il progredire degli studi, l’elenco delle varietà bianche è destinato ad aumentare. In particolare, tra i marmi piemontesi si annovera una quindicina di varietà diverse tra loro per importanza storica e periodo di impiego (Berti, 1985): molte provengono dal Massiccio Cristallino Dora Maira, alcune afferiscono ad altre unità geologiche (Badino & Frisa Morandini, 1993; Barelli, 1835; Catella, 1969; Giuliani, 2004; Lombardo, 2002; Peretti, 1938; Sacco, 1907 e 1934). Tra le numerose varietà marmoree del Piemonte meridionale si ricorda il “Marmo di Valdieri” (Valle Gesso), assai sfruttato nel Settecento, essendo la cava di proprietà di Casa Savoia almeno dal 1743. Catella (1929) parla di un’iscrizione in cava (attualmente non trovata) sul materiale perlopiù bardiglio, eccezionalmente bianco (Frisa et al., 2000) già estratto dai Romani. Sacco (1907) lo definisce “marmo compatto, sonoro al colpo, duro a lavorarsi, simile al Carrara e durevole”: infatti la grana medio-fine e la composizione prevalentemente calcitica lo rendono simile alla varietà apuana. Altro marmo bianco storico è il “Marmo di Garessio” (“Grappiolo”), estratto in passato in Valle Tanaro, è composto da calcite prevalente su dolomite, quarzo, mica bianca (Giuliani, 2004). Il raro “Marmo di Frabosa” nella varietà bianca fu usato per opere di statuaria e di architettura diffuse sul territorio piemontese e tra l’altro presenti in Torino (Fiora & Carando, 2006): anch’esso è calcitico a grana medio-fine con bassi tenori di clorite e di mica bianca che diventano abbondanti nella più diffusa varietà “Verzino”. Molto usato fu il “Marmo di Brossasco-Isasca” (Valle Varaita), bianco o venato con noduli eclogitici, affiorante nella lente del Bric Monforte e oggetto di importante attività estrattiva nel Seicento e Settecento (Barelli, 1835; Lombardo, 2002): la sua composizione mineralogica è data da calcite e dolomite, associate a vari silicati. Materiale ornamentale oltre che da calce petrograficamente simile fu il “Marmo di Paesana/Calcinere” della bassa Valle Po. Il marmo statuario più importante del Piemonte è il “Marmo di Pont Canavese” nella bassa Valle dell’Orco, estratto a partire dal 1772 e impiegato per colonne e statue (tra cui le tombe reali di casa Savoia e il gruppo marmoreo cosiddetto “La Fama che incatena il tempo” nel Palazzo Università) in Torino. Ai primi del Novecento le cave di statuario furono però chiuse per l’insostenibile concorrenza con il marmo di Carrara. In Valle Susa Il “Marmo di Chianocco e Foresto” composto da dolomite, calcite e silicati (tra cui talco) (Fiora & Audagnotti, 2002)è di colore da bianco a grigio chiaro, talora listato, spesso vacuolare. Esso fu già usato dai Romani (ad esempio, per l’Arco di Augusto a Susa, oltre che in molti reperti archeologici ed epigrafi), mentre l’ampia diffusione della roccia sul territorio torinese è da collegare alla vicinanza dei luogo di estrazione alla Dora Riparia: il materiale, infatti, veniva trasportato da Bussoleno ad Alpignano su chiatte trainate da una fitta successione di traini dette “lezate” e successivamente raggiungeva Torino via terra. Questo marmo fu molto usato in Torino. Sempre in Valle Susa fu coltivato il “Marmo di Venaus” di colore perlopiù grigio, talora bianco, a calcite, dolomite e silicati vari, di impiego solo locale. Analogo è il “Marmo del Moncenisio”. Altri marmi piemontesi appartenenti alla copertura del Massiccio Dora Maira sono quelli della Valle Germanasca o Marmi Gaggini (dal nome del cavatore), noti anche come marmi saccaroidi di Praly, San Martino, Faetto, Maniglia e Salza, usati per statuaria, scale, pavimenti e ornamenti vari. Essi sono caratterizzati da calcite prevalente su dolomite in associazione con vari silicati. Altro marmo bianco piemontese evidenziato nel corso di indagini su costruzioni storiche è quello di “Massucco”, calcitico con rara dolomite. Esso affiora nel Comune di Rassa (Vercelli), in Valle Sorba affluente di destra del fiume Sesia. Si tratta di diverse lenti comprese nei micascisti eclogitici della Zona Sesia Lanzo. La cava storica è una grotta carsica lunga una cinquantina di metri, posta a 1800 m di altezza. All’imbocco della grotta sono evidenti tracce di coltivazione e una lastra spessa. Esso fu coltivato fin dal Seicento soprattutto per la statuaria religiosa, per lastre cimiteriali e come materia prima per calce. Altre lenti marmoree afferenti alla Zona Sesia Lanzo affiorano in diverse località piemontesi e valdostane (ad esempio, “Marmo di Fontainmore”): si tratta di marmi impuri facilmente identificabili, non di colore bianco assoluto. Le altre unità geologiche presenti in Valle d’Aosta non contengono marmi bianchi, sì che già i Romani utilizzarono materiale di importazione per la decorazione marmorea bianca di Aosta romana e in particolare per la Porta Pretoria, per cui fu probabilmente usato marmo di Carrara (Mirti et al., 1997), mentre sulla base della tecnica di lavorazione storica si presume una provenienza pirenaica per altri reperti. L’altra zona marmifera importante in Piemonte è l’Ossola, dove sono estratti ancora oggi diversi marmi bianchi e colorati (Lodola, 1997). I marmi di Candoglia-Ornavasso e Valle Strona (Sanbughetto) appartengono geologicamente alla Zona Ivrea-Verbano e furono usati fin dall’epoca romana. Le varietà completamente bianche sono rare: si ricorda, ad esempio, quella estratta a Marmo in Valle Strona (marmo a calcite e silicati vari) e il Candoglia Bianco, anch’esso calcitico. Il “Marmo di Crevola”, composto da dolomite, è in genere impuro per flogopite, feldspati e quarzo (“Palissandro”). References Barelli V. (1835) – Cenni di statistica mineralogica degli Stati di S. M. il Re di Sardegna. Tipografia Fodratti, Torino, 686 pp. Badino V., Frisa Morandini A. (1993) - Marmi in Piemonte. Piemonte Minerario, CIDEM, Politecnico di Torino, 31-38. Berti G. (1995) – Introduzione allo studio dei marmi piemontesi usati nell’edilizia storica. GEAM, 1, 47-52 Borghi A., Vaggelli G., Marcon C., Fiora L. (2009)- The Piedmont white marbles used in antiquity: an archaeometric distinction inferred by a minero-petrographic and C-O stable isotope study. Archaeometry, 5, 19 pp. Catella M. (1969) – Marmi Piemontesi. Cronache Economiche CCIAA, Torino, 313/4, 14pp. Fiora L. (2007) – Il colore della pietra: marmi bianchi. L’Informatore del Marmista, 549, Giorgio Zusi Editore, Verona, 99-106 Fiora L., Audagnotti S.(2002) – Il marmo bianco della Val di Susa. 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The Stones used in the town of Bergamo are described in a geo-architectonical journey from the Lower Town (“Città Bassa”) to the Upper Town (“Città Alta”). Our attention focuses on characteristic building materials employed in the medieval area around “Piazza Vecchia” (the old square), defined by the famous architect Le Corbusier “the best square all over the world”. “It should be a shame to change just only a stone” he remarked during the International Architecture Modern Exposition on 1949. Le Corbusier was really fascinated by the beauty of the architectonical elements forming a mix of different styles and periods and he also appreciated the preciousness of the local building materials. Most of the stones used in the architecture of Bergamo are sandstones and carbonate rocks (limestones and dolostones), although stones from the whole Lombardy, Veneto and Ticino’s areas are present too (AA.VV., 2003-a, 2003-b; Bugini et al., 2004; Chiesa et al., 1994; Facchin, 2002; Marchetti, 2003; Merisio, 2002; Paganoni, 1987; Primavori, 2006; Signori, 2002, 2007). The Renaissance architect Vincenzo Scamozzi (1548-1616) named the first ones “pietre forti” (literally “hard stones”) and the second ones “marmorine” (literally “soft or small marbles”) (Rodolico, 1953; Scamozzi, 1615). Various kinds of sedimentary rocks are employed as building materials and decorative stones. Undoubtedly sandstones are the most widespread in the Upper Town, commonly used since ancient times because of the great outcropping on the hills of Bergamo (Astino, Castagneta, Madonna del Bosco, Sombreno and San Vigilio) (Jadoul et al., 2002). Among them the “Credaro Stone” stands out, nowadays quarried in the homonymous locality in the province, which is a calcareous sandstone, golden-hazel in colour, coming from the Flysch of Bergamo Formation (Campanian time) (AA.VV., 2003-c). It was used to make building blocks for rustic tower-houses (the “Three Towers”), the Venetian city walls and the “Torre dei Caduti”, situated along the main street in the Lower Town. Another prominent and common stone in the Upper Town is a reddish-violet sandstone, of Permian age, named “Simona Stone”, nowadays quarried in Boario Terme (Brescia), which was utilized in the rose window of the famous Colleoni Chapel (1470-76) by Giovanni Antonio Amadeo (1447-1522) and in many claddings and pavements (Paganoni, 1987; Facchin, 2002). Then there is the “Sarnico Sandstone”, a quartz arenite, Coniacian in age, nowadays coming from Paratico and Darfo (Brescia), which was used in the “Gombito Tower”, in the “Basilica of Santa Maria Maggiore” and in the “Palazzo della Ragione” all in the Upper Town. The XX century architecture (Piacentini style) of the Lower Town widely used the “Sarnico Sandstone” and a polygenic conglomerate of alluvial and glacial origin, quaternary in age, named “Ceppo”, quarried in the Adda and Brembo valleys and on the Lake Iseo. We can for example recognize “Ceppo Gentile”, once quarried in Brembate Sotto (Bergamo) in the Lower Town Cemetery “Famedio” (literally “temple of the fame”) and the “Sentierone” compound. Other two examples, nowadays quarried on the Lake Iseo, are “Ceppo di Grè” (AA.VV., 2003-d) and “Ceppo Poltragno”: they are widespread in the Lower Town since the end of XIX century (palaces of “Bank of Italy”, “Donizzetti Theatre”, “Chamber of Commerce” and “Balilla’s house”). Carbonate rocks are present too. We have the white-pinkish “Zandobbio marble”, widely used during the Roman ages, the Renaissance and up to the present time (the Roman column of Sant’Alessandro, “San Giacomo gate”, “Palazzo Nuovo”, now municipal library “Angelo Mai”, the “Contarini” fountain, “former casa del Fascio”, “Prato columns”) (Paganoni, 1987; Vola et al., 2009), the “Botticino or Rezzato marble”, the “San Benedetto” or “Avana marble”, the “Entratico Red marble”, the “Nembro Grey marble”, the “Gazzaniga black marble” also called “Black Absolute of Italy” (Ghisetti et al., 2006), the “Riva di Solto black marble”, the “Cene black marble” also called “pietra paragone”, or “comparison stone”, the “Arabescato Orobico marble” (polished slabs on the lateral altar of the Colleoni Chapel, by Bartolomeo Manni built on 1676 and a lateral altar of the Dome built on the XVIII century are the most remarkable examples in the Upper Town) (AA.VV., 2003-e; Vola, 2007; Vola et al., 2008) and the “Rosso Verona”. The use of an evaporitic rock, named “Volpinite” or “Bardiglio of Bergamo”, was unusual. The magmatic intrusive rocks are represented by the “Granites of the Lakes”, namely the “Rosa Baveno” (“Frizzoni Palace” now the municipal town hall and the gates of “Porta Nuova”) and “Bianco Montorfano”. The metamorphic rocks are slates, namely the “Grey Porfiroide of Branzi” (AA.VV., 2003-f) and the “Dark-Grey Porfiroide of Valleve” (AA.VV., 2003-g), both adopted for roofing slates (“piöde”) and pavements, marbles s.s. from Lombardy (“Musso marble”) and also different varieties from the Apuane Alps. The Lower Town contemporary architecture still uses local stones together with others coming from the international market (Fiora et al., 2003; Fiora, 2007; Pieri, 1964). References. AA.VV., 2003-a, Materiali lapidei e artigianato locale, per la valorizzazione del territorio montano bergamasco. Ed. 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Conci squadrati, elementi decorativi, frammenti irregolari, “pietre da torrente” (ciottoli) sono stati sovente utilizzati in edifici, ponti, murature di confine di proprietà, elementi scultorei vari e talora sono stati anche in elementi di copertura e di pavimentazione. Innanzitutto con tale termine si indicano degli gneiss, cioè rocce metamorfiche silicatiche in cui abbondano quarzo e feldspati, di colore grigio, talora anche occhiadini (“ghiandoni” o “ghiandonati”), cioè tipici per la presenza di cristalli centimetrici feldspatici. Le rocce più note sono i “Serizzi” ossolani, gneiss (ortogneiss) provenienti dalla Falda Antigorio delle Unità Pennidiche Inferiori (“Serizzo Antigorio”, “Serizzo Formazza” e “Serizzo Sempione”) e dalla Zona Monte Rosa delle Unità Pennidiche Superiori (“Serizzo Monte Rosa”) : la roccia di partenza è un granito o una granodiorite di età Permiana, metamorfosato durante l’orogenesi alpina. La composizione mineralogica è quarzo, feldspato potassico, plagioclasio, biotite, mica bianca e allanite (epidoto radioattivo) come tipico accessorio. Le differenti varietà di “Serizzo” rappresentano una notevole risorsa economica nel panorama ossolano (Bigioggero & Zezza, 1997; Cavallo et al., 2004; Sandrone et al., 2004). Si tratta di rocce molto durevoli data la loro composizione silicatica: feldspato bianco, quarzo grigio, biotite nera e mica bianca. Il “Serizzo Antigorio”, che è la varietà più abbondante, si contraddistingue per la grana media e il colore grigio scuro data l’abbondanza del fillosilicato biotite ( o mica nera), essendo questa roccia la più scura dei serizzi ossolani. Il “Serizzo Formazza” ha grana più grossolana e colorazione più chiara. Il “Serizzo Sempione” è ben foliato, a grana più fine e colore chiaro. Il “Serizzo Monte Rosa” è occhiadino per la presenza di feldspato potassico centimetrino, presenta grana grossolana e colore grigio chiaro (Cavallo et al., 2004). La caratteristica mineralogica peculiare del “serizzo” coltivato in Ossola è l’abbondanza di biotite, in base alla quale il materiale è facilmente distinguibile dagli altri gneiss piemontesi provenienti dal massiccio cristallino Dora-Maira. Questi tipi di gneiss, che hanno avuto e hanno un commercio mondiale, connotano in particolare l’edilizia storica di molte città dell’Italia settentrionale: in primo luogo Domodossola per la vicinanza degli affioramenti. A Milano fu usato fin dal Medio Evo fin dal Quattrocento per la facilità di trasporto lungo le vie d’acqua (Fiora, 2008): ne sono esempio le colonne dell’Ospedale Maggiore divenuto sede dell’Università, mentre nel Duomo costituisce il nucleo interno dei pilastri e in molti edifici novecenteschi è il tipico materiale da rivestimento. A Torino il “Serizzo dell’Ossola” fu scelto dall’Architetto Piacentini per il rifacimento di parte di via Roma, dove è stato usato per colonne, pilastri, rivestimenti e pavimentazioni (www.pietreditorino.com). Il materiale di uso storico più antico fu estratto da trovanti. Anche altre rocce gneissiche piemontesi sono state storicamente chiamate “Sarizzi”, oltre che “Pietre”: nei documenti d’archivio altre varietà di gneiss provenienti dal Massiccio Cristallino DoraMaira hanno avuto questa denominazione d’uso: il Serizzo” o “Pietra di Cumiana” ne è un esempio, oltre alla “Pietra di Luserna”, alla “Pietra di Malanaggio”, agli gneiss della Valle Susa e a quello di Brossasco. In Lombardia è stato molto usato il “Serizzo Val Masino”, di composizione dioritica, impiegato per costruzioni, monumenti e opere funerarie anche al di fuori dell’areale di coltivazione. Assieme al “Ghiandone”, granodiorite porfirica, e al “granito di San Fedelino”, appartiene al plutone Val MasinoBregaglia, affiorante a nord della linea del Tonale prevalentemente in Italia e subordinatamente in Svizzera. Come molte altre rocce alpine, il “Serizzo Val Masino” prima che in cava fu coltivato a partire dai massi erratici depositati in pianura dai ghiacciai quaternari (Bonsignore et al., 1970). La roccia è stata diffusamente usata nell’edilizia locale (Rodolico, 1953), ma ha anche spesso varcato i confini regionali. Altre rocce storicamente note come “Serizzi” sono petrograficamente dei calcemicascisti (scisti carbonatici), provenienti dalla Formazione dei Calcescisti con Pietre Verdi: in Piemonte queste rocce sono state in passato chiamate “Pietre Risse” o “Sarizzi” per l’analogia cromatica con gli gneiss. Si tratta però di litotipi molto differenti dalle rocce metamorfiche ortogneissiche, essendo il carbonato (prevalente calcite, subordinata ankerite) uno dei componenti mineralogici fondamentali: queste rocce sono più tenere, quindi più facilmente lavorabili, ma meno resistenti soprattutto con la diffusione delle piogge acide che solubilizzano la calcite. Esempio è il “Serizzo di Piasco” (Valle Varaita), pietra da taglio usata, tra l’altro, nella città di Torino. Esempi di uso di calcescisto in Torino sono la scala laterale del Duomo, mensole e fasce nel Palazzo Università, portali e colonne in Piazza Vittorio. Calcescisti provenienti dal cuneese (in modo particolare dalla Valle Varaita) sono anche segnalati da Sacco in Torino sotto forma di lastre per balconi e stipiti. In calcemicascisto sono state anche realizzate molte costruzioni alpine, quali fortificazioni, ponti ed edifici rurali. La valdostana “Pietra di Morgex”, di cui è cessata l’attività estrattiva, è un calcemicascisto. Esiste inoltre nelle Alpi il “Serizzo Verde”, petrograficamente definibile come scisto verde o prasinite, la cui composizione mineralogica fondamentale è data da clorite, anfibolo, epidoto e albite. Una delle prasiniti più tipiche è quella cosiddetta “ocellare”, riconoscibile per gli “occhi” millimetrici di albite bianca. In Torino l’esempio più noto di utilizzo è in Palazzo Carignano, oltre che nella muratura esterna dell’edificio Ex Ospedale Maggiore della città (Fiora & Carando, 2008). In ambiente urbano la roccia denota incremento di fatturazione, crosta nera e cristallizzazione di Sali, con decoesionamento, mancanze ed esfoliazione. Federico Sacco, sottolineando che “tra le tante bellezze delle Alpi, non ultima è quella di alcune sue pietre, cita la prasinite tra le pietre “belle” e “buone” (cioè utili), ricordando l’uso di quella affiorante presso Avigliana (bassa valle di Susa) sia in Avigliana stessa che nella Sacra San Michele, dove fu inizialmente usata per muratura e sculture e utilizzata poi negli archi rampanti da Alfredo D’Andrade agli inizi del Novecento (Fiora & Pastero, 1999; Fiora & Gambelli, 2003). Alfredo D’Andrade, responsabile dei restauri del patrimonio storico nella provincia di Torino dal 1883 al 1915, utilizzò la pietra verde, già usata in epoca medievale per la realizzazione dell’edificio, per realizzare pilastri e archi che hanno impedito il crollo dell’edificio. Dalla cava, nota oggi come “Cava D’Andrade”, dove la roccia era estratta e semilavorata, avveniva il trasporto al cantiere del restauro tramite teleferica. Anche alcuni sarcofaghi della chiesa realizzati per i membri della famiglia Savoia sono in prasinite. La prasinite, di uso in molte costruzioni storiche della pianura piemontese, è anche uno dei materiali con cui è stato edificato il complesso fortificato di Fenestrelle in Valle Chisone. La prasinite è stata anche molto usata in valle d’Aosta: rilevante, ad esempio, il suo impiego a Verrès e Issogne: il campanile della Chiesa di Saint Gilles a Verrès ha un campanile con mensole, statue e decorazioni varie in prasinite.La fontana all’interno del cortile del castello di Issogne (“Fontana del Melograno”) di forma ottagonale con decorazioni è in prasinite, che l’acqua ha degradato intensamente. In Valle d’Aosta sono note diverse opere di scultura lapidea in questa roccia metamorfica. Attualmente una prasinite valdostana è commercializzata come “Verde Dorato”: essa è coltivata nella cava Cheran di Verrayes sotto forma di blocchi informi per lo stato di fatturazione che sono lavorati nello stabilimento di Champagne (frazione di Verrayes). Lavorata con diverse modalità (lucidatura, levigatura, sabbiatura) essa trova impiego in esterni per pavimentazioni, ad esempio, in Chatillon e in Aosta, dove è anche impiegata nelle fiorire. Per interni è usata in top da cucina, piatti doccia e scale. Riferimenti bibliografici Bigioggero B., Zezza U. (1997) - Il distretto estrattivo del Verbano- Ossola. In: Paglionico A. I materiali lapidei con particolare riferimento alle pietre ornamentali. Prima Scuola di Petrografia Applicata, Trani, 41-55 Bonsignore G., Bravi C.E., Nangeroni G., Ragni U. (1970) – La geologia del territorio della provincia di Sondrio. Edizione Amministrazione Provinciale di Sondrio, 126 pp. Cavallo A., Bigioggero B., Colombo A., Tunesi A. 