De Marinis ver8a.qxd_De Marinis 17/11/14 09:26 Pagina 35 DAVID BERONIO – CLEMENTE TAFURI TEATRO AKROPOLIS L’arte e il suo limite Un oscuro labirinto Frequentare i misteri all’origine dell’espressività e del desiderio di affermazione dell’uomo nel mondo vuol dire addentrarsi nelle viscere oscure di un labirinto. Non si rimane abbagliati dallo splendore delle architetture, non si è confortati dalle strutture della logica. La tenebra di questo labirinto non è stata ancora squarciata dal lampo dell’individuazione. La consapevolezza di sé non ha ancora condotto l’uomo a percepirsi distinto dalla natura che lo contiene e di cui è esso stesso parte. L’espressione di come il mondo appare a chi lo vive nella sua origine è un atto di ulteriore adesione alla vita e ad essa intrinsecamente connesso. Non, quindi, un ritorno alla vita dopo averne contemplato lo scorrere, ma un penetrarvi ancora più addentro senza mai concedersi alla separazione tra soggetto rappresentante e soggetto rappresentato. La più antica raffigurazione che l’uomo ha dato di sé di cui noi abbiamo traccia si trova nella grotta di Chauvet e risale a circa trentaduemila anni fa. Le membra di un bisonte e di un leone si intrecciano e danno forma alle gambe di una donna, rendendo così l’immagine del suo sesso. La figura femminile, che compare su uno spuntone di roccia nel luogo più profondo della grotta, non ha testa. La somiglianza con la Venere di Hohle Vels è sorprendente. Per gli artisti o sciamani cavernicoli e per l’intera loro comunità, raffigurare equivaleva a vivere sempre più il mistero oscuro della vita, essere la vita stessa. Arte e natura si conciliavano in un’esperienza ordinaria, assimilata, che annullava ogni distinzione. Nulla diveniva separandosi dalla sua origine, tutto sussisteva in un frammento del tempo che era il tempo stesso nella sua totalità. 35 De Marinis ver8a.qxd_De Marinis 17/11/14 09:26 Pagina 36 Porsi di fronte a queste immagini con tale consapevolezza significa affrontare il problema della natura dell’arte da un punto di vista in cui la dimensione letteraria, la mediazione di un linguaggio rigidamente codificato e il rapporto con una tradizione che esercita il suo potere fluidamente sono completamente assenti. Questa condizione ci consente di riflettere su un’espressione creativa senza dover considerare quegli elementi che diventeranno la struttura stessa e il senso delle opere di epoche successive. Uno di questi elementi, per esempio, è quello della comunicazione, che costituisce un piano sul quale sempre più viene focalizzata la lettura del significato ultimo di un’opera, e che nell’arte paleolitica appare assolutamente estranea alla natura delle immagini. Quelle figure non comunicano nulla ma costituiscono un’azione che traspone in forma di immagini una parte del mondo. Le incisioni e le sculture paleolitiche sono certamente magiche, ed è vano cercarvi riti di pubblica utilità. [...] Il mimetismo è alla radice di quelle opere composite in cui l’uomo si camuffa da bestia lasciando talvolta trasparire il proprio volto sotto la maschera [...] ma questo mimetismo, che prolunga certi prodigi della natura circostante, è orientato verso la partecipazione magica.1 Il concetto di magia evocato da Breton a proposito della funzione essenziale dell’arte ne denota il fondamentale doppio carattere superando il problema dell’arte come imitazione della natura. Da un lato l’arte come prassi, cioè, esattamente come la magia, un agire volto ad uno scopo la cui ragione ultima ricade intimamente all’interno dell’azione stessa: un’azione capace di ribadire la sua origine comune con la natura, capace di operare dall’interno dell’omogeneità e dell’unità di tutte le cose. Dall’altro l’arte come traccia di una precisa consapevolezza, quella cioè di una posizione dell’uomo non come soggetto assoluto di fronte al mondo che lo circonda, ma come parte fluida e non individuabile di un universo tanto insondabile quanto intimamente vicino. 