MICELI VINCENZO Nacque il 18 novembre 1733 a Monreale, dove morì il 12 aprile 1781. Fondatore della Scuola monrealese o “ontologica siciliana”, viene citato come valente metafisico anche da A. Rosmini. Allievo delle scuole della Compagnia di Gesù, Miceli ebbe una formazione tomista e conseguì il titolo di artium liberalium magister, prima che fosse adottata la nuova Ratio tradendae philosophiae […] pro sicula provincia (1754) improntata ad un certo eclettismo, destinata cioè a sostituire la “vecchia scolastica” ritenuta ormai inadeguata a resistere all’assalto della ragione “illuminata” e della nuova scienza. Un po’ malfermo di salute sin da ragazzo, a diciotto anni concorse per un posto gratuito al seminario arcivescovile di Monreale, dove entrò il 1° gennaio 1753. Qui ebbe il primo stimolo ad una personale interpretazione innovativa nel solco della metafisica tradizionale, dei «Padri Platonici de’ quali singolarmente si dilettava» (SCINÀ II, p. 41). Distintosi per le sue doti di virtù e diingegno, ordinato sacerdote, fu accolto dall’arcivescovo e studioso di diritto F. Testa nel suo palazzo, al quale era annessa una ricca biblioteca. Attraverso il matematico N. Cento ed il leibniziano V. Fleres, conobbe le opere di G.W. Leibniz e di Ch. Wolff, che chiamò insieme a L.A. Muratori «padri e ristoratori delle scienze» (V. Di Giovanni, Il Miceli ovvero l’Apologia del Sistema, 1865, p. 102). Cominciò a stendere alcune confutazioni (animadversiones) delle filosofie precedenti, ma a venticinque anni, convinto che «v’ha bisogno dell’idea distinta, delle cose che vuol dimostrarsi […] togliendo gli equivoci con definizioni esatte, i sofismi con un raziocinio più perfetto» (ms. Saggio istorico di un sistema metafisico, cit. da V.A. Castagnetta, Storia di un metafisico del Settecento: Vincenzo Miceli, [...], 1970, p. 70), Miceli si decise a fondare una sua filosofia, che formulò in uno Specimen Scientificum, spiegò in una Prefazione o sia Saggio istorico di un sistema metafisico e perfezionò nell’Idea di un nuovo Sistema. A trent’anni scrisse le Institutiones Juris naturalis (pubblicate dodici anni dopo) ed iniziò ad insegnare nel seminario di Monreale, dove gli fu affidata la cattedra di diritto naturale nel 1766, anno in cui divenne parroco del duomo di Monreale. Compose quindi l’Ad Canonicas Institutiones Isagoge Scientifico-Dogmatica. Nel 1773, alla morte dell’arcivescovo Testa, Miceli divenne prefetto degli studi del seminario arcivescovile, dove «insieme al Fleres concorse a nobilitare gli studii di Monreale, ma diedero a questi una forma speculativa ed astratta: si amavano colà i padri platonici e si frugavano i libri degli scolastici per trovare, come diceasi, l’oro nel fango» (SCINÀ II, p. 56). Mentre era dedito alla stesura di una Sacrosanti Missae Sacrifici Mistica ac Moralis Expositio, in tredici giorni una malattia lo condusse alla tomba, a meno di quarantasette anni, un anno dopo l’apparizione della Critica della ragion pura di I. Kant. Grazie alla sua fama, Monreale era all’epoca conosciuta come «il paese, e ’l regno della metafisica» (SCINÀ II, p. 49) Tra Settecento e Ottocento Miceli conservò una certa notorietà, ma mentre il suo pensiero continuava a circolare tra i discepoli in copie manoscritte, le opere pubblicate rimanevano solo due: Institutiones Juris naturalis (1776) e Ad Canonicas Institutiones Isagoge […] (1782). Anche per questo egli fu sempre oggetto di facili attacchi: sia dei cartesiani, come il benedettino G.M. di Blasi, poi vescovo di Messina; sia dei “fisici” come lo scolopio G. Guglieri, che combatteva la sua dottrina della unità della sostanza e della ragione sufficiente intrinseca all’essere; sia dei seguaci della «filosofia galante» (cf. G. Natali, Il Settecento, 1936, p. 200) come I. Bianchi che, trasferito a Monreale ad insegnare metafisica, nel 1770 aveva accusato Miceli di spinozismo (cf. B. Caruso, Notizie riguardanti la storia letteraria del Seminario di Monreale, 1878, p. 34). Stessa accusa rivoltagli in forma satirica dal poeta suo contemporaneo G. Meli, aderente al moderno corso sensista: lo metteva in berlina, ma lo definiva «celebre letterato, buon metafisico ed insieme buon cattolico» (G. Meli, Opere, a cura di G. Di Marzo, 1857, p. 52). D. Scinà, docente di fisica e storico della cultura siciliana, riconobbe a Miceli «acume e grandezza d’ingegno» (Scinà II, p. 55) ma giudicò come un ritorno al discorso parmenideo il «metafisico ragionamento» di Miceli che «spiccando dalla terra il volo si mise nelle regioni invisibili dello spiritualismo» (ib., p. 41), predestinandosi perciò all’oblìo: «ne’ tempi antichi, molti sarebbero corsi a Monreale per apprender filosofia, il Micelianismo avrebbe occupato qualche pagina della storia filosofica […] ma i tempi non andavano propizi […]. Non vi è forza che resista all’impero della moda» (ib. , p. 56). Della “scuola ontologica siciliana” che prese vita da Miceli, furono molti i discepoli fedeli che ne difesero il pensiero e la memoria: V. Fleres, che da maestro si fece discepolo di Miceli e, nominato professore di diritto ecclesiastico nella Regia Università di Palermo, basava le sue lezioni sulle dottrine del filosofo monrealese ma per questo nel 1769 venne rimosso dall’incarico, nominato canonico del duomo, poi abate di S. Lucia di Noto e nel 1793 rettore del seminario di Monreale; G. Zerbo che succedette a Miceli alla cattedra di diritto a Monreale e ne pubblicò la prima biografia insieme alla postuma Ad Canonicas Institutiones Isagoge […]; i monrealesi S. Guardì e P. Bruno, i palermitani A. Barcellona e G. Rivarola, abate benedettino nel monastero di S. Martino in Monreale che ne catalogò alcuni mss. La Scuola miceliana ebbe i suoi poeti, come N. Cirino e V. Scafiti, prima allievo e poi professore di filosofia a Monreale e di teologia a Bronte (diocesi di Monreale); ebbe anche insigni giuristi, oltre a Fleres, il famoso N. Spedalieri, prima allievo di Miceli e poi professore (1765) nello stesso seminario di Monreale, autore dell’opera: Dei diritti dell’uomo libri sei nei quali si dimostra che la più sicura custode dei medesimi nella società civile è la religione cristiana (1791). Esponente della Scuola monrealese fu considerato B. D’Acquisto, vescovo di Monreale, che con una sua propria filosofia intendeva concorrere alla diffusione di un “micelianesimo restaturato”. S. Mancino, rappresentante dell’eclettismo in Sicilia, nei suoi Elementi di filosofia scrisse di Miceli pubblicando 56 proposizioni tradotte dello Specimen Scientificum. Il giudizio più autorevole su Miceli proviene dal massimo pensatore dell’Ottocento, Rosmini, che nel Nuovo Saggio sull’origine delle idee scrive: «Nella patria del Vico fioriscono dei pensatori di vaglia come il Miceli al di là del faro e il Galluppi al di qua» e nell’Introduzione alla filosofia: «la sentenza che gli scrittori ecclesiastici hanno tramandato come un vero tradizionale e cioè che “la verità naturalmente veduta dagli uomini, è una parte, un riflesso, un raggio della Verità, che è Dio medesimo”, nella seconda metà del Settecento venne illustrata tra