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MERCOLEDÌ 5 FEBBRAIO 2014
dell'evasione di Gallarate ”ripropone in tutta la
Detenuto evaso, L'episodio
sua drammaticità il problema della cronica carenza del
nella Polizia penitenziaria ed in particolare in quelFns Cisl: episodio personale
lo impiegato nel servizio di Traduzione e Piantonamento”.
afferma il segretario generale della Fns Cisl Pomripropone E'peoquanto
Mannone in riferimento al gravissimo episodio accaduil Tribunale di Gallarate.
problema to“Unpresso
compito, quello dell' Ntp - continua Mannone- che pridel passaggio alla Polizia Penitenziaria, avvenuto ormai
carenza cronica ma
25 anni fa, veniva svolto dall'Arma dei carabinieri impieganben 10mila unità. Ebbene, nulla è stato fatto per incredi personale domentare
la dotazione organica di questo personale che opera in estenuanti, ripetuti e prolungati turni di servizio che
penitenziario vanno oltre il normale orario di lavoro, provocando un enor-
me stress psico-fisico e quindi, nei fatti, impedendo il recupero delle forze di tutto il personale impiegato.
Per non parlare delle condizioni in cui versa il parco automezzi messo a disposizione del personale per svolgere i servizi di
Traduzione e Piantonamenti: mezzi obsoleti, vetusti con centinaia di migliaia di chilometri percorsi, senza potere ottenere, data la carenza di fondi, l'ordinaria manutenzione e revisione, con conseguente diminuzione degli ordinari standard
di sicurezza sia per il personale operante, che per la stessa
utenza detentiva”. “Ci sentiamo vicino a questi colleghi conclude Mannone - e con loro chiediamo al Ministro della
Giustizia di farsi promotore di ogni intervento teso ad integrare l'organico di personale penitenziario ed a migliorare le
condizioni del parco automezzi necessario allo svolgimento
in sicurezza del servizio di traduzione e piantonamenti".
L’economista Zamagni a Conquiste: non il Pil, ma il lavoro deve essere l’obiettivo strategico della politica
conquiste del lavoro
l'intervista
Puntaresuimpresasociale
percrearenuovaoccupazione
L
iberare il lavoro, perché l’economia moderna non garantisce la piena occupazione. Ecco perché serve
puntare su nuovi bacini legati al territorio italiano,
non soggetti alle leggi della competitività internazionale, come green economy, beni comuni e welfare generativo. L’economista Stefano Zamagni
spiega a Conquiste del Lavoro come le imprese sociali siano, per loro natura,
il modello di azienda giusto aumentare l’occupazione. Ma bisognerà dare
loro gli strumenti per garantire liquidità costante.
Da cosa va “liberato” il
lavoro, professore?
Innanzitutto da lacci di natura burocratica e legislativa, ma le regole in sé non
bastano, perché è come
annaffiare un terreno dove non è stato piantato il
seme. Poi va liberato dall’incompetenza e allora
serve investire sulla formazione e sul capitale umano. Ma pure questo non è
sufficiente, perché se formiamo persone, anche
con i canoni più avanzati,
e il mondo delle imprese
non è in grado di recepirle
e utilizzarle adeguatamente, allora...
Dove è il nodo?
Flessibilizzazione, ovviamente entro i paletti consentiti dalla concezione
del lavoro come attività
umana, e formazione rimangono obiettivi importanti, ma non possono essere esclusivi. La ragione
fondamentale che non libera lavoro è dovuta alla
distorsione dei consumi.
Quando in Usa venne coniato il termine jobless
growth, che vuol dire crescita senza occupazione,
molti in Italia ci risero sopra. Nell’epoca della terza
rivoluzione industriale in
cui viviamo, invece, si può
aumentare il Pil senza che
questo corrisponda a una
crescita dell’occupazionale. Anzi una recente indagi-
ne ci dice che nel 2030 ci
sarà una diminuzione della domanda di lavoro per i
settori tradizionali dell’economia del 47%. Dobbiamo chiederci: Vogliamo puntare solo alla crescita o fare in modo che il
lavoro torni ad essere
l’obiettivo strategico? Perché aumentare la crescita
vuol dire aumentare i profitti, le rendite, ma non necessariamente aumentare i salari. I dati dicono che
la quota dei salari sul Pil è
diminuita di nove punti in
10 anni, mente quella dei
profitti è aumentata. E
questo non è certo prova
di equità. Abbiamo in que-
sti giorni una prova lampante.
