Farmaci intravitreali nelle malattie retiniche

Società Italiana di Farmacologia (SIF)
Achille Patrizio Caputi e Francesco Rossi *
Farmaci intravitreali nelle malattie retiniche: proprietà farmacologiche e aderenza alla
terapia
Indice
1. Malattie della retina
1.1. Edema maculare
1.1.1. Retinopatia diabetica
1.1.2. Occlusione della vena retinica
1.1.3. Degenerazione maculare senile
1.1.4. Malattie infiammatorie
2. Terapia farmacologica
2.1. Terapia fotodinamica
2.2. Terapia intravitreale
2.2.1. Terapia corticosteroidea
2.2.1.1. Caratteristiche farmacologiche
2.2.1.2. Vie di somministrazione
2.2.1.3. Farmaci corticosteroidei
2.2.1.4. Profilo di efficacia e sicurezza
2.2.2. Terapia anti-VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor)
2.2.2.1. Caratteristiche farmacologiche
2.2.2.2. Farmaci anti-VEGF
2.2.2.3. Profilo di efficacia e sicurezza
2.2.3. Studi di confronto
3. Problematica dell’aderenza alla terapia farmacologica
3.1. Aderenza al trattamento con un impianto di desametasone o fluocinolone
3.2. Aderenza al trattamento con farmaci anti-VEGF
3.3. Aderenza comparativa tra impianto di desametasone ed iniezioni intravitreali di bevacizumab
4. Compliance ed efficacia clinica
5. Conclusioni
* In collaborazione con Alessandra Russo e Liberata Sportiello
1
Abstract
La terapia farmacologica per il trattamento delle malattie retiniche ha compiuto negli ultimi anni notevoli
passi avanti soprattutto grazie alla conoscenza dei meccanismi patogenetici di tali patologie. Per il loro
trattamento le linee guida internazionali e quelle italiane indicano come opzioni terapeutiche la verteporfina
con fotocoagulazione laser, la somministrazione intravitreale di corticosteroidi e di antagonisti del recettore
del fattore di crescita dell’endotelio vascolare (Vascular Endothelial Growth Factor, VEGF).
Sono disponibili diversi tipi di corticosteroidi (triamcinolone, fluocinolone e desametasone) e per evitare gli
effetti sistemici di essi si utilizza la via di somministrazione locale (intravitreale). Ancora più recentemente,
per prolungarne gli effetti e per limitare il numero di somministrazioni, sono stati autorizzati dalle autorità
competenti (FDA, EMA ed AIFA) impianti intravitreali a rilascio controllato (Iluvien®, fluocinolone, e
Ozurdex®, desametasone). Mentre gli impianti di fluocinolone non sono biodegradabili, quelli di
desametasone sono costituiti da una matrice polimerica che si degrada lentamente all’interno dell’occhio e
non richiede rimozione chirurgica. Sempre grazie alle migliorate conoscenze sono poi stati individuati gli
anti-VEGF, i quali hanno visto inizialmente l’impiego del bevacizumab (Avastin®), nonostante che fosse
autorizzato solo come farmaco antineoplastico, e successivamente quello di altri (Macugen®, pegaptanib,
Lucentis®, ranibizumab, e Eylea®, aflibercept) con somministrazioni intravitreali ripetute frequentemente. I
corticosteroidi e gli anti-VEGF sono senza dubbio terapie efficaci, anche se non sono del tutto confrontabili
fra loro a causa dei pochissimi studi diretti di confronto.
Inoltre, sebbene sia i corticosteroidi sia gli anti-VEGF siano capaci di ridurre l’edema maculare e di
migliorare quindi la capacità visiva, esistono delle differenze che possono indirizzare la scelta clinica. I
corticosteroidi hanno proprietà antinfiammatorie e antiedemigene, gli anti-VEGF proprietà antiangiogeniche.
L’uso dei corticosteroidi è generalmente associato ad insorgenza o progressione di cataratta e aumento della
pressione oculare, con una ampia differenza nella frequenza e nella severità di questi effetti tra i diversi
corticosteroidi. Gli impianti intravitreali a rilascio controllato hanno il vantaggio di un’efficacia terapeutica
sostenuta nel tempo, che riduce la frequenza (2-3 l’anno) di somministrazione rispetto agli altri farmaci.