36 De Marinis ver8a.qxd_De Marinis 17/11/14 09:26 Pagina 37 L’arte del Paleolitico conserva intatto il primato di questi due caratteri, quello cioè di non essere importante innanzitutto come opera, come manufatto, ma come azione di cui l’opera è una traccia. E quello di mettere immediatamente in primo piano l’evocazione di un mondo in cui il soggetto, l’“autore”, scompare lasciando che l’immagine del mondo venga alla luce senza che il medium dell’artista la riporti su un piano psicologico e individuale. La donna della grotta di Chauvet non è imitazione o copia di quanto esiste ma equivale alle «incorporazioni visibili dell’estraneo nell’aspetto di ciò che è familiare»2. Per noi, ridotti a vivere contemplando l’immagine della vita, appare oltre umana la facoltà di essere tutt’uno con un’azione che conduce il suo attore a una perdita di sé e contemporaneamente a un totale controllo del sé organico. È dunque evidente che l’arte, nella sua origine, faceva a meno di definirsi in un oggetto concluso, e pertanto anche nell’interprete che conduce a questa conclusione. Uomini e donne del Paleolitico avrebbero riso del nostro stupore di fronte ai loro dipinti. La percezione del mondo Per la comprensione di una tale prospettiva diventa necessario ripensare il modo abituale di considerare la natura delle cose per come si impongono all’esperienza sensibile. Questa esperienza, che si definisce sempre più nel porsi di fronte alla rappresentazione e non all’essenza del mondo, è viziata irrimediabilmente dal dovere di comunicare. Si tratta di un dovere connaturato al soggetto dell’esperienza secondo cui ogni attimo deve essere riportato su un piano di condivisibilità, e si tratta di un livello tanto pervasivo da riguardare anche la maggior parte dei tentativi di negare coscientemente l’intenzione di comunicare. È così che, in un mondo orientato in funzione di un finalismo o di un determinismo universale, ogni momento, anche il più insignificante, assolve alla sua funzionalità e quindi deve avere un potere comunicativo. Deve essere comunicazione. 37 De Marinis ver8a.qxd_De Marinis 17/11/14 09:26 Pagina 38 Per potersi liberare da tutto ciò occorre innanzitutto definire l’orizzonte entro il quale un’esperienza possa essere vissuta, e questo orizzonte è quello di un’esperienza che non sia mediata da una visione intellettualistica della realtà: non si tratta di classificare due diverse concezioni del mondo, una in cui gli oggetti dell’esperienza sensibile esauriscono da soli il piano della realtà, e un’altra in cui il mondo sensibile è un segno di un mondo ontologicamente superiore sottratto alle leggi del divenire. L’intellettualismo sta piuttosto nello stabilire un’identità rigida e immutabile per il soggetto, che non prevede spiragli nella propria individuazione ed è impermeabile nei confronti di ciò che lo circonda. Tale identità viene enunciata da Kant: L’unità della coscienza è il solo elemento che costituisca il riferimento delle rappresentazioni ad un oggetto, e quindi la loro validità oggettiva; di conseguenza, il solo far sì che esse divengano conoscenze. Tale unità è dunque ciò su cui si fonda la possibilità stessa dell’intelletto3. Kant inserisce questa riflessione nell’ambito delle sue considerazioni sull’esperienza del fenomeno attraverso le sensazioni, e sul presupposto che esista una realtà ulteriore, che egli stesso definisce noumeno, e che pone al di fuori delle possibilità dell’esperienza. Ma se ritorniamo al fenomeno come principio di realtà in quanto oggetto dell’esperienza, e rifiutiamo, con Nietzsche, l’ipotesi di un mondo dietro il mondo, ancora non siamo giunti alla possibilità di concepire quella totalità che l’arte nella sua origine ha avuto la capacità, come abbiamo visto, di esprimere. E questo perché non abbiamo superato quell’unità della coscienza che costituisce il principium individuationis, non una dimensione strutturale dell’essere umano, ma una condizione in cui esso si ritrova. La vera rivoluzione copernicana, allora, non è, come pensava Kant, quella di spostare i principi che regolano l’intuizione dagli oggetti al soggetto, ma quella di considerare una nuova natura del soggetto. Non più un passivo collettore di sensazioni, ma un attore permeabile al mondo che lo circonda. 