gli altri anche dal Miceli»; in una lettera al barnabita P. Stub (1° aprile 1844) nel consigliare un elenco dei filosofi italiani degni di menzione, Rosmini fa ancora il nome di Miceli. Nella seconda metà dell’Ottocento V. Di Giovanni, preside della facoltà di filosofia dell’Università di Palermo ed autore di una notevole Storia della filosofia in Sicilia, sollecitato da V. Cousin pubblicò in appendice a suoi volumi due mss. di Miceli, rimaneggiandoli ed omettendone alcune parti: lo Specimen Scientificum (1864) e la Prefazione o sia Saggio istorico di un sistema metafisico (1865). Nel Novecento il declino della fama di Miceli fu dovuto anche al severo giudizio di G. Gentile, il quale, arrivato a Palermo nel 1906 come professore di storia della filosofia, definiva quella di Miceli e di Fleres «filosofia dei professori» avversa «allo spirito dei tempi» (lockiano e humiano) e concludeva: «la filosofia ammessa era insomma quella che licenziava la filosofia per lasciare libero il campo alla fisica, alla matematica». Ma «allora bisogna concludere che l’autentica filosofia stava dalla parte del Miceli» (A.V. Castagnetta, Storia di un metafisico [...], cit., p. 58). Scrive di Miceli C. Fabro: «visse nel varco tra la conclusione dei grandi razionalismi post-cartesiani: egli si mostra infatti un fedele ma non pedissequo teorico della “forza” o vis insita leibniziana e fa presagire l’irruzione prepotente dell’a priori kantiano […]. La sua è filosofia nel senso di riflessione radicale sull’essere e sulle sue forme effettive […]. Fra questi [filosofi] ha un suo degno posto anche Vincenzo Miceli» (C. Fabro, Prefazione a R. Azzaro Pulvirenti, Miceli e Rosmini. Con l’opera inedita di Miceli “Idea di un nuovo sistema”, 1990, p. 8). «Se ci fu mai un tempo in cui fu necessario scrivere di religione, e difenderne l’opera con un qualche grande presidio, ed in ciò far confluire la fede e l’autorità dell’uomo, in ciò in cui anche è grande l’amore alla Religione, affinché gli uomini non vengano meno allo sforzo di respingere gli empi, quel tempo è questo […]. Quando dunque scelsi di battermi con tutte le forze […] pubblicai questo libro» (Institutiones Juris naturalis, cit., p. 1). Scopo apologetico e senso civico dunque: Miceli si rende conto che negare qualsiasi attitudine intellettuale e morale all’uomo, al di là della “sensazione trasformata”, conduce alla negazione di qualsiasi tradizione culturale ed autorità politica e religiosa. Il corso della storia andrà in senso opposto e lo spirito rivoluzionario sposerà la causa antimetafisica: conferma del fatto che Miceli aveva visto giusto, quando si proponeva di combattere con le stesse armi culturali dell’Illuminismo. Allora era la battaglia del cristianesimo contro il deismo, che ammetteva Dio al tavolo delle dissertazioni scientifiche e civili ma negava il valore della religione con i suoi dogmi, con i suoi canoni e con i suoi riti. Il monrealese dà prova della sua originalità già nella Prefazione di questa prima pubblicazione: partendo da alcuni dati ancora indiscussi (principio di non contraddizione, anima, diritto naturale, Dio), vuole arrivare al senso più profondo dei capisaldi di filosofia e di religione cristiana e giungerne a dimostrare validità ed efficacia per la società civile. Nella sua impostazione gnoseologica Miceli ha un’alta concezione della coscienza, che chiama «senso segreto» che ammonisce e persuade in quanto «regge la parte della nostra interiorità» e corrisponde al «conscire, essere consapevoli: mentre è la Dimostrazione che dirige la parte “esteriore” di noi stessi» (Institutiones Juris naturalis, cit., pp. 3-4). Miceli dà la stessa interpretazione di S. Ignazio sui sintomi della buona coscienza (ciò che dà pace all’animo quando è la scelta giusta), ma vi innesta la vox di S. Agostino e dei Padri della Chiesa, sul male come privazione o carenza di bene: quando l’anima «nel suo recesso, sub mente» passa da questo «bene infinito dal quale scaturisce l’essere, nel quale è, vive, cioè Dio» ad abbracciare il bene finito, sente diminuzione e angustia: le quali sono necessarie, in quanto tutte le creature hanno dei limiti, anzi questo tedium detto «morso della coscienza» che mi angoscia, muove l’anima nella sua sede più intima e la conduce alla scelta che le dà pace, al giudizio retto. Disputate queste cose, «mi si conceda che si dà il bene e il male morale», afferma Miceli ribaltando la “fallacia naturalistica” di D. Hume. «Bisogna infatti invertire l’ordine delle scienze. Sappiamo che c’è un ordine di natura, non perché la cosa dia il bene o il male morale. Assumere uno Iuris come nostro, ci è permesso dalle regole del metodo, perché non siano perturbate le serie delle discipline, che sono precedenti allo Jus naturae, vale a dire: Essere certi di qualcosa; che c’è un’anima e che ha delle leggi nelle sue azioni; che Dio esiste […]. La natura stessa ci guida nel conoscere il bene o male morale, non l’opera del maestro o le discipline, in due sensi: il primo, perché gestiamo questa conoscenza noi stessi nelle viscere della natura razionale; il secondo, perché conduciamo la dimostrazione dall’analisi delle cose confuse alle note e dalle ignote a quelle certe, che ci esimono dal dubitare» (Institutiones Juris naturalis, cit., p. 5). Miceli ammonisce che chi nega il bene e il male morale non ha scuse, né di fronte a Dio, per la voce intima e la testimonianza della coscienza, né di fronte agli uomini, che ne hanno una dimostrazione logica che non possono eludere. D’altra parte però egli afferma apertamente che «le facoltà Teologiche non fanno il cristiano», il che «è proprio invece della grazia interiore, abbracciare cioè la Religione di Cristo […]. Così, i pronunciamenti delle cause del foro non danno il vero diritto; fonte di tutto il diritto è l’unica natura, ed equità […]. Allo stesso modo dunque la scienza del Diritto Naturale non fa di per se stessa l’uomo onesto; ciò è richiesto dalla Coscienza – che Miceli scrive sempre con la maiuscola – e dalla volontà: appare evidente che per questo è nato l’uomo, e non v’è luogo per scuse di alcun genere» (ib.). A che serve dunque la Juris Naturae scientia? Ha una funzione maieutica, da illuminismo cristiano: quel che essa si propone non è di immettere nel cuore dell’uomo la cognizione del bene e del male: «ma dalla natura, e dalle viscere della coscienza riportare alla luce, e raccomandare con gli studi letterari, e tramite essi all’universitas dei mortali, soltanto le cose che abbiamo capito con l’intelligenza, e che rifuggono dal senso, portarle quasi alla luce del Sole e del Giorno» (ib.). Miceli infatti si dice convinto che non perché una proposizione è vera, congrua rispetto alla natura delle cose, noi vi assentiamo senza problemi, semplicemente ammirandola con un intimo assenso; ma «c’è bisogno di una serie di proposizioni che fluisca nel modo dovuto, secondo una legge del metodo, che segua e rispecchi la stessa intima serie delle cose, né receda dallo stesso ordine della natura» (ib.). Per Miceli dunque, c’è un nesso originario tra ordine logico e ontologico, secondo la