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(2004) – Contemporary natural stones from the Italian Western Alps (Piedmont and Aosta Valley Regions). Periodico di Mineralogia, 73, 3, 211-226 www.pietreditorino.com ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------Fiora L. (2009) – Rocce basaltiche nel Veneto. L’Informatore del Marmista. Giorgio Zusi Editore, Verona, 573, 30-42 BASALTO VENETO L’attività vulcanica basica in Veneto si è manifestata in una dozzina di fasi tutte di breve durata e coprenti l’arco temporale che va dal Paleocene superiore all’Oligocene (Era Terziaria). Le rocce più diffuse sono basalti, alcalibasalti e basaniti con subordinate hawaiiti, trachibasalti e andesiti basaltiche (De Vecchi & Sedea, 1995 con rif. biblio.). Queste vulcaniti si sono intruse in vari livelli della copertura sedimentaria delle Alpi Meridionali (“Pietre tenere”) su un’area che va dal Lago di Garda al fiume Brenta e dalla regione di Trento ai Colli Euganei. Esse sono associate nei Lessini a un importante lineamento tettonico (“Linea di Castelvero”), che si attivò alla fine del Paleocene proprio con l’attività vulcanica. Nei Colli Euganei si è poi sviluppato nell’Oligocene Inferiore anche un vulcanesimo acido che ha prodotto la celebre “Trachite Euganea”. Le aree di affioramento di basalto s.l. sono essenzialmente riferibili al settore Euganeo-Berico- Lessineo con più modeste manifestazioni fino ai dintorni di Trento e negli altipiani vicentini: si possono osservare affioramenti nei Monti Lessini, nei Monti Berici, nell’area di Marostica, nel l’altopiano di Asiago, al Monte Baldo e nei Colli Euganei. Artini (1941) ricorda che “espansioni basaltiche di grande entità si hanno nel Veneto nelle provincie di Verona e di Vicenza (Monti Lessini) specialmente nelle Valli dell’Alpone e dell’Agno; più ad oriente hanno pure grande diffusione: a Marostica si osserva una bellissima forma di ossidiana basaltica; scarsi e limitati sono nei Colli Euganei” . La valle dell’Alpone nei Lessini meridionali è incisa in basalti, piroclastiti, oltre che nella Scaglia Rossa Cretacea e nei calcari nummulitici eocenici. Le località dei basalti sono San Giovanni Ilarione, Roncà e Montecchia di Crosara. La coltivazione avviene attualmente in quest’ultima località con produzione di pietrisco per massicciate ferroviarie e stradali. In particolare a San Giovanni Ilarione ci sono basalti colonnari originatesi dal consolidamento di lave, con sezione trasversale poligonale, esagonale o pentagonale di altezza decametrica. Federico Sacco tra le “pietre belle e buone delle Alpi” ricorda i basalti del Veronese e del Vicentino, usati in vario modo per costruzione e pavimentazione” (Sacco, 1934). La “pietra nera del colore del ferro lavorato alla fucina” (Scamozzi, 1694), è visibile in diverse località del veronese e del vicentino sia negli affioramenti e negli alvei dei fiumi, che nelle costruzioni. Talora è presente con la tipica fessurazione colonnare (celebri sono i basalti colonnari di San Giovanni Ilarione). Sovente mostra fenocristalli (cioè cristalli individuabili macroscopicamente) di plagioclasio chiaro e pirosseno augitico nero immersi nella massa di fondo ricca di vetro. Il basalto veneto può essere compatto e massivo, oppure bolloso, contenendo cavità a zeoliti e carbonati di genesi secondaria (zeolite natrolite in quello di Altavilla Vicentina). Il colore della roccia fresca è nero o grigio scuro, talora nero-bluastro, mentre la patina di alterazione è bruna. Il materiale è assai duro da lavorare, mentre l’estrazione è agevolata dalla presenza di numerosi giunti. Il basalto veneto fu usato un tempo soprattutto per selciato (scivoloso però per i cavalli), materiale da muratura, pietra da macina (ad esempio, estratte a Montecchio Maggiore), vasi e ornamenti vari di opere monumentali. Si osserva nelle pavimentazioni di Verona e nel selciato di Vicenza (Rodolico, 1953). In Verona fu anche usato in sei tondi del diametro di 20-25 cm incastonati nel marmo bianco sulla facciata della Chiesa di Sant’Anastasia; compare anche sotto forma di ciottoli nelle murature delle fortificazioni di Verona, ma lo si rinviene come materiale da costruzione nelle zone di affioramento o, nel caso di ciottoli, anche lontano da esse. BASALTI I basalti sono rocce magmatiche effusive a chimismo femico contenenti meno del 52% di SiO2: sono gli equivalenti vulcanici dei gabbri e rappresentano le rocce vulcaniche più diffuse sulla terra. Il loro colore è grigio scuro/nero e la loro densità è elevata. I geologi distinguono geochimicamente due tipi di basalti che rappresentano i capostipiti di serie magmatiche, cioè i basalti alcalini e i basalti sub alcalini (comprendenti i tholeitici). Il basalto più diffuso è quello tholeitico caratterizzato da elevati tenori di ferro e di titanio e da assenza di olivina. Il basalto alcalino è ricco di alcali e sovente contiene olivina, ma ha tenori inferiori di ferro e di titanio. Talora sull’affioramento i basalti si caratterizzano per la tipica fratturazione colonnare (detta anche prismatica), di cui è celeberrimo esempio il lastricato dei Giganti (Giants Causeway) in Irlanda. Possono essere compatti o bollosi con vacuoli in cui cristallizzano carbonati e zeoliti (ad esempio, i basalti dei monti Lessini contengono natrolite). I componenti mineralogici fondamentali dei basalti sono il plagioclasio calcico (con contenuto di anortite superiore al 50%) e il clinopirosseno. La struttura dei basalti è perlopiù porfirica con fenocristalli immersi in una massa di fondo a grana fine. La loro struttura può anche essere afirica, cioè priva di fenoscristalli. I basalti costituiscono sia grossi espandimenti formati da diverse colate sovrapposte, sia filoni. Quando le colate sono avvenute sul fondo oceanico presentano pillows (forme di raffreddamento a cuscino). Molti vulcani sono costituiti da lave basaltiche (ad esempio, l’Etna). Enormi espandimenti basaltici contraddistinguono molte regioni: quelli del Deccan di età Cretacea coprono un’area di circa cinquecentomila km2 con uno spessore medio di seicento m, quelli Miocenici del Columbia River potenti oltre 1500 m coprono duecentomila km2; altri grandi espandi menti sono nel Paranà in Brasile, in Africa (Etiopia-Somalia-Kenia e Karroo in Sudafrica), in Siberia, Islanda, Groenlandia e Scozia. In Italia ne affiorano in Veneto, Trentino, Sicilia e Sardegna. In molti altri paesi sono da sempre usati per costruzioni: ad esempio, in Siria, Giordania, Germania, Boemia, Azzorre, Canarie, Capo Verde etc. Le rocce basaltiche rappresentano il materiale di un importante patrimonio artistico mondiale: ad esempio, nell’altopiano dell’Hauran tra Siria e Giordania molti monumenti sono stati completamente realizzati in basalto (Marino, 2006). I basalti sono rocce resistenti al weathering. Da sempre sono usati per lastricati di strade e per massicciate stradali. Essi sono inoltre la materia prima per la produzione di “fibre” o “lane”. FIBRA DI BASALTO La roccia vulcanica basaltica è oggi utilizzata per la produzione di fibre naturali dotate di peculiari proprietà e ottenute fondendo la roccia a temperature di circa 1.400°C. Il fuso è fatto passare attraverso un ugello con 200-500 fori, ottenendo dei filamenti che sono poi avvolti da una spolettatrice previa applicazione di un legante. Questa fibra resiste fino a temperature di 650°C; possiede inoltre elevata resistenza meccanica, è resistente ad agenti chimici, ha basso assorbimento di acqua, ha un costo inferiore a quello di altre fibre, è durevole e riciclabile, quindi l’impatto ambientale del uso impiego è ridotto. Rispetto alla fibra di vetro quella basaltica possiede maggior resistenza a trazione e modulo elastico più elevato, essendo inoltre caratterizzata da resistenza termica superiore di 150°C. Con essa si realizzano, tra l’altro, fili, reti, tessuti (unidirezionali e multi assiali), feltri, nastri, che trovano applicazioni svariate (produzione di pale eoliche, cilindri e cisterne, imbarcazioni, elementi per industria automobilistica, barre di rinforzo del cemento, attrezzi sportivi ecc.). Molti tessuti di interni di imbarcazioni, vetture e aerei sono ora realizzati con fibre di basalto. References Artini E. (1941) – Le rocce. Ulrico Hoepli, Milano, 762 pp. De Vecchi Gp., Sedea R. (1995) – The Paleogene basalts of the Veneto Region (NE Italy). Mem. Soc. Geol., 47, 253-274 with references Marino L. (2006) – Le strutture “all stone” nell’Hauran tra Giordania e Siria. Atti Convegno “le risorse lapidee dall’antichità ad oggi in area mediterranea”, Canosa di Puglia 25-27 settembre 2006, GEAM Tornino, 291-296 Rodolico (1953) – Le pietre delle città d’Italia. Le Monnier, Firenze, 501 pp. Sacco F. (1934) – Le Alpi. Copia anastatica 2007, LVG, Azzate (Varese), 697 pp. Scamozzi V. (1694) – Dell’idea dell’architettura universale. II Edizione, Venezia ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ Fiora L. (2009) – Le rocce storiche di Merano. L’Informatore del Marmista. Giorgio Zusi Editore, Verona, 574, 6-20 Rocce storiche di Merano La conca di Merano fu già frequentata nel Mesolitico e successivamente nel Neolitico, come testimoniato da diversi reperti litici (ad esempio, asce in “pietre verdi” e spole di telai in arenaria). In epoca romana Merano segnava il confine tra la “X Regio” e la provincia della Rezia: vi passava la via Claudia Augusta, come testimoniato a Lagundo da un pilone del ponte sull’Adige costruito dall’Imperatore Claudio nel 50 d.C. Nel Medioevo la città appartenne ai Principi-Vescovi di Trento, che la diedero in feudo ai conti di Tirolo. Questi la scelsero come capitale: Merano divenne importante centro economico, decadendo a partire dal 1420 con lo spostamento della capitale tirolese a Innsbruck. Quando agli inizi dell’Ottocento tornò all’Austria, si trasformò in rinomata stazione di soggiorno climatico-termale, ruolo che conserva ancora oggi. Nella città sono state usate inizialmente e fino all’Ottocento solo rocce affioranti in Alto Adige, oltre che rocce sedimentarie carbonatiche prevalentemente del Trentino. Nel Novecento si diffuse l’uso di materiali lapidei di altre regioni, mentre ai giorni nostri, come in ogni città, si utilizzano rocce del mercato globale. Il Foglio di riferimento della Carta Geologica d’Italia in scala 1:1000.000 è quello Merano, contraddistinto da due unità tettoniche dell’orogeno alpino, cioè le Alpi Meridionali (Sudalpino) e l’Australpino, che vengono in contatto lungo un tratto della grande linea di dislocazione chiamata Insubrica, qui denominata Giudicarie-Pusteria. Le Alpi Meridionali sono costituite da un basamento cristallino pre-Permiano (paragneiss, micascisti, marmi) e da una copertura sedimentaria (arenaria) e vulcanica (porfido). L’Austroalpino è rappresentato da diverse falde, tra cui la Campo-Silvretta (cui appartiene, tra l’altro, il marmo di LasaCovelano). I materiali lapidei meranesi, utilizzati come rocce da costruzione e/o da ornamento in base alle proprietà meccaniche ed estetiche, sono essenzialmente quattro e cioè: - “Granito “ grigio (granodiorite/granito, metagranito porfirico, tonalite) - “Porfido” (riolite, riodacite, ignimbrite) - “Arenaria di Val Gardena” - Marmo (“Bianco Lasa”, “Bianco Tel”, marmo grigio, marmo a silicati) Il “Granito Grigio” è rappresentato da rocce magmatiche intrusive, cioè essenzialmente una granodiorite (Ivigna) e una tonalite (Rieserferner), oltre che da uno gneiss granitoide porfirico. La fonte di approvvigionamento è stata inizialmente il materiale reperibile nel fiume Passirio, nel cui greto abbondano i massi facilmente lavorabili anche di grandi dimensioni. La coltivazione degli affioramenti è stata successiva. La granodiorite è ricca di autoliti (concentrazioni biotitiche) e di xenoliti. Essa è ottimo materiale da costruzione, estremamente durevole, che si rinviene nelle costruzioni sotto forma di ciottoli, conci squadrati (a superficie a spacco, spuntata o rigata), portali, contorno di finestre, scale, lastre di pavimentazione, fontane, pilastri di ponti, pilastri di cancellate e dissuasori. Analogo è l’uso del metagranito porfirico, mentre subordinato è quello della tonalite. Materiali sostitutivi recenti sono il “Granito Sardo” e il “Serizzo Ossolano”. La roccia più celebre del Trentino-Alto Adige ( “porfido”) è diffusamente usata in Merano. Si tratta di rioliti, riodaciti e ignimbriti di età Permiana provenienti dalla Piattaforma Porfirica Atesina. Usato sotto forma di ciottoli nelle parti più antiche delle murature e di conci squadrati, esso è il materiale per eccellenza delle pavimentazioni per la grande resistenza all’usura da calpestio. E’ stato inoltre usato nei ponti, nei rivestimenti delle case (come conci squadrati e come mosaico), in muri e muretti. La varietà più diffusa ha colore rossastro, subordinata è quella verde-grigia: la combinazione delle due varietà conferisce una bicromia particolare alle facciate. La sua superficie è a spacco naturale: solo recentemente è stato impiegato in pavimenti con superficie emilucidata. Eccezionalmente è stato usato anche a scopo ornamentale (capitelli con bassorilievi). Lo stato di conservazione è buono, osservandosi solo biodegrado. La roccia sedimentaria clastica usata in Merano è un’arenaria (“Arenaria di Val Gardena”) di colore prevalentemente rosso, talora giallo o grigio-beige, appartenente geologicamente al Sudalpino e in particolare all’omonima Formazione di età Permiano superiore, presente in un banco potente da 70 a 500 m, che giace in discordanza sul Porfido da cui proviene e che ha a tetto la Formazione a Bellerophon. In essa sono stati rinvenuti resti vegetali e impronte fossili (celebre è il giacimento di BletterbachButterloch). Talora essa presenta manifestazioni metalliche, quali quelle a galena, blenda e pirite sul versante destro della valle dell’Adige tra Merano e Bolzano: essa è stata intensamente coltivata in passato sia per l’estrazione di metalli che come pietra ornamentale e da costruzione. Attualmente la sua produzione è ridotta e diretta al restauro e all’edilizia locale. Petrograficamente si tratta di un’arenaria quarzoso-feldspaticomicacea con cemento siliceo e clasti di vulcaniti. La matrice è argillosa e ricca di ossidi di ferro che la pigmentano. Storicamente in Merano è stata usata in murature, per decorazioni interne ed esterne, a contorno di porte e finestre (talora un intonaco rossoviolaceo la imita) e come base di acquasantiere. Le statue realizzate con essa sovente presentano tracce di pittura o doratura. Il suo stato di conservazione appare buono, dato l’elevato livello di manutenzione delle costruzioni. Tra i quattro materiali lapidei tipici di Merano, è il meno durevole per la presenza di argille e per la porosità (Franzen & Mirwald, 2000). Attualmente si fa uso di arenarie di importazione (ad esempio, nella pavimentazione del piazzale delle terme). Il marmo usato in Merano è soprattutto quello diffusamente affiorante nella valle Venosta (Fiora & Ferrarotti, 2001). Il più celebre è quello di Lasa-Covelano, ma tutte le lenti marmoree nelle vicinanze della città sono state coltivate (ad esempio, marmo di Tel nel comune di Parcines). Il marmo usato a Merano è bianco puro o grigio o venato, con grana medio-fine, ben lavorabile e ottimo per sculture nella varietà calcitica pura. Geologicamente appartiene alla falda Scarl-Campo del basamento metamorfico Austroalpino, costituito da paragneiss, filladi e micascisti, con intercalazioni di pegmatiti, gneiss granitici e anfiboliti. La roccia originaria è un calcare Devoniano, che è stato trasformato in marmo calcitico in età ercinica. Le cave attuali sono in media valle Venosta a circa 1600 m (Lasa) e a circa 2000 m (Covelano): le prime forniscono le varietà “Bianco Lasa” e “Listato Lasa”, mentre le seconde quelle “Bianco Covelano” e “Vena Oro”. La varietà bianca ha colorazione omogenea, talora con piccole macchie grigie e grana medio-fine. La venatura è data da lamelle brune di flogopite. Già usato nella preistoria per realizzare menhir, esso è il materiale scultoreo per eccellenza con cui sono state realizzate in città ornamentazioni architettoniche e statue. Tra le costruzioni storiche meranesi la più celebre è il Duomo di San Nicolò, simbolo della città, costruzione gotica realizzata nei secoli XIV e XV con alto campanile e più volte restaurata nel corso dei secoli (i lavori più recenti risalgono agli anni 1993-1997). I suoi materiali lapidei sono le tipiche rocce di Merano e cioè l’arenaria, il “porfido”, il “granito” grigio e il marmo. L’arenaria di Valgardena è usata esternamente e internamente (pilastri, archi, rosone, pulpito, base acquasantiere, bassorilievi e statue (tra cui la celebre statua dipinta di San Nicola collocata esternamente). La facciata occidentale è in gran parte intonacata: nelle lacune si osservano elementi granitici a superficie rigata. Numerose lapidi l’arricchiscono: il materiale più usato è il marmo locale bianco,oltre al Calcare Rosso Ammonitico e al Calcare Nero. Dietro l’abside sorge la Chiesa di Santa Barbara, che risale alla prima metà del Quattrocento. I materiali usati nella sua costruzione sono gli stessi. In particolare il portale è in arenaria passante a micro conglomerato. Il fulcro dell’attività commerciale medioevale era rappresentato dai Portici, strutturati ancora oggi in lotti stretti e lunghi. La pietra dei pilastri è il “Granito Grigio” o il “Porfido”, perlopiù intonacato. I portici sono pavimentati in porfido e sono abbelliti da fontane in “Granito Grigio”. Nel centro di Merano sorge il quattrocentesco Castello Principesco, nel cui piccolo cortile interno sono raccolte lapidi ed elementi vari in prevalenza marmorei. La Chiesa di Santo Spirito è un gioiello gotico in arenaria, porfido e granito. Fondata nel 1271, essa fu totalmente distrutta nel 1419 dall’alluvione conseguente allo straripamento del Lago della tribolazione in Valle Passiria. I due massi alluvionali granitici antistanti ne sono la prova. La Chiesa Evangelica di Gesù Cristo (1883-1885) è in pietra con porfido rosso, porfido grigio-verde e grano diorite. La Polveriera è un grosso parallelepipedo poggiante su roccia affiorante, con muratura in grossi ciottoli e frammenti di pietra, con porta contornata da arenaria e granito. I ponti sono numerosi. Il cosiddetto “Ponte Romano” risale al Seicento. E’ stato realizzato in muratura di ciottoli e scapoli con abbondante malta e conci delle arcate in porfido prevalente su granito. Si ritrova anche la pietra artificiale ricoperta da lastre di porfido con licheni, mentre la pavimentazione è in lastre di granodiorite. Il Ponte della Posta (1906) è in pietra artificiale con decorazioni in ferro battuto. Il porfido protegge le parti a contatto con l’acqua e costituisce la pavimentazione stradale sotto forma di cubetti. Altri ponti son quello del Teatro e quello delle Terme. Tra le varie costruzioni neoclassiche e liberty si ricorda il Teatro Puccini, con facciata parzialmente in marmo (pannelli decorativi in marmo di Lasa e colonne in un marmo grigio a grana grossa e il Kurhaus, costruzione intonacata con ornamentazione in pietra artificiale. La Merano “moderna” vede l’impiego di rocce di altre regioni italiane (ad esempio, ceppo, travertino, botticino). Anche le antiche mura con porte della città sono in pietra: la quattrocentesca Porta Bolzano è in porfido e in granito. La pietra è inoltre elemento di arredo dei numerosi giardini, sia come affioramento che come elemento costruttivo o decorativo. I giardini della Passeggiata Lungo Passirio furono creati dopo la costruzione dell’argine successivo all’alluvione del 1817. Al Ponte della Posta essa si sdoppia in Passeggiata d’Estate (che inizialmente presenta il Giardino di Elisabetta con la celeberrima statua in marmo di Lasa di Hermann Klotz dedicata all’Imperatrice d’Austria e Regina d’Ungheria) e in Passeggiata d’Inverno. Dopo il Ponte Romano si prosegue con la Passeggiata Gilf fino a Castel San Zeno. Altra passeggiata celebre è quella Tappeiner: singolare lungo essa l’affioramento roccioso levigato dall’azione