Inoltre, i dati attualmente disponibili non hanno dimostrato un’aumentata frequenza di eventi avversi
sistemici.
Il trattamento con anti-VEGF può essere associato ad un aumentato rischio di stroke e di infarto miocardico
e, come descritto da alcuni autori, si sospetta che la soppressione cronica del VEGF possa avere un effetto
neurotossico sulla retina. Il loro uso non è associato ad uno sviluppo o progressione di cataratta ed il rischio
di un aumento della pressione intraoculare è più basso rispetto a quello registrato con l’uso degli steroidi.
Tuttavia, devono essere somministrati molto più frequentemente (ogni 4-6 settimane).
Al fine di stabilire la terapia migliore per le necessità di ogni paziente, è importante valutare le terapie ad
oggi disponibili non solo in termini di efficacia e sicurezza, ma anche di costi e aderenza al trattamento
stesso. Attualmente, in diversi ambiti (es. cardiovascolare, oculistico, dermatologico, ecc.) si pone molto
l’accento sull’importanza dell’aderenza alla terapia che, seppur efficace, può risultare non soddisfacente se il
2
regime terapeutico non viene seguito in modo adeguato. La compliance del paziente può, quindi, influenzare
l’efficacia clinica in particolare quando si tratta di somministrazioni ripetute.
Gli studi registrativi dimostrano che il numero di somministrazioni dei corticosteroidi, in particolare degli
impianti, è minore rispetto a quello previsto per gli anti-VEGF. Quindi, in termini di aderenza, la scelta
andrebbe nei confronti di quel farmaco che richiede una mono-somministrazione o somministrazioni meno
frequenti e distanziate nel tempo piuttosto che somministrazioni ripetute. Nella pratica clinica si è poi
osservato che molto spesso il regime posologico previsto, soprattutto se frequente, non sempre viene
rispettato. Infatti, gli studi osservazionali di real life (es. AURA, LUMIERE e EPICOHORT), così come i
dati preliminari di un programma di monitoraggio (LUMINOUS) sul profilo di efficacia e sicurezza in
particolare di una molecola anti-VEGF (ranibizumab), hanno evidenziato che il numero di iniezioni di
ranibizumab non è mai superiore a 5 in un anno e che il ridotto numero di somministrazioni intravitreali è
associato ad un minore beneficio clinico sull’acuità visiva. L’aderenza al trattamento con anti-VEGF è
risultata, pertanto, più scarsa rispetto alla terapia con impianti di corticosteroidi.
Uno studio di confronto (Bevordex) tra un impianto di desametasone e l’iniezione di bevacizumab ha
osservato che, in 12 mesi, i pazienti con edema maculare diabetico hanno richiesto un numero di
somministrazioni minori (in media 2,7 somministrazioni di desametasone verso 8,6 somministrazioni di
bevacizumab).
In Italia, non è un momento facile per il Sistema Sanitario Nazionale, sul quale gravano forti tagli di spesa.
Tenuto conto di ciò, si è ritenuto importante affrontare, a livello regionale, il problema dell’impatto
economico/ organizzativo dei trattamenti intravitreali per le patologie oculari. Poiché, come detto, mancano
studi di confronto diretto tra impianti di corticosteroidi e anti-VEGF, la posizione assunta da alcune Regioni,
come la Campania e l’Emilia Romagna, è quella di prediligere, a parità d’indicazione, il farmaco con il
miglior rapporto costo/ beneficio per la prima regione, e il farmaco al costo minore per la seconda. La
valutazione economica del trattamento farmacologico deve prendere in considerazione il costo totale terapia/
paziente/ anno sulla base dello schema posologico degli studi registrativi, che garantisce gli esiti terapeutici
attesi per quel trattamento. Tale regime terapeutico prevede, tuttavia, in particolare per gli anti-VEGF, una
frequenza maggiore di somministrazioni rispetto a ciò che ad oggi avviene nella pratica clinica, con
inevitabili ripercussioni economiche per il Sistema Sanitario. Il contenimento della spesa farmaceutica non è
solo un problema italiano, ma anche di altri paesi, come il Regno Unito, dove l’impiego delle terapie con
anti-VEGF, gravoso in termini di numero di trattamenti e visite, può andare a discapito dei pazienti con altre
condizioni croniche oculari, che potrebbero rimanere privi di trattamento.
