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eDItorIale
Transfusion Medicine Network 2016;1:1-3 (Pubblicato aprile 2016)
Il rischio residuo di trasmissione trasfusionale dell'Epatite B in Italia
Daniele Prati
Dipartimento di Medicina Trasfusionale ed Ematologia, Ospedale Alessandro Manzoni, Lecco
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IntroDUzIone
Negli ultimi decenni il rischio di trasmettere per via
trasfusionale le infezioni da virus dell’epatite B (HBV),
dell'epatite C (HCV) e dell’immunodeficienza umana (HIV) è
progressivamente diminuito a seguito del miglioramento dei
criteri di selezione dei donatori, e soprattutto dell’introduzione di
screening sierologici efficaci [1,2]. Più recentemente, almeno nei
paesi del mondo che hanno disponibilità economiche sufficienti,
è stato introdotto lo screening degli acidi nucleici (NAT) per HIV
e HCV RNA, con lo scopo di ridurre il rischio di trasmissione
durante il periodo finestra delle due infezioni, cioè l’intervallo di
tempo tra il momento dell'infezione e la comparsa di reattività
sierologica [3]. Ancora oggi, con l’obiettivo principale di
contenere i costi, lo screening NAT viene spesso eseguito in
pool, mescolando i campioni provenienti da diverse donazioni di
sangue - in genere in numero variabile da 6 a 50. Inoltre, per
ridurre la possibilità di trasmettere l’epatite B, viene eseguita
anche la ricerca di HBV DNA, da sola o in aggiunta al test di
reattività sierologica anti-HBc. A differenza di HIV e HCV, il
rischio residuo di infezione non è limitato alle donazioni in fase
finestra, ma si a estende a quelle che vengono raccolte da
portatori di infezione occulta da HBV. I donatori con infezione
occulta sono entrati in contatto con il virus, come in genere
testimoniato dalla immunità verso gli antigeni virali (anti-HBc, a
volte anche anti-HBs), e non presentano in circolo quantità
rilevabili di antigene di superficie. Tuttavia, alcuni di essi
rappresentano un potenziale pericolo per la trasfusione, in
quanto mantengono bassi livelli di viremia (in genere inferiore a
100-200 UI/mL), spesso fluttuanti nel tempo [4,5] (Figura 1).
Non essendo disponibili risultati di trial clinici o altre evidenze
sperimentali solide, i singoli paesi hanno finora scelto se
adottare lo screening NAT HBV o quello anti-HBc basandosi su
ragioni di economia e di fattibilità, piuttosto che sull’efficacia. In
genere, si considera che l’impiego dello screening anti-HBc sia
problematico in zone con una prevalenza intermedia o alta del
marcatore. Infatti, solo in una piccola parte delle unità anti-HBc
positive è rilevabile una viremia, e dunque il vantaggio della
riduzione di un rischio che si presume abbastanza contenuto
potrebbe essere ottenuto solo a prezzo dell’esclusione di un
numero di donatori relativamente elevato. In Italia, la prevalenza
di anti-HBc è di circa l'8% [6,7], e le autorità sanitarie
raccomandano di coniugare la ricerca di HBsAg solo con NAT
HBV senza eseguire alcuno screening per anti-HBc; la base di tale
raccomandazione è che sino ad oggi non è mai stato provato che
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l’infezione possa essere trasmessa da unità HBV NAT negative
[8]. Tuttavia, in molti ritengono che il rischio di trasmissione non
possa essere escluso, in quanto è accertato che la procedura di
pooling riduce la sensibilità analitica del test, cosa che potrebbe
impedire l’identificazione di unità potenzialmente infettive. [9].
In effetti, studi recenti hanno dimostrato che la probabilità di
identificare le donazioni con infezione occulta HBV aumenta
quando la dimensione del pool del test NAT si riduce da 50 a 20
donazioni, o quando la sensibilità analitica del test incrementa di
un poco [9-11]. Come è stato recentemente sottolineato [5], uno
studio conclusivo sulla efficacia delle attuali politiche di
screening richiederebbe però, oltre ai campioni delle donazioni,
anche una sorveglianza attiva dei riceventi prima e dopo la
trasfusione, ma studi di questo genere sono molto difficili da
organizzare e da condurre.