lezione dell’Aquinate, ma egli è pure figlio del suo tempo, per la fiducia nell’intelligenza che indaga e rispecchia la ragione naturale delle cose e ricerca il loro ordine intrinseco. Miceli si rende conto di non vivere in un universo culturale unico, e che non basta essere convinti intimo animo judicio per convincere perché la forza della verità è “democratica”: l’adesione dell’animo umano alla verità non si può forzare, essa dev’essere libera e non può essere altrimenti, per la sua natura personale. Per il monrealese, ciò si può ottenere se si dimostra un’armonia interiore tra i diversi elementi, che compongono la “grammatica dell’assenso” dell’essere umano, mettendoli in sintonia tra loro: senso intimo e coscienza, ordine delle cose in natura e volontà, facoltà dell’immaginazione e capacità razionali, che permettono di accogliere la verità. Dunque «il suo proposito, in questa trattazione dello Juris naturae, la sua personale intenzione, è questa: ciò che la natura dice in segreto, le cose che insegna nell’intimo di ognuno di noi, trarle fuori in proposizioni certe, e disporle esteriormente con quello stesso ordine, con cui la natura dispose i suoi obblighi all’interno di noi stessi, dei quali la proposizione esteriore è interprete e testimone. Così la trattazione del Diritto Naturale sarà più facile e più sicura» (Institutiones Juris naturalis, cit., p. 6). Giustamente Fabro a proposito di Miceli parla di “un ottimismo cui non siamo più abituati”, non di tipo leibniziano, ma di chi crede in una natura umana divinamente creata e poi assunta dalla Natura divina. «Non c’è niente di più facile – dice Miceli – che muovere le idee di quelle stesse cose, che tacitamente la stessa natura suggerisce; anzi dall’estrinseca enunciazione della preposizione rapidamente emergono nell’anima, e rifulgono, e se non sono cose nuove, ma poste dall’esterno, e delle quali non ci ricordiamo, si oppongono: non vi è niente di più fermo dell’Intelletto con l’Immaginazione, del corpo con l’anima, del senso intimo con la dimostrazione congiunti insieme, per persuadere tutto l’uomo, e vincerlo, con la forza della Coscienza in interiori parte, ed all’esterno con la forza della dimostrazione; nell’intelletto col fulgore della verità, con le idee materiali nella facoltà di immaginare. Il solo senso dell’anima convince noi stessi, ma non ci dà di convincere gli altri; la sola Dimostrazione doma la fantasia, ma non ha presa sull’animo» (Institutiones Juris naturalis, cit., pp. 5-6). Per questo, la trattazione di Miceli non è astratta né razionalista, anzi egli definisce “sofismi impotenti” (inania sophismata) certe elucubrazioni delle philosophorum scholae, che siano la decadente scolastica di maniera o l’emergente Illuminismo sensista. Solo dopo aver chiarito tutto questo, Miceli nomina per la prima volta nella Praefatio la parola philosophia, e quasi per scusarsi: del fatto di non nominare tutti i precedenti del concetto di «senso interiore che ammonisce di natura», e del dover fare riferimento a concetti filosofici già espressi altrove; non vuole con tante ripetizioni «generare quel fastidio che procura il senso di sazietà, che a volte si accompagna all’uso di meditazioni filosofiche». In effetti è imponente l’apparato di note che accompagna in ogni pagina le proposizioni da Miceli methodo geometrico demonstratae (Institutiones Juris naturalis, cit., p. 2). Ma qual è l’evidenza che egli pone a principio di questa scienza del senso interiore? Sulla scia di Aristotele, di S. Agostino e di S. Tommaso, afferma che nella natura dell’uomo è innato il desiderio di essere felice, ingenitus naturae hominum appetitus felicitatis, che si manifesta «in mille modi, che afferiscono a tutti i pensieri della mente e a tutti i moti del cuore, e tale impetus sarà il cardine sul quale ruota questa trattazione del diritto di natura con tutte le sue parti». Miceli si potrebbe dire un romantico ante litteram, se non chiarisse subito cosa intende per felicità: «Felicitas est gaudium nulla temporis intermissione […], non turbata da alcun tipo di dolore, o molestia: è questo l’anelito che brama immediatamente la natura umana, da questo desiderio è mossa, questo dirige sempre tutte le azioni, e, per riposare in esso, si sobbarca di fatiche, sopporta le ingiurie del tempo, sfida i pericoli, gestisce tutte le cose implicate negli affari della vita» (Institutiones Juris naturalis, cit., p. 7). Ma siccome in verità gaudium e voluptas scaturiscono necessariamente dalla cognizione della perfezione [principio wolfiano accolto da Miceli] così come nella imperfezione c’è un certo tedio, essendoci una certa imperfezione in qualunque oggetto, ecco che la natura non può aver pace né stabilire qui la propria felicità: «La felicità ha per oggetto una grande perfezione», e così, dato che tutte le cose nella loro condizione di essenze create sono definite da limiti, e da imperfezioni, è chiaro che «la Felicità non può risiedere in nessuna delle cose create, ma solo in Dio. Da ciò deriva pure, per la natura umana che anela alla felicità, che se vuole godere della perfezione infinita, immensa di Dio, è necessario che lo conosciamo. Perchè la perfezione, senza averne cognizione, non procura gioia né diletto. Questa necessità di conoscere Dio, ed i suoi attributi, che sono la sede e la meta della nostra felicità, porta con sé gli erga Deum officia. Doveri dei quali l’anima non può avere nessunissima idea a partire dalle idee materiali che derivano da udito, vista ed altri sensi» (ib., p. 8). Il dovere «consiste nel cogliere ogni occasione per conoscere le perfezioni di Dio vel ex voce, vel ex scripto». E qui, nell’intersezione tra attività dell’intelletto, coscienza e volontà, entra in causa la filosofia: «Non giungiamo alle conoscenze o alle idee semplici, se non procediamo con quell’opera dell’attenzione sopra le idee materiali. Opera del giudizio, dell’analisi e di ogni altra funzione dell’animo, che la Filosofia abbraccia Meditationis nomine, con il nome di Riflessione» (ib.). Profondamente permeato dell’insegnamento tomista, Miceli ritaglia un ruolo preciso alla riflessione filosofica per la felicità dell’uomo, per il suo dovere di conoscere le infinite perfezioni dell’Essere e perciò di poterne godere appieno: «Da qui si capisce che l’uomo è tenuto alla riflessione (Meditatio) su Dio e sulle cose divine, con la quale pervenire, a partire dalle idee che ha già ricevute, per quanto all’uomo è possibile, all’intelligenza della semplicità di Lui». Da ciò deriva anche la necessità di tenere a bada i sensi, detta Mortificatio, «perché compresa la nostra parte più “temeraria”, garantiamo riflessione vigile e mente penetrante. Se questa è l’unica e vera Felicità, Dio, chi può negare che Egli sia da prediligere con ogni sforzo, ogni importanza, ogni forza dell’amore? Il debito verso Dio chiede amore, perché estendiamo, per quanto sia possibile, la sua gloria; ragion per cui è lecito il Matrimonio, perché si estenda il più a lungo e in largo il genere umano, e rimanga pure la conoscenza ed il culto della vera Divinità. Il Matrimonio è lecito a