In conclusione, i corticosteroidi e gli anti-VEGF sono i principali farmaci ad oggi disponibili per il
trattamento delle malattie retiniche. Tuttavia, la scelta dell’una o dell’altra classe di farmaci potrebbe essere
dettatata non solo dall’efficacia, ma anche dai costi e dall’aderenza alla terapia stessa. Pertanto, tenendo
conto di tali aspetti, gli impianti a lento rilascio di corticosteroidi possono essere considerati farmaci da
utilizzare in prima istanza per la terapia della gran parte delle malattie retiniche.
3
1. Malattie della retina
Le malattie della retina (retinopatie) si manifestano con sintomi differenti secondo quale parte della retina è
colpita. Quelle che interessano la retina centrale (maculopatie) provocano una riduzione della vista, mentre
quelle della retina periferica alterano in genere il campo visivo, riducendo la visione laterale. La macula è
responsabile della visione massima, necessaria per le normali attività quotidiane svolte da un individuo.
La patogenesi delle retinopatie è multifattoriale: giocano un ruolo significativo, l’infiammazione, la
neovascolarizzazione e le perdite vascolari. Per quel che riguarda l’infiammazione, in modelli animali
d’ischemia retinica, è stato dimostrato che i leucociti, aderendo alla parete del vaso, attivano un processo
infiammatorio, che porta alla leakage vascolare, alterando la permeabilità e la perfusione della retina (1,2).
La formazione di neovasi (angiogenesi), che è anche alla base della crescita tumorale e di un gran numero di
altre patologie, sembra avvenire nello stesso modo sia in caso di sviluppo normale che patologico. L’attiva
degradazione enzimatica della membrana basale sottostante rappresenta il primo passo che le cellule
endoteliali devono compiere per dare il via alla formazione di una nuova rete di capillari. La membrana
basale dei capillari e la matrice extracellulare sono, infatti, degradate ad opera di enzimi proteolitici e,
contemporaneamente, si osservano la replicazione di nuove cellule endoteliali e la loro migrazione. Questi
fenomeni conducono alla formazione di spazi inter- ed extracellulari, attorno ai quali le cellule endoteliali si
dispongono in strutture tubulari. Infine, i vasi così formatisi sono stabilizzati da molecole d’adesione e
sostenuti grazie al reclutamento di periciti, cellule muscolari lisce e fibroblasti (3). I vasi neoformati
presentano caratteristiche anomale e spesso dannose, quali alterata permeabilità (con essudazione e
trasudazione vasale), ridotta resistenza meccanica, crescita disordinata al di fuori del tessuto, presenza di
fibrosi e tendenza alla contrazione e alla retrazione.
L’anormale perdita vascolare retinica (iperpermeabilità) è una caratteristica patologica precoce che può
portare a edema maculare, caratterizzato da ispessimento della macula associata ad accumulo di fluido in
eccesso nello spazio extracellulare della retina neurosensoriale (4), con conseguente espansione localizzata
dello spazio retinico intracellulare e/o extracellulare nell’area maculare (5).
Numerose molecole possono indurre l’iperpermeabilità vascolare nella retina, incluse prostaglandine e
leucotrieni, proteina kinasi C, ossido nitrico e varie citochine, quali il fattore di crescita dell’endotelio
vascolare (Vascular Endothelial Growth Factor, VEGF), il tumor necrosis factor alfa (TNF-alfa), l’insulinlike growth factor-1 (IGF-1) e le interleuchine (4).
L’edema maculare, nelle sue diverse forme, è la principale causa di perdita della visione centrale nei paesi
sviluppati; ciò può giustificare l’enorme importanza che è attribuita a questa patologia non solo sul piano
medico ma anche socio-economico (6). La comprensione dei processi fisiopatologici (Tabella 1) è
fondamentale per una gestione terapeutica razionale della malattia (4). Nelle ultime due decadi, l’evoluzione
di tali conoscenze ha portato allo sviluppo di nuovi approcci sia farmacologici sia chirurgici.
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Tabella 1. Meccanismi fisiopatologici dell’edema maculare (4).