38 De Marinis ver8a.qxd_De Marinis 17/11/14 09:26 Pagina 39 L’esperienza dei sensi noi l’afferriamo istantaneamente poi la lasciamo cadere; se vogliamo fissarla, inchiodarla, la falsifichiamo. Questo è il significato dei frammenti che tradizionalmente vengono interpretati a sostegno di una presunta dottrina eraclitea del divenire. Eraclito non crede che il divenire sia più reale dell’essere; crede semplicemente che “ogni opinione è una malattia sacra”.4 La ferita della metafisica Abitualmente si utilizza il termine metafisica conferendogli molteplici significati, attribuendogli connotazione ora positiva, ora negativa. Esso può indicare una dimensione ulteriore e più ricca rispetto a quella dell’esperienza sensibile oppure può riferirsi ad un sistema di riferimenti promossi da una fede religiosa e considerati illusori. Occorre tuttavia chiarire un significato univoco in modo da evitare ambiguità e confusioni. Kant affronta la questione all’inizio della Critica della ragion pura: In un genere delle sue conoscenze, la ragione umana ha il particolare destino di venir assediata da questioni, che essa non può respingere, poiché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, ma alle quali essa non può neppure dare risposta, poiché oltrepassano ogni potere della ragione umana. [...] essa cade in oscurità e contraddizioni, dalle quali a dire il vero può inferire, che alla base debbono sussistere da qualche parte errori nascosti; essa non può tuttavia scoprirli, poiché le proposizioni fondamentali, di cui si serve, non riconoscono più alcuna pietra di paragone nell’esperienza, dal momento che oltrepassano il confine di ogni esperienza. Ebbene, il campo di battaglia di questi contrasti senza fine si chiama metafisica5. Kant pone la sua attenzione sulla natura problematica della metafisica stessa, come campo di indagine umana che dapprima diventa regina di tutte le scienze, e in un secondo momento, messa in discussione dallo scetticismo della filosofia moderna, è fatta 39 De Marinis ver8a.qxd_De Marinis 17/11/14 09:26 Pagina 40 oggetto di un totale disprezzo. La criticità di una tale impostazione, che parte dalla constatazione che esiste una distinzione fra l’oggetto dell’esperienza e l’oggetto della ragione, risale a Platone e si protrae per tutto il corso del pensiero occidentale. Ma Heidegger la mette in discussione: Il pensiero metafisico si fonda sulla distinzione fra ciò che è veramente e ciò che, confrontato con quello, costituisce l’ambito del non veramente essente. Per l’essenza della metafisica l’elemento decisivo non risiede tuttavia per niente nel fatto che la distinzione menzionata si presenti come opposizione tra soprasensibile e sensibile, ma nel fatto che quella distinzione, intesa come una fenditura aperta, rimanga l’elemento primo e determinante. La metafisica sussiste allora anche quando la gerarchia platonica tra soprasensibile e sensibile viene rovesciata, e il sensibile viene esperimentato in modo più essenziale e più ampio.6 La metafisica dunque consiste in una frattura, e in quanto tale si delinea il suo carattere fondamentale di separazione di ciò che prima era unito. Porre la distinzione fra razionale e irrazionale significa creare una antitesi insanabile fra due tipi di esperienza che quotidianamente vengono vissuti dall’uomo. Uno è quello cioè in cui prevale una visione del mondo filtrata attraverso la necessità di compiere azioni finalizzate al raggiungimento di uno scopo ben preciso, e a tal scopo l’elemento importante della natura è quello che ci perviene attraverso la sensibilità ordinata dalla ragione. L’altro aspetto è quello delle esperienze gratuite, libere da ogni finalità, delle visioni oniriche, dell’esperienza tragica dell’individuo e del suo destino. Porre in conflitto questi due tipi di esperienze significa lasciare spazio agli irrisolvibili contrasti senza fine di cui parla Kant. Ma se invece di prendere parte per la razionalità in favore dell’esperienza empirica o per un’ineffabile spiritualità in favore dell’esperienza mistica, se invece di invertire la gerarchia fra sensibile e soprasensibile, proviamo a porci da un punto di vista anteriore a quella divisione, allora si può aprire per l’uomo una prospettiva davvero nuova. 