glaciale e segnalato con una targa. In generale nelle aiuole di questi giardini è usato il porfido, in idoneamente sostituito da tufo laziale. I giardini più celebri sono quelli di Castel Trauttmansorf: qui l’ingresso è un edificio rivestito da lastre lucidate di un particolare “granito”, cioè un metaconglomerato rosso brasiliano. Il castello è stato realizzato con porfido e granito: l’ornamentazione è in marmo di Lasa. Prevale ovunque il porfido nei muretti e nelle pavimentazioni. Elementi di arredo sono grossi massi fluviali in granodiorite e blocchi informi di gneiss, micascisti e rioliti. Alcune fioriere sono in Tonalite dell’Adamello. Le rocce regionali sono l’oggetto del”Mosaico Geologico”, carta geografica in ceramica con blocchi e ciottoli dei più tipici litotipi (porfido quarzifero di Bolzano, arenaria di Valgardena, vulcanite nera Triassica, dolomia dello Schiliar, dolomia principale, paragneiss, scisto, tonalite Rieserferner, gneiss fittamente ripiegato, fillite, marmo di Lasa, gneiss granitoide porfirico, granodiorite Ivigna, quarzite e anfibolite granatifera). Diverse litologie alpine compaiono anche nel giardino giapponese, mentre il padiglione “Piante ornamentali da tutto il mondo” è costituito da blocchi di pietra che rappresentano i vari continenti: migmatite rossa per Australia, marmo di Carrara per Europa, oficalce per America, “Granito Nero “ per Africa e calcare beige per Asia. Un ciottolame in marmo di Lasa è la base dell’organo di bambù. Lo stato di conservazione di tutte le tipologie di costruzioni in Merano appare buono per la costante manutenzione. Tra le forme di degrado si segnala la crosta nera su qualche lapide marmorea del Duomo e il degrado biologico sul porfido. Le calamità naturali hanno comunque influenzato molto il degrado. Innanzitutto le piene del fiume Passirio hanno arrecato gravi danni ad esempio alla Chiesa di Santo Spirito, che è stata ricostruita. Inoltre l’area di Merano è soggetta a forti terremoti causati dal lento movimento della microplacca adriatica verso l’avampaese europeo. L’importante linea tettonia Insubrica (o Periadriatica), che dal Passo del Tonale attraversa la città nei pressi di Castel San Vigilio per proseguire in valle Pusteria, separando l’Austroalpino a Nord dalle Alpi Meridionali a Sud, è causa di degrado sismico, a cui si è sempre ovviato con idonee tecniche costruttive e con interventi di restauro. PRINCIPALI STONES DELL’ALTO ADIGE - Porfido Val Sarentino e Val d’Ega (Bolzano) - Arenaria Val Gardena Provincia di Bolzano - Marmo Lasa-Covelano - Marmo di Vipiteno (attualmente usato per produrre calce) - Grune Quartzit Val di Vizze, Vipiteno (Bolzano) - Serpentino di Fundres Val di Fundres (Bolzano) Si ricorda inoltre nella regione atesina l’uso storico ornamentale di altri marmi (ad esempio, aVipiteno) e di deversi “graniti” (ad esempio, Granito di Bressanone). Tra le pietre contemporanee è stato coltivato negli ultimi anni un “granito”, petrograficamente una pegmatite, commercialmente detto “Plima Granitpegmatit”. Riferimenti bibliografici A.A. V.V. ( 1971) – Note illustrative Foglio 4 Merano della Carta Geologica d’Italia in scala 1.100.000 Fiora L., Ferrarotti A. (2001) – Il marmo di Lasa: caratteristiche e utilizzi. L’Informatore del Marmista, Zusi Verona, Parte prima: 475, 24-32; Parte seconda: 476, 26-40 Franzen C., Mirwald P.W. (2000) – Grödener Sandstone, a historical building material in South Tyrol/Italy – the problem of large variability of stone properties for monument conservation. 9th Int. Congress on Deterioration and Conservation of Stone, Fassina V. (ed.), 1, 25-29 ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Fiora L. (2009) – Il pregiato marmo Fior di Pesco Carnico. L’Informatore del Marmista. Giorgio Zusi Editore, Verona, 574, 24-34 Marmo Fior di Pesco Carnico Il Fior di Pesco Carnico è un pregiato marmo con caratteristiche estetiche uniche. Il suo colore è grigio/bianco con vene e plaghe avorio, rosa e gialle. L’Arch. Cesar Pelli , che lo ha utilizzato in significative costruzioni ha sottolineato che esso“si armonizza con tutti gli altri marmi, accordandosi molto piacevolmente perché contiene in sé tutti i vari colori”. Il materiale estratto in Carnia (metacalcare) è uno speciale “Fior di Pesco”. Esso ha un antenato celeberrimo, cioè il “Marmor Chalcidicum”o “Fior di Pesco Greco”, calcare cataclastico usato localmente in età ellenistica, molto apprezzato dai Romani che lo diffusero in tutto l’Impero: Lazzarini (2007) segnala, tra l’altro, un caso unico di impiego che è significativo del suo pregio, cioè una tavola da gioco conservata nel museo di Avenches in Svizzera. Questo marmo antico fu poi di larghissimo riuso in epoca barocca (Lazzarini, 2004). I suoi impieghi furono pavimenti, rivestimenti parietali, colonne e piccole vasche. La caratteristica di questo materiale greco è di essere alquanto eterogeneo cromaticamente, con plaghe bianche o grigie alternate ad aree rosa, rosse o brune. Anche se il colore rosa come quello del fiore del pesco è limitato, esso ha dato il nome alla roccia, che fu molto apprezzata nell’antichità e di cui furono ricercati materiali simili in altre aree. Oltre al materiale friulano si ricorda il “Fior di Pesco Classico” delle Apuane, metabreccia molto usata in Toscana dai Medici. “Fior di Pesco” è pertanto un termine generico applicato a marmi di varia colorazione con una componente rosa o rosa-violacea (Fiora, 2007). La storia della scoperta del “Fior di Pesco Carnico”iniziò nel cimitero di Forni Avoltri dove sono conservate alcune lastre cimiteriali di particolare bellezza lavorate dai locali scalpellini che le avevano recuperate nei massi fluviali del torrente. Fu colpito dalla bellezza del marmo Rinaldo Colledan che scoprì il giacimento nel 1923, dopo averlo individuato in queste lapidi funerarie di rara bellezza per la venatura rosata (“Il cimitero di Forni Avoltri è una superba raccolta di marmi meravigliosi”, scrisse il Colledan dopo averlo visitato nel 1922 in occasione di un funerale a un parente). Rimase anche colpito dall’accurata lavorazione di queste tombe, volendo conoscere personalmente gli scalpellini che le avevano realizzate e che avevano appreso il mestiere a Klagenfurt in Austria ai primi del Novecento. Con essi risalì il fiume Degano e individuò l’affioramento marmoreo. Interpellò il Prof. Michele Gortani dell’Università di Bologna, che relazionò su questi materiali (“I calcari marmorei di Pierabach sono di due tipi, bianco-venati e violaceo-fettucciati…Sono tra i marmi più antichi d’Italia spettando ai primi periodi del Paleozoico. Le tinte sono bellissime e possono competere vittoriosamente con quelle dei migliori fra i nostri marmi colorati…”). Fino al 1927 Colledan gestì la cava da solo. Poi si associò all’Industria Marmi Vicentini, che è attualmente l’azienda Margraf di Chiampo, titolare in esclusiva della concessione dei diritti di scavo. Negli anni Sessanta del Novecento la coltivazione avvenne in cinque cave (Avanza, Navastol, Zocclas e Bordaglia, Carulli & Onofri, 1966), alcune delle quali lavorarono trovanti. Le maestranze della cava Avanza sono sempre state altamente specializzate. Ne è prova il loro impiego nel taglio dei templi di Abu Simbel in Alto Egitto al fine dello spostamento per la costruzione della diga di Assuan. Macroscopicamente il Fior di Pesco della Carnia è un marmo venato, di colore di fondo bianco/grigio e vene e plaghe rossee-persi chine talora violacee. Compare anche una tonalità avorio. Il pigmento è ematitico - manganesifero. La calcite è il componente mineralogico fondamentale, assai subordinati sono il quarzo, il feldspato e la dolomite. Il sito estrattivo del Fior di Pesco Carnico (Cava Avanza) è in un ambiente naturale di rara bellezza, nel comune di Forni Avoltri (Udine) in località Pierabech circa 4 chilometri dall’abitato, sulle pendici orientali del monte Navastolt nel gruppo del monte Avanza in sponda destra del torrente Degano (area occidentale delle Alpi Carniche). Il Fior di Pesco è una roccia antichissima: infatti è di età Devoniana (410 – 355 milioni di anini fa). Esso è collocato alla base di una scaglia tettonica appartenente all’Unità dei Marmi Massicci del basamento cristallino (metacalcari e metacalcari dolomitici con listature di età Siluriano p.p. – Devoniano). Numerose fratture interessano la formazione potente circa 450 m. Essi sono in contatto tettonico con metapeliti e metarenarie molto pieghettate con colore dominante violaceo, più raramente verdastro, di cui si riconoscono diversi blocchi informi sul piazzale di cava. All’interno della massa calcarea dei Marmi Massicci si trova il giacimento di Fior di Pesco, limitato a tetto da metacalcari neri. La denominazione Fior di Pesco Carnico è marchio registrato. Il materiale è adatto all’uso in esterni perché resistente al gelo. Esso è prodotto sotto forma di blocchi, lastre, modulmarmo e lavorati speciali. L’80% della produzione è esportata (soprattutto Stati Uniti, Cina, India). La cava a cielo aperto dalla fine degli anni Venti del Novecento ai giorni nostri ha prodotto 250.000 tonnellate di grezzo al netto degli sfridi con una resa lorda di quattro milioni di m2 per lo spessore convenzionale di 2 cm (Carlo Montani, comunicazione personale). Il pregio estetico del marmo è notevole (Pieri, 1964). Usi celebri storici sono pavimenti e rivestimenti di vari edifici italiani, quali la “Palazzina Reale” della stazione ferroviaria di Firenze (1935), le stazioni ferroviarie di Milano (1930) e di Venezia (1956), il Palazzo Mostra del Cinema a Venezia (1938), La Banca Nazionale del Lavoro di Milano (1952), Genova (1953), Mantova (1955) e Roma (1940), il Casinò di Venezia (1959), l’Istituto Agronomico di Firenze per l’Africa Italiana (1940), l’interno della Cattedrale di Vittorio Veneto (TV) (1942-1944), l’albergo Astoria a Livorno (1950), la Banca d’Italia a Como (1951-1953), il Santuario del Sacro Cuore a Milano (1955), la Cassa di Risparmio di Firenze (1957), la sede RAI di Torino (1968) e in Roma il Palazzo del Governatore (1938), l’ingresso del Supercinema (1948) e il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari all’EUR (1960) . Usi recenti significativi sono: Coca Cola Building (Atlanta, Arch. Heery & Heery, 1985), Canary Wharf Main Tower (Londra, Arch. Cesar Pelli, 1986) Winter Garden di New York (Arch. Cesar Pelli, 1987), interni di edifici in Washington D.C. e Forth Worth (Texas) e Kuwait Insurance Company (Kuwait City, Arch. Serge Georges Khalaf, 2002. La sapiente posa a libro aperto e soprattutto a macchia aperta aumenta il pregio delle superfici lucidate di elementi di varia dimensione, La coltivazione avviene nel rispetto dell’ambiente alpino, rappresentando un fattore positivo per l’economia locale di Forni Avoltri. Essa avviene con tre seghe a filo diamantato e una segatrice a catena. Il fronte di cava si inserisce nel paesaggio circostante caratterizzato da creste rocciose e accumuli di detrito di falda diffusi tra i boschi. L’accumulo antropico del materiale scartato e collocato a valle della cava è stato rinverdito totalmente. E’ in previsione il rimodellamento morfologico oltre che la rinaturazione di tutte le aree circostanti la cava. Il progetto ambientale finalizzato alla conservazione e valorizzazione della risorsa è oggetto di costante attenzione da parte dell’azienda. I blocchi informi sono localmente riutilizzati come materiale da scogliera negli argini fluviali. Il materiale di pezzatura inferiore è riutilizzato nel ripristino ambientale. In parte si realizza anche una graniglia di vario uso. References Carulli G.B. & Onofri R. (1966) – Il Friuli: i marmi. C.C.I.A. Udine, Tipografia del Bianco Udine, 126 pp. Fiora L. (2007) – Il colore della pietra. CD. Giorgio Zusi Editore, Verona. Lazzarini L. (2004) – Pietre e Marmi antichi. CEDAM, pag. 94 Lazzarini L.(2007) – Poikiloi Lithoi, Versiculores Maculae: i marmi colorati della Grecia antica. Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma. Pag. 205-221 Pieri M. (1964) – I marmi d’Italia, graniti e pietre ornamentali. Hoepli Editore, Milano, 480 pp. ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Fiora L., Alciati L. (2007) – Valorizzazione di siti estrattivi nell’isola di Favignana. Restauro Archeologico, 1/2007, Alinea Editrice Firenze, 35-37 Fiora L. (2007) – Restauro della Cattedrale di Noto: utilizzati 300 mila pezzi di biocalcarenite locale. L’Informatore del Marmista, 545, Giorgio Zusi Editore, Verona, 30-36 Fiora L. (2007) – Il patrimonio lapideo della città di Verona. L’Informatore del Marmista, 549, Giorgio Zusi Editore, Verona, 60-70 Fiora L. (2007) – La geologia del cimitero di Verona. L’Informatore del Marmista, 549, Giorgio Zusi Editore, Verona, 86-90 Fiora L., Alciati L. (2007) – Rosso Levanto e Portoro, “marmi” colorati dalle proprietà estetiche uniche. In “Cave storiche e risorse lapidee” a cura di Luigi Marino, ALINEA Editrice, Firenze, 59-62 Fiora L. (2008) – Women in the history of Ligurian slate. L’Informatore del Marmista, 558, Giorgio Zusi Editore, Verona, 28-35 Fiora L. (2008) – Stones of Rimini. L’Informatore del Marmista, 559, Giorgio Zusi Editore, Verona, 3543 Fiora L. (2008) – Trentino stone materials: granite, marble and porphyr. L’Informatore del Marmista, 560, Giorgio Zusi Editore, Verona, 6-17 Fiora L. (2008) – Marble and sandstone in the province Massa Carrara. L’Informatore del Marmista, 561, Giorgio Zusi Editore, Verona, 42-54 Vola G., Fiora L. (2008) – Caratteristiche geo-petrografiche e lito-applicative del “Marmo” Arabescato Orobico della Val Brembana. Rend. Soc. Geol. It., 3, 778-781 --------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Fiora L., Marino L. (2007) – Le varietà delle pietre di Guardialfiera. L’Informatore del Marmista, 549, Giorgio Zusi Editore, Verona, 73-78 Le risorse lapidee di Guardialfiera nel Molise “ La costituzione de’ monti è di calcare grossolana e terrosa, disposta a strati alti, e divisa tratto tratto da crepacci, alcuni de’ quali … sembrano prodotti da terribili cataclismi” La descrizione fatta nel 1836 da G.Del Re1 riassume bene la morfologia del territorio di Guardialfiera e, per molti aspetti, è estensibile a molti altri comuni del Molise. Dal punto di vista litoapplicativo il Molise è ricco di “pietre” (rocce sedimentarie carbonatiche, calcareniti e calcari) più o meno compatte che sono state diffusamente impiegate nelle costruzioni storiche più significative, ma anche nella edilizia locale più minuta influendo in maniera pesante, talvolta determinante, sulle procedure della costruzione e sull’economia locale. Un esempio significativo è Guardialfiera2, località che presenta una ricca storia di utilizzo dei materiali lapidei locali, essenzialmente biocalcareniti, e che oggi sembrano vivere un momento di rinnovato interesse sia per interventi di restauro che per nuove costruzioni. Dal punto di vista geologico a Guardialfiera c’è un importante contatto tra due unità stratigraficostrutturali, che durante l’orogenesi appenninica si sono sovrapposte verso est ai terreni dell’Avanfossa Bradanica e dell’Avanpaese Apulo: sono le Unità M. Pizzi-Agnone e Colle dell’AlberoTufillo e Unità Monti della Daunia (Vezzani3). La prima si sovrappone alla seconda lungo un fronte di sovrascorrimento ad andamento NW-SE che taglia a metà l’abitato di Guardialfiera, isolando dal resto del paese il nucleo meridionale su cui sorge l’antica cattedrale di Santa Maria Assunta che è impostata su calcilutiti, calcari marnosi e marne di colore beige con intercalazioni di biocalcareniti della Formazione Tufillo di età Tortoniano-Serravalliano. Ad Est dell’edificio affiorano marne grigie passanti al tetto ad arenarie/argille della Formazione Messiniana di Vallone Ferrato. Il materiale lapideo tradizionalmente impiegato può essere suddiviso in pietre di torrente (“pietre lisce del vallone”4 tratte prevalentemente dal Cervaro, che nasce dal Monte Mauro e si immette nel Biferno) e pietre di cava5. Assimilabili alle pietre di torrente sono quelle ottenute per bonifica 1 G.Del Re, Descrizione topografica fisica, economica, politica de’ Reali dominj al di qua del faro nel Regno delle due Sicilie, III, Napoli 1836. 2 A.Aquilano, Tradizioni costruttive nel Basso Molise. L’area di Guardialfiera, tesi di laurea in Architettura (rel. L.Marino), Firenze 1996-97. 3 L.Vezzani, Carta Geologica del Molise. SELCA, Firenze 2004. 4 Progetto e stato estimativo della spesa per la costruzione della Strada Maestra nel Comune di Guardialfiera dalla Torretta fino al Camposanto, 14 marzo 1844, A.S.Cb., fondo Intendenza di Molise, b. 517, f. 10. 5 In una lettera del 21 settembre 1924 (Corpo Reale del Genio Civile, Ufficio di Campobasso in ASCCB, b. 77, f. 360) sono ricordate diverse cave. La prima “trovasi vicino allo scoscendimento franoso che scende sul Vallone della Terra … a picco sul Vallone di modo ché le pietre dopo scavate se ne scendono sul vallone. Più sotto … trovasi una cava di sabbia … La detta cava non è in esercizio, ma annualmente franando, rotola materiale buono sia per la muratura interna che per il paramento”. La seconda cava è collocata alla “sommità agricola, cioè raccolte nei campi e che sono state impiegate, nella maggior parte dei casi, negli apparecchi murari dell’edilizia rurale previo sommarie lavorazioni a spacco e allettamenti di malta grossolana (alle angolate venivano comunque riservate preferibilmente pietre di cava e, non di rado, laterizi). Le cave di pietra di Guardialfiera6 si presentano, sotto uno strato di terra, in strati pseudorizzontali calcarei (intervallati da livelli di terra), ben stratificati, di spessori variabili caratterizzati, a seconda del livello, da materiali tendenti al bianco (quelli superiori), al giallo, al rossiccio e al marrone, fino al grigio-nero. Della decina dei materiali riconoscibili macroscopicamente soltanto tre sembrano essere definiti con una denominazione caratteristica: quella bianca (paglierino 1), la avana/marrone (paglierino 2) e la noce (o nocino). Le proprietà fisico-meccaniche di queste varietà commerciali sono riassunte in Tab. 1. La pietra bianca è stata impiegata soprattutto per basolati e per la formazione di elementi di apparecchio murario7 di varia forma e pezzatura, mentre la marrone è stata impiegata prevalentemente per cordonature e selciati di marciapiedi vista la buona resistenza alla gelività. La pietra noce, coltivata a profondità maggiori e certamente più rara (ma di non minore lavorabilità), è stata tradizionalmente riservata alla realizzazione di elementi di maggiore pregio: rivestimenti, caminetti e, sia pure più raramente, portali8 e altari9. In tutti i casi, dopo una sommaria lavorazione di spianatura delle facce (attozzatura) e regolarizzazione degli spigoli, eseguita a pie’ d’opera piuttosto che in cava10, con un martello a punta (martiell p’attozza’) e talvolta Le cave di pietra di della stradetta che va verso Lupara, dove si voleva fare una volta il ponte” mentre l’altra si trova “a monte della frana, verso la masseria di Baranello”. Un’altra cava è segnalata in contrada Maccarone il 6 ottobre dello stesso anno (Progetto dei Lavori di consolidamento dell’abitato di Guardialfiera minacciato da frane. Analisi dei prezzi, in A.S.Cb., fondo Genio Civile II, b.77, f.360). Altre cave storiche sono note in Contrada Morricini e Valle Cupa. 6 Le indagini sulle risorse lapidee del Molise, tra i fiumi Trigno e Biferno, svolte da R.Nevini e PG.Malesani (Pietre parlanti. Giacimenti ed analisi petrografiche, Firenze 2002) hanno preso in considerazione anche le cave di Guardialfiera in località Valle Cupa (calcarenite avana, calcarenite beige e biancastra) e Frassino (calcarenite beige laminata). 7 F.Jovine (Viaggio nel Molise, Campobasso 1967) descrive Guardialfiera come “…tutta di pietra: chiara, dura, di minutissima grana adatta all’arte degli impareggiabili scalpellini che hanno inciso fregi araldici sui portali, e tagliati con grazia i sostegni dei balconi e delle finestre”. L’ex cattedrale dedicata a S.M.Assunta (A.Caruso, L’antica Cattedrale di Guardialfiera, Campobasso 2005) rappresenta l’elemento di maggiore interesse. L’attuale edificio è il risultato delle ricostruzioni postsisma del 1688, ma numerosi elementi scultorei inseriti nella muratura confermano una datazione all’epoca longobarda. La cripta è dell’XI secolo. 