L`aspetto competitivo nel pensiero filosofico 4. Al di là del conflitto

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L’aspetto competitivo nel pensiero filosofico
4. Al di là del conflitto: filosofia e sport
Come due amiche sono diventare nemiche
L’attività sportiva e la filosofia nell’antica
Grecia rappresentavano due modi
complementari di esprimere la vitalità del
corpo e della mente. Avevano in comune la
capacità di affrontare la sfida con gli altri e
quella ancor più difficile per perfezionare sé
stessi. Per i Greci era inscindibile il concetto di
‘palestra’ dove allenare i corpi da quello di
‘scuola’ dove allenare le menti: il luogo era uno
solo, il ‘ginnasio’. Senza la presenza di un
ginnasio – la ‘scuola palestra’ – un
agglomerato urbano non era riconosciuto
da un greco come città. La scuola di
Platone, l’Accademia, fu fondata presso
Atene proprio dove si trovava una palestra
(dedicata all’eroe Academo).
Poco a poco, e soprattutto presso i
Romani, il luogo della formazione dei
corpi venne separato da quello della
formazione degli spiriti.
In seguito, con l’avvento del
Cristianesimo e con il Medioevo, la
cultura abbandonò l’idea della
formazione dei corpi – sopravvissero solo
il lavorare e il combattere come forma di esercizio fisico – mentre la scuola
divenne un luogo di trasmissione di un sapere molto controllato dall’autorità,
che disincentivava la creatività della sfida intellettuale.
Il recupero delle attività legate all’esercizio fisico all’interno di una scuola si
dovette principalmente ai Gesuiti
all’inizio dell’età della
Controriforma: il giovane benestante
che poteva frequentare i collegi istituiti
dalla Compagnia di Gesù veniva
istruito nelle classiche discipline di
trivio e quadrivio, ma doveva
frequentare anche lezioni di danza, di
scherma e di equitazione, poiché era
necessario che se ne impadronissero per
poter fare bella figura in società, in
maniera da avere più strumenti a
disposizione per favorire l’ascesa
verso il potere della gioventù
cattolica di élite.
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Da allora in avanti, l’attività sportiva ha
preso piede nelle istituzioni scolastiche, ma
raramente ha costituito parte di un
organico progetto educativo. Nel
frattempo, lo sport aveva iniziato ad
acquisire sempre più importanza all’interno
della società, ma molto spesso sotto forma
di strumento di propaganda politica o
come ‘arma di distrazione di massa’.
L’interesse per lo sport divenne così, agli
occhi di Martin Heidegger, l’esempio
della “vuota chiacchiera sportiva” in cui il
discorso sociale precipita verso
l’inautenticità.
Ritornare all’origine
L’incomunicabilità tra i due mondi è in
gran parte il frutto di un atteggiamento
tipico della società di massa che vuole che
tutto sia estremamente semplificato: gli
sportivi decerebrati da una parte e i
sapientoni occhialuti dall’altra e in
mezzo una massa di spettatori sempre
pronti a ridere della goffaggine dello sportivo
che parla o dello scienziato che fa sport
perché è rassicurante per l’uomo senza
qualità vedere che chi ha talento, in
fondo, ‘è una persona comune’ oppure che ‘è come tutti gli altri’. I due mondi,
tuttavia, potrebbero essere assai più vicini di quel che appare se solo si tornasse a
una formazione educativa che mirasse a integrare il campo dello sport e della cultura
e non a separarli.
Per realizzare quest’obiettivo occorre, per prima
cosa, riconoscere che ormai lo sport non può più
fare a meno della scienza. La scienza si occupa
oggi sotto molte forme dello sport: la dieta che
deve seguire l’atleta, per esempio, è molto diversa
dai comportamenti alimentari anche solo di 30-40
anni fa (quando i gregari nelle corse ciclistiche si
fermavano nei bar e compravano delle birre per
dissetare i compagni di squadra); le metodologie
di allenamento e gli studi di biomeccanica per
migliorare le posture e i movimenti; le tecnologie
che predispongono i materiali e così via. E anche
le ricerche in campo chimico e biomedico per
favorire e coprire il doping sono un elemento che
riguarda il nesso sport e scienza.
