3 MERCOLEDÌ 5 FEBBRAIO 2014 dell'evasione di Gallarate ”ripropone in tutta la Detenuto evaso, L'episodio sua drammaticità il problema della cronica carenza del nella Polizia penitenziaria ed in particolare in quelFns Cisl: episodio personale lo impiegato nel servizio di Traduzione e Piantonamento”. afferma il segretario generale della Fns Cisl Pomripropone E'peoquanto Mannone in riferimento al gravissimo episodio accaduil Tribunale di Gallarate. problema to“Unpresso compito, quello dell' Ntp - continua Mannone- che pridel passaggio alla Polizia Penitenziaria, avvenuto ormai carenza cronica ma 25 anni fa, veniva svolto dall'Arma dei carabinieri impieganben 10mila unità. Ebbene, nulla è stato fatto per incredi personale domentare la dotazione organica di questo personale che opera in estenuanti, ripetuti e prolungati turni di servizio che penitenziario vanno oltre il normale orario di lavoro, provocando un enor- me stress psico-fisico e quindi, nei fatti, impedendo il recupero delle forze di tutto il personale impiegato. Per non parlare delle condizioni in cui versa il parco automezzi messo a disposizione del personale per svolgere i servizi di Traduzione e Piantonamenti: mezzi obsoleti, vetusti con centinaia di migliaia di chilometri percorsi, senza potere ottenere, data la carenza di fondi, l'ordinaria manutenzione e revisione, con conseguente diminuzione degli ordinari standard di sicurezza sia per il personale operante, che per la stessa utenza detentiva”. “Ci sentiamo vicino a questi colleghi conclude Mannone - e con loro chiediamo al Ministro della Giustizia di farsi promotore di ogni intervento teso ad integrare l'organico di personale penitenziario ed a migliorare le condizioni del parco automezzi necessario allo svolgimento in sicurezza del servizio di traduzione e piantonamenti". L’economista Zamagni a Conquiste: non il Pil, ma il lavoro deve essere l’obiettivo strategico della politica conquiste del lavoro l'intervista Puntaresuimpresasociale percrearenuovaoccupazione L iberare il lavoro, perché l’economia moderna non garantisce la piena occupazione. Ecco perché serve puntare su nuovi bacini legati al territorio italiano, non soggetti alle leggi della competitività internazionale, come green economy, beni comuni e welfare generativo. L’economista Stefano Zamagni spiega a Conquiste del Lavoro come le imprese sociali siano, per loro natura, il modello di azienda giusto aumentare l’occupazione. Ma bisognerà dare loro gli strumenti per garantire liquidità costante. Da cosa va “liberato” il lavoro, professore? Innanzitutto da lacci di natura burocratica e legislativa, ma le regole in sé non bastano, perché è come annaffiare un terreno dove non è stato piantato il seme. Poi va liberato dall’incompetenza e allora serve investire sulla formazione e sul capitale umano. Ma pure questo non è sufficiente, perché se formiamo persone, anche con i canoni più avanzati, e il mondo delle imprese non è in grado di recepirle e utilizzarle adeguatamente, allora... Dove è il nodo? Flessibilizzazione, ovviamente entro i paletti consentiti dalla concezione del lavoro come attività umana, e formazione rimangono obiettivi importanti, ma non possono essere esclusivi. La ragione fondamentale che non libera lavoro è dovuta alla distorsione dei consumi. Quando in Usa venne coniato il termine jobless growth, che vuol dire crescita senza occupazione, molti in Italia ci risero sopra. Nell’epoca della terza rivoluzione industriale in cui viviamo, invece, si può aumentare il Pil senza che questo corrisponda a una crescita dell’occupazionale. Anzi una recente indagi- ne ci dice che nel 2030 ci sarà una diminuzione della domanda di lavoro per i settori tradizionali dell’economia del 47%. Dobbiamo chiederci: Vogliamo puntare solo alla crescita o fare in modo che il lavoro torni ad essere l’obiettivo strategico? Perché aumentare la crescita vuol dire aumentare i profitti, le rendite, ma non necessariamente aumentare i salari. I dati dicono che la quota