8 A Guardialfiera sopravvivono, in buone condizioni, portali databili tra ‘700 e ‘800 ma talvolta più recenti (metà del 1900) spesso decorati ad altorilievo. Le mensole dei balconi e alcune finestre sagomate costituiscono elementi ai quali si dovrebbero prestare maggiori attenzioni e impegni nella manutenzione. Di grande interesse, perché sempre più rari, sono manufatti in pietra scavati a formare vasche e trogoli. 9 Si tratta di altari apparecchiati con uno/due tipi di pietra nei quali, più frequentemente, sono incastonate lastre di pietre colorate. 10 Di solito le scaglie e i frammenti che ne risultavano venivano impiegati come pulci da usarsi nel sacco di riempimento tra i due paramenti posti a serrare i mazziacan e zavorrre costituiti da sassi non utilizzabili come elementi di cortina. Il Capitolato Speciale d’Appalto per lavori di consolidamento della parte nordest dell’abitato di Guardialfiera del 1934 (A.S.Cb., Fondo Genio Civile II, b 76, f. 359) prevede che “la pietra da adoperarsi per ogni lavoro sarà di natura calcarea e di struttura compatta, sana, dura, convenientemente resistente alla pressione e di qualità riconosciuta inalterabile all’azione dell’acqua , del gelo e delle altre vicende atmosferiche” mentre la pietra da taglio “dovrà essere di qualità dura e resistente , sarà senza peli, caranfole, sfaldature od altro difetto che la rendano meno adatta all’uso cui deve servire”. La costruzione della muratura “dovrà farsi progredire a strati orizzontali … i vani fra pietra e pietra (devono) essere i più piccoli possibili (e) ogni pietra dovrà essere completamente avviluppata di malta e fortemente battuta col martello … e la malta dovrà rifluire”. Guardialfiera11 si presentano, sotto uno strato di terra, in strati pseudorizzontali calcarei (intervallati da livelli di terra), ben stratificati, di spessori variabili caratterizzati, a seconda del livello, da materiali tendenti al bianco (quelli superiori), al giallo, al rossiccio e al marrone, fino al grigio-nero. Della decina dei materiali riconoscibili macroscopicamente soltanto tre sembrano essere definiti con una denominazione caratteristica: quella bianca (paglierino 1), la avana/marrone (paglierino 2) e la noce (o nocino). Le proprietà fisico-meccaniche di queste varietà commerciali sono riassunte in Tab. 1. La pietra bianca è stata impiegata soprattutto per basolati e per la formazione di elementi di apparecchio murario12 di varia forma e pezzatura, mentre la marrone è stata impiegata prevalentemente per cordonature e selciati di marciapiedi vista la buona resistenza alla gelività. La pietra noce, coltivata a profondità maggiori e certamente più rara (ma di non minore lavorabilità), è stata tradizionalmente riservata alla realizzazione di elementi di maggiore pregio: rivestimenti, caminetti e, sia pure più raramente, portali13 e altari14. In tutti i casi, dopo una sommaria lavorazione di spianatura delle facce (attozzatura) e regolarizzazione degli spigoli, eseguita a pie’ d’opera piuttosto che in cava15, con un martello a punta (martiell p’attozza’) e talvolta scalpelli a punta e taglio, l’elemento lapideo veniva sottoposto a diverse tipologie di finitura (prevalentemente la schiantinatura, la puntillatura e, più recentemente, la bocciardatura a seconda dell’uso previsto dell’elemento finito e, cosa non secondaria, del costo che il committente avrebbe potuto sostenere. La composizione di queste rocce sedimentarie carbonatiche16 è data in prevalenza dal carbonato di calcio (calcite), il cui tenore varia da 94 a 99%, essendo inoltre presenti minerali argillosi e talora quarzo. I granuli sono sia intraclasti (15-25%) che bioclasti (25-75%) rappresentati da foraminiferi, 11 Le indagini sulle risorse lapidee del Molise, tra i fiumi Trigno e Biferno, svolte da R.Nevini e PG.Malesani (Pietre parlanti. Giacimenti ed analisi petrografiche, Firenze 2002) hanno preso in considerazione anche le cave di Guardialfiera in località Valle Cupa (calcarenite avana, calcarenite beige e biancastra) e Frassino (calcarenite beige laminata). 12 F.Jovine (Viaggio nel Molise, Campobasso 1967) descrive Guardialfiera come “…tutta di pietra: chiara, dura, di minutissima grana adatta all’arte degli impareggiabili scalpellini che hanno inciso fregi araldici sui portali, e tagliati con grazia i sostegni dei balconi e delle finestre”. L’ex cattedrale dedicata a S.M.Assunta (A.Caruso, L’antica Cattedrale di Guardialfiera, Campobasso 2005) rappresenta l’elemento di maggiore interesse. L’attuale edificio è il risultato delle ricostruzioni postsisma del 1688, ma numerosi elementi scultorei inseriti nella muratura confermano una datazione all’epoca longobarda. La cripta è dell’XI secolo. 13 A Guardialfiera sopravvivono, in buone condizioni, portali databili tra ‘700 e ‘800 ma talvolta più recenti (metà del 1900) spesso decorati ad altorilievo. Le mensole dei balconi e alcune finestre sagomate costituiscono elementi ai quali si dovrebbero prestare maggiori attenzioni e impegni nella manutenzione. Di grande interesse, perché sempre più rari, sono manufatti in pietra scavati a formare vasche e trogoli. 14 Si tratta di altari apparecchiati con uno/due tipi di pietra nei quali, più frequentemente, sono incastonate lastre di pietre colorate. 15 Di solito le scaglie e i frammenti che ne risultavano venivano impiegati come pulci da usarsi nel sacco di riempimento tra i due paramenti posti a serrare i mazziacan e zavorrre costituiti da sassi non utilizzabili come elementi di cortina. Il Capitolato Speciale d’Appalto per lavori di consolidamento della parte nordest dell’abitato di Guardialfiera del 1934 (A.S.Cb., Fondo Genio Civile II, b 76, f. 359) prevede che “la pietra da adoperarsi per ogni lavoro sarà di natura calcarea e di struttura compatta, sana, dura, convenientemente resistente alla pressione e di qualità riconosciuta inalterabile all’azione dell’acqua , del gelo e delle altre vicende atmosferiche” mentre la pietra da taglio “dovrà essere di qualità dura e resistente , sarà senza peli, caranfole, sfaldature od altro difetto che la rendano meno adatta all’uso cui deve servire”. La costruzione della muratura “dovrà farsi progredire a strati orizzontali … i vani fra pietra e pietra (devono) essere i più piccoli possibili (e) ogni pietra dovrà essere completamente avviluppata di malta e fortemente battuta col martello … e la malta dovrà rifluire”. 16 Le rocce molisane qui prese in esame rientrano nella categoria commerciale dei “marmi” beige, rappresentati in prevalenza da calcari (limestones), cioè da rocce sedimentarie formatesi per precipitazione del carbonato di calcio da una soluzione presente in un bacino marino o lacustre, la cui colorazione è legata alla dispersione di poche p.p.m. di ferro. Spesso queste rocce di deposizione chimica sono anche ricche di fossili o contengono una frazione detritica (calcareniti/biocalcareniti). lamellibranchi, echinodermi e briozoi, immersi in una matrice micritica/microsparitica e con cemento calcitico. La colorazione dipende dalla percentuale in idrossidi di ferro (goethite/ferrydrite) e ossidi di ferro (ematite). Questi minerali cromofori sono anche concentrati in anelli di Liesegang, cioè in anelli secondari concentrici causati da precipitazione ritmica in una roccia satura di fluidi17. Talora le bande ritmiche risultano fagliate con ricristallizzazione di calcite spatica in vene. Dopo un periodo di quasi totale abbandono del materiale lapideo, soprattutto a partire dall’immediato dopoguerra quando si è diffuso l’uso del laterizio industriale e il cemento armato, esso sembra destare oggi nuovi interessi. Usata prevalentemente per rivestimenti/pavimentazioni sia per interni che per esterni, oltre che per per elementi decorativi, la pietra di Guardialfiera ha denotato un po’ alla volta la ripresa di impieghi anche strutturali18, in coerenza con la lunga tradizione locale19. Le cave di Guardialfiera20 sono localizzate il località Valle Cupa (cava a cielo aperta attiva) e in località Frassino (in corso di riapertura). Le cave storiche presentano lunghi fronti sub verticali alti circa 30 metri e potenzialmente coltivabili fino a un centinaio di metri21. I laboratori (loc. Frassino) assicurano una buona lavorazione semindustriale, pur essendo sempre più impegnati a potenziare le lavorazioni artigianali. Si ricorda inoltre la produzione di oggettistica e di sculture, realizzate con grande cura da artisti locali, che nelle loro opere sapientemente valorizzano le caratteristiche petrografiche delle diverse varietà merceologiche. roprietà fisico-meccaniche delle diverse varietà di Pietra di Guardialfiera 17 K.K.E.Neuendorf, J.P.Mehl Jr., J.A.Jakson, Glossary of Geology. American Geological Institute Alexandria, Virginia 2005. 18 Le pietre di Guardialfiera trovano un ottimo impiego nel restauro degli edifici monumentali dell’area, come per esempio la ex-cattedrale (M.Civita, 1975) e il castello di Civitacampomarano (C.Civerra, 1995) ma anche per le riparazioni dei danni causati dal sisma che ha colpito la regione nell’ottobre 2002. 19 Testimonianze significative della tradizione dell’uso della pietra nel Molise sono in A.De Marinis, Il culto della pietra a Civitacampomarano, Firenze 1992, M. di Tullio, Scalpellini e stuccatori di Pescopennataro, Agnone 2003. A Oratino è in previsione il Museo della Pietra e una scuola per scalpellini nelle cave comunali dismesse (nello stesso comune, intanto, sono state scoperte e sequestrate due cave abusive capaci di fornire 15.000 m3 di materiali laapidei). 20 Di proprietà della Eurocave srl. 21 Una campagna di rilievi dei fronti delle cave storiche di Guardialfiera da parte del Dires dell’Università di Firenze è stata avviata nell’ambito dei programmi di ricerca e didattici previsti dal Centro di documentazione e formazione nel settore dei Beni Culturali e Architettonici (istituito ai sensi dell’Ordinanza PCM n. 3268/03 – Art. 15 e approvato con delibera CIPE n. 32/04) e che avrà sede nel castello di Civitacampomarano. Questo progetto parte dalla necessità di una riflessione sulle modalità di intervento sul patrimonio edilizio tradizionale in un territorio come quello molisano caratterizzato dalla frequente presenza di eventi traumatici (terremoti, alluvioni, frane…), generalizzati livelli di abbandono con forme di degrado e dissesto avanzate e una sempre più grave perdita di conoscenze e abilità operative. Tab. 1 – Proprietà fisico-meccaniche delle varietà di Pietra di Guardialfiera Nome Nome Composizione Peso Commerciale Petrografico mineralogica Specifico (%) Assorbimento Carico di rottura a d’acqua compressione (% in peso) (Kg(cm2) Calcite (94%), 2.70 quarzo, argille 4.85 0.23 1050 Biocalcarenite 4.83 0.19 1000 (colore beige) Calcite (95%), 2.69 argille, ossidi e idrossidi di ferro Paglierino 2 Bio(colore avana) calcarenite Calcite (99%), 2.70 argille 5.19 0.19 1300 Paglierino 1 Bio(colore calcarenite bianco) Noce Porosità Fiora L., Alciati L. (2008) – Valorizzazione di siti estrattivi nell’isola di Favignana. Atti Convegno “Le risorse lapidee dall’antichità ad oggi in area mediterranea”, ADDENDUM, Canosa di Puglia 25-27 settembre 2006, GEAM, Torino, 31-35 VALORIZZAZIONE DI SITI ESTRATTIVI NELL’ISOLA DI FAVIGNANA Abstract Favignana Stone is an important example of historic stone materials in Italy: intense quarrying activity has left important and by now inseparable traces in the natural environment. Valorisation of the history of the island, to a great extent also the history of this stone, recovery of space for tourist facilities without spoiling the territory with new buildings and the assurance of economic benefits allowing continued quarrying activity have seen old quarry sites with adjacent old buildings renovated and turned into hotels. 1. Introduzione Nell’isola di Favignana (Egadi, Sicilia Occidentale) è coltivata fin dal passato una biocalcarenite quaternaria, molto porosa, di facile estrazione e lavorabilità, la Pietra di Favignana, impropriamente detta anche “Tufo” o “Tufo Conchigliare”. Il paesaggio dell’isola con le sue caratteristiche geologico-geomorfologiche, le cavità geometrizzate delle antiche cave e il costruito è riconosciuto essere un complesso e autentico “monumento” e un bene eccezionale (Regione Siciliana, Decreto 25 settembre 2003). La Pietra di Favignana appartiene alla stessa Formazione della Pietra di Trapani, affiorante nella Sicilia Occidentale sul litorale di Marsala e nella zona di Erice e Paceco, intensamente coltivata per l’edilizia storica trapanese. Rodolico (1953) ne sottolineò l’importanza nel costruito, definendole “pietre docili al ferro specie quando siano pregne d’acqua di cava”. Nella città di Trapani l’uso di cantoni di queste calcareniti fossilifere grossolane è diffuso fin dal Quattrocento: a causa dell’elevata porosità i conci furono spesso trattati con olio di lino per aumentarne la durabilità. La roccia di Favignana è un materiale da costruzione che ha avuto anche uso ornamentale in elementi architettonici finemente lavorati e che, nell’isola, in una varietà più fine, rappresenta ancora oggi materiale da scultura per pregevoli lavori di intaglio. Essa è un’importante pietra italiana e rientra tra le pietre storiche del bacino mediterraneo (Fiora & Alciati, 2005). La roccia del costruito favignanese testimonia il passaggio di tanti dominatori (Saraceni, Normanni, Angioini, Aragonesi e Genovesi): la calcarenite è stata infatti diffusamente utilizzata nelle diverse epoche storiche, anche con accorgimenti pratici per renderla più durevole nell’ambiente marino permeato di sali: sovente, infatti, i conci furono sottoposti a un trattamento protettivo a base di olio di tonno. L’attività estrattiva di questa pietra fa ormai parte integrante del paesaggio favignanese. Le antiche cave risultano essere “sculture a scala territoriale” (Regione Siciliana, Decreto 25 settembre 2003). Sovente esse sono state trasformate in orti, frutteti e vigneti, sì che la coltura agricola appare intimamente connessa all’attività estrattiva. Al fine di incrementare l’attività turistica senza intervenire con nuove costruzioni e per valorizzare il ricco patrimonio di conoscenze e tradizioni di questa pietra, la passata attività estrattiva è stata sfruttata per la costruzione di hotel. 2. Inquadramento geologico della Pietra di Favignana Il rilevamento geologico di dettaglio delle isole Egadi e in particolare quello dell’isola di Favignana fu effettuato attorno agli anni Cinquanta del Novecento dai rilevatori del Servizio Geologico d’Italia (Malatesta, 1955). Lavori ottocenteschi segnalavano solo la presenza di questa roccia (Baldacci, 1886). Al 1919 risale la descrizione del suo contenuto fossilifero (Gemmellaro, 1919). La geologia è descritta in Catalano & D’Argenio (1982), le indagini paleogeografiche sono opera di Agnesi et al. (1993), il quadro tettonico è approfondito da Nigro et al. (2000). Il settore Eguseo della catena montuosa nord-occidentale siciliana comprende le isole Egadi (le principali delle quali sono Favignana, Marettimo e Levanzo) e il loro off-shore: su un substrato carbonatico e terrigeno di età mesozoico-terziaria poggiano in discordanza rocce plio-quaternarie. Favignana, in particolare, è caratterizzata da una dorsale mesozoica con andamento N-S (il Monte Santa Caterina, alto 302 m, detto anche la “Montagna Grossa”), composta da calcari, calcari dolomitici, dolomie, marne e da due regioni pianeggianti ad E e ad W: in quello orientale affiorano le biocalcareniti, di età Pleistocene inferiore, presenti anche in parte in quello occidentale al di sopra dei calcari mesozoici, talora con intercalazione di livelli conglomeratici. Tre sistemi di faglie dislocano tutti i terreni. 3. Riuso di siti estrattivi L’estrazione è ben evidente in tutta l’isola: soprattutto la parte orientale è ricchissima di siti estrattivi, piccoli e grandi, che appartengono ormai al patrimonio naturale dell’isola; geologia e coltivazione della pietra sono inscindibilmente connesse ovunque e addirittura l’impianto urbano è condizionato fortemente dai siti estrattivi storici, sviluppandosi attorno e in essi. La quantità di roccia estratta è stata veramente notevole, risultando il piano campagna, nella parte orientale dell’isola, abbassato fino a 20 m di profondità ed essendo tutto il centro storico e la maggior parte delle abitazioni al di fuori di esso costruiti in vecchie cave. Ovunque ci si imbatte in case che sfruttano le antiche cave e comuni sono al loro interno i giardini ipogei, dove l’uomo da sempre coltiva gli alberi da frutta al riparo dai venti e dove fioriscono esotici fiori. Quindi cava recuperata a casa, cava trasformata in giardino, ora anche cava adibita ad hotel. 4.Valorizzazione turistica delle cave Nell’ottica della valorizzazione dei siti estrattivi dismessi, un edificio di supporto allo svolgimento del lavoro di cava è stato utilizzato per edificare un albergo, dove l’estrazione e l’uso della pietra locale sono esaltati. Il materiale da costruzione è rappresentato da masselli di calcarenite e tutti gli spazi della ricezione alberghiera sono nella più antica zona di coltivazione. Il giardino e il ristorante si sviluppano nello spazio a fossa tra pilastri su cui si riconoscono le tracce della coltivazione manuale della pietra. Uno spazio del giardino è dedicato all’esposizione delle macchine utilizzate per tagliare e trasportare la pietra, mentre per l’arredo interno è stata impiegata la documentazione storica dell’estrazione e del trasporto della calcarenite (su barche a vela note come “schifazzi”). 5. Attività estrattiva La coltivazione attuale della calcarenite di Favignana, realizzata con macchine e a cielo aperto, fornisce elementi finiti di calcarenite con dimensioni standard tradizionali e pezzi speciali fuori misura con destinazione il mercato siciliano. Il materiale di scarto è anche utilizzato per la produzione di oggettistica. La polvere residua di lavorazione trova impiego come materia prima per malte pregiate. Storicamente fu realizzata anche la coltivazione in sotterraneo, le cui tracce sono ben evidenti, ad esempio, sulla falesia di Cala Rossa. In passato la coltivazione, opera dei “pirriatori”, cioè dei locali cavatori, avveniva con la “mannara”, utensile tagliente ibrido tra ascia e piccone, con cui ogni lavoratore realizzava giornalmente tra 25 e 40 conci, con uno scarto del 40% (Montana & Scaduto, 1999; Torre, 1980). L’estrazione restò manuale fino alla metà del Novecento. 6. Conclusioni Il bagaglio di conoscenze pratiche su questa biocalcarenite è valorizzato anche ospitando in cava i turisti, che rappresentano la principale risorsa economica dell’isola. Un hotel in cava consente infatti di avvicinare al mondo estrattivo storico e contemporaneo anche chi ne è lontano e facilita la diffusione della cultura della pietra che è profondamente radicata negli abitanti di Favignana. Per gli imprenditori la salvaguardia del settore lapideo passa attraverso il recupero fisico e simbolico degli spazi di cava dedicati ora all’insediamento turistico: la ricaduta economica di questa attività consente di protrarre la coltivazione della pietra, di cui è esaltato il patrimonio di conoscenze. La fatica millenaria del cavatore è esemplificata nell’annesso museo con gli storici macchinari di cava e di trasporto e con la documentazione fotografica. Il passato e il futuro di Favignana si coniugano così con la sua principale pietra. 7. Bibliografia Agnesi V., Macaluso T., Orrù P., Ulzega A. (1993) – Paleogeografia dell’arcipelago delle isole Egadi (Sicilia) nel Pleistocene Su.-Olocene. Naturalista Sicil., IV, XVII, 1-2, 3-22 Baldacci L. (1886) – Descrizione geologica dell’Isola di Sicilia. Mem. Descri. Carta Geologica Ital., 1 Catalano R. & D’Argenio B. (1982) – Schema Geologico della Sicilia Occidentale. Mem. Soc. Geol. It., 24, 9-41 Cipolla F. (1929) – Cave di tufi calcarei della Sicilia (età dei giacimenti e metodi di coltivazione). Bollettino Associazione Mineralogica Siciliana, 5, 8-20 Fiora L. & Alciati L. (2005) – Marmi e pietre antiche nel bacino mediterraneo. L’Informatore del Marmista. Giorgio Zusi Editore Verona, 521, 20-27, con allegata carta geologica Gemellaro M. (1919) – Osservazioni sul Quaternario dell’Isola di Favignana. Boll. Soc. Sc. Nat. Econ. Palermo, 9 giugno 1919 Malatesta A. (1955) – Terreni, faune e industrie quaternarie nell’Arcipelago delle Egadi. Boll. 