Aumentata permeabilità vascolare
Fattori infiammatori e di permeabilità vasale
Stasi leucocitaria
Perdita di cellule endoteliali e periciti
Difetti vascolari congeniti (es. malattia di Coats)
Aumentato flusso ematico
Aumentata pressione intraluminale
Vasodilatazione
Aumentato volume ematico
Disfunzione della barriera epitelio pigmentato retinico
Stress trazionale
Trazione del vitreo antero-posteriore (distacco del vitreo perifoveale)
Membrana epiretinica
Reazioni al farmaco
Migrazione di fluido intraretinico per alterazione della testa del nervo ottico
1.1. Edema maculare
L’edema maculare può presentarsi come complicanza nelle seguenti malattie retiniche (4): retinopatia
diabetica, occlusione della vena retinica, degenerazione maculare senile, altre malattie infiammatorie.
1.1.1. Retinopatia diabetica
La retinopatia diabetica (RD) può manifestarsi in pazienti con diabete mellito (DM) sia di tipo 1 sia di tipo 2
(4) ed è la principale causa di cecità irreversibile in pazienti in età lavorativa in tutto il mondo
industrializzato (7) e ci si aspetta che aumenti in modo significativo a livello mondiale (8).
La durata del DM è un significativo fattore di rischio per lo sviluppo della retinopatia. Infatti, la prevalenza
della RD varia tra il 21% negli individui con diabete insorto da meno di 10 anni e il 76% in quelli con più di
20 anni dalla diagnosi di diabete. In molti paesi, la RD non è solo la causa più frequente di cecità negli
individui di età compresa tra i 20 e i 65 anni, ma è anche una causa comune nella popolazione anziana (9).
Sebbene la RD colpisca 1 paziente su 3 con DM (10,11), la causa principale di perdita della vista in questi
pazienti è rappresentata dall’edema maculare (Diabetic Macular Edema, DME) che colpisce circa il 6,8%
dei pazienti diabetici (12,13). La sua fisiopatologia è complessa, multifattoriale e non del tutto compresa (4).
Sebbene l’aumento del flusso sanguigno retinico possa parzialmente spiegare lo stravaso del liquido nel
compartimento extracellulare, il meccanismo più importante (ed anche una delle modifiche più precoci nella
retinopatia diabetica) è il breakdown della barriera emato-retinica (14) e in questo contesto è stato dimostrato
il ruolo centrale del VEGF (15,16).
L’iperglicemia cronica sembra essere il principale fattore che innesca le complicanze microvascolari, anche
se non sono stati ben chiariti i meccanismi molecolari attraverso cui i livelli glicemici determinano il danno
vascolare e l’edema maculare (16,17). L’iperglicemia attraverso l’accumulo di polioli, la formazione di
prodotti finali della glicazione, la sovrapproduzione d’intermedi dell’ossigeno reattivo e l’attivazione della
protein chinasi C, stimola l’espressione di diversi citochine come il VEGF e determina adesione dei
leucociti, disfunzione vascolare con danno, perdita di cellule endoteliali, aumento della permeabilità, e
alterazione del flusso ematico (14,16,17). Sebbene anche la perdita dei periciti capillari possa aumentare la
5
permeabilità vascolare, è probabile che il fattore predominante sia la disfunzione della barriera endoteliale
(16).
1.1.2. Occlusione della vena retinica
L’Occlusione della vena retinica (Retinal Vein Occlusion, RVO) è la seconda causa di vasculopatia retinica
(18) e la prevalenza aumenta notevolmente con l’età (19). In una ricerca australiana è stato stimato che la
RVO colpisce tra lo 0,7% e l’1,6% degli individui di età superiore a 50 anni, anche se generalmente quelli di
età superiore a 65 anni (20). La diagnosi è basata sull’esame oftalmologico che evidenzia la presenza di
emorragie, di vene tortuose e dilatate e di essudati molli.
La perdita dell’acuità visiva dipende principalmente dal tipo di occlusione della vena retinica (centrale,
Central Retinal Vein Occlusion, CRVO; o di branca, Branch Retinal Vein Occlusion, BRVO) e dal grado di
coinvolgimento della macula: più del 90% di questi pazienti presenta un’acuità visiva non superiore a 2/20. Il
processo di neovascolarizzazione dell’iride e della retina associato ad edema maculare secondario a RVO è
causa d’ischemia retinica in circa il 35% dei pazienti che, soprattutto in assenza di terapia fotocoagulante
retinica, a sua volta determina complicanze anche gravi come glaucoma su base neoangiogenetica ed
emorragia vitreale (21,22). Inoltre, è stato stimato che tra il 12% e il 33% dei casi di CRVO, a insorgenza
non ischemica, diventa ischemica entro 4 anni. Ipertensione arteriosa, diabete e aumento della pressione
oculare associato al glaucoma ad angolo aperto rappresentano altri fattori di rischio per lo sviluppo di RVO
(23).