quest’unico fine di cercare la gloria di Dio, da cui deriva, che non si debba aspettare altro né altro debba essere curato dai genitori, se non che conducano i figli alla conoscenza e all’amore di Dio, che è l’unica e sola Felicità (& amorem Dei, qui est una Felicitas) e li conducano con la voce e con l’esempio agli altri doveri della Religione, e si da luogo ad un’altra parte del Diritto Naturale, detto Jus Oeconomicus; dai doveri verso noi stessi infatti ci si avvicina (est accessio) ai doveri verso Dio» (ib., pp. 8-9). Dopo questa parte del Diritto naturale viene da Miceli chiamata “diritto domestico”, Jus Oeconomicus, Miceli distingue uno Jus politicum, che riguarda i doveri che gli uomini hanno in comune, in quanto hanno un unico fine, al di là dei diversi costumi e tradizioni culturali; ed uno Jus publicum: infatti ciò che la natura buona ha profuso in modo indistinto, per rimediare a cupidigia ed ignoranza è necessario che sia ben distinto, e questo è il fondamento del Diritto naturale ancora Hipothetico, come della società civile, dei suoi capi, dei magistratura, ecc. «Certo né la società naturale né quella civile, sono abbastanza efficaci e potenti da soddisfare tutti i doveri e perciò la felicità a cui conducono è solo parziale, mai assoluta e completamente perfetta: la teologia insegna che ciò appartiene solo alla Società Cristiana. Se perciò uno aspira alla vera felicità, alla felicità totale, deve seguire la legge della Società perfetta, detta legge Canonica. La legge naturale fonda l’uomo, la Civile il cittadino, la Legge Canonica il Cristiano. Ragion per cui, afferma, va trattato prima lo Jus Naturae, perché sia fondamento della Legge Civile; la Legge Canonica, dato che perfeziona ambedue, non la possiamo conoscere, se non prima conosciamo quelle, a cui si aggiunge e che porta a perfezione. Non si tratta quindi di esaminare tutte le specie di leggi vigenti, ma di porne i primordi. […] Così sarà iniziato il cammino da seguire, di una scienza tanto necessaria, di quei rudimenti attraverso i quali giungere, con il vostro studio, ad una Repubblica tanto civile quanto Cristiana. Perseveriamo quindi in un ordine, esibito dallo stesso ordine delle cose, assumendo il principio dal Diritto naturale» (ib., p. 10). Da questa sintesi, fatta da Miceli nella Prefazione all’unica opera pubblicata in vita, si può capire come a molti in Palermo «spiace una cotal mistichità» (SCINÀ II, p. 54), cioè questa sua metafisica che coinvolge il pubblico diritto, con un’accentuazione spirituale che tange la mistica. Miceli ne fu consapevole; dichiarava infatti (nell’opera pubblicata un anno dopo la sua morte) di voler fare precedere a tutto il suo sistema le due opere dello jus naturae e dello jus canonicum, proprio contro coloro che accusavano la sua filosofia di spinozismo e di panteismo: affinché fosse anticipatamente chiaro, dall’esposizione delle conseguenze, quanto fosse sano il suo pensiero, tanto da poter ignorare le maldicenze di quelli, qui modo me fanaticum vocitant, modo non sane religionis accusant (Ad Canonicas Institutiones […], cit., p. 4). Attento alle suggestioni del suo tempo, in cui tra l’altro vigeva ancora l’Inquisizione, Miceli non ha fretta di pubblicare anche perché tiene innanzi tutto all’insegnamento, ma vuole difendersi con il puro strumento della teoresi: «Se lungi dal fanatismo noi filosofar vogliamo, egli è uopo che nozioni reali de’ principii ci procuriamo» (Idea di un nuovo Sistema, cit., p. 72). Afferma infatti che alla base dell’umano intendere vi è il principio di contraddizione, senza il quale nulla si dimostra e non vi è scienza. Il ricorso ad una «ragion sufficiente» è fondamentale come filosofo razionale, non è solo un espediente metodologico, un omaggio alla forma mentis del suo secolo o un’esigenza dello stesso procedere logico, che si esprime attraverso categorie della mente e si confronta con altre dottrine. In molti scritti Miceli premetteva una breve esposizione delle Difficoltà sopra le scienze che intendeva confutare: vale a dire delle obiezioni abitualmente fatte alla possibilità di una conoscenza della verità e delle realtà trascendenti (contro i deisti), per es. quelle dei «materialisti» o di una «setta» che aveva in quel tempo «gran fautori», cioè gli scettici, dai quali secondo Miceli sono generati gli «idealisti» (J. Locke per primo), i sociniani, gli atei. Dopo le Difficoltà, Miceli inizia la sua «Idea esposizione del Sistema» con le parole: «La verità non consiste nella cognizione delle cose, ma sibbene nel loro essere intrinseco talmente che si dia o nò cognizione» (ib., p. 88). Ma vi è una «connessione metafisica» che non si può provare col principio di contraddizione, per la quale «ragione sufficiente distinta dal suo essere in altro non riconosce»; dividere il «vero ente» dal suo «essere vivo» per Miceli è un’idea immaginaria: «errore di ciò par che nasca da una malamente osservata esperienza» (ib., pp. 89-90). Scienza e verità si hanno quando sono inseparabili l’essere, e la ragion d’essere. Miceli si situa nel filone dei filosofi “realisti”, convinti cioè che alle idee nella mente corrispondano realtà esterne, intellegibili in quanto hanno una loro adeguata “essenza” comprensibile: «sembrando ciò impossibile all’intelletto darsi cosa fuor di esso senza suoi costitutivi essenziali, ossia ragione […]. Onde abbiamo in virtù del primo principio, se si dia cosa fuori di noi, dev’ella contener una ragione per cui sia questa che quella, e il contrario sembra all’intelletto ripugnante. Al contrario non par cosa ripugnante che questa ragione per cui sia, non l’abbia d’altri ricevuto» (ib., p. 90). L’essere immaginario invece deriva dalla fantasia umana, la quale ha idee di molte cose conosciute non in se stesse, ma per via d’esperienza; per una «forza innata di combinare», essa combina fra loro l’idea di altri oggetti e unisce uno o più predicati dell’uno e dell’altro e forma una terza idea, e in tal modo «ognuno si forma idea dell’essere di qualunque cosa» (A.V. Castagnetta, La metafisica di Vincenzo Miceli [...], 1972, p. 93). Nella sua speculazione Miceli rifugge le astrazioni, si erge contro il «possente sofisma che in virtù di definizioni nominali vuol conchiuder la real connession metafisica» e afferma con vigore: «Voglio dunque concesso questo punto: che ogni vero essere se se ne dà fuori dell’intelletto, abbia la ragion sufficiente del suo vero essere in se medesimo e non l’abbia ricevuto d’altro, o almeno che provar non si può […]. Vera cosa è che noi dir non possiamo che siavi una cosa se del suo Esser almeno idea confusa non abbiamo» (Idea di un nuovo Sistema, cit., pp. 92-93). Per Miceli dunque l’evidenza del vero conoscere non è puramente soggettiva come nel cogito cartesiano, ma è ontologica: consiste piuttosto in una ragione che riesce a penetrare (intus legere) l’essenza delle cose, nel loro ordine, distinguendo l’interna radice dagli accidenti o fenomeni. Al di là della sua formazione accademica, si può affermare che l’idea della metafisica che ispira Miceli è quella del De Antiquissima Italorum Sapientia (Napoli 