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L’Informatore del Marmista, Giorgio Zusi Editore Verona, parte seconda, 526, 35-44 Pietre pugliesi La Puglia è costituita da rocce sedimentarie di età mesozoica e ceno-neozoica; il Mesozoico rappresenta la base della successione stratigrafica che inizia con una formazione evaporitica (gessi e anidriti con calcari) affiorante alla Punta delle Pietre Nere (Gargano) e appartenente al Trias superiore. Seguono a questa formazione i calcari e le dolomie giurassiche costituenti il nucleo del promontorio garganico. Simili tipi litologici costituiscono anche le rocce del Cretaceo con le quali si chiude anche la successione mesozoica: queste rocce rappresentano la maggior parte degli affioramenti del Gargano, delle Murge e delle Serre salentine. Completano la successione stratigrafica le rocce del Terziario e del Quaternario, rappresentate da una formazione calcarea (detriticoorganogena) poco estesa, di età paleogenica (Paleocene-Oligocene), che affiora lungo i bordi orientali del Gargano e del Salento; da una formazione calcarenitica del Miocene, ben nota nel Salento con la denominazione di “Pietra Leccese” e da una successione plio-pleistocenica che comprende calcareniti, dette localmente “Tufi”o “Tufi calcarei”, oltre a sabbie ed argille, i cui affioramenti raccordano i modesti rilievi della regione (Regione Puglia, 1982). L’attività estrattiva di pietra naturale, è concentrata in tre aree geografiche (L’Incesso & Paglionico, 2000): - area garganica nord-occidentale (Apricena-San Giovanni Rotondo); area murgiana settentrionale e centrale (Minervino, Trani, Ruvo, Fasano); - area salentina (Cursi, Lecce e località varie di estrazione di tufo). Per quanto riguarda le pietre da costruzione e da decorazione, si possono distinguere alcuni tipi di materiali principali: la Pietra di Apricena, la Pietra di Trani, la Pietra Leccese (Pietra di Cursi) e i tufi calcarei. La Pietra di Apricena è estratta sulle pendici nord occidentali del Gargano, in un’area compresa tra Apricena, Poggio Imperiale, Lesina e San Giovanni Rotondo mentre la Pietra di Trani viene estratta sulle Murge settentrionali nei dintorni di Trani, Barletta, Andria, Corato, Minervino e Fasano. Per quanto riguarda la Pietra Leccese, la zona di estrazione è nel Salento, in particolare nei dintorni di Cutrofiano, mentre i tufi (tufi calcarei) sono estratti sui margini del rilievo murgiano, ma anche in altre località di Puglia e Basilicata. La Pietra di Trani e la Pietra di Apricena sono rocce calcaree (si tratta di termini variabili per grana e tessitura, da calcari a calcareniti ), di età cretacea, di origine detritica e biochimica, costituite da calcite (oltre il 98%), quarzo, feldspati, ossidi e idrossidi di ferro, minerali argillosi ed accessori vari. Gli elementi principali di queste rocce sono i granuli ed il fango calcareo (micrite) associati ai mosaici cristallini di deposizione chimica (cemento). I granuli comprendono gli intraclasti, i fossili, le ooliti ed i pellets. Gli intraclasti sono formati da frammenti di fango calcareo litificato, eroso dal fondo marino e ridepositato; i fossili ed i frammenti fossili detti anche bioclasti rappresentano i resti degli organismi vissuti nei bacini di sedimentazione; le ooliti corrispondono a minute sfere calcitiche, a struttura concentrica o radiale, mentre i pellets sono aggregati di fango calcareo privi di struttura interna. Il fango calcareo, formatosi per via meccanica o precipitato per via chimica o biochimica, costituisce la micrite di fondo, micro e criptocristallina, i cui sono immersi i granuli suddetti. Le dimensioni dei minuti cristalli calcitici della micrite sono dell'ordine di 1-4 micron. La calcite spatica, che forma il cemento che occlude parzialmente gli interstizi tra le particelle detritiche, è viceversa rappresentata da cristalli di diametro superiore a 10 micron; essa si forma per precipitazione chimica delle acque circolanti negli spazi intergranulari del sedimento (Regione Puglia, 1982). La Pietra Leccese è una calcarenite miocenica di facies marina di colore bianco sporco, poco cementata con tracce di bioturbazioni e bioclasti di Lamellibranchi, Echinidi, Briozoi, Anellidi e alghe calcaree (Calò et al., 1992); la sua grana è da fine a media, con tenore di carbonato di calcio superiore al 90% (calcite in fossili, intraclasti e cemento) e con componenti non carbonatici (quarzo, feldspati, mica bianca e minerali argillosi). I tufi o tufi calcarei sono invece calcareniti quaternarie depostesi essenzialmente in ambiente marino ma anche in ambiente continentale (dune fossili). Le cave sono sia a fossa che ad anfiteatro con fronti di cava subverticali. La coltivazione avviene anche in sotterraneo nel caso della Pietra Leccese. Oltre alle sopraddette varietà di pietre naturali, si ricorda che tutte le rocce affioranti, se dotate di idonee proprietà, sono state in passato coltivate ed utilizzate nell’edilizia. Per esempio, a Santa Cesarea (Salento) le murature e le pavimentazioni sono in calcare affiorante in questo centro costiero, costituendo in alcuni casi parte integrante delle costruzioni. La Pietra di Apricena Nel bacino di Apricena affiorano rocce carbonatiche ben stratificate del Cretaceo inferiore, riferite al tratto medio-alto della formazione dei Calcari di Sannicandro (Boni et al, 1969); su queste poggiano in trasgressione depositi miocenici (Calcareniti di Apricena) e plio-pleistocenici (Sabbie di Serra Capriola). L'intervallo stratigrafico interessato dall'attività estrattiva è riferibile al tratto di serie della Formazione di S. Giovanni Rotondo del Cretaceo inferiore (Berriasiano sup. - Barremiano inf.) (Ricchetti et al, 1999). Le tre varietà più rappresentative estratte nel bacino di Apricena sono il fiorito, il biancone, serpeggiante e il bronzetto). Baldassarre et al. (2000) hanno ricostruito le caratteristiche litologico-petrografiche delle tre successioni stratigrafiche; fiorito, quella del biancone e quella del pellets e bioclasti. La serpeggiante. La Pietra di Apricena è di uso molto antico. Le prime notizie storiche sono documentate in alcuni “Atti della provvidenza” dell'epoca di Carlo III Re di Napoli (1716-1788) per “lo scavo e il trasporto di colonne ed altri pezzi di pietre marmoree per il servizio di S.M. dalle cave di Apricena” (Baldassarre et al., 2000). Dai dati rilevati nel 2000 (Baldassarre et al., 2000) risultano censite, nell'area di estrazione, 24 cave, di cui 21 in attività e 3 abbandonate e parzialmente colmate con il materiale di risulta; la coltivazione si è sviluppata a cielo aperto in fossa. L'estensione delle cave varia tra 1,5 e 15 ha mentre l'altezza dei fronti di abbattimento è compresa tra 10-15 metri e 70 metri. Nella parte alta di tali fronti sono presenti sabbie (Sabbie di Serra Capriola), calcareniti (Calcareniti di Apricena), o calcare cretacei; queste rocce costituiscono il cosiddetto “cappellaccio” che viene posto a discarica al limite dei fronti di abbattimento in cumuli che possono avere un'altezza di 60-70 metri. Una parte di questo materiale è attualmente destinato alla produzione di inerti e di calce. La tagliatrice a catena costituisce la tecnologia oggi più utilizzata nel bacino estrattivo di Apricena, per effettuare il taglio al monte delle bancate di pietra calcarea; la lavorazione avviene a secco. I tagli orizzontali al piede della bancata vengono effettuati per mezzo di perforazioni con martelli montati su slitte. Il successivo distacco avviene con miccia detonante. Per mezzo di martelli montati su carro si effettua il line drilling e, mediante uso di spaccaroccia (in gergo locale “viggione”) si suddividono le bancate in blocchi direttamente sul piazzale di cava (Tomà, 2001). La Pietra di Trani Il bacino estrattivo delle pietre ornamentali note con il nome di Pietra di Trani è molto vasto; si estende nelle Murge nord-occidentali e comprende i territori comunali di Trani, Bisceglie, Andria, Corato, Ruvo di Puglia e Minervino Murge. In queste zone i terreni più antichi sono rappresentati dalle successioni calcareo-dolomitiche del Cretaceo inferiore e superiore, riferibili al “Calcare di Bari”, la più antica delle unità formazionali costituenti il Gruppo dei Calcari delle Murge; su questi poggiano in trasgressione depositi in lembi variamente estesi riferibili alla formazione della Calcarenite di Gravina di età pliocenica – pleistocenica e una successione di unità litostratigrafiche plioceniche riferibili ai Depositi Marini Terrazzati (Baldassarre et al, 2001) . In particolare nel comprensorio Trani-Bisceglie affiorano successioni riferibili alla parte basale del Calcare di Bari. Nel settore a sud-ovest di Trani lo spessore complessivo della sezione stratigrafica è di circa 165 metri. La coltivazione è qui compiuta nelle “zone” denominate Puro, Lama Amara, Montericco, Gesù Maria Nella zona Puro sono coltivati dei calcari biomicritici di colore prevalentemente avorio. Le varietà più note coltivate in questa zona sono il Massello, Due meno un quarto, il Bove e la Mano dei vecchi. Le terminologie utilizzate per distinguere le numerose varietà sono nomi locali che trovano significato più frequente nello spessore o nel colore o nella durezza degli strati o ancora nelle dimensioni e/o distribuzione dei resti fossili. Nella zona Lama Amara gli strati utili forniscono le varietà serpeggiante chiaro, gialletto e massello. Nella zona Montericco si estraeva il perlato di Trani e il broccato. Le varietà coltivate sono dette Nero, Bronzetto, Mano Nera, Carovigno , Fagiolo e verde smeraldo. La zona Gesù Maria produce le varietà patanoso, la mano nera e la mano di ferro. Nella Zona Carcano sono prodotti i calcari biancone, il palmo, il massello d'oro, il livido, il lumacone e il bimandorlo; la denominazione di queste due ultime varietà fanno esplicito riferimento alla presenza di rudiste o di altri bivalvi (Regione Puglia, 1982). Secondo gli stessi autori, nel 2001 risultavano in attività 21 cave della quarantina esistenti. In rapporto alle condizioni morfologiche la coltivazione si è sviluppata a cielo aperto in fossa; l'estensione delle cave varia da 1 ha a 16 ha e l'altezza dei fronti di abbattimento è compresa tra 12 metri e 40 metri. La coltivazione è attuata con segatrici dentate elettromeccaniche o a catena e solo in alcune cave con micce detonanti. La Pietra di Trani è stata tra l’altro utilizzata nella Cattedrale di Trani. L’opera, iniziata nel 1094, ebbe varie fasi costruttive fino al completamento del campanile nella seconda metà del Trecento. La costruzione ha pianta basilicale con tre navate e transetto con tre absidi. L’asse longitudinale è parallelo alla riva del mare cui è vicinissima. Per la costruzione sono state utilizzate quattro diverse varietà di Pietra di Trani. Il degrado interno comporta scagliatura e polverizazzione con distacco di abbondanti frammenti, oltre a notevoli efflorescenze saline (De Tommasi et al., 1989). Le condizioni termoigrometriche dell’interno della chiesa e lo spray marino sono le cause principali di deterioramento (Amicarelli et al., 1978). I criteri in base ai quali la Pietra di Apricena e la Pietra di Trani vengono distinte in quella gamma piuttosto vasta di varietà che si conoscono dal punto di vista commerciale, si riferiscono a caratteristiche estetiche e strutturali. Così ad esempio le varietà denominate biancone, bronzetto, livido, gialletto e avorio devono tale denominazione esclusivamente al colore; il cocciolato, il perlato e il moschettato la devono al sensibile contenuto in fossili di dimensioni rispettivamente grosse, medie e piccole; il filetto rosso ed il filrosato alle stiloliti impregnate di ossidi di ferro; il filettato, il serpeggiante, l'ondagata e il silvabella ad una distinta laminazione. Tagliate al verso le bancate laminari, ricche di stiloliti, danno le varietà fiorito, arabescato, nuvolato, oniciato ecc. (Regione Puglia, 1982). La Pietra Leccese E’ il materiale del “barocco” leccese, fenomeno artistico caratterizzato da grande fastosità decorativa, traducibile in opera grazie alla lavorabilità della pietra. Petrograficamente la roccia è una biocalcarenite costituita da frammenti di fossili (foraminiferi) e da clasti (quarzo, feldspati, fosfati e glauconite) in una matrice di calcite micritica, talora arricchita di minerali argillosi. Sono tipiche le bioturbazioni che indicano un rimescolamento del sedimento da parte di organismi viventi. La roccia nell’antichità era sottoposta a stagionatura: infatti si era notato che il materiale andava incontro a “carie”, ma che questa era ridotta se i manufatti erano posti in luoghi asciutti e ventilati per un certo tempo prima dell’utilizzo, fino all’attecchimento di flora crittogamica. La tecnica fu impiegata dai Romani e utilizzata per tutto il Seicento. La roccia degradata si presenta attualmente tipicamente “cariata”: la caratteristica “alveolizzazione” è da correlare con le particolari tessiture di bioturbazione. Altre forme di deterioramento superficiale sono efflorescenze saline e sub-efflorescenze, croste nere, decoesionamento granulare, fratturazione. In alcuni casi si ha cedimento strutturale correlabile con la diminuzione di resistenza meccanica per imbibizione di acqua meterorica (Zezza et al., 1989). I bacini estrattivi sono quello inattivo di Lecce e quello in esercizio di Cursi-Melpignano-Martano (Pietra di Cursi). Le varietà di Pietra Leccese sono: piromafo, cucuzzara, dura, bianca, dolce, gagginara, saponara, bastarda. Una varietà storica è il lecciso (o gentile). La facciata della Basilica Santa Croce in Lecce è la più celebre realizzazione in Pietra Leccese. I Tufi calcarei Si possono distinguer i tufi del Gargano (tufo bianco, tufo giallo), delle Murge (tufo di Gravina, tufo di Monte Castiglione) e del Salento (ad es., tufo di Andrano). I nomi d’uso sono: - tufi tenaci (Mazzaro, Carparo) - tufi fossiliferi (Cozzarolo, Scorzo, Cozzoso, Rognoso) - tufi fini (Zuppigno, Mollica, Gentile) Altre varietà sono: Marmoriato, Granuloso, Cuzzigno, Verdatiero, Stagna, Chiumegnu, Arrone ecc. (Primavori, 2001). I “tufi” sono un tipico materiale da costruzione, utilizzato ancora oggi per murature di case in elementi a forma di parallelepipedo. Sono inoltre un materiale ornamentale utilizzato nelle ricche decorazioni barocche, oltre che roccia da scultura. Sovente in passato queste rocce erano intonacate con calce, sia bianca che variamente pigmentata, per aumentarne la durevolezza. Il tufo calcareo di Gallipoli La calcarenite quaternaria della zona di Gallipoli fu usata come pietra da costruzione e ornamentale nella cittàdina del Salento, di cui caratterizza le costruzioni delle diverse epoche. Fondata dai Greci che la chiamarono Anxa, Gallipoli divenne colonia romana di notevole importanza strategica soprattutto con l’apertura della via Traiana (109 d.C.) che la mise in comunicazione con Brindisi e quindi con la rete delle vie consolari. Fu successivamente roccaforte dell’Impero d’Oriente fino all’invasione normanna. Subì numerosi assalti saraceni (all’inizio del 900 fu occupata per circa tre decenni dagli Arabi) e fu conquistata da diversi dominatori (Normanni, Angioini, Aragonesi) che lasciarono tracce nelle costruzioni. Anche i Veneziani la conquistarono per un breve periodo (a partire dal 1484) e successivamente vi giunsero gli Spagnoli. Già nel Settecento si teneva una fiera internazionale annuale. Nel 1880 fu raggiunta dalla ferrovia. La Chiesa di Santa Maria del Canneto, rifacimento seicentesco di un precedente edificio, è riccamente ornata nell’interno da “tufo” finemente lavorato. Anche la statua di San Nicola è in calcarenite intonacata. Nel centro spicca la Piazza del Duomo con la settecentesca Torre dell’Orologio e il cinquecentesco Palazzo Pirelli, ornato di un elegante balcone-loggia con arco a bifora. La Cattedrale presenta una scenografica facciata con la parte sommitale in stile tardo barocco leccese. Tutta la costruzione è in tufo. In ogni angolo del centro storico di Gallipoli si osservano realizzazioni pregevoli: ad esempio, Palazzo Muzio con ornato portale, Palazzo Fontana con fastosa facciata vuota dietro la quale c’è una scala a cielo scoperto, Palazzo di Spagna con ricco portale, Palazzo Briganti con frantoio seicentesco restaurato e le numerose e caratteristiche corti pavimentate in calcare. Il trionfo dell’apparato decorativo barocco si osserva in Palazzo Senape, mentre altre celebri costruzioni storiche sono Palazzo Venneri con balcone a carena di nave e Palazzo Tafuri, tipica residenza nobiliare seicentesca. Tra le costruzioni religiose si segnalano le Chiese del Crocefisso (1741, finestra con cornice molto ornata) e di S. Domenico (1516, facciata convessa con elementi scultorei vari), la Chiesa di San Francesco (scenografica facciata settecentesca), la Chiesa di Sant’Angelo con scalinata rococò, la Chiesa della Purità, seicentesca costruzione collocata di fronte al mare con pavimento interno in ceramica di fattura locale, la cinquecentesca Confraternita di San Giuseppe e della Buona Morte, anch’essa pavimentata internamente in maiolica. Il tufo è il materiale utilizzato per rivestimenti, portali, colonne ed elementi decorativi vari. Spesso esso è intonacato, come ad esempio nel Palazzo dei Talano, celebre famiglia di mercanti e banchieri. Anche le mura della cittadina (Bastioni) sono state realizzate in tufo. Dal punto di vista conservativo il tufo denota alvelizzazione e degrado biologico. Il biodegrado si manifesta con crescita di vegetazione (alberi di alto fusto, ad esempio, nella Biblioteca Comunale), con muschi (nelle zone umide e poco soleggiate) e con licheni, la cui presenza altera cromaticamente la superficie litica. Le pietre pugliesi, e in particolare i tufi e la pietra leccese, sono state anche utilizzate nelle numerosissime fortificazioni costiere del Salento. Disseminate lungo la costa, risultavano essere circa ottanta da un censimento a metà del Settecento. Oggi sono in numero ridotto, alcune in stato di rudere, molte recentemente restaurate. Ne sono esempio la Torre del Serpe, antico faro della città di Otranto, la Torre Mozza, a forma cilindrica, la Torre di San Giovanni, profondamente rimaneggiata, la Torre dell’Uluzzo a forma tronco-piramidale e parzialmente crollata, la Torre di San Isidoro divisa in tre piani da due tori marcapiano, l’imponente Torre Lapillo con scalinata, la Torre Miggiano, con basamento troncoconico in muratura di pietre irregolari rinforzata da pilastri di pietra squadrata. Spesso i materiali da costruzione sono stati ricavati nelle immediate vicinanze delle torri: ne è esempio la cava localizzata a qualche decina di metri dalla Torre Miggiano, dove sono ben evidenti le tracce delle antiche “tagliate”. Cause di degrado dei monumenti pugliesi In generale le cause di degrado dei monumenti pugliesi possono essere sinteticamente riassunte come segue: - imbibizione di acqua (Zezza et al., 1989); - temperatura dell’aria e sue variazioni (Baldassare et al., 1989); - spray marino (Laurenzi Tabasso et al., 1989); - crescita di licheni (Seaward, et al., 1989); - inquinamento atmosferico (Dell’Anna et al., 1989). Il degrado è sempre correlabile con le caratteristiche strutturali e tessiturali ed è assai marcato in corrispondenza dei resti fossili. Il degrado dei granuli e della matrice induce tipiche forme vacuolari (alveolizzazione). Si parla di “carie”, indicando con questo termine la degradazione selettiva che si imposta sulle disomogeneità (tessiture, bioturbazioni) che sono caratterizzate da differente porosità. Il fenomeno è ben evidente, tra l’altro, nel bugnato del paramento della Chiesa di Santa Croce a Lecce. Il biodegrado indica un livello moderato di inquinamento, che consente la crescita di licheni strettamente ancorati al substrato, quali quelli che creano un mosaico di colori sulle Mura di Gallipoli. Marcata è soprattutto l’azione dello spray marino soprattutto sulle varietà più porose di rocce pugliesi. Altree pietre pugliesi sono (Pieri, 1963): - Rosso di Puglia, calcare estratto in provincia di Bari Rossi delle Murge Gialli delle Murge Rosati delle Murge Lumachella Rosata, estratta in provincia di Brindisi - Onice (Brindisi e diverse località, ad es. Alberobello), alabastrite - Marmo grigio (Brindisi) - Marmo striato (Brindisi) - Marmo grigio-perla (Brindisi) Nel Gargano si ricordano inoltre la breccia rossa e la Breccia bigia di S. Angelo, usate, tra l’altro, nella Reggia di Caserta. Riferimenti bibliografici Amicarelli V., Biondi P., De Tommasi G., Fuzio G. (1978) – The Cathedral of Trani: a singular case of Stone decay. Proc. Int. Symp. 