40 De Marinis ver8a.qxd_De Marinis 17/11/14 09:26 Pagina 41 Anzi, antichissima, dal momento che si tratta della prospettiva raccontata in Grecia prima di Socrate. Quindi con il termine metafisica si deve indicare innanzitutto l’assunto che il pensiero occidentale ha fatto suo da Platone in poi: quello della divisione di un mondo vero da uno apparente. Metafisica è quella dogmatica che nega realtà al mondo dove si svolge la vita umana in favore di un mondo ultraterreno, ma è anche quella che liquida come mondo apparente tutte le esperienze del sacro e riduce tutte le attività spirituali ad un mero epifenomeno biologico. Chronos e aion L’esperienza razionale del tempo è un’esperienza lineare, presieduta da un’attività ordinatrice del prima e del dopo che classifica tutti gli eventi e li collega fra loro con nessi di causalità. Un’esperienza quindi metafisica che induce l’uomo a rivolgere il suo sguardo all’indietro credendo così di scoprire i princìpi che regolano tutto ciò che accade, e questo con la nascosta pretesa di proiettare quei princìpi nel futuro, di predire e di ammaestrare. Questo sguardo sul tempo è la storia, che corre avanti e indietro, compiendo la sua infaticabile analisi, sulla linea che ha tracciato. La più terribile condanna di questa visione del tempo è quella di Nietzsche: «La storia, pensata come pura scienza e divenuta sovrana, sarebbe una specie di chiusura e liquidazione della vita per l’umanità»7. Un rifiuto così netto proviene dalla convinzione che il confronto con il proprio passato possa generare una reale conoscenza a patto che non ci si limiti a compiere un’analisi delle forze astratte che concorrono al determinarsi degli avvenimenti, ma che si prendano le mosse da quel principio antistorico che è l’uomo inteso nella sua dimensione più vitale: «Il nostro punto di partenza è quello dell’unico centro permanente, e, per noi, possibile, dell’uomo che soffre, aspira ed agisce quale è ed è sempre stato e sarà»8. Riconsiderare la natura del tempo, non più inteso come successione di momenti di uguale valore cronologico, significa riconoscere il primato dell’esperienza di una immediatezza 41 De Marinis ver8a.qxd_De Marinis 17/11/14 09:26 Pagina 42 vissuta solo grazie ad un profondo collegamento con il passato: «Ciò che un tempo fu gioia e disperazione ora deve diventare conoscenza, proprio come nella vita dell’individuo»9. L’idea che la storia debba essere un fattore interiore, e che possa dare origine ad uno sviluppo veritativo, è stata pensata da Burckhardt in polemica con il concetto di filosofia della storia, cioè di una disciplina che possa arrivare ad un risultato conoscitivo procedendo con un’analisi razionale dei fatti accaduti. L’intuizione di Burckhardt viene ripresa da Nietzsche che recupera la possibilità del valore della storia solo «in quanto sia al servizio della vita, è al servizio di una forza non storica, e perciò non potrà né dovrà diventare mai, in questa subordinazione, pura scienza, come per esempio lo è la matematica»10. Ma ancora più profondamente questo concetto è stato pensato da Giorgio Colli, che dice che «ciò che di vivo esiste nel presente è soltanto il riaffiorare di una vita del passato»11 e che «poiché la nostra individuazione non è altro che un nesso di conoscenze, e ciò che sopravanza, al di là dell’individuazione, è ancora conoscenza, ma un’altra conoscenza, ecco allora che, strappato il velo della persona, appare l’occasione dell’estasi, la conoscenza che sta alla sorgente, l’attimo, il primo ricordo di ciò che ormai non è conoscenza»12. La conoscenza più profonda può essere vissuta solo nell’esperienza dell’immediatezza, che consiste nell’intuizione di sé al di là della propria individuazione. Ma tale esperienza procede attraverso il riconoscimento dell’origine della conoscenza da ciò che un tempo fu gioia e dolore, cioè dal suo radicamento nel passato. Questa consapevolezza spezza la linea retta del tempo, in cui tutti i punti sono uguali, smaschera l’inconsistenza del tempo cronologico e fa trapelare una temporalità diversa, che appartiene profondamente all’uomo. È l’aion, il tempo che annulla in sé la distinzione fra presente e passato, il tempo che non conosce la proiezione dei timori e dei desideri in un futuro che non esiste. Il tempo dell’immediatezza, il tempo dell’estasi che è «una conoscenza non condizionata