1710) di G.B. Vico, cioè il criterio fondamentale del Verum et factum convertuntur. Miceli si situa in un filone di continuità speculativa con la tradizione filosofica cristiana, secondo la distinzione fatta a suo tempo da S. Tommaso: tra essere ut actus ed essere ut verum, distinzione che contempla anche la verità della composizione fatta dal pensiero. L’essere infinitamente vero è dotato di infinita realtà, quindi “sussiste a se stesso” come “vivo, agente, sempre nuovo”, intelligente, sapientissimo, onnipossente, infinitamente amante del bene: in una parola il vero Essere è Dio. Miceli trapassa insensibilmente dal piano logico al piano metafisico, dalla necessità di una «ragion sufficiente ultima» al concetto di causa, già additato da Tommaso d’Aquino come primo ed unico a fondare ogni procedimento, sia logico che reale. Un Essere che assolutamente è, infatti, non può avere l’esistenza da un altro diverso da sé, altrimenti sfuggirebbe all’impero del principio di contraddizione; non si può dare altro essere vero e reale, dunque, se non quello che ha in sé la ragione della sua esistenza. Miceli sin dall’inizio mira a trapassare dal piano logico a quello metafisico – da una “ragion sufficiente ultima” che qualifica l’essere, al concetto di causa da parte di un “Essere vivo” in quanto ha in sé la ragione dell’azione – e finalizza le proposizioni logiche che precedono, nello Specimen Scientificum, a quelle ontologicamente più pregnanti, del tipo: «XL. Si datur ens reale et actio, unicum datur esse, idque vivum»; «XLIII. Onnipotentia nihil aliud est nisi status essentiae infinitae novus, seu melius ratio agendi, quae semper stat infinite nova» (Specimen Scientificum, cit., p. 189). Questo stringente modo di filosofare venne giudicato “alla Leibniz e Wollf” e vicino a quello di G. Bruno e B. Spinoza, dal quale egli invece rimarcò le distanze: essere reale ed essere ideale non possono andar confusi, come se ci fosse un’unica sostanza nella molteplicità materiale degli enti, ma nemmeno separati: c’è tra essi un legame trascendentale ma inscindibile. Miceli ribadisce in ciò la sua distanza da Spinoza: «In questo punto chiaro apparisce quanto discorde sia il nostro col Sistema del Spinoza: Egli che una sol sostanza reale, ed unica Essenza è vero ma questa composta, vale a dire molteplicità di sostanze qual è la materia. Vero è che unica chiamolla, ma in verità ed a parte rei moltiplice esser dee perché la materia, come si sa, consta di tanti punti fra se divisi in essenze; il mio stabilisce un Essere, ma questo Semplice; onde le conseguenze di questi due sistemi fra sé oppostissime esser deggiono» (Idea di un nuovo Sistema, in R. Azzaro Pulvirenti, Miceli e Rosmini [...], cit., p. 96). «Insomma; – spiega in modo quasi sbrigativo – non perché nel Mondo intelligibile uno è il vero Essere, per questo nel mondo aspettabile moltiplicità delle sostanze secondarie negar si deve. La non distinta cognizione di questi due Mondi è stata causa di tanti errori, e perpetuo inviluppo nella filosofia» (Saggio istorico di un sistema metafisico, cit., p. 138). Se non si tenesse in gran conto tale distinzione, si potrebbe accusare di panteismo non solo Miceli ma lo stesso S. Tommaso, il quale scrive tranquillamente che «tutte le cose si trovano invece perfettamente e secondo la propria ragione di essere nell’essenza di Dio, che è la prima e universale virtù operativa da cui procede tutto ciò che si trova in qualsiasi realtà» (Summa Theologica, I, q. 55, a. l). Questo nodo sapienziale che collega gnoseologia, ontologia, antropologia e teologia, emerge nel tema della creazione: cioè il modo con cui tutte le cose si trovano nell’essenza di Dio “secondo le ragioni proprie”. Particolare importanza riveste qui quell’idea di “Esemplare del mondo”, che Miceli vede come “relazione” tra l’Onnipotenza e la Sapienza, della quale si trova la definizione nella Theologia Naturalis dello Specimen Scientificum: «LXII. Sapientia nihil aliud est, nisi status, seu modus essentiae intrinsece cognoscentis infinitam novitatem; seu esse infinitum subsistens in cognizione intrinseca Onnipotentiae, et per consequens rerum omnium»; meritevole di menzione anche il collegamento tra intelletto e amore: «LXIV. Charitas nihil aliud est, nisi motus, vel status Essentiae sibi complacentis in cognitione intrinseca infinitae perfectionis; seu Esse infinitum subsistens in complacentia infinitae perfectionis intrinsece cognitae» (Specimen Scientificum, cit., p. 192). Vi è dunque un tipo di “conoscenza integrale” diversa e più completa di quella puramente razionale, come ci viene confermato dalle successive proposizioni della Cosmologia: «Mundus adspectabilis est quiquid actu observatur (LXXXVII)», «contingens est (LXXXIX)», «ergo in tempora (LXL)». Al contrario, il «Mundus intelligibilis in Essentia reali est (LXLI)»; da qui una sorprendente conclusione, nella proposizione che immediatamente sussegue, a proposito di quel principio di contraddizione che sembrava essere l’unico asse portante del sistema miceliano: «LXLII. Principium contradictionis, habetur per esperientiam sive internam sive externam, non vero per cognitionem realem» (ib., p. 200 ss.). Cos’è infine per Miceli questa cognitionem realem? Non è la “cognizione intellettuale”, che pure è “più nobile e sublime” di quella empirica (cf. Idea di un nuovo Sistema, cit., p. 126). Possiamo trovarne spiegazioni nel Saggio istorico di un sistema metafisico: «perché poi con una sola cognizione ha da conoscere quest’Ente perfettissimo l’essere suo sì nell’intrinseco, sì nell’estrinseco, ecco il secondo termine, che ha da avere questa Forza viva. Questo è un termine diverso dal primo, perché ha d’avere per oggetto tutto l’essere colle infinite sue novità. La cognizione ha da avere il suo oggetto, e così la cognizione reale dell’Essere perfettissimo ha da avere l’oggetto perfettissimo, e questo è l’essere stesso vivo con tutte le sue novità; e quantunque le continue novità, e la cognizione nascono dall’istessa onnipotente Forza, però i termini sono diversi, talmente che le continue novità non sono la cognizione, né la cognizione è le continue novità» (Saggio istorico di un sistema metafisico, cit., p. 109). Miceli evidenzia con sufficiente chiarezza questo concetto: le continue novità che sono le idee divine cioè l’Esemplare del Mondo in quanto termini diversi, non sono l’Oggetto perfettissimo della cognizione, cioè l’atto della Sapienza stessa. Interessante notare che l’esame delle modalità dell’atto creativo, quindi delle Idee divine, ci rimanda ancora una volta al meccanismo, diverso, del nostro conoscere. Per il monrea1ese ciò che dà necessità ed universalità al conoscere – il principium cognitionis – non è solo la divina lux, ma anche l’oggetto lume, inteso ontologicamente da lui attraverso il principio di contraddizione: lo chiama lumen interius, ed è per lui il termine della relazione con la divina lux. S. Tommaso aveva accentuato l’aspetto di passività dell’essere, che è in quanto partecipa dell’Essere assoluto il quale, con questa speciale relazione con esso, non solo lo crea