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Utilizzato per varie funzioni, rimase incustodito per molti secoli e fu soggetto in più riprese a devastazione e asportazione di materiali. Acquistato dallo stato italiano nel 1876, quando ormai l’apparato decorativo marmoreo era stato in gran parte asportato, fu sottoposto a restauri fin dal 1879; successivamente nel Novecento fu oggetto di diversi interventi di consolidamento e di demolizione di strutture non originarie. Esso è stato inserito dall’UNESCO nel 1992 nella lista dei Monumenti Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Enigmatico resta lo scopo della costruzione, mentre definite sono ora le tipologie e le provenienze dei materiali (Zezza, 2005). La scelta del sito caratterizza l’opera e la rende spettacolare: infatti essa poggia direttamente sui banchi calcarei brecciati affioranti sulla cima di una collina. L’elemento caratterizzante è il numero otto: la costruzione monumentale è infatti un ottagono ai cui spigoli sorgono torri ottagonali. In origine il cortile interno, anche esso a forma di ottagono, era abbellito da una grande vasca marmorea ottagonale. Il castello è suddiviso in due piani, separati da una fascia marcapiano. Maestoso è il portale sulla facciata principale, cromaticamente differente dal resto della muratura. Tutto il maniero è stato costruito nella pietra da taglio calcarea, diffusamente cavata ed utilizzata in Puglia. Il bianco calcare delle Murge nella varietà a grana fine è stato impiegato nelle parti scolpite, mentre quello più grossolano è stato usato nei conci levigati delle murature. Molti elementi degradati sono stati sostituiti durante i vari restauri del Novecento con materiale simile. Le porzioni originali mostrano differenti morfologie di degrado (fessurazione, efflorescenze, degrado differenziale, scagliature e mancanze). L’ornamento del castello è dato da altri litotipi, in modo particolare da una breccia e da diversi marmi. La prima è nota come “Breccia Corallina” per la somiglianza con una simile roccia di uso storico proveniente dall’attuale Turchia. Essa adorna il portale, contorna le finestre e le porte, costituisce soglie, nicchie, colonne e diversi elementi architettonici decorativi. Si tratta di una roccia sedimentaria con clasti di dimensione variabile grigi, bianchi, gialli e più raramente verdi, immersi in un cemento di colore rosso mattone per la microdispersione di ematite, che le caratteristiche micropalentologiche e litologiche hanno fatto attribuire alle unità garganiche (Zezza, 2005). Il degrado, che si evidenzia con decoesionamento e mancanze, è più marcato nelle porzioni più ricche di cemento. I marmi bianchi, bigi o venati, caratterizzanti le colonne delle sale interne e le finestre esterne, sono varietà di Proconnesio estratte nell’isola turca di Marmara. Le colonne interne mostrano spesso intensa colorazione rossa per applicazione di un pigmento rosso, simbolo di regalità E’ inoltre presente il Cipollino Verde Greco in una lastra di rivestimento ai lati di un camino al piano superiore. Alcuni elementi marmorei bianchi sono stati individuati come greci (Marmo Attico), al pari di alcuni fusti di colonne in Bigio Antico. Il Pavonazzetto turco (metabreccia a cemento violaceo coltivata nel distretto di Afyon) caratterizza alcune colonne. I resti di mosaico pavimentale al piano terra denotano la presenza di cotto, calcare bianco e calcare nero (Nero Antico, tunisino o greco), mentre nelle lunette delle finestre è segnalato il Porfido Verde di Grecia (andesite) e il “marmo “ Verde antico di Tessaglia (oficalce). Riferimenti bibliografici Zezza F. (2005) – Castel del Monte: la pietra e i marmi. Adda Editore, Bari, 102 pp. -----------------------------------------------------------------------------------------------------------Fiora L. (2007) – Restauro della Cattedrale di Noto: utilizzati 300 mila pezzi di biocalcarenite locale. L’Informatore del Marmista, 545, Giorgio Zusi Editore, Verona, 30-36 La pietra di Noto Viene riaperta alla fine di maggio 2007 la cattedrale del “Giardino di Pietra”, definizione che Cesare Brandi usò per le costruzioni in biocalcarenite della cittadina di Noto. La chiesa, costruita a più riprese a partire dal 1693, crollò rovinosamente il 13 marzo 1996. Le cause furono l’elevata sismicità del luogo, la struttura a sacco dei pilastri, riempiti originariamente di ciottoli e scapoli di pietra (al pari della crollata Torre di Pavia), inidonei interventi di manutenzione (in particolare l’indebolimento della struttura creato dal rifacimento del tetto in calcestruzzo). Ora la costruzione è stata rifatta con l’impiego di oltre trecentomila pezzi di pietra locale e con rinforzo delle navate e della cupola con elementi in fibra di carbonio. Noto, in provincia di Siracusa, fu fondata nella tarda età del Bronzo sulle rive del fiume Asinaro. Abitata da greci, romani e arabi, fu distrutta da un terremoto nel 1693 e ricostruita a partire dal 1694 in un nuovo sito a circa cinque chilometri di distanza dall’antica città. La “Nuova “ Noto fu ricostruita con l’uso della biocalcarenite locale su un rilievo collinare (“Pianazzo del Meti”) ad una quota di circa 160 m sul livello del mare. Fu scelto un impianto della città reticolare. Nella prima metà dell’Ottocento la struttura urbana originaria subì modifiche: in particolare, il piano stradale fu abbassato e le strutture di fondazione degli edifici e dei monumenti si trovarono così parzialmente scoperte. Nell’area di Noto affiorano formazioni sedimentarie calcaree della “Successione degli Iblei”; presso la città, affiorano le rocce calcarenitiche fossilifere, porose, di età miocenica (Pietra di Noto o Pietra da intaglio, Alessandrini et al., 1992) e calcari molto porosi (Pietra tufigna). La biocalcarenite (Formazione di Palazzolo) è presente in strati potenti fino a due metri, intercalati a marne. Sono evidenti in essa tipiche strutture sedimentarie di forma cilindrica con sezione da 0.5 a 2 cm (“tubuli”), che sono di origine animale: esse rappresentano infatti le tracce lasciate dagli organismi che vivevano nel sedimento prima che esso fosse diageneizzato, cioè compattato e litificato. Gli affioramenti sfruttati per ottenere il materiale lapideo della città sono estesi in tutta la zona a monte dell’odierno abitato. In particolare, le cave della pietra utilizzata nella ricostruzione sono localizzate presso il luogo di utilizzo e precisamente nei paesi di S.Corrado, Madonna della Scala e Porcari. Al microscopio la roccia appare costituita da abbondanti fossili e frammenti di fossili cementati da calcite spatica. Rari sono i clasti mineralogici (quarzo). Abbondanti sono le cavità (0.05-0.2 mm): la roccia possiede infatti una porosità del 31% (Alessandrini et al., 1992). La forma di degrado tipica è l’alveolizzazione, cioè la formazione di cavità di diversa forma e dimensioni, talora anche interconnesse. La causa della formazione di questi “alveoli” è la cristallizzazione di sali nell’originaria struttura sedimentaria. Secondo Alessandrini et al., 1992, il tubulo è sempre presente nello sviluppo degli alveoli. La zona tra tubulo e roccia rappresenta infatti una via preferenziale per l’evaporazione dell’acqua, sì che in tale zona si ha cristallizzazione salina. L’abbondanza di sali è anche da correlare con la mancanza di adeguata rete fognaria che ha caratterizzato la città per lungo tempo: l’alveolizzazione è più marcata nelle zone basse degli edifici e si evidenzia fino a 1.5 – 2 m di altezza. La pressione di cristallizzazione dei sali provoca la decoesione della matrice calcitica. Secondo Bocci et al., 1991, anche il tipo di lavorazione influenza il degrado: la bocciardatura induce infatti una diffusa microfratturazione che favorisce il degrado. La Pietra di Noto è estratta attualmente nelle cave di Villa Vela e Fondi Nuovi Palazzolo. Nella prima la coltivazione viene eseguita in pozzo con livelli orizzontali discendenti mediante tagliatrice elettrica a disco (“sarracco”). La profondità è considerevole e le pareti sono stabili. Nelle aree di cessata attività estrattiva sono in corso lavori di recupero ambientale con riempimento dei vuoti lasciati dalla precedente coltivazione. I blocchi estratti in profondità hanno dimensioni medie di 0.70 X 2 X 2.50 m. Nelle zone più superficiali si ottengono blocchetti di dimensioni medie 20 X 25 X 50 cm. Nella cava Fondi Nuovi Palazzolo Acreide si estraggono in genere blocchi di grosse dimensioni e subordinatamente blocchetti. La roccia è localmente usata per murature a faccia vista, archi, piedritti, volte ecc. Notevoli anche gli elementi decorativi prodotti (mascheroni, capitelli, balaustre, fontane, scale, mensole ecc.). Le lavorazioni più frequenti sono eseguite con bocciarda, “schianetto” e subbia. La Pietra di Noto è anche utilizzata al di fuori della zona di produzione: è infatti commercializzata nell’Italia settentrionale, in diversi paesi europei ed è addirittura esportata in Australia. Altre pietre naturali dell’area ibleo-siracusana Pietra di Comiso – calcisiltite bianca Pietra di Modica – biocalcarenite bianca/giallina Pietra giuggiolena – calcirudite giallastra Pietra asfaltica (Pietra pece) biocalcarenite grigia La Pietra di Comiso proviene dal Membro Leonardo (Formazione Ragusa). Deriva dalla cementazione di una sabbia calcarea finissima di età oligocenica superiore. Il bacino estrattivo è ubicato a Nord di Comiso. Questa pietra è stata sapientemente intagliata in splendidi oggetti di artigianato. La Pietra di Modica proviene dal Membro Irminio (Formazione Ragusa). E’ di età Oligocene superiore. Il materiale attualmente a disposizione proviene da bonifica agricola. Gli usi principali sono conci per zoccolature ed elementi di pavimentazione. La Pietra giuggiolena è di età pleistocenica inferiore-media. Si rinviene in particolare nella contrada Isola a Sud di Siracusa. E’ molto vacuolare e ricca di fossili biancastri immersi in un cemento giallo. La Pietra pece era un tempo usata per l’estrazione del bitume e per pavimentazioni e scale. Attualmente viene anche impiegata per rivestimenti interni, per complementi di arredo e nel restauro. Riferimenti bibliografici Alessandrini G., Bocci A., Bugini R., Emmi D., Peruzzi R., Realini M. (1992) – Stone Materials of Noto (Siracusa) and their Decay. 7th Int. Congress on Deterioration and Conservation of Stone. Lisbona 15-18 giugno 1992, 11-20 Bocci A.M., Bugini R., Emmi R., Realini M. (1991) – La lavorazione dei materiali della ricostruzione di Noto (Siracusa). Atti Convegno di Studi di Bressanone, 25-28 giugno 1991, 463-471 NORMAL 1/88 (1990) – Alterazioni macroscopiche dei materiali lapidei: lessico. COMAS GRAFICA, Roma, 36 pp. Rossi Manaresi R., Tucci A. (1989) – Pore structure and salt crystallization: salt decay of Agrigento biocalcarenite and case hardening in stone. Primo Simposio Internazionale “La conservazione dei monumenti nel bacino mediterraneo”, Bari 1989, 97-100 ------------------------------------------------------------------------------------------------- Fiora L., Alciati L. (2007) – Rosso Levanto e Portoro, “marmi” colorati dalle proprietà estetiche uniche. In “Cave storiche e risorse lapidee” a cura di Luigi Marino, ALINEA Editrice, Firenze, 59-62 Rosso Levanto e Portoro, “marmi” colorati dalle proprietà estetiche uniche Tra i materiali lapidei “teneri”, cioè costituiti da minerali con durezza 3-4 nella scala Mohs, correntemente chiamati “marmi”, sono sempre stati molto ricercati quelli colorati dotati di elevato pregio estetico. Fin dall’antichità, ad esempio, nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo sono stati sfruttati calcari, brecce, conglomerati e rocce equivalenti metamorfosate, di vari colori, quali, ad esempio, il calcare “Giallo di Numidia” (Tunisia), l’oficalce “Verde di Sparta” (Grecia), il marmo ad ematite “Rosso Antico” (Grecia), la breccia “Portasanta” (Grecia”) e quella detta “Marmo Africano” (Turchia) (Fiora & Alciati, 2005). Tra i “marmi” italiani due provenienti dalla provincia di La Spezia (Liguria) rivestono particolare importanza storica, oltre che contemporanea nell’attuale mercato globalizzato: si tratta del calcare venato “Portoro” e della breccia ofiolitica “Rosso Levanto”, senza dubbio due dei materiali lapidei italiani più prestigiosi, molto utilizzati per ornamento soprattutto in interni di costruzioni, essendo inoltre impiegati diffusamente come marmi cimiteriali nel XX secolo. Per questi materiali la cava è da un lato sito estrattivo da conservare per i significativi manufatti storici che ivi hanno avuto origine, dall’altro è luogo da sfruttare per una produzione limitata e rispettosa dell’ambiente, sì da fornire materiale che è ancora unico sul mercato internazionale. Dal punto di vista geologico il “Portoro” proviene dalla Formazione dei “Calcari di Portovenere” della “Falda Toscana” e ha età Trias Superiore-Cretaceo Inferiore. Esso petrograficamente è un calcare micritico nero con vene gialle contenenti limonite e solfuri. La calcite è il componente mineralogico fondamentale, la dolomite è subordinata, inoltre sono presenti idrossidi di ferro (“limonite”) responsabili del colore giallo della vena e minerali argillosi (Fiora et al., 2003). Il colore nero deriva dalla sostanza organica, bitume e solfuri provenienti da un ambiente anaerobico; l’intensità del colore nero diminuisce sia nelle zone che hanno subito processi di ricristallizzazione, sia, posato in opera, sulle superfici esposte agli agenti naturali (Cimmino et al., 2004). L’area di affioramento è situata in prossimità della città di La Spezia, sui versanti dei monti Castellana, Muzzerone e Bermego e sulle isole Palmaria e Tino. In passato furono anche coltivate le varietà brecciate di “Portoro” affioranti in territorio apuano (Bartelletti & Amorfini, 2003). Delle trenta cave censite nel 1862, di cui cinque all’isola Palmaria, ne rimangono attualmente aperte solo tre nel Comune di La Spezia (due nella località Castellana e una ad Anime). Il Portoro, che già usarono i Romani inizialmente come pietra da costruzione, fu coltivato manualmente fino al XVIII secolo, avvalendosi di cunei prima di legno e poi di ferro. Tra la fine del ‘700 e l’inizio dell ‘800 cominciò l’escavazione tramite esplosivo introdotto in fori, mentre verso la fine dell’800 si utilizzò la sega con sabbia silicea come abrasivo. La coltivazione del pregiato “marmo” avveniva anche in sotterraneo, dove l’isolamento del blocco era più difficoltoso. Il blocco estratto veniva imbragato e con l’ausilio di argani a mano era portato all’esterno della cava; successivamente esso era lizzato fino al mare o a una strada principale, da dove era avviato ai centri di lavorazione o di smercio. All’inizio degli anni ‘80 è iniziata l'estrazione con tagliatrice a filo diamantato. Le cave sono a mezza costa, con coltivazioni sia a cielo aperto che in sotterraneo e taglio dei blocchi lungo il “secondo” al fine di evidenziare la qualità del verso di macchia. Le cave in sotterraneo sono costituite da grandi camere sostenute da pilastri di forma irregolare. In passato l’estrazione del marmo nelle cave dell’isola di Palmaria era più difficoltosa rispetto a quella sulla terraferma, in quanto il livello basale estrattivo partiva da pochi metri sul livello del mare per poi abbassarsi fin sotto ad esso. Risultava pertanto indispensabile l’asportazione quotidiana dell’acqua dalle gallerie prima dell’inizio dei lavori. Attualmente sul’isola di Palmaria non vi è alcuna cava attiva: in seguito a un’ordinanza emessa nel 1982-‘83 dall’Amministrazione Comunale, preoccupata per il degrado ambientale divenuto ormai evidente, fu chiusa l’ultima in esercizio, cioè quella cosiddetta Caletta, situata di fronte all’isola del Tino, dove si trovano ancora i resti di attrezzature e dove giacciono diversi blocchi che potrebbero essere utilizzati. Questo “marmo”, noto all’estero anche con il nome “Black and Gold”, è commercializzato essenzialmente in due varietà, “Portoro Macchia Larga”, caratterizzato da vene dorate di dimensioni anche decimetriche e “Portoro Macchia Fine” con vene di dimensioni inferiori. Ognuna delle due varietà merceologiche è suddivisa in ulteriori classi a seconda del colore delle macchie: la qualità “Extra” ha vene brillanti di color oro su sfondo nero, mentre le qualità “Prima” è caratterizzata da macchie gialle e bianche miste o macchie di colore giallo pallido e la “Seconda” (“Portoro Corrente”) da vene di colore giallo, grigio e bianco e massa di fondo grigia. In passato è stata distinta anche la varietà “Portoro Rosso”. Esiste poi una varietà secondaria, genericamente detta “Portoro Macchia Argento” (“Portargento”), nota anche come “Portovenere Bianco e Nero”, caratterizzata da fondo nero o grigio con macchie unicamente bianche, oltre al “Portorino”, simile al precedente ma con vene molto fini. L’importanza di questo “marmo” nero venato è stata elevata fin dai secoli passati, quando fu impiegato in chiese e palazzi di tutta l’Europa, sì che il termine “Portoro” ha identificato una particolare sub-categoria commerciale di “marmo nero”. Si continua ad utilizzarlo in relizzazioni attuali importanti in tutto il mondo. Sono noti altri materiali simili, ad esempio, tra quelli storici, le varietà estratte nelle Alpi (“Portoro di Nava” del Piemonte Meridionale, tipico per la venatura molto fine, Fiora & Alciati, 2006; “Portor de Saint Maximin” del Var) e nei Pirenei (“ Portor des Pyrénées”, “Portor des Pyréneées Bramevaque”). Il grande valore estetico della roccia ligure e la sua scarsità hanno fatto sì che negli ultimi anni fossero ricercati in molti paesi dei materiali sostitutivi: sono così stati introdotti il “Portoro Leonardo” (Namibia) e il “Portoro Santo Domingo” proveniente dalla Repubblica Dominicana (Fiora et al., 1999), oltre ad una varietà a macchia fine coltivata in Cina (“Portoro”). Nessuno di questi materiali può però competere per pregio estetico con il vero “Portoro”, cioè quello ligure, che è perciò un materiale lapideo di elevatissimo valore economico. Il “Rosso Levanto” dal punto di vista geologico (Cortesogno & Palenzona, 1986; Cortesogno et al., 1980) appartiene al Dominio Ligure, unità tettonica strutturalmente più a Est degli Appennini Settentrionali, formata da sedimenti molto deformati di età compresa tra il Giurassico e il Paleocene, depositatisi sulla crosta oceanica di rocce basiche (basalti e gabbri) e ultrabasiche (serpentiniti). Il nome è commerciale e si riferisce ad una breccia serpentinitica simile per composizione ai “Marmi Verdi”, quali, ad esempio, le numerose varietà valdostane, da cui però si differenzia per la diffusa colorazione rossa dei clasti serpentinitici e delle vene carbonatiche. Le brecce serpentinitiche (o rocce oficarbonatiche, dette un tempo oficalci), che hanno età Giurassica, sono rocce sia metamorfiche, formatesi per metamorfismo di fondo oceanico con circolazione di fluidi caldi, sia sedimentarie, poggianti sulle precedenti (Perrier, 1996). La causa della diffusa colorazione rossa, che aumenta il valore estetico di queste oficalci rispetto alle tipologie verdi, è dovuta all’ematite che si è originata per trasformazione dell’originaria magnetite ad opera di fluidi idrotermali. I minerali del gruppo del serpentino che si ritrovano nella roccia ligure sono tipici di grado metamorfico basso e sono lizardite e crisotilo. La roccia presenta venatura sia irregolare che regolare. Per gli usi più tipicamente ornamentali fu utilizzata prevalentemente la breccia ad andamento regolare delle vene, nota anche come “Breccia di Levanto” (“Rosso Levanto s.s.”), mentre per gli elementi architettonici (architravi, colonne, stipiti, etc.) la prevalenza è andata alla breccia con venatura più irregolare, geologicamente nota come “Breccia di Framura” (“Rosso Framura”) o “Breccia di Bonassola”, che sta al tetto della Formazione ed è di origine sedimentaria. Per “Breccia di Rossola” s’intende la varietà che comprende clasti di gabbro e basalto oltre che di serpentinite. L’areale di affioramento di queste brecce è compreso tra le località di