dall’individuazione»13. L’opera d’arte in quanto opera, ovvero oggetto finito, si colloca irrimediabilmente nel tempo cronologico, finendo per riferirsi a determinati orizzonti 42 De Marinis ver8a.qxd_De Marinis 17/11/14 09:26 Pagina 43 culturali. Essa entra in una relazione necessaria con tutto ciò che la circonda e non per forza la riguarda. Essa è portatrice di un contenuto e in quanto tale si offre alla critica e all’opinione e al confronto diretto con le altre opere. L’opera è la testimonianza della storia, reca su di sé i segni del suo tempo e crea una distanza tra sé e la vita. L’opera è un complesso dogmatico che non ammette un ripensamento delle strutture che lo definiscono come opera e che sono la sua ragion d’essere. Nulla di più distante da quanto compare nelle viscere della grotta di Chauvet. Opera e letteratura Le strutture non possono essere intaccate. L’artista inganna inconsapevolmente se stesso mentre con la più profonda consapevolezza procede verso la definizione sempre più accurata del mondo che lo circonda e della cultura che lo pervade. Le strutture sono quelle della letteratura. Ma il concetto di letteratura qui non si esaurisce nella pagina scritta. Si estende a tutte le forme d’arte e si manifesta nel rapporto dialettico con il sistema culturale che le accoglie. Il dogma, discusso, stravolto, abbandonato, continua ad affermare il suo dominio, il suo senso. Definisce i piani comuni tra l’opera e chi ne fruisce stabilendo la possibilità di un confronto e quindi affermando la sua inscalfibilità. Ciò riguarda anche il teatro, anche se nel teatro l’opera non c’è. Il teatro è l’arte, come la musica, che non produce il suo oggetto, non lascia, al termine del processo creativo, un’opera che ne rappresenti il culmine e il termine. Non un’immagine, non un oggetto. Il teatro, tutt’al più, lascia dei pezzi inerti, delle parti inutilizzabili degli elementi che lo hanno composto: un costume, il bozzetto di una scenografia, un copione. La drammaturgia stessa è una forma letteraria che non ha la minima autonomia e, se fatta oggetto di semplice lettura, diventa poco più che il documento di un progetto. Eppure, anche se interamente pervaso dalla struttura letteraria, il teatro offre la possibilità di aprire uno spiraglio fra le sue fitte maglie. L’intuizione che la performatività 43 De Marinis ver8a.qxd_De Marinis 17/11/14 09:26 Pagina 44 teatrale possa essere l’occasione di sfuggire alla condanna dell’individuazione e del tempo storico è un patrimonio comune delle esperienze teatrali del Novecento. Seconda questa tradizione chi agisce sulla scena e chi nello stesso istante assiste non solo condividono il medesimo tempo, ma convivono nell’esperienza del farsi dell’opera, e tale condivisione apre alla possibilità di un nuovo modo di vivere il tempo, «il decorso del tempo nel dramma è una successione assoluta di “presenti”. Il dramma stesso come assoluto, garantisce e crea da sé il proprio tempo. Ogni istante dell’azione drammatica deve quindi contenere il germe del futuro»14. La messa in discussione delle strutture dell’opera porta necessariamente alla messa in discussione della concezione temporale cronologica, al prefigurarsi di un «presente [che] passa operando un mutamento, e dalle sue antitesi sorge un nuovo e diverso presente»15. Da ciò balena la possibilità di una temporalità alternativa. Tuttavia sostenere che l’attore possa vivere un tempo assoluto, definitivo e in grado di contenere un’esperienza veritativa è un’utopia. Vivere un tempo eterno, o un frammento vuoto di tempo lineare, è un paradosso. Il tempo così immaginato è già finito nel nostro pensare, determinato anche dall’assenza e ricondotto alle ragioni di Chronos. Ma il tempo dell’aion non è una mera ipotesi logica, né la memoria di una visione del mondo ormai remota e per noi in parte incomprensibile. Esperire una temporalità diversa da quella cronologica è in realtà possibile in diverse occasioni, nel sogno oppure negli stati di trance, anche se nessuno di questi esempi ha direttamente a che fare con l’aion. Ma non è importante definire la qualità psicologica o filosofica di questa temporalità pre-individuale, è necessario, piuttosto, in questa sede, collocarla in un’esperienza