ma lo mantiene in essere: «La creazione determina una entità nella cosa creata soltanto secondo la categoria della relazione» (Summa Theologica, I, q. 45, a. 3). Per Miceli, come abbiamo visto, l’Ente “sussiste a se stesso” come “vivo, agente sempre nuovo”. La relazione con tale Essere (assoluto) avviene con un elemento permanente di novità e la creazione non è altro che questo, in realtà: creatio […] nihil est aliud realiter, quam relatio quaedam ad Deum cum novitate essendi (Tommaso d’Aquino, De Potentia, q. 3, a. 3). In questa impostazione Miceli appare degno erede dell’Aquinate e di quell’idea più antica di Sophia o Sapienza divina espressa nella Sacra Scrittura e nella Patristica: pur distinguendo il divino da Dio, continua ad interessarsene come sintesi reale di un atto creativo, che non si è certo esaurito nel partecipare l’essere al nulla. Da qui la complessità della concezione di Sophia-Sapienza divina o Logos che opera nel cosmo, si è incarnato nella natura dell’uomo e dunque continua ad agire nella Chiesa e nella storia. Questa influenza non riguarda solo le “cause seconde” ma si intende riferita prima di tutto alla causa prima del nostro essere, l’atto creativo: anche se in se stesso a noi sconosciuto o addirittura inconoscibile, esso comporta una reale misteriosa partecipazione dell’essere umano all’Essere del suo Creatore. Per questo motivo la metafisica miceliana pone il concetto di creazione al centro del suo procedere, come sottolinearono con spregio alcuni suoi detrattori quando egli era ancora in vita. Non si tratta però di un punto di partenza, come a far derivare la filosofia dalla teologia, ma del punto di arrivo di una serrata speculazione sull’uomo, sulla sua mens e sul suo destino. Per questo gli interessi e le argomentazioni di Miceli sono di una complessità che spazia dalla pura logica allo scandire del tempo liturgico. L’indagine approfondita sull’uomo sul suo modo di conoscere e di relazionarsi con la realtà – con ciò che è, in modo assoluto e relativo, a partire dallo Jus naturae – lo porta alla conclusione che lo stesso pensiero nel suo procedere logico non sarebbe possibile, non sarebbe vero, senza quell’idea di essere infusa nella creatura all’atto stesso della creazione (come dirà più chiaramente Rosmini). Creazione qui si intende come un relazionarsi – intellettivo oltre che esistenziale – dell’essere relativo con l’Essere assoluto, che lo crea nel momento in cui se lo rappresenta, ponendolo come termine del suo pensiero, e facendone così un termine relativo in relazione a se stesso (termine assoluto di questa relazione); lo crea quindi in tutta la sua autonoma specificità – data dai suoi termini o limiti determinati – ma insieme in tutta la sua dipendenza ontologica, iniziale e continua, per l’essere ricevuto di cui continua a partecipare, appunto essendo e conoscendo ma restando se stesso, in quanto essere dato, cioè in una relazione di dipendenza cosciente e libera con l’Essere assoluto. Proprio parlando della creazione anche Miceli si serve del paragone del mare (ereditato da s. Giovanni Damasceno e da S. Tommaso d’Aquino). Così egli – in una maniera di filosofare che non era estranea ad alcuni dei migliori spiriti del tempo, come Vico – poeticamente visualizza la distinzione tra l’ente che è, perché partecipa, “fa parte” di quell’Essere che invece è “in atto”. Miceli si può esprimere, senza essere per ciò panteista, col dire che l’onda è quella, determinata, pur essendo una l’acqua del mare, l’Essere, che non si accresce né diminuisce. Miceli usa la parola «emanazione» (cf. Institutiones Juris naturalis, cit., p. 32) ma, notava un suo discepolo, la usa anche S. Tommaso (cf. B. Caruso, Notizie riguardanti la storia letteraria del Seminario di Monreale, cit., p. 37): che il senso differisca da quello ortodosso e si rifaccia allo stampo plotiniano, sarebbe tutto da dimostrare. A nostro avviso, Miceli intende la stessa cosa, solo considerata dai diversi punti di vista, come la suddetta distinctio rationis insegna: dicendola “emanazione” a parte Creatoris e “partecipazione” a parte creati e i due termini poi si unificano nell’unico di creazione. Nel soppesare il concetto di creazione, occorre ribadirlo, le distinzioni non sono superflue: è fondamentale evitare l’indebito passaggio – in cui la materia trattata induce a scivolare facilmente – dall’ordine logico all’ordine ontologico, senza identificare i due piani – reale e razionale – né confondere il divino con Dio. Servendoci del suo esempio, riguardo all’essenza che sarebbe «in sé tutta ideale, reale solo la causalità», si potrebbe dire che l’essenza dell’onda-acqua distinta ma dipendente dal suo essere mare, non ne vede esclusa però, per questo, la sua realtà. Anzi il fatto che possiamo pensare l’onda – pensarne l’essenza indipendentemente dalla sua esistenza – senza porre l’identità reale di essenza ed esistenza, significa riconoscere la differenza ontologica che ci consente di non ridurre l’essere (l’acqua) all’essenza (l’onda). Certo non esiste l’onda realmente, prima che la sua essenza o il suo essere acqua venga determinata nei limiti propri. Ma l’essenza rimane uno degli elementi costitutivi, secondo Miceli, di questo compositum reale che è l’ente creato; composto appunto di essenza ed atto di essere (cf. R. Azzaro Pulvirenti, Miceli e Rosmini. Con l’opera inedita di Miceli “Idea di un nuovo sistema”, cit., pp. 4950). «Così l’acqua del mare esiste sempre in continue azioni, che onde s’appellano. L’onde continue, sono i termini dell’acqua; queste sono continuamente varie e non sono altro in sostanza che l’acqua medesima […]; ogni cosa in questo mondo contiene forza, dunque conato continuo, dunque mutazione continua di stato e termini […] Non dissi azioni diverse e la sostanza, e ’l positivo che trovasi in ogni azione, perché queste in se medesime sono l’istessa Essenza. Ecco dunque innestata in modo mirabile e sorprendente nell’istesso Essere, la Necessità con la Contingenza» (Idea di un nuovo Sistema, in R. Azzaro Pulvirenti, Miceli e Rosmini. Con l’opera inedita di Miceli “Idea di un nuovo sistema”, cit., pp. 98-99). L’essenza non è quindi uno stato ideale della realtà, che poi si concretizzerà in un atto di esistenza identificandosi con esso, come pare abbia pensato Avicenna criticato da Fabro. Non così Miceli: «Se tra onde e onde, che sono i termini dell’acqua, oltre il positivo, di cui tutte partecipano, non si dessero limiti, esclusione, niente, resterebbe il mare acqua, e non onda; determinati limiti estrinseci danno all’acqua l’essere questa determinata onda più tosto che quella» (Saggio istorico di un sistema metafisico, cit., p. 119). Alla luce delle considerazioni fatte possiamo dare di Miceli una valutazione totalmente diversa, sia rispetto a quella di molti suoi contemporanei che di altri del secolo seguente. Lo storico Di Giovanni per es. nutriva un’enorme stima per la personalità e per l’ingegno speculativo di Miceli ma, da convinto giobertiano, non seppe vedere in lui che un secondo Bruno: questo suo deciso indirizzo interpretativo distorse la comprensione