1.1.3. Degenerazione maculare senile
La degenerazione maculare senile (Age-related Macular Degeneration, AMD) è una patologia degenerativa
che causa la perdita della visione centrale lasciando inalterata quella periferica nei soggetti con età superiore
ai 50 anni (24). Si stima un aumento di questa patologia del 50% entro il 2020 (25). E’ caratterizzata da
lesioni visibili del fondo oculare (zone di alterata pigmentazione). L’AMD neovascolare provoca una grave
perdita della capacità visiva, portando alla formazione di uno scotoma centrale (zona centrale di cecità)
secondario alla formazione di neovasi in prossimità o al centro della macula. Questi vasi sanguigni
neoformati provengono quasi esclusivamente dalla coroide (neovascolarizzazione coroideale) e provocano la
formazione di una cicatrice fibrovascolare che distrugge la retina centrale. L’altra forma avanzata di AMD è
quella definita atrofica, in cui si manifestano alterazioni atrofiche della retina e della corio capillare in sede
maculare.
Una recente ricerca, che ha raggruppato tre studi condotti in diversi continenti su un’ampia popolazione, ha
evidenziato un rapporto tra la prevalenza dell’AMD neovascolare e dell’atrofia geografica di circa 2:1 (26).
1.1.4. Malattie infiammatorie
L’edema maculare è la complicanza più frequente dell’uveite (flogosi dell’uvea, ovverosia la membrana a
struttura vascolare formata dalla coroide, dal corpo ciliare e dall’iride) e la causa più frequente di alterazione
6
dell’acuità visiva in pazienti con patologia infiammatoria intraoculare (6). Di solito si sviluppa in pazienti
con uveite intermedia e posteriore, ma si può manifestare anche in casi di uveite anteriore isolata, in
particolare in pazienti positivi per l’HLA (human leukocyte antigen) - B27.
Il processo patogenetico principalmente coinvolto è la perdita dell’integrità della barriera emato-retinica
interna causata da una serie di mediatori dell’infiammazione generati dal processo uveitico sottostante, tra
cui prostaglandine, leucotrieni e diverse citochine quali le interleuchine, il TNF-alfa e il VEGF.
In alcuni casi anche l’alterazione della funzionalità della barriera dell’epitelio pigmentato retinico
contribuisce all’accumulo di liquidi nella macula.
2. Terapia farmacologica
Secondo le linee guida italiane e internazionali (27-31), le principali opzioni terapeutiche disponibili per il
trattamento delle patologie retiniche sono la fotocoagulazione laser e la terapia fotodinamica con
verteporfina (PDT–V), in grado di determinare un rallentamento nella progressione della perdita d’acuità
visiva, mentre i farmaci intravitreali sono utilizzati da alcuni anni per il trattamento delle maggiori patologie.
2.1. Terapia fotodinamica
La terapia fotodinamica (Photodynamic Therapy, PDT) consiste nell’infusione endovenosa della
verteporfina, un farmaco fotosensibile che si accumula prevalentemente nel tessuto neovascolare.
L’irradiazione con un laser non termico a bassa potenza sulla porzione di retina interessata determina la
formazione di radicali liberi e la conseguente coagulazione selettiva dei neovasi. L’effetto occlusivo è
transitorio e pertanto il trattamento va rinnovato ogni tre mesi. Un ulteriore limite di questo trattamento
consiste nel fatto che determina la formazione di aree atrofiche all’interno della macula centrale nei punti di
applicazione del laser. L’effetto complessivo consiste in un rallentamento della progressione della perdita
visiva, senza tuttavia migliorare la visione.
L’utilizzo della PDT risale ai primi anni 2000 (31) e continua comunque a essere utilizzata in alcune varianti
della malattia, che sono comunque molto più rare.
2.2. Terapia intravitreale
Le molecole più utilizzate sono i corticosteroidi e i farmaci anti-VEGF.