storicamente individuabile, la Grecia arcaica, che ha visto nascere le prime forme teatrali. È proprio il teatro nella sua origine a recare traccia della possibilità di vivere il tempo dell’aion. L’arte greca più in generale è espressione di una duplice concezione del tempo dove alla fredda successione cronologica si affiancava una temporalità profondamente legata ad ogni istante della vita. 44 De Marinis ver8a.qxd_De Marinis 17/11/14 09:26 Pagina 45 Ma l’attore può farsi testimone di un tempo diverso da quello quotidiano, anche se non può viverlo sulla scena e, tanto meno, farlo vivere a chi assiste al suo lavoro. Come può avvenire tutto questo? La natura non si palesa ma si nasconde, sì che bisogna con mille astuzie e quasi frodi, e con mille ingegni e macchine scalzarla e pressarla e tormentarla e cavarle di bocca a marcia forza i suoi segreti: ma la natura così violentata e scoperta non concede più quei diletti che prima offriva spontaneamente. [...] Le bellezze dunque della natura conformate da principio alle qualità ed ordinate al diletto di spettatori naturali, non variano pel variare de’ riguardanti, ma nessuna mutazione degli uomini indusse mai cambiamento nella natura, la quale vincitrice dell’esperienza e dello studio e dell’arte e d’ogni cosa umana mantenendosi eternamente quella, a volerne conseguire quel diletto puro e sostanziale ch’è il fine proprio della poesia (giacché il diletto nella poesia scaturisce dall’imitazione della natura), ma che insieme è conformato alla condizione primitiva degli uomini, è necessario che, non la natura a noi, ma noi ci adattiamo alla natura.16 Questa riflessione si inserisce nella polemica letteraria che si sviluppò, all’inizio dell’Ottocento, fra i sostenitori delle nuove istanze romantiche e i difensori dell’estetica classicistica. In realtà il classicismo di Leopardi consiste in una costante ricerca rivolta all’indagine dell’origine, e la categoria di natura sta qui ad indicare uno stato umano oltre che una categoria ontologica, e va riferito più propriamente alla physis dei greci del VI secolo piuttosto che alla natura della filosofia moderna. L’arte viene investita del compito di offrire un approccio alternativo a quello scientifico e positivo che porta la natura a nascondersi e a piegarsi alla lettura che il metodo sperimentale tenta di darne. Sembra quasi che prenda corpo l’illusione che la natura muti i suoi princìpi per uniformarsi alle teorie che pretendono di indagarla. La natura inganna chi forza i suoi segreti e offre quello che da lei si pretende. Leopardi parte dall’assunto, che apparentemente sembra assurdo 45 De Marinis ver8a.qxd_De Marinis 17/11/14 09:26 Pagina 46 negare, che la natura è immutabile. Ma ciò porta con sé la conseguenza che il solo modo di avvicinarsi a lei è quello di uniformarsi alla sua immutabilità. Questo significa abbandonare tutti gli schemi razionali e sociali con i quali abitualmente ci si relaziona alla vita. Si tratta di superare le pretese di dominio sviluppate con la supremazia della tecnica, che è diventata il punto di vista principale attraverso il quale oggi guardiamo al mondo che ci circonda, perché «restiamo sempre prigionieri della tecnica e incatenati ad essa, sia che la accettiamo con entusiasmo, sia che la neghiamo con veemenza»17. Ma si tratta anche di lasciarsi alle spalle gli schemi della letteratura, che portano a esprimere un rapporto con il mondo regolato dagli infiniti rimandi sociali e culturali che creano un struttura destinata a rimanere vuota. Il compito della poesia, e dell’arte in generale, diventa allora quello di recuperare la dimensione primitiva in cui l’uomo non era ancora rigidamente determinato dal suo principio d’individuazione, in cui era ancora in grado di vivere il tempo dell’aion. Ciò attraverso il processo artistico dell’imitazione, cioè quella stessa mimesis che Aristotele pone alla base della pratica teatrale nella Poetica. Chiaramente non si tratta di una riproduzione della parte più profonda della natura che in sé è irriproducibile, né della rappresentazione attraverso un linguaggio codificato di ciò che non può essere classificato se non a costo di stravolgerlo. La mimesis per Leopardi è piuttosto una