dell’autentico pensiero del monrealese, fino a fargliene fare un altro «platonico panteista». Ci pare che si sia evidenziata da sé la superficialità di questa visione; anche perché Miceli ebbe il dono, raro, di pensare con la sua testa, che pure era zeppa di concezioni dei filosofi della classicità greca e della patristica cristiana, del Medioevo, del Rinascimento e della sua epoca. Quando ne cita qualcuno, è spesso per prenderne le distanze, come da Spinoza. Per il resto egli si accomuna ad essi, se ne fa compagno di strada dimenticando se stesso di fronte non solo alla potenza intellettiva, ma alla grandezza dell’Oggetto del pensiero. Dal suo ragionare si resta affascinati per l’agilità di trapassare dal piano logico al piano metafisico, dal filosofico al teologico, senza alcuna sorta di remore o di complessi di inferiorità nei confronti della cultura sensista e illuminista in auge nel suo tempo; ma nemmeno atteggiamenti di superiorità nei confronti del cristianesimo e dei suoi Misteri. Compenetrato dell’idea biblicoplatonica di Sophia, egli cerca piuttosto le “condizioni per pensare” la verità, anche quelle verità non direttamente dimostrabili da parte della filosofia, che può però introdurre a questo tipo di verità, dimostrando che hanno una loro logica e che nulla impedisce di credervi. Né per questo la filosofia deve ridursi allo Spirito e trascurare la “materia”. Miceli affronta temi come la fisicità del mondo, il tempo, il moto, lo spazio, con una disinvoltura che pochi azzardavano dai tempi di Aristotele e di Agostino, ma anche degli stessi filosofi-scienziati in voga al suo tempo, com’egli stesso vedeva chiaramente: «I fisici disprezzano la metafisica, come una cosa puramente ideale, i metafisici la fisica come una cosa troppo bassa» (ib., p. 138). Il procedimento speculativo del Miceli, pur essendo astratto e metafisico, non è razionalista ma «impegnato ad illuminare la mente ed agitare i sentimenti – sono i due poli della sua fervida scrittura speculativa – per cogliere in scambievole azione le due forze originarie dello spirito […] mostra con foga ed entusiasmo le linee maestre, con una sicurezza ed un ottimismo che noi oggi sentiamo certamente molto distante dai dubbi e dalle oscillazioni che ci aggrediscono, impietosi, da ogni parte […]. Per il Miceli, come il lettore vedrà con abbondanza di riferimenti e continua presenza il primo principio nella struttura degli esseri è la “forza” di evidente e professata derivazione leibniziana, che fa alle volte pensare (ma è piuttosto un’illusione!) alla centralità dell’atto nella concezione metafisica aristotelico-tomistica ch’egli, come tutta la filosofia del suo tempo attirato dall’ombra del Vico – secondo l’acuta osservazione della curatrice della presente prima edizione – svolge con ardimenti spesso imprevedibili ma non inutili, col loro moto contrario: per noi oggi, invece, frantumati nella polvere della dissoluzione ultima dei sistemi dell’Ottocento, che rifiuta come principio metodologico la riflessione metafisico-teologica, che qui invece domina sovrana» (C. Fabro, Prefazione a R. Azzaro Pulvirenti, Miceli e Rosmini, cit., p. 8). Miceli intende con ciò inverare quel concetto di Sophia-Sapientia divina di origine platonica e patristica, di Logos incarnato come esemplare o “specchio della perfezione” del creato ed in particolare della creatura umana, che dalla scolastica in poi, dal significato originario di sapida scientia, si era sempre più sbiadito; per poi inaridirsi quasi del tutto nella cultura occidentale postcartesiana, con alcune significative eccezioni, tra cui per es. Rosmini. Al cuore della Sophia, cioè di questa concezione sapienziale integrata dell’essere e del pensiero, vi è la convinzione che quello filosofico è discorso umano e religioso: «La vera e soda strada della perfezione da due cose risulta, dalla chiarezza, e solidità della cognizione, e dall’idea, ovvero l’obbietto che una tal perfezione rappresenta» (Idea di un nuovo Sistema, cit., p. 170). Ma Miceli non è uno gnostico, perché «l’oggetto unico della perfezione» per lui è «il già nato Bambino Gesù»: «Quindi dopo le cennate disposizioni passa la Chiesa a celebrare la festa del S. Natale di Gesù Cristo, per dinotare che la pienezza del lume divino necessario per battere la strada della perfezione si comunica, o almeno s’appercepisce da colui che dal mondo si allontana, e si è angustiato nella ricerca della verità, come la Sapienza s’abbia unito all’umanità, la quale da sé sola non era veramente santa» (ib.). In definitiva, il monrealese non si propone un discorso filosofico esaustivo né una “riduzione” in termini scientifici del cristianesimo, come sottolineava Di Giovanni: «Nessuno finora si è impegnato per via di analisi sulla Metafisica di ridurre a sistema scientifico la religione Cristiana» (V. Di Giovanni, Il Miceli ovvero dell’ente uno e reale, cit., p. 229). Sin dall’inizio Miceli dichiarava: «Io dunque ho nell’animo di produrre un semplice ed universale Sistema di tutte le Scienze; non solo di quelle che alla natura si appartengono, ma di quelle altre ancora che sono nel Mondo soprannaturale […] e questo appoggiato ad un solo principio di conoscere il vero» (Saggio istorico di un sistema metafisico, cit., p. 100). Aveva dunque chiaro il suo disegno sin dall’inizio e fino all’Ad Canonicas Institutiones, dove ambiva a dare una spiegazione delle regole canoniche in base ad un’attenta esplicazione dei dogmi. Al culmine del suo sistema quindi Miceli intendeva esporre, in un modo difficile da confutare, la saggezza della Chiesa che «passa a proporci più distintamente l’idea della perfezione»: un’idea che nobilita l’uomo, come ideale di perfezione umana non astratto ma reale, perché «dall’altra parte propone agli uomini l’oggetto unico della perfezione qual è il già nato Bambino Gesù, il quale discende in forma visibile e prende un corpo visibile, accioccché l’uomo non solo per lume di fede vegga le cose come sono in se medesime ma pure (oltre tant’altri fini) leggesse la perfezione in qualche obbietto, ed avesse ex parte Phantasiae l’oggetto della perfezione, e non solo da parte della cognizione, ma anche da parte exteriore ch’è il sensibile, e così non prendesse più idea della perfezione da questo mondo sensibile» (Idea di un nuovo Sistema, cit., p. 170). L’idea di perfezione che la Chiesa propone tramite i vangeli nel ciclo ritmato dei tempi della liturgia per Miceli è importante, perché si tratta della reale possibilità di attuare il destino di felicità dell’essere umano, capace di una conoscenza integrale che è amore: «E per questo finisce la Chiesa il suo Circolo con la solennità della Santissima Trinità […] perché un’anima giunta alla perfezione, poiché gode d’una cognizione netta di fede, altro non vede, e non conosce che un infinito e Trino Essere» (ib., p. 172). Non a caso gli ultimi giorni di Miceli furono dedicati alla stesura di una Sacrosanti Missae Sacrifici Mistica ac Moralis Expositio. Miceli appare degno erede di quell’idea di Sophia-Sapienza divina, che distingue il divino da Dio, la ragione umana dal Logos o Ragione