In secondo luogo, va riconosciuto il ruolo che lo
sport esercita nella storia: la comprensione di
questo nesso fa sì che il discorso sullo sport non
possa essere ridotto a una ‘vuota chiacchiera’.
Dall’uso propagandistico delle vittorie per i
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regimi fino ai cori razzisti contro giocatori di colore negli stadi, lo sport rivela la
capacità di consentire di raccontare mondi.
Si scopre che filosofia e sport sono in un rapporto di parentela assai stretta, persino
oggi.
Critica della ragion sportiva
Citius, altius, fortius: è il motto olimpico, che ci prospetta l’ideale etico del
perfezionare noi stessi attraverso il miglioramento delle nostre capacità e delle
nostre prestazioni. Sapere invece di non sapere, approfondire invece di restare in
superficie, porsi il problema invece di scrollare le spalle. Dov’è che filosofia e sport non
sono in profonda sintonia?
Ancora più evidente il
nesso tra filosofia e
sport è quando il discorso
si pone sul piano dell’etica
sportiva, la quale,
addirittura, funge da
modello per il
comportamento delle
persone con
un’immediatezza, una
semplicità e una capacità di
fornire concreti esempi
educativi che il discorso
filosofico non riesce a
offrire. L’atleta che non usa
scorciatoie per raggiungere
risultati, che ammette il fallo, che cavallerescamente rinuncia ad approfittare di una
situazione favorevole determinata dalla sfortuna dell’avversario: chi non vede in simili
gesti la presenza di un senso del rispetto e dell’onore che si vorrebbe tanto che
esistesse nella vita di ogni giorno? O pratiche come il ‘terzo tempo’ nel rugby, sport
nel quale i giocatori si confrontano duramente per ottanta minuti senza risparmiarsi
placcaggi, colpi, spinte ma poi, conclusa la battaglia, si ritrovano a cenare insieme, a
mangiare, bere e scambiarsi storie trasformando una partita nell’istituzione di una più
ampia comunità.
Accanto a questa ‘etica dei principi’ esiste, però, anche un lato oscuro dello
sport, quello dominato dall’‘etica dei risultati’, legittima fino a un certo punto –
scopo della competizione è la vittoria e superare l’avversario è il modo per esplorare i
propri limiti e riconoscere compiutamente l’identità dell’altro – ma destinata a
diventare immorale quando si basa sulla frode (il doping, la corruzione dei giudici, i
trucchi contabili ecc.) o sulla scorrettezza elevata a sistema.
Sportivo non significa puramente ‘agonista’, significa anche e soprattutto ‘corretto e
leale’, la sportività è il sinonimo di un comportamento modernamente cavalleresco.
Era ciò cui pensava il barone Pierre De Coubertin, ma anche ciò che il pensatore
spagnolo José Ortega y Gasset riconosceva quale paradigma di uno stile di vita,
gioiosamente alcionico, che poteva spingere l’uomo a migliorare sé stesso, facendo
sport per esprimere le proprie energie vitali, e interpretando il mondo attraverso
arte, letteratura e filosofia per dare forma alle energie intellettuali. Contrapponendosi
al “sentimento tragico della vita” del connazionale esistenzialista Miguel de
Unamuno, Ortega y Gasset parlava del “senso sportivo dell’esistenza”.
Certo, il requisito per andare al di là degli steccati tra sport e cultura è che se ne
occupino persone dalle ampie vedute, senza pregiudizi, e che la narrazione delle
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vicende sportive non sia lasciata a specialisti di settore privi di una adeguata
preparazione di base. Così nelle scuole occorrerebbe che i docenti fossero in grado di
far dialogare sport e cultura, impresa non semplice per pregiudizi in una direzione
o nell’altra.
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