tecnica che riguarda l’atteggiamento dell’artista, il quale deve fare suoi i princìpi e le suggestioni della natura con cui è chiamato a confrontarsi. Si tratta di adattarsi, quindi di modificare le proprie premesse e le proprie categorie, di modificare tutto se stesso per raggiungere quello «stato primitivo de’ nostri maggiori»18 che consente di attingere ad una condizione originaria perduta. L’imitazione di Leopardi è un processo performativo che riguarda l’artista in prima persona e di cui l’opera è una testimonianza, una traccia. Chi meglio di un attore, proprio quando non è in scena, può liberarsi dalle strutture letterarie e compiere questo itinerario? Quella che potrebbe apparire una condizione paradossale, ovvero 46 De Marinis ver8a.qxd_De Marinis 17/11/14 09:26 Pagina 47 un attore senza scena, è in realtà una situazione privilegiata per frequentare il limite in cui le strutture metafisiche vengono oltrepassate. La scena, o qualsivoglia occasione di confronto con un pubblico, diventa il luogo di una possibile profanazione di questo limite, il luogo in cui si tradisce, pur custodendola, un’esperienza che non può sopravvivere in una forma, per quanto, come il teatro, possa essere libera, aperta e fluida. Seguendo questa prospettiva, la parte più vitale degli studi dei maestri del teatro del Novecento è proprio quella che si riferisce alla natura dell’attore, a quanto un individuo, come attore e come uomo, può fare per spingersi sino alla soglia imposta dalla propria creatività oltre la quale il lavoro si cristallizza in un’opera, in uno spettacolo, in una prova, in una improvvisazione. Esiste la possibilità, per alcuni, di oltrepassare i limiti assegnati all’arte in generale e al teatro in particolare seguendo un percorso di frequentazione della tecnica fino a che il confronto con essa non conduce a un momento di apertura, alla scoperta di un’essenza che non è più limitata al tema dell’espressività, della rappresentazione, della comunicazione, al rapporto con il personaggio, alla relazione con il pubblico e a ogni elemento culturale che definisce le strutture portanti di una qualsiasi convenzione. Un’essenza che riguarda l’uomo nella sua totalità. Ed è in questo orizzonte che l’attore conosce se stesso innanzitutto come parte di un insieme non individuato. Lo studio e la ricerca del Novecento tracciano nettamente la separazione tra il lavoro dell’attore su se stesso e quello della scena. E gli stessi studi spesso hanno testimoniato come sia impraticabile trasferire in modo convincente sul piano della costruzione scenica l’intensità di queste pratiche vissute proprio quando l’attore è meno costretto nel suo ruolo di attore, ma nonostante questo ne frequenta profondamente la natura. Al di qua di questa soglia è possibile frequentare il limite di un’esperienza conoscitiva che nell’opera può trovare, nella migliore delle ipotesi, solo un riverbero. Un riverbero che tuttavia, conservando ancora parte della potenza che lo ha originato, costituisce il valore principale dell’opera stessa. 47 De Marinis ver8a.qxd_De Marinis 17/11/14 09:26 Pagina 48 Note 1 André Breton, L’arte magica, Adelphi, Milano 2003, p. 101. 2 Martin Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1997, p. 135. 3 Immanuel Kant, Critica della ragion pura, trad. it. di Giorgio Colli, Adelphi, Milano 2004, p. 163. 4 Giorgio Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1998, p. 65. 5 Immanuel Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 7. 6 Martin Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 80. 7 Friedrich Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano 2007, p. 15. 8 Jacob Burckhardt, Sullo studio della storia, Boringhieri, Torino 1968, p. 18. 9 Ivi, p. 23. 10 Friedrich Nietzsche, Sull’utilità e il danno..., cit., p. 16. 11 Giorgio Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano 2008, p. 63. 12 Ivi, p. 62. 13 Ivi, p. 61. 14 Peter Szondi, Teoria del dramma moderno, Einaudi, Torino 1992, p. 12. 15 Ibidem. 16 Giacomo Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, BUR, Milano 2007, pp. 82-83. 17 Martin Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 5. 18 Giacomo Leopardi, Discorso di un italiano..., cit., p. 83. 48