dei salari sul Pil è diminuita di nove punti in 10 anni, mente quella dei profitti è aumentata. E questo non è certo prova di equità. Abbiamo in que- sti giorni una prova lampante. Quale? La questione Electrolux. È un caso molto triste, non è solo un problema di posti di lavoro persi, già di per sé undramma. Ma è il messaggio subliminale che ne deriva, cioè che i processi di adeguamento sulla nuova frontiera tecnologica devono avvenire a spese del lavoro. Non può risentirne solo il dipendente, ma proporzionalmente tutti i fattori della produzione. Invece si lasciano intatti i profitti, riducendo il costo del lavoro. Quell’azienda per competere non ha fatto innovazione di rottura, ma solo di prodotto e di processo, per questo si è trovata in questa situazione. La soluzione? Credo che il settore capitalistico dell’economia non potrà mai, anche con tutte le regole sulla flessibilità e tutti gli investimenti sul capitale umano, superare l’80-82% di occupazione rispetto alla forza lavoro. E l’altro 20%? Vogliamo rassegnarci a tenerlo nel precariato o nell’inoccupazione? Una società che vuol dirsi civile e a dimensione umana non può accettarlo. Se la risposta è no, e la mia risposta è no, dobbiamo capire che bisogna creare nuove aree di lavoro che corrispondo ai nuovi bisogni, di cui c’è domanda ma non offerta sufficiente. Quali sarebbero? Le aree dei servizi in cui l’uso della tecnologia è ad alta densità di lavoro e sono aree in cui il meccanismo della competizione globale non è in grado di operare. Cioè sono bacini site specific, ovvero legati al singolo Paese. La prima è quella della difesa del territorio, abbiamo un paesaggio che cade a pezzi e nessuno se ne cura. Secon- da area è quella dei beni comuni che sono diversi dai beni pubblici. La gestione non può perciò essere affidata allo Stato; per questi l’unica governance è di tipo cooperativo. E poi? Ultimo settore è il welfare, dove noi siamo agli ultimi posti in Europa. Certo non è normale essere ripresi dall’Europa, come è successo alcuni giorni fa a Strasburgo, su un tema che abbiamo inventato noi. Il fatto è che noi continuiamo a tenere in vita il welfare redistributivo, dobbiamo passare invece al welfare generativo. Il primo è a fruizione individualistica, il secondo è a fruizione sociale, è in grado di generare al proprio interno le risorse che servono ad alimentarsi e aiuta le persone ad uscire il loro stato di bisogno. Come si lega tutto questo con le imprese sociali? Quando si arriva a capire che in questi settori ci sono nuove possibilità di lavoro, si comprende anche perché abbiamo bisogno delle imprese sociali, perché questi tipi di attività possono essere gestite efficacemente e prodotte con vantaggio solo da imprese sociali, visto che l’impresa capitalistica ha un’altra logica. Resta però la questione soldi… Certo, bisogna garantire un flusso di risorse finanziare costanti e permanenti a queste imprese. E allora ecco venir fuori il concetto di crowd funding e di social bond, cioè le obbligazioni sociali, e più in generale tutte quelle forme di finanza creativa, buona e positiva, finora etichettate come finanza etica, che è un po’ riduttivo… Se l’impresa sociale deve essere impresa, dobbiamo dotarla anche di quegli strumenti finanziari che sono necessari. Però deve trattarsi di impresa vera, cioè soggetti che creano e producono e non soltanto che si limitano a redistribuire. Pensare a finanziamenti europei? È chiaro. A noi i finanziamenti europei non arriverannomai però, perché abbiamo la norma, ma non ancora i regolamenti per la generalizzazione delle piattaforme di crowdfunding e dei social bond. Sta qui il problema. Alessia Guerrieri Raffaele Bonanni e nuove relazioni sindacali Gli Accordi interconfederali su Rappresentanza Modelli contrattuali e Produttività pp. 160 / prezzo di copertina € 7,00 prezzo scontato € 4,20 per ordini superiori a 100 copie € 3,50 Per informazioni e ordini tel. 06 44251174 fax 06 8552478 email [email protected] www.edizionilavoro.it