Velva, Pavareto, Carro, Ziona, Mezzema, Framura, Bonassola e Levanto. Ad est l’area è delimitata dai monti Rossola e Guaitarola (Cimmino et al., 2004; Vercesi del Castellazzo et al., 1981). Dal punto di vista merceologico il marmo “Rosso Levanto” si distingue attualmente in due varietà, la “Prima”, con sfondo rosso prevalente, poche macchie verdi e vene bianche e la “Seconda”, con sfondo misto di rosso e verde a macchie e vene bianche. Il materiale più pregiato è quello con clasti equidimensionali e colori rosso, verde e bianco brillanti. Le cave in esercizio negli ultimi anni sono ubicate nei comuni di Deiva, Framura e Bonassola. In cava sulla superficie tagliata con il filo elicoidale si distinguono nettamente i diversi ordini di frattura riempiti da carbonati. Le fratture più antiche presentano molto evidente l’arricchimento in ematite, generatasi dall’ossidazione della magnetite. Sovente le fratture hanno andamento concentrico e isolano così degli elementi tondeggianti rossi. La più importante opera ligure costruita con impiego massiccio di queste brecce ofiolitiche rosse è la Cattedrale di San Lorenzo in Genova, dove fu impiegato in colonne il materiale proveniente dalla “cava delle colonne”; in molti centri storici della Liguria sono frequenti le applicazioni anche in esterni, quali rivestimenti di negozi, di palazzi e scale. I primi manufatti realizzati con questo materiale sono opere funerarie etrusche (Rovereto, 1939). La produzione ebbe il suo culmine tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo, poi seguì una lenta diminuzione della produzione, tranne che negli anni ’60 quando si ebbe un forte impulso dell’attività estrattiva (Cimmino et al., 2004). Secondo Pieri (1957) simile al “Rosso Levanto” è la varietà “Rosso Deiva” coltivato nell’omonima località presso Levanto. “Rosso Antico d’Italia” è il nome storico della breccia serpentinitica della zona di Chiavari. “Rosso Polcevera” è la varietà poco diffusa rossa del “Marmo Verde Polcevera”, coltivato nei dintorni di Genova. Altra oficalce italiana che presenta occasionalmente colore rosso è quella storica estratta unitamente al “Verde Alpi Cesana” dell’alta Valle Susa (Piemonte), detta “Rosso Cesana” (Di Pierro & Fiora, 1998). Nessuna varietà di “Marmo Verde” (roccia oficarbonatica) sia valdostana, che greca, come pure indiana, presenta arricchimento in ematite. L’unico sostituto del mercato internazionale del “Rosso Levanto” è attualmente il “Rosso Lepanto” o “Rosso Levanto Turco”, metabreccia tettonica detta anche “Elazig Cherry” proveniente dalla Turchia, ricca di ematite rossa sia nei clasti serpentinitici che nelle vene calcitiche (Fiora, 2007). In commercio è stato introdotto da alcuni anni un materiale artificiale che imita la breccia naturale. Riferimenti bibliografici e sitologici Bartelletti A., Amorfini A. (2003) - ACTA APUANA, IMM, Carrara, II, 63-77 Cimmino F., Faccini F., Robbiano A. (2004) – Stones and coloured marbles of Liguria in historical monuments. Periodico di Mineralogia, 3, 73, 71-84 Cortesogno L., Galbiati B., Principi G. (1980) – Le brecce serpentinitiche giurassiche della Liguria orientale. Arch. Sc. Genève, 33, 185-200. Cortesogno L., Palenzona A. (1986) – Le nostre rocce. Le rocce della Liguria: riconoscerle e capirne la storia. Manuali Sagep, 176 pp. Di Pierro S., Fiora L. (1998) - Caratterizzazione petrografica della oficalcite "verde Cesana" e di potenziali rocce oficarbonatiche sostitutive. Atti Quinta Giornata "Le scienze della terra e l'archeometria", Bari, 19-20/02/98, 99-108 Fiora L. & Alciati L. (2005) – Marmi e pietre antiche nel bacino mediterraneo. L’Informatore del Marmista. 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Il ricco patrimonio lapideo rappresentato dalle costruzioni, dalle pavimentazioni, dalle mura e dai monumenti veronesi concorre a connotare profondamente la città, sì da renderla unica. Le pietre in essa utilizzate sono soprattutto quelle estratte nel Veneto, cioè i calcari dei Lessini Veronesi e Vicentini e dell’altopiano di Asiago, le calcareniti dei Colli Berici e la trachite dei Colli Euganei. In maniera subordinata in passato sono stati usati marmi e pietre del Bacino Mediterraneo. Essendo poi diventata l’area veronese il comprensorio più importante al mondo per la lavorazione della pietra, le opere del Novecento e soprattutto dei nostri giorni evidenziano una grande quantità di litologie provenienti da molti paesi. Una passeggiata petrografica nel centro cittadino consente pertanto di riconoscere innanzitutto i materiali lapidei storici, di origine prevalente locale: si tratta delle rocce sedimentarie, cioè dei celebri “marmi”, che Rodolico (1953) chiamò “pietre vive” (calcari rossi, bianchi, gialli e rosati) e delle calcareniti più o meno ricche in fossili, note come “tufi”. Nei ciottoli delle alluvioni fluvioglaciali si osservano inoltre numerose litologie alpine, sia magmatiche intrusive ed effusive, che metamorfiche. I terreni argillosi locali hanno altresì favorito l’uso del laterizio. Al citato Autore si deve la guida geologica più completa della città, mentre altre opere (ad es., Brugnoli, 1997) approfondiscono soprattutto la storia dell’edificato attraverso i secoli. La calcarenite nummulitica della Val Gallina (“Pietra Gallina”, “Pietra di Avesa”, “Pietra di Quinzano”) ha rappresentato un materiale di facile estrazione e lavorazione. La roccia affiora fin nella città, come testimonia lo scavo del materiale utilizzato nel Teatro Romano. Di essa sono inoltre visibili in diversi luoghi urbani (ad esempio, nel Giardino Giusti) le tracce dell’antica coltivazione. Le rocce tipiche di Verona per l’uso locale, ma celebri anche in tutto il mondo, sono i calcari liassici, giuresi e cretacei di vari colori: sono, ad esempio, i “lastrami” (o ”lastami”) bianchi o rosa, appartenenti alla Scaglia, facilmente estraibili per la presenza di sottili livelli argillosi nella matrice carbonatica, lungo cui la roccia si spacca facilmente e i “Nembri” giuresi (“Nembro Chiaro” e “Nembro Rosso”), sia compatti che nodulari (“Broccati”, “Broccatelli”), come pure brecciati (“Mandorlati”). In essi abbondano i macrofossili (Ammoniti), spesso anche di considerevoli dimensioni. Altri “marmi” importanti sono quelli gialli (ad esempio, “Giallo Reale”), verdognoli (“Verdello”), grigi e quelli neri (ad esempio, il calcare argilloso “Nero di Roveré”, estratto nei Lessini). Celebri anche le “Lumachelle”, tra le quali si ricorda il calcare marnoso ricco di bivalvi noto come “Lumachella di San Vitale”. Già i Romani utilizzarono il “tufo” (biocalcarenite) e i “marmi”(calcari) bianchi e rossi, estratti nella vicina Valpantena, che collegarono con una strada basolata alla città. Le pietre romane in epoca medioevale furono poi spesso reimpiegate assieme a ciottoli. Diverse costruzioni romaniche si caratterizzano per la bicromia data dal laterizio associato al “tufo” e nelle parti più importanti delle costruzioni (ad esempio, portali di chiese) dei celebri “marmi”: la facciata di San Zeno è in cotto e “tufo”. Anche la Torre dei Lamberti e il Palazzo Comunale presentano questa tipica zebratura bicromatica. Solo nel Rinascimento ai calcari bianchi, rosa e rossi si aggiunsero quelli neri di Roveré, come testimonia, ad esempio, il portale di Sant’Anastasia. Nelle principali chiese cittadine le pavimentazioni interne sono state realizzate con questi tre tipi di calcari. Il bianco dei portali delle chiese (Sant’Anastasia e Duomo) è anche rappresentato da marmo bianco di importazione (prevalente “Marmo Proconnesio” dell’isola di Marmara in Turchia). Nelle parti esterne di costruzioni particolarmente significative si osservano anche altri materiali lapidei, in particolare una vulcanite nera nei tondi alla base di Sant’Anastasia e un porfido rossoviolaceo (probabile “Porfido Imperiale Egiziano”) in una colonnina collocata presso l’ingresso laterale del Duomo. Le decorazioni degli interni delle Chiese veronesi sono il trionfo del calcare rosso e delle pregiate “lumachelle” (calcari a rudiste), riconoscibile ad esempio nell’interno del Duomo cittadino, oltre a molte rocce di importazione (ad esempio, “Verde Antico di Sparta”, “Porfido Imperiale”. “Breccia di Arzo”, “Marmo Cipollino”). Oltre che nelle costruzioni cittadine una ricca collezione di lastre di “marmi” locali è visibile presso il Museo di Scienze Naturali di Verona. In conclusione, passeggiando per la città sono ovunque sotto gli occhi i calcari di vari colori appartenenti all’Ammonitico di età Giurese (molto decorativi sono soprattutto il Rosso Verona, il Broccato Rosso, il Rosa Corallo, il Giallo di Verona, il Verdello) oltre al celebre Chiampo (assai usato in epoca tardo barocca e nel moderno) e alle Pietre Tenere dei Colli Berici, di età eocenica. Anche le manifestazioni vulcaniche dei Colli Euganei hanno fornito trachite e altre vulcaniti che i costruttori di Verona hanno impiegato fin dall’antichità. Nelle pavimentazioni, oltre alla trachite euganea, fu utilizzata anche una roccia basaltica dei Monti Lessini. Nei lastricati attuali si osservano inoltre diversi graniti grigi di varia provenienza, tra cui la tonalite dell’Adamello, ricca di inclusi femici. Le pavimentazioni, oltre che da lastricati calcarei con superficie a spacco, spuntata o rigata, spesso ricchi di macrofossili (Ammoniti), sono rappresentati da acciottolati: il più antico di essi è quello a prevalente porfido, talora associato ai calcari bianchi. L’acciottolato usato recentemente per integrazioni è invece quello delle alluvioni del Ticino con differenti litologie alpine. Le pavimentazioni in cubetti di porfido sono anche assai comuni. Lo stato di conservazione delle rocce usate in Verona è strettamente correlato alla composizione chimico-mineralogica e alla porosità. Ad esempio, il calcare nodulare veronese (noto in tutto il mondo come “Rosso Verona”) è una micrite con ematite e minerali argillosi (illite, montmorillonite), che a seconda del tenore in ferro e del suo stato di ossidazione assume colori diversi, essendo la rossa per ematite la varietà più celebre, quella gialla dovendo il colore alla limonite, mentre in quella verzolina è il ferro ferroso responsabile della colorazione. Soprattutto la presenza di fasi argillose espandibili ne causa il degrado con decoesionamento granulare, esfoliazione e vistose mancanze. Anche la “Pietra di Nanto” o “di San Germano” è poco durevole per la presenza di argilla montmorillonitica, mentre la “Pietra tenera di Vicenza” o “di San Gottardo” o “di Custoza”, biomicrite ricca di macro e microfossili, è più pura, ma assai porosa. Per tutte queste rocce lo stato di conservazione dipende essenzialmente dalla loro natura carbonatica delle rocce, denotando con il tempo le forme di alterazione/degrado tipiche di questi materiali. In primo luogo si evidenzia la crosta nera a gesso di colore scuro per la presenza di particelle carboniose, che si origina in zone riparate dal dilavamento. Per quanto riguarda il degrado delle rocce usate nelle pavimentazioni, i graniti mostrano in generale buon stato di conservazione, fatta eccezione per la macchiatura ruggine conseguente ad alterazione di solfuri, la trachite è solo occasionalmente interessata dal degrado centrale (o a scodella), mentre più usurati dal calpestio appaiono i calcari, deturpati ovunque da tracce di gomma da masticare impregnata di smog. Riferimenti bibliografici Brugnoli P. (1997) – Le pietre di Verona. CIERRE Edizioni, Caselle di Sommmacampagna (VR), 125 pp. Rodolico F. (1953) - Le pietre delle città d'Italia. Le Monnier, Firenze, 475 pp. Principali “marmi colorati” di uso storico in Verona Calcari Rossi: “Rosso Verona”, “Rosso Broccato”, “Rosso Broccatello”, “Rosso Grezzana”, “Rosso Chiaro”, “Rosso Sanguigno”, “Rosso Fiamma”, “Rosso Asiago” (“Rosso Magnaboschi”); Calcari Bianchi/Rosa: “Bianco Verona”, “Biancone”, “Pietra di Prun” (“Pietra Prescichina”), “Rosa Corallo”, “Nembro Rosato Caprino”, “Mandorlato”, “Rosa Vegerana”, “Chiaro Selva”, “Rosa Perlato”; Calcari Gialli: “”Giallo Broccatello Oro”, “Giallo Reale”, “Giallo Verona”, “Giallo San Francesco”, “Giallo San Zeno”, “Gialletto” (“Nembro Gialletto”); Calcari Grigio-Verdognoli: “Bronzetto” (“Pergamena”), “Verdello” (“Nembro Verdello”), “Verdello Grezzana”, Calcari Bruni/Neri: “Lumachella Nero Nube Conchigliato”, “Grigio di San Vitale” (“Grigio Oniciato di San Vitale”), “Nero Nube”, “Nero di Roveré; Biocalcareniti: “Chiampo” (“perlato”, “Mandorlato”, “Paglierino”, “Rosato”, “Serpeggiante”), “Pietra di Vicenza” (“di Nanto”, “ di Custoza”, “di San Gottardo”); “Pietra Gallina” (“Pietra di Avesa”, “Tufo di Quinzano”). Brecce: - colore rosso: “Breccia Pernice”; colore viola: “Breccia Viola Antico”; colore rosso-viola: “Breccia di Castelvero” policrome: “Breccia Macchia Vecchia Italiana”, “Breccia Avorio”, “Avana del Garda”, Rosa del Garda”. --------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Fiora L. (2008) – Stones of Rimini. L’Informatore del Marmista, 559, Giorgio Zusi Editore, Verona, 35-43 Pietre di Rimini La città di Rimini vuole proporsi per il futuro come una delle nuove capitali del Mediterraneo con l’ambizioso progetto di riqualificazione del Lungomare Tintori e del Lungomare Murri, sì da aumentare l’attività turistica in tutto l’anno, creando nuove costruzioni e nuovi spazi pedonali ed usando in maniera sostenibile le risorse naturali. I progetti architettonici presentati durante il XXIII Congresso Mondiale di Architettura (Torino, 2008) testimoniano l’intento di progettare in una nuova alleanza con la natura, riqualificando la valenza ambientale del luogo: il Lungomare Murri sarà ricostruito in base al progetto di Foster e Partners di Londra, mentre il lungomare Tintori e lo spazio antistante il Grand Hotel (“Kursaal”) saranno opera dell’Atelier Jean Nouvel. La città di Rimini possiede forte valenza storica, testimoniata anche dalle rocce locali e di importazione utilizzate nei suoi monumenti e comprendenti una gran varietà di “marmi” e “graniti” di diversa provenienza mediterranea. Rodolico (1953) descrisse le rocce usate nei suoi “monumenti d’eccezione” (in primo luogo il Tempio Malatestiano) e nelle numerose costruzioni che arricchiscono il centro storico. Tra le rocce locali è segnalato il calcare del Monte Titano (o Calcare di San Marino), di colore bianco, giallo o grigio, ricco in fossili (briozoi) e di età Miocenica. Le cave sono sulla sommità del monte, dove secondo la tradizione trovò riparo il tagliapietre cristiano fuggito dall’isola di Arbe e dalla città di Rimini. Al di sotto la serie Miocenica comprende calcari bruno-giallastri e arenarie, di cui furono usati i ciottoli per pavimentare inizialmente le strade. Presso Rimini affiora il Pliocene con un “tufo” calcareo (“spungone”), che già coltivarono i Romani: si ritrova nelle murature e nelle porte cittadine. Già i Romani importarono rocce da altre regioni italiane e dall’Istria ed usarono il laterizio, realizzato con le argille dei depositi prossimi alla città di età Pliocenica o più recente. Molte costruzioni medioevali hanno murature in cotto e la pietra è riservata a qualche elemento (ad esempio, capitelli e basi di colonne nel Palazzo dell’Arengo). Le costruzioni rinascimentali sono invece il trionfo della pietra: l’edificio più celebre è il Tempio Malatestiano, la cui facciata, opera di Leon Battista Alberti, è rivestita in Pietra d’Istria, Pietra Rossa di Verona, porfidi rossi e verdi antichi e marmi (Rodolico, 1953). Nei palazzi dal Cinquecento al Settecento rocce sedimentarie carbonatiche locali (calcare di San Marino) si associano sovente alla Pietra d’Istria, facilmente trasportabile via mare (si veda, ad esempio, il cinquecentesco Palazzo Lettimi con decorazione della facciata in pietra d’Istria e cordonata in calcare di San Marino). La Pescheria costruita nel Settecento in mattone ha banchi e fontane in Pietra d’Istria, mentre il Tempietto di Sant’Antonio nella Piazza Tre Martiri è rivestito nella pregiata Pietra d’Istria nei lati più visibili e negli altri in locale calcare di San Marino. Le pietre dei principali monumenti di Rimini in tempi recenti sono state oggetto di una pubblicazione specifica (Rossi & Grillini, 2007), dove accanto alle informazioni di Rodolico sopra riportate sono indicate altre varietà di litotipi di differente provenienza. Questa guida petrografica individua sette monumenti cittadini, descrivendo con particolare riguardo le rocce usate in esterni e all’interno della costruzione più celebre, cioè del tempio Malatestiano. Il percorso geo-architettonico suggerito consente al turista di apprezzare le rocce usate nella romana “Ariminum”, che fu centro di grande importanza strategica e commerciale, e quelle dell’edificio rinascimentale più significativo della città. Il percorso tocca opere con uso di materiali locali dell’Appennino romagnolo (Pietra di San Marno, Pietra di Montecodruzzo, Arenaria di Covignano) e di materiali veneto-istriani (Pietra Aurisina, Trachite Euganea, Biancone di Verona, Rosso Verona, Grigio di Noriglio, Pietra Tenera di Vicenza), oltre che le pietre di riuso provenienti da diverse località del Mediterraneo (Porfido Imperiale d’Egitto, Diorite Egiziana, Porfido Verde di Sparta, Marmo Verde Tessaglia, Pavonazzetto Antico, Marmo Rosso Iassense, Marmo Proconnesio, Breccia di Arbe…). In particolare pregiati “marmi” e “graniti” alloctoni sottolineano l’elegante decorazione della facciata del Tempio Malatestiano, eretto per esaltare come un antico imperatore romano Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini tra il 1432 e il 1468. Tutta la facciata è rivestita in calcare (Biancone di Verona), con alcuni elementi in Pietra d’Istria e cordonature in Rosso Verona. Il Calcare Grigio di Noriglio si ritrova nel portale e nei due festoni laterali, oltre che in lapidi. All’interno della costruzione lo stesso calcare, usato in sculture, appare grigio nero per trattamenti superficiali (si vedano, in particolare, gli elefanti telamoni nella Cappella di San Sigismondo, arricchita con diversi marmi, cioè Pentelico, Pario, Proconnesio e Carrara, oltre che Pavonazzetto Antico ). In diversi punti all’interno della costruzione sono stati usate sia la Pietra d’Istria che la Pietra di Aurisina, oltre che la Pietra della Cesana, calcare appartenente alla Formazione Maiolica. L’alta balaustra della Cappella dei Pianeti è un traforo in Rosso Verona, sovrastato dalla Breccia Mandorlata di Arbe (Croazia). Anche il Marmo di Candoglia compare all’interno del Tempio Malatestiano, costituendo i capitelli, le vasi dei pilastri, mensole e festoni nella Cappella delle Muse e delle Arti Liberali. La duecentesca Porta Galliana è in laterizio e locale arenaria; nell’Arco di Augusto fu usata la Pietra di Aurisina; l’antica muratura di cinta cittadina fu edificata con blocchi di Arenaria di Covignano, mentre per l’Anfiteatro i Romani usarono mattone e conglomerato cementizio. Il Ponte di Augusto e Tiberio fu realizzato con grossi blocchi di “Aurisina” (prevalente “Aurisina Fiorita” e scarsa “Roman Stone”): i successivi rifacimenti videro l’impiego “Pietra d’Istria”. I muri d’ala di epoca romana sono in laterizio con alla base blocchi di “Trachite Euganea”. La Rimini novecentesca ha nel Grand Hotel la sua costruzione più celebre: inaugurato nel 1908, divenne il simbolo della Rimini della Belle Epoque, luogo di frequentazione di personaggi illustri, al pari del Kursaal, il più antico stabilimento balneare, distrutto nel Novecento, la cui costruzione nel 1873 aveva segnato la nascita della Rimini turistica. Anche la Fontana dei Quattro Cavalli, monumento inaugurato nel 1928, fu rimossa alla metà del Novecento, per essere poi ripristinata nel 1983. References Rodolico F. (1953) – Le pietre delle città d’Italia. Le Monnier, Firenze, 497 pp. Rossi P.L., Grillini G.C. (2007) – Rimini: la città raccontata dalle pietre. Geoitalia 2007, 24 pp. --------------------------------------------------------------------------------------------------------- Fiora L. (2008) – Marble and sandstone in the province Massa Carrara. L’Informatore del Marmista, 561, Giorgio Zusi Editore, Verona, 42-54 Marmo e arenaria nella Provincia di Massa Carrara Abstract Nella provincia toscana di Massa Carrara l’attività estrattiva lapidea è importantissima: il comprensorio del celeberrimo marmo apuano rappresenta da millenni una realtà unica al mondo, ma anche