2.2.1. Terapia corticosteroidea
2.2.1.1. Caratteristiche farmacologiche
Studi sperimentali hanno dimostrato che i corticosteroidi controllano l’espressione dei geni dei mediatori
dell’infiammazione, influenzando l’espressione del VEGF, del TNF-alfa e altre citochine infiammatorie e
stimolando contestualmente l’espressione di fattori antinfiammatori quali il pigment derived growth factor
(32-34). I corticosteroidi inibiscono le cellule pro-infiammatorie (es. macrofagi e leucociti), prevengono il
7
rimodellamento della matrice extracellulare, inibiscono nelle cellule muscolari lisce sia l’espressione del
VEGF sia di altre citochine pro-angiogeniche come l’IL-6 (35-38). Inducono anche la sintesi delle
lipocortine, le quali a loro volta riducono la chemiotassi dei leucociti e, inibiscono il rilascio dell’acido
arachidonico (uno dei più importanti precursori delle prostaglandine e dei leucotrieni) dalle membrane
fosfolipidiche. Gli steroidi, infine, sembrano ridurre l’espressione delle metalloproteinasi della matrice
(MMP) e agiscono sulla down-regulation dell’intercellular adhesion molecule 1 (ICAM-1) a livello delle
cellule endoteliali coroidee (39-48).
L’uso dei corticosteroidi nel trattamento delle malattie infiammatorie oculari è stato descritto per la prima
volta agli inizi degli anni ‘50 (49). Il razionale del loro uso consiste nella constatazione che l’anormale
proliferazione delle cellule spesso si associa a infiammazione o è scatenata da essa. Inoltre, l’accumulo di
liquido nella retina di solito si accompagna a disfunzione della barriera emato-retinica, che può essere risolta
grazie all’utilizzo di steroidi. Si ritiene che gli effetti principali degli steroidi includano la stabilizzazione
della barriera emato-retinica, aumentando la funzione di barriera delle tight junctions delle cellule endoteliali
dei vasi (48), la riduzione dell’essudato e la down-regulation degli stimoli infiammatori. Tuttavia l’esatto
meccanismo non è noto.
I corticosteroidi hanno uno spettro d'azione più ampio rispetto alle molecole anti-angiogeniche, poiché
presentano anche proprietà antinfiammatorie e antiedemigene (39,50).
2.2.1.2. Vie di somministrazione
Nel trattamento delle diverse patologie oculari, sono state utilizzate svariate vie di somministrazione.
a. Sistemiche
Tali vie, inevitabilmente, determinano l’insorgenza di una serie di effetti avversi a livello sistemico, quali
osteoporosi, sindrome di Cushing, soppressione surrenalica ed esacerbazione del diabete. Pertanto, il loro
impiego è oggi assolutamente da evitare per le patologie oculari.
b. Locali
b. 1. Iniezioni perioculari
Geroski e Edelhauser hanno dimostrato fra i primi che dosi terapeutiche di steroidi, somministrati a livello
perioculare, tramite l’assorbimento attraverso la sclera, potevano raggiungere il segmento posteriore
dell’occhio (51) e, a seguito di ciò, sono state sperimentate altre vie di somministrazione tra cui quella
subcongiuntivale, subtenoniana, nonché le infusioni iuxtasclerali posteriori (52-54). Tali vie hanno offerto
per molti anni un valido compromesso tra migliore penetrazione e mancanza di effetti avversi sistemici, pur
essendo associate ad outcome morfologici e funzionali più scarsi rispetto a quelli potenzialmente
raggiungibili con l’impiego di somministrazioni intravitreali (55-58).
8
b. 2. Iniezioni intravitreali
Il loro impiego ha avuto inizio quando studi sugli animali, hanno dimostrato che il desametasone, iniettato
nel vitreo, non era tossico per la retina (59-61). Subito dopo questi studi sugli animali, sono stati pubblicati i
primi report relativi a iniezioni intravitreali di corticosteroidi nell’uomo utilizzati per il trattamento
dell’edema maculare diabetico nel 2001 (62) e per l’edema maculare secondario a CRVO nel 2002 (63). Da
allora si è assistito a un incremento del loro uso in pazienti con edema maculare nonostante la mancanza di
trial controllati e randomizzati che fornissero informazioni sull’efficacia e sulla sicurezza a lungo termine
(64).
La somministrazione