eterna, ma continua ad interessarsi della Sophia divino-umana che informa di Sé il creato e le creature, conferendo loro senso, finalità e bellezza, che trovano espressione anche nello spazio e nel tempo e nella liturgia della Chiesa. L’idea di Sophia-Sapienza di Dio intesa in senso classico, platonico-giudaico e patristico, dominò per secoli la cultura dell’intera Europa, formalizzandosi pure in un preciso spazio iconografico nella tradizione culturale dell’Oriente slavo. Questa idea viva di Sophia si accompagna anche allo sforzo di effettuare una sintesi integrale di religione, filosofia e scienza, nella convinzione che «la ricerca scientifica e la domanda di senso, pur nella specifica fisionomia epistemologica e metodologica, zampillano da un’unica sorgente, quel Logos che presiede all’opera della creazione e guida l’intelligenza della storia. Scienza e fede hanno una reciprocità feconda, quasi una complementare esigenza dell’intelligenza del reale» (Benedetto XVI, 2 maggio 2012). Tale slancio titanico, controcorrente rispetto alle rivoluzioni della storia e seppellito dalla bibliografia ufficiale, contraddistinse questo grande metafisico siciliano del sec. XVIII. Scritti di Miceli a stampa: Institutiones Juris naturalis, Neapoli 1776, Catania 18042; Ad Canonicas Institutiones Isagoge Scientifico-Dogmatica, Neapoli 1782; Specimen Scientificum, in V. Di Giovanni, Il Miceli ovvero dell’ente uno e reale, Palermo 1864, pp. 187-213; Prefazione o sia Saggio istorico di un sistema metafisico, in V. Di Giovanni, Il Miceli ovvero l’Apologia del Sistema, Palermo 1865, pp. 15-342; Idea di un nuovo sistema, in R. Azzaro Pulvirenti, Miceli e Rosmini. Con l’opera inedita di Miceli “Idea di un nuovo sistema”, Stresa 1990, pp. 71-172. Manoscritti. di Miceli: presso la Biblioteca comunale di Palermo: Specimen Scientificum, auctore Vincentio Miceli, metropolitanae ecclesiae Montis Regalis canonico, parocho et eiusdem archiepiscopalis seminarii studiorum praefecto, ai segni 2 Qq A 38; Specimen scientificum, ai segni 2 Qq C 189; Universalis ac veri nominis Philosophiae novum, immo verum Systema methodo matematica idest scientifica exaratum, ai segni 2 Qq C 92, n. 2, questo ms. si trova anche alla Biblioteca benedettina di S. Martino delle Scale, ai segni III A 8 (tutti e quattro hanno lo stesso contenuto, l’ultimo con varianti); alla Biblioteca comunale di Palermo si trovano inoltre: Prefazione o sia Saggio istorico di un sistema metafisico, ai segni 2 Qq F 72 (si trova pure alla Biblioteca di S. Martino, ai segni III A 8); Idea di un nuovo sistema, ai segni 2 Qq C 91 (il contenuto dei tre mss. è simile, ma l’Idea è posteriore e molto diverso); De Societati coniugali, ai segni 2 Qq C 91 (è la III parte delle Institutiones Iuris naturalis); Prolegomenon de vera idea quam habere debet studiosa iuventus de Canonum origine, ai segni 2 Qq C 92 (è il ms. pubblicato nel 1782 col titolo Ad Canonicas Institutiones Isagoge Scientifico-Dogmatica); infine il ms. 2 Qq C 92 contiene diversi brevi mss. inediti: Systema regularum in collisione diversarum legum servandum; Contractuum origo; Idea dell’anno ecclesiastico; Aliqua notanda; Explicatio de eo quod importet operari sub ratione conformi vel difformi; De revelatione fidei; Catechismus festorum; Prefatio iuris civilis; De Spiritu Sacerdotii lineamenta in tredici capita divisa; Prolegomenon primum de Philosophiae natura, origine atque pregressu. Scritti su Miceli: G. Zerbo, Vitae scriptorunque Vincentii Micelii epitome, in V. Miceli, Ad Canonicas Institutiones […], Napoli 1782, pp. V-XXV; B. Ciolini, Biografia degli italiani illustri, a cura di E. Tipaldo, Venezia 1838, vol. VI, pp. 356-358; S. Mancino, Elementi di filosofia, vol. II. Appendice sul sistema metafisico di Vincenzo Miceli, Palermo 1838, pp. 210-212, 18433, pp. 189-191; F. Rinaldi, Novissimum philosophiae systema in contemplationes digestum auctore sacerdote Philippo Rinaldi e Petra Superiore. Psycologia, sub finem operis hujus pantheismus Vincentii Micelii de una cum Deo et Mundo isto spirituali substantia ab autore eodem impugnatur, Panormi MDCCCXLIII; Pantheismus Vincentii Miceli a fundamentis eversus, et penitus contritus ad calcem novissima, et gravis attexitur dissertatio philosophico-dogmatica circa Dei actiones ad extra, Panorni MDCCCXLIII, è un’appendice all’opera precedente, dove si impugna il panteismo “spirituale” di Miceli; G. Meli, Poemettu berniscu circa l’origini di lu mundu, in Opere, a cura di G. Di Marzo, Palermo 1857, pp. 399-409; Id., Ricetta pri lu sistema di Miceli, in Puisii, Palermo 1884, p. 102; Id., Opere, a cura di G. Santangelo, Milano 19662; V. Di Giovanni, Della vita e delle opere di V. Miceli, Palermo 1858, pp. 3-24; Id., Il Miceli ovvero dell’Ente uno e reale. Dialoghi tre, Palermo 1864, pp. 1-69; Id., Il Miceli ovvero l’Apologia del Sistema, Palermo 1865, pp. 1-48; Id., Dom Dechamps e V. Miceli, Palermo 1876; Id., Hartmann e Miceli, Palermo 1877; G. Rivarola, Relazione delle opere di V. Miceli, in B. Caruso, Notizie riguardanti la storia letteraria del Seminario di Monreale, Palermo 1878, pp. 101 ss.; S. Venturella, La scuola Monrealese e la filosofia dell’assoluto in Sicilia nella seconda metà del secolo XVIII giudicata secondo i principi di S. Tommaso d’Aquino, Palermo 1887, pp. 5-15; G. Millunzi, Storia del Seminario Arcivescovile di Monreale, Siena 1895, passim; L. Nicotra, Le ultime scuole filosofiche siciliane, in «Memorie della classe di Lettere della Real Accademia degli Zelanti», s. VIII, vol. V, Acireale 1905-1906; G. Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, Messina 1917, 19622, passim; G. Di Marzo, I manoscriti della Biblioteca Comunale di Palermo, Palermo 1934, passim; G. Natali, Il Settecento, Milano 1936, pp. 199-200; V. Inglese d’Amico, V. Miceli, in «Problemi mediterranei», 17 (1940) pp. 26-30; A Castro, La dottrina del diritto naturale in Sicilia negli anni dell’Unità nazionale; in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 59 (1962) pp. 771 ss.; E. Di Carlo, La filosofia di Rosmini in Sicilia, in «Teoresi», 10 (3-4/1955) pp. 212-227; N. Giordano, Monrealesi illustri, Palermo 1964, pp. 109-121; E. Garin, Storia della filosofia italiana, Torino 1966, p. 1008; A.V. Castagnetta, Storia di un metafisico del Settecento: Vincenzo Miceli, estr. da Saggi e ricerche su Alessandro di Afrodisia, Avicenna, Miceli [...], Padova 1970, pp. 43-75; Id., La metafisica di Vincenzo Miceli: una proposta neo-parmenidea, estr. da Saggi e Ricerche su Aristotele, S. Bernardo, Zabarella, Miceli [...], Padova 1972, pp. 71-100; R. Azzaro Pulvirenti, Introduzione a Miceli e Rosmini. Con l’opera inedita di Miceli “Idea di un nuovo sistema”, Stresa 1990, pp. 11-70; C. Fabro, Presentazione a Miceli e Rosmini, Stresa 1990, pp. 7-8; R. Azzaro Pulvirenti, Miceli e l’idea smarrita di Sophia, in I filosofi del Mediterraneo, Napoli 2012, pp. ***. NARBONE II, p. 383; ORTOLANI II; SCINÀ II, passim; DI GIOVANNI, pp. 381-410; MIRA II, p. 77; DSI, p. 326; CARAMELLA, pp. 93-95; EF 8 (2006) pp. 7420-7421; DBI 74 (2010) pp. 130-132. [R. AZZARO PULVIRENTI]