Quale?
La questione Electrolux. È
un caso molto triste, non è
solo un problema di posti
di lavoro persi, già di per
sé undramma. Ma è il messaggio subliminale che ne
deriva, cioè che i processi
di adeguamento sulla nuova frontiera tecnologica
devono avvenire a spese
del lavoro. Non può risentirne solo il dipendente,
ma proporzionalmente
tutti i fattori della produzione. Invece si lasciano intatti i profitti, riducendo il
costo del lavoro. Quell’azienda per competere
non ha fatto innovazione
di rottura, ma solo di prodotto e di processo, per
questo si è trovata in questa situazione.
La soluzione?
Credo che il settore capitalistico dell’economia non
potrà mai, anche con tutte
le regole sulla flessibilità e
tutti gli investimenti sul capitale umano, superare
l’80-82% di occupazione rispetto alla forza lavoro. E
l’altro 20%? Vogliamo rassegnarci a tenerlo nel precariato o nell’inoccupazione? Una società che vuol
dirsi civile e a dimensione
umana non può accettarlo. Se la risposta è no, e la
mia risposta è no, dobbiamo capire che bisogna creare nuove aree di lavoro
che corrispondo ai nuovi
bisogni, di cui c’è domanda ma non offerta sufficiente.
Quali sarebbero?
Le aree dei servizi in cui
l’uso della tecnologia è ad
alta densità di lavoro e sono aree in cui il meccanismo della competizione
globale non è in grado di
operare. Cioè sono bacini
site specific, ovvero legati
al singolo Paese. La prima
è quella della difesa del territorio, abbiamo un paesaggio che cade a pezzi e
nessuno se ne cura. Secon-
da area è quella dei beni
comuni che sono diversi
dai beni pubblici. La gestione non può perciò essere
affidata allo Stato; per questi l’unica governance è di
tipo cooperativo.
E poi?
Ultimo settore è il welfare, dove noi siamo agli ultimi posti in Europa. Certo
non è normale essere ripresi dall’Europa, come è
successo alcuni giorni fa a
Strasburgo, su un tema
che abbiamo inventato
noi. Il fatto è che noi continuiamo a tenere in vita il
welfare redistributivo,
dobbiamo passare invece
al welfare generativo. Il
primo è a fruizione individualistica, il secondo è a
fruizione sociale, è in grado di generare al proprio
interno le risorse che servono ad alimentarsi e aiuta le persone ad uscire il loro stato di bisogno.
Come si lega tutto questo con le imprese sociali?
Quando si arriva a capire
che in questi settori ci sono nuove possibilità di lavoro, si comprende anche
perché abbiamo bisogno
delle imprese sociali, perché questi tipi di attività
possono essere gestite efficacemente e prodotte
con vantaggio solo da imprese sociali, visto che l’impresa capitalistica ha un’altra logica.
Resta però la questione soldi…
Certo, bisogna garantire
un flusso di risorse finanziare costanti e permanenti a queste imprese. E allora ecco venir fuori il concetto di crowd funding e di
social bond, cioè le obbligazioni sociali, e più in generale tutte quelle forme
di finanza creativa, buona
e positiva, finora etichettate come finanza etica, che
è un po’ riduttivo… Se l’impresa sociale deve essere
impresa, dobbiamo dotarla anche di quegli strumenti finanziari che sono necessari. Però deve trattarsi di impresa vera, cioè soggetti che creano e producono e non soltanto che si
limitano a redistribuire.
Pensare a finanziamenti europei?
È chiaro. A noi i finanziamenti europei non arriverannomai però, perché abbiamo la norma, ma non
ancora i regolamenti per
la generalizzazione delle
piattaforme di crowdfunding e dei social bond. Sta
qui il problema.
Alessia Guerrieri
Raffaele Bonanni
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