rocce “minori” rivestono localmente grande importanza, come nel caso dell’arenaria della Lunigiana. Il marmo apuano (meglio sarebbe dire “i marmi”, dal momento che le varietà merceologiche sono molte) è caratterizzato da una storia estrattiva di almeno duemila anni. Ci sono tre grandi bacini: Colonnata, Miseglia-Fantiscritti e Torano, con la maggior parte delle cave coltivate a gradoni a cielo aperto. E’ però presente anche la coltivazione in sotterraneo per camere e pilastri. Nelle cave di marmo da alcuni anni vengono realizzati spettacoli artistici itineranti di musica, prosa e danza con grande effetto scenografico: l’edizione 2008 “Festival Lunatica” (la quattordicesima, organizzata dalla Provincia di Massa Carrara e dedicata a Piero Cascella) ha previsto quest’anno una serata musicale sul piazzale Fantiscritti, mentre in precedenti edizioni fu usata la suggestiva cava in sotterraneo del Ravaccione. Gli spettacoli in cava avvicinano un pubblico eterogeneo alla realtà estrattiva locale, che è di grande valore economico e di elevata valenza storico-artistica, proponendo il bacino apuano come realtà primaria locale ricca di tradizioni e conoscenze uniche, contrastando la diffusa convinzione che cava sia solo sinonimo di ferita all’ambiente. Le forme scultoree in marmo di Carrara sono senza dubbio la più nota realizzazione anche di arte contemporanea, che nel 2008 ha trovato una variegata esposizione in Carrara. La Provincia di Massa comprende anche parte della Lunigiana, regione storico-geografica che si estende in Toscana, Liguria ed Emilia. Crocevia di strade importanti nel Medio Evo, fu terra percorsa da pellegrini celebri e sconosciuti lungo la via Francigena e le sue numerose diramazioni. Il nome deriva da Luni, l’antico porto romano, fondato nel 177 a.C.. Ai giorni nostri la Lunigiana appare come un ambiente naturale assai ben conservato. Numerose sono in Lunigiana le località di interesse storico-artistico, realizzate sempre con materiale lapideo locale, che è l’arenaria, usata fin dalla preistoria nelle celebri statue stele, impiegata nelle costruzioni di varie epoche come pietra da taglio, oltre che come pietra ornamentale in portali, cantonali, stipiti, cornici, marcapiani e sculture (quali i volti sopra i portali o nelle facciate di case); inoltre servì per macine, contenitori di acqua ed olio, pavimentazioni e coperture di tetti, che testimoniano un impiego millenario grazie alle capacità di lavorazione di scalpellini sia locali, che di altra provenienza (nel Rinascimento, in particolare, vi operarono maestranze lombarde, comasche e luganesi). Pontremoli. Fivizzano, Gragnola, Malgrate sono alcune delle numerose località dove la pietra locale, ancora coltivata ai giorni nostri, è stata realizzata in pregevoli realizzazioni architettoniche e artistiche. Nella provincia toscana di Massa Carrara l’attività estrattiva lapidea è importantissima: il comprensorio del celeberrimo marmo apuano rappresenta da millenni una realtà unica al mondo, ma anche rocce “minori” rivestono localmente grande importanza, come nel caso dell’arenaria della Lunigiana. Il marmo apuano (meglio sarebbe dire “i marmi”, dal momento che le varietà merceologiche sono molte; Carmignani, 2007) è caratterizzato da una storia estrattiva di almeno duemila anni: infatti datazioni con Carbonio 14 su paleosuoli in discarica fanno risalire all’epoca preromana l’attività di coltivazione. L’estrazione di epoca romana è testimoniata da “tagliate”, da blocchi riquadrati e da diversi elementi architettonici, oltre che da fonti storiche. La prima carta geologica dell’area fu opera di D. Zaccagna (1932), ricordato anche con una targa marmorea sulla facciata della casa natale in Carrara. Attualmente, oltre alla carta geologico-strutturale (Carmignani, 1985) è anche disponibile la carta delle varietà merceologiche (Meccheri, 1996). Ci sono tre grandi bacini estrattivi del marmo: Colonnata, Miseglia-Fantiscritti e Torano, con la maggior parte delle cave coltivate a gradoni a cielo aperto. E’ però presente anche la coltivazione in sotterraneo per camere e pilastri. Le varietà più diffuse nel bacino di Colonnata sono “Bianco Ordinario”, “Bianco Venato”, “Arabescato” e “Bardiglio” (o “Marmo Azzurro Variegato” di Strabone). A Miseglia-Fantiscritti, notissimo per i Ponti di Vara, tratto dell’antica ferrovia marmifera costruita nella seconda metà dell’Ottocento per collegare i tre bacini con le segherie e il porto di Carrara, sono coltivati differenti marmi: “Bianco Ordinario”, “Venato”, “Nuvolato”, “Cremo” e “Zebrino”. A Fantiscritti, il cuore di tutti i bacini marmiferi, esiste anche la cava in sotterraneo del “Ravaccione”. Nel bacino di Torano si estraggono, tra l’altro, “Statuario”, “Calacata”, “Cremo” e “Arabescato”. La celebre cava in cui si sarebbe approvvigionato Michelangelo è quella “Polvaccio” (“Cave Michelangelo”). Una targa su un edificio in Carrara ricorda il soggiorno in città dell’artista che sceglieva personalmente i blocchi. L’intenso traffico di autocarri che trasportano i blocchi a valle è ora evitato attraverso i centri abitati, essendo stata realizzata l’apposita “ Via dei Marmi”. Nelle cave di marmo da alcuni anni vengono realizzati spettacoli artistici itineranti di musica, prosa e danza) con grande effetto scenografico: l’edizione 2008 “Festival Lunatica” (la quattordicesima, organizzata dalla Provincia di Massa Carrara e dedicata a Piero Cascella) ha previsto quest’anno una serata musicale sul piazzale Fantiscritti, mentre in precedenti edizioni fu usata la suggestiva cava in sotterraneo del Ravaccione. Gli spettacoli in cava avvicinano un eterogeneo pubblico alla realtà estrattiva locale, di grande valore economico e storico-artistico, proponendo il bacino estrattivo apuano come realtà primaria locale ricca di tradizioni e conoscenze uniche, contrastando la diffusa convinzione che cava sia solo sinonimo di ferita all’ambiente. L’intensa coltivazione dei marmi di Carrara soprattutto nella seconda metà del Novecento ha prodotto l’accumulo di una notevole quantità di scarti nei cosiddetti “ravaneti”: e’ stato calcolato che il 50% di tutto il marmo sia stato estratto a partire dagli anni Sessanta del Novecento (Coli et al., 2000). I ravaneti rappresentano oggi un enorme accumulo di marmo che si estende sul 60% dei giacimenti. Attualmente gli scarti possono rappresentare importante materia prima seconda, destinata a diversi settori industriali. Gli scarti servivano in passato anche a realizzare le vie di lizza, ripidi percorsi dei blocchi fatti scendere su lizze, cioè grosse slitte in legno. La “lizzatura storica” è proposta ogni anno ai turisti come memoria del passato (“…la lizza, uno scivolo, un piano inclinato nello scheggiame e nel tritume: un greve e bianco cubo vi si affaccia dal ripiano della cava e quasi pencola in sommo: discende lentissimo, per piccoli strappi inavvertiti: cade un centimetro alla volta, imbragato nei cavi: sdrucciola sulle tavole saponate che si appoggiano a traverse di legno, arriva allo spazzo dopo ore, dopo giorni”; Carlo Emilio Gadda “Le Meraviglie d’Italia”). Gli usi dei marmi di Carrara sono molteplici e ben conosciuti. Un utilizzo locale è rappresentato dalle conche del lardo, vasche in “marmo vetrino” a grana finissima, utilizzato per la preparazione del celebre prodotto gastronomico. Le forme scultoree sono senza dubbio la più nota realizzazione anche di arte contemporanea, che nel 2008 ha trovato una variegata esposizione in Carrara. Nel Convento di San Francesco, che ospita il Centro Arti Plastiche Internazionali e Contemporanee, è stata allestita la XIII Biennale Internazionale di scultura di Carrara, “Nient’altro che scultura” (27 luglio – 28 settembre 2008), articolata in diverse sezioni che suggeriscono l’approfondimento di questo importante settore artistico con opere sia di artisti affermati che di giovani scultori. Altre opere scultoree si possono ammirare al Parco della Padula, nella Chiesa del Suffragio, presso l’Accademia Belle Arti e in altri luoghi cittadini. In occasione della Biennale quindici importanti laboratori cittadini sono stati aperti al pubblico per consentire la visione di opere in corso di realizzazione: in particolare nei “Laboratori Artistici di Scultura Nicoli & Lyndman”, attivi da sei generazioni, si possono ammirare realizzazioni importanti in corso d’opera, quali, tra l’altro, quelle commissionate da Santiago Calatrava. Lunigiana: strade storiche, statue-stele, castelli e fortezze La Lunigiana è una regione storico-geografica che si estende in Toscana, Liguria ed Emilia. Crocevia di strade importanti nel Medio Evo, è stata terra percorsa sia da pellegrini celebri che sconosciuti lungo la via Francigena e le sue numerose diramazioni. Il nome deriva da Luni, l’antico porto romano, fondato nel 177 a.C.. Ai giorni nostri la Lunigiana appare come un ambiente naturale assai ben conservato. Numerose sono le località lunigianesi di interesse storico-artistico, realizzate sempre con materiale lapideo locale: ad esempio, Aulla, Bagnone, Filattiera, Fivizzano, Gragnola, Mulazzo, Podenzana, Pontremoli, Tresana, Villafranca Lunigiana, Zeri e altre, dove esistono Beni Cultuali di enorme pregio. La pietra è l’arenaria, usata fin dalla preistoria nelle celebri statue stele, impiegata nelle costruzioni come pietra da taglio, oltre che come materiale ornamentale in portali, cantonali, stipiti, cornici, marcapiani, sculture (quali i volti sopra i portali o nelle facciate di case), scelta anche per macine, contenitori di acqua ed olio, pavimentazioni, coperture di tetti. Tutte le realizzazioni diffuse sul territorio testimoniano un impiego millenario grazie alle capacità di lavorazione di scalpellini sia locali, che di altra provenienza (in particolare nel Rinascimento vi operarono maestranze lombarde, comasche e luganesi). Pontremoli sorge attorno alla rocca del Piagnaro,nella valle del fiume Magra in alta Lunigiana. Le prime notizie storiche risalgono al X secolo. Nel Castello fortificato del Piagnaro (il nome deriva dalle lose arenacee di copertura, dette “piagne”) è ospitato il “Museo delle statue stele Augusto Cesare Ambrosi”, che raccoglie la più importante raccolta europea di scultura megalitica, cioè le sculture in arenaria realizzate a partire da cinquemila anni fa e in uso fino al II secolo a.C. La posizione strategica della città, sorta sulla storica via Francigena, ne fece un centro importante che fu fortificato, la cui parte più antica è il mastio, con un sistema di mura più volte distrutte e rifatte. Nella Chiesa di San Pietro è conservato un bassorilievo medievale in arenaria noto come “Labirinto”. A Fivizzano, città colta dove nel 1471 furono stampati libri con i primi caratteri tipografici italiani, come testimoniato nel “Museo della Stampa Jacopo da Fivizzano”, l’uomo ha lasciato molte tracce fin dalla preistoria. Tra le importanti realizzazioni del territorio, si annovera il Castello della Verrucola, complesso fortificato, residenza dei Bosi fino al XII secolo, ricostruito nel Trecento dai Malaspina. Il castello, totalmente in pietra, residenza-atelier dello scultore Piero Cascella, sorge su uno sperone roccioso e si raggiunge con una scala tra edifici medievali. Sempre nel territorio di Fivizzano, sorge il Castello dell’Aquila, che domina dall’alto di un colle il borgo medioevale di Gragnola (“Forum Clodi” della Tabula Peuntigeriana, il più antico atlante europeo risalente ai primi secoli dell’Alto Medioevo). Le origini di questa fortificazione risalgono al Medioevo per il controllo dei transiti che dal centro Europa raggiungevano Roma. Abbandonato nel Novecento, si ridusse a stato di rudere, finché importanti restauri negli ultimi anni lo riportarono all’antico splendore. Durante i lavori di scavo nel 2004 venne alla luce lo scheletro di un cavaliere trecentesco, ucciso da un colpo di balestra alla gola, venuto alla ribalta internazionale perché oggetto di studi antropologici e medico-legali. Le pietre della costruzione sono l’arenaria, il calcare, il calcare marnoso e il “travertino” (“calcare cavenoso”). A poca distanza da Fivizzano nella frazione di Cerignano sorge il Convento del Carmine, di origine cinquecentesca. Le pitture murali adornanti le lunette del chiostro, opera di Stefano Lemmi, sono state restaurate e i lavori sono appena terminati. Importanti lavori di restauro hanno anche interessato la chiesa del convento, gravemente danneggiata dall’incuria per molto tempo e da terremoti sia nell’Ottocento che nel Novecento. Nel territorio comunale di Fivizzano, in località Rometta Soliera, è in avanzato stato di costruzione la “Piazza dei Parchi” (tre parchi: Apuane, Cinque Terre e Appennino Emiliano), pavimentata in arenaria e arredata con grande fontana, panchine e bancali in marmo di Carrara (progetto Piero Cascella). A Malgrate l’imponente castello le cui origini risalgono al Trecento fu ridotto allo stato di rudere fin dall’Ottocento. Oggi appare totalmente restaurato dopo l’intervento conservativo strutturale degli anni Ottanta del Novecento. Questa fortezza medievale è dominata dal mastio, torre circolare alta 25 m, ed è totalmente circondato da mura. Statue stele della Lunigiana Dall’Eneolotico all’Età del Ferro nella valle del fiume Magra si sviluppò un fenomeno artistico particolare, quello di stele antropomorfe che rappresentano uomini e donne, di cui sono stati ritrovati e raccolti nel museo di Pontremoli oltre sessanta esemplari. Le raffigurazioni femminili (“donne di arenaria”) testimoniano l’importante ruolo femminile nella società ligure - apuana. Scoperte a partire dalla prima metà dell’Ottocento, perlopiù durante lavori di bonifica agricola, recuperate anche in costruzioni dove erano state usate come materiale da muratura e da ornamento o in muretti di confine, esse forniscono informazioni sulla cultura e religione delle antiche popolazioni locali. Esse sono oggi raccolte nel “Museo delle Statue Stele Lunigianesi” nel Castello del Piagnaro a Pontremoli. Tutte sono nella locale arenaria, roccia facilmente modellabile con strumenti prima di pietra (selce), poi di ferro, mentre per lisciarle furono usati ciottoli di arenaria e sabbia silicea come abrasivo. Le stele più antiche (Gruppo A) sono rappresentazioni stilizzate con testa appena abbozzata; le stele del Gruppo B mostrano una elaborazione stilistica accurata, realizzata dai lapicidi lunigianensi, tipicamente con capo distinto a forma di mezzaluna e con ricchi ornamenti. Le stele più recenti del gruppo C sono vere e proprie statue, lavorate a tutto tondo. Le statue stele della Lunigiana rappresentano un patrimonio unico nella statuaria preistorica, che conta numerosi esempi in molti paesi: Spagna, Francia, Svizzera, Italia (Valle d’Aosta, Valcamonica, diverse località delle Alpi Orientali, Puglia e Sardegna), Germania, Turchia, Bulgaria, Romania, Moldavia e Ucraina. Le pietre del costruito in Lunigiana Dal punto di vista geologico, in Lunigiana affiorano Unità del Dominio Toscano e Unità dell’Insieme Ligure-Emiliano (Di Battistini et al., 2000; A.A. V.V., 1994). La pietra più tipica è un’arenaria, cioè una roccia sedimentaria terrigena, correlabile con diverse Unità. Le varietà più importanti appartengono alla Formazione Macigno di età Oligocene Superiore – Miocene Inferiore (Di Battistini & Rapetti, 2002) e all’Unità di Monte Gottero, affiorante nel settore settentrionale della Lunigiana di età Cretaceo Superiore - Paleocene (Cimmino & Robiano, 2005). Il Macigno della Lunigiana è petrograficamente un’arenaria silicoclastica quarzoso-feldspatico-micacea con granulometria mediofine, con colore perlopiù grigio o localmente giallastro. L’Arenaria di Monte Gottero è simile. La pietra della Lunigiana è talora anche identificata come “Pietra Serena”, essendo però il termine di “Pietra Serena” commercialmente usato per l’arenaria di Firenzuola. Si tratta di materiale dotato di buone proprietà fisico-meccaniche (in particolare con basso coefficiente di imbibizione), che ha profondamente connotato l’edilizia locale (Di Battistini & Rapetti, 2002; Di Battistini et al., 1999; Di Battistini et al., 2000). Facilmente lavorabile, utilizzata come materiale da costruzione nelle murature e come materiale strutturale e decorativo, ha trovato impiego anche nelle pavimentazioni e nelle coperture dei tetti (le lose a Pontremoli sono dette “ piagne “, mentre “piagnoni” e “piastroni” sono le spesse lastre di pavimentazione). Particolarmente importante è il suo uso storico nelle statue stele. Tutte le costruzioni storiche del territorio ne denotano l’uso: chiese, cappelle, case, castelli e torri ne vedono l’utilizzo sia in conci squadrati che in ciottoli fluviali (Bargossi et al., 1998; Di Battistini et al., 1999). Coltivata in passato in diversi siti estrattivi (l’inizio della coltivazione risale al Quattrocento), essendo Pontremoli e Fivizzano i maggiori centri, fu sempre lavorata da abili scalpellini. La roccia riveste importanza notevole per il restauro, oltre che per l’edilizia contemporanea. A partire dal 2001 nel territorio di Pontremoli è stata riaperta la cava di Pian di Lanzola che fornisce un materiale impiegato diffusamente sul territorio. Sono esempi di utilizzo il Castello dell’Aquila a Gragnola (Massa), dove è stata usata per stipiti, soglie, davanzali e architravi di porte e finestre, il chiostro della Certosa di Calci (Pisa) e quello del Palazzo Arcivescovile di Pisa (lastre di pavimentazione), oltre che la pavimentazione del vialetto della Torre di Pisa. E’ stata utilizzata anche per monumenti contemporanei (ad esempio, sotto forma di cinque stele moderne nel Parco Nazionale delle Cinque Terre). Altra cava è quella Pontia di Pognana nel territorio di Fivizzano (Bargossi et al., 1998), ma in numerose località furono in passato aperte cave ora abbandonate. L’arenaria della Lunigiana è roccia durevole, come testimoniato dal costruito storico. Le forme di degrado talora osservate comprendono esfoliazione (anche tipico degrado a scodella nelle lastre di pavimentazione), disgregazione, biodegrado (licheni e muschi) e patina (Di Battistini et al., 1999). Oltre all’arenaria, in Lunigiana sono stati utilizzati altri materiali lapidei affioranti in loco: in particolare nelle murature si rinvengono calcari e calcari marnosi, oltre al “travertino” o “pietra spugna” (“calcare cavernoso”), utilizzato, tra l’altro, sotto forma di conci attorno a porte e finestre nel Castello di Gragnola. Riferimenti bibliografici A.A. V.V. (1994) – Guide Geologiche Regionali: Appennino ligure-emiliano. BE-MA Editore, Milano, 382 pp. Bargossi G.M., Di Battistini G., Zanollo M. (1998) – L’Arenaria Macigno di Fivizzano (Massa Carrara). Eredità storico culturale ed attuale georisorsa della Lunigiana. Miner. Petrogr. Acta, 41, 267-285 Carmignani L. (1985) – Carta geologico-strutturale del Complesso Metamorfico delle Alpi Apuane, 1:25.000, Litografia Artistica Cartografica, Firenze Carmignani L., Conti P. , Fantozzi P., Mancini S., Massa G., Molli G., Vaselli L. (2007) – I marmi delle Alpi Apuane. Geoitalia 21, 19-30 Cimmino F., Robbiano A. (2005) – Il bacino estrattivo delle arenarie del Monte Gottero: caratteristiche della pietra, aspetti giacimento logici ed impieghi. Convegno “Le pietre del territorio. Cultura, tradizione, sviluppo sostenibile”, Fortezza del Mare, 17-18 ottobre 2005, 26-28 Coli M., Appelius V., Pini G. (2002) – Studi sui ravaneti dei bacini marmiferi industriali del comune di Carrara: ubicazione, tipologia, e consistenza. Atti Convegno “Le cave di Pietre Ornamentali”, Torino, 28-29 novembre 2000, GEAM, 59-63 Di Battistini G., Bargossi G.M., Gamberini F., Gasparotto G., Huet C., Rapetti C. (1999) – L’Arenaria Macigno nell’edilizia rinascimentale di Montereggio (Lunigiana). Miner. Petrogr. Acta, 42, 223-247 Di Battistini G., Mandrone G., Rapetti C. (2000) – L’arenaria Macigno in Lunigiana. Atti Convegno “Le cave di Pietre Ornamentali”, Torino, 28-29 novembre 2000, GEAM, 359- 364 Di Battistini G., Rapetti C. (2002) – Arenaria. Pietra ornamentale e da costruzione nella Lunigiana. Silva Editore, Parma, 269 pp. Meccheri M. (1996) – Carta Geologico-strutturale delle varietà merceologiche dei marmi del carrarese, 1:10.000, Dipartimento Scienze della Terra, Università Siena Zaccagna D. (1932) – Descizione Geologica delle Alpi Apuane. Memorie Descrittive Carta Geologica d’Italia, 25, 440 pp. -