Il nostro gruppo ha guidato ad un progetto multicentrico e
multinazionale finanziato dalla Commissione Europea, il progetto
BOTIA (acronimo di Blood and Organ Transmissible Infectious
Agents) [12]. Il progetto prevedeva, tra l’altro, la raccolta
prospettica di campioni abbinati di donatori e di riceventi, questi
ultimi raccolti sia prima che dopo la trasfusione. Abbiamo
pertanto avuto modo di verificare, attraverso la banca biologica
del progetto, se donazioni prelevate da donatori con infezione
occulta HBV fossero sfuggite allo screening NAT in pool, e se
avessero causato una trasmissione del virus ai riceventi.
Figura 1
Schema esemplificativo della infezione occulta da virus dell’epatite B;
modificato da [15].
editoriale
I rIsUltatI Dello stUDIo ItalIano
I risultati dello studio sono stati recentemente pubblicati sul
Journal of Hepatology [13]. La schema e le evidenze principali
dello studio sono riassunti in Figura 2.
Abbiamo studiato 97.214 donazioni di sangue raccolte tra il
2008 e il 2011 da 12.965 donatori (67% maschi, 33% femmine,
età media 41 anni) presso il Dipartimento di Medicina
Trasfusionale dell’Ospedale Alessandro Manzoni a Lecco. La
maggior parte delle donazioni (94%) provenivano da donatori
periodici, e il 6% da candidati alla prima donazione. Le donazioni
sono state analizzate mediante NAT (HCV RNA, HIV RNA, HBV
DNA) in pool da 6 donazioni. In 18 donatori à stata identificata
una infezione occulta HBV. Oltre a seguire questi donatori nel
tempo, abbiamo esaminato i campioni provenienti da donazioni
precedenti, conservati presso la nostra banca biologica.
Attraverso test in PCR su campioni individuali e ad elevata
sensibilità per la ricerca di HBV DNA, abbiamo dimostrato che il
50% delle donazioni con viremia HBV erano sfuggite allo
screening NAT in pool da 6, ed erano state assegnate ai pazienti
per la trasfusione. L’analisi dei campioni pre e post trasfusionali
dei riceventi di queste unità ha potuto documentare, attraverso
sequenziamento genico, due casi di infezione da HBV trasmesse
con la trasfusione.
InterpretazIone DeI DatI e ImplICazIonI
per Il sIstema trasFUsIonale
I dati indicano che molte unità di sangue contenenti una
bassa concentrazione di HBV DNA non vengono intercettate dai
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test NAT quando questi sono eseguiti in pool da 6 o più
donazioni. In effetti, più della metà dei donatori periodici che ad
certo punto vengono identificati come portatori di HBV DNA
avrebbero dovuto essere identificati ed esclusi dalla donazione
in precedenza.
Attraverso tecniche di amplificazione genica e successivi
confronti delle sequenze virali, abbiamo poi dimostrato che due
dei tre pazienti che erano suscettibili all’infezione - che erano
cioè privi di reattività per i marcatori HBV prima della trasfusione
- hanno acquisito l’infezione HBV attraverso gli emocomponenti
raccolti da portatori di infezione occulta. Abbiamo cioè chiarito
per la prima volta e in modo conclusivo che le unità provenienti
da donatori con infezione occulta che sfuggono
all’identificazione ai test NAT sono infettive, nonostante la
carica virale relativamente bassa.
Anche se a livello molecolare abbiamo documentato soltanto
due casi di trasmissione, la dimensione complessiva del problema
è ben ragguardevole. Infatti il numero di coppie donatorericevente disponibili nella banca biologica dello studio BOTIA
(5.200 raccolti in un solo anno) rappresenta solo una frazione dei
32.000 eventi trasfusionali annuali associati con donazioni
raccolte presso il nostro centro da quando il test NAT è stato
introdotto nel 2006. La procedura di pooling è stata da noi
abbandonata nel 2013, quando siamo passati alle determinazioni
su singola donazione a seguito delle osservazioni di questo
studio. Soprattutto a livello nazionale, l’uso di test con una
sensibilità insufficiente potrebbe avere un impatto negativo sulla
sicurezza trasfusionale, considerando che in Italia vengono
raccolte più due milioni di unità di sangue vengono ogni anno, e
circa l'8% dei donatori è anti-HBc positivo [7]. Anche ipotizzando
Figura 2
Schema ed evidenze principali dello studio; modificato da [13]. OBI: infezione occulta da virus dell’epatite B.
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prudenzialmente che solo una piccola percentuale di queste unità
contenga particelle virali in grado di trasmettere l'infezione (ad
esempio, 1: 1000) [5-7], la bassa efficacia dei test in pool pone
molti dubbi sull’opportunità di mantenere le attuali strategie di
screening, specialmente considerando che i costi che ne derivano
sono molto elevati. E’ verosimile che un elevato numero di
emocomponenti (globuli rossi concentrati, concentrati piastrinici
e plasma fresco congelato) venga continuamente assegnato e
trasfuso a pazienti, esponendoli ad un rischio non irrilevante di
contrarre l’infezione.
In Italia, la raccomandazione di non utilizzare lo screening
anti-HBc per la selezione di donatori è stata formulata
assumendo che i test NAT eseguiti in pool fossero adeguati per
identificare le unità in grado di trasmettere l’infezione HBV [8].
Tuttavia, alla luce dei risultati ottenuti in questo studio, queste
raccomandazioni andrebbero ridiscusse. Una scelta logica
sarebbe quella di escludere dalla donazione tutti i donatori antiHBc-positivi, ed in alternativa o in aggiunta a questo di eseguire
il test NAT su singola donazione invece che in pool [9]. Occorre
tenere presente che la prevalenza di anticorpi anti-HBc nei
donatori di sangue è destinata a ridursi progressivamente negli
anni a venire, a seguito della vaccinazione e della ridotta
incidenza di nuove infezioni, cosa che potrebbe ridimensionare la
preoccupazione relativa alla perdita di donatori.
L'impatto clinico dell’epatite post-trasfusionale trasmessa
da portatori di infezioni occulte può essere notevole, anche
perché i riceventi spesso hanno comorbidità in grado di
peggiorare o accelerare il decorso clinico della malattia epatica
[22]. Dei due pazienti che hanno contratto l’infezione, uno ha
avuto una grave epatite acuta che ha richiesto un ricovero
prolungato in ospedale, e l’altro, dopo un fase di controllo
dell’infezione è andato incontro a riattivazione virale a seguito di
un trapianto di midollo osseo, ed è morto di insufficienza epatica.
Lo studio ha studiato una popolazione di pazienti adulti, per
lo più con malattie croniche. Questi individui frequentemente
sono vaccinati o presentano una immunità naturale verso HBV,
conseguente una precedente esposizione. Pertanto, il rischio
legato alle attuali modalità di selezione potrebbe cambiare in
modo sostanziale per riceventi con caratteristiche diverse: ad
esempio, potrebbe essere minimo nelle fasce di popolazione
coperte da vaccinazione obbligatoria, ma più alto nei soggetti
non vaccinati, compresi i neonati.
Lo studio è stato possibile soltanto perché era disponibile
una grande banca biologica di campioni donatore-ricevente. Ciò
sottolinea l’importanza di finanziare e mantenere progetti di
questo genere, che garantiscono la possibilità di monitorare la
sicurezza degli emocomponenti e valutare l’efficacia delle
procedure di screening decise a livello nazionale.
In conclusione, le procedure di screening NAT basate su pool,
ancora oggi adottate in molti centri italiani, sono inefficaci
nell’identificare unità di sangue contenenti basse dosi di viremia
HBV, che rappresentano una fonte reale di infezione per i
riceventi. Le raccomandazioni relative allo screening di HBV
dovrebbero pertanto essere riviste. In questo senso, sarebbe
auspicabile il passaggio a test NAT seguiti su singola donazione,
prevedendo comunque la possibilità - in aggiunta o anche solo in
alternativa a questo - di escludere i donatori positivi per anti
HBc, almeno per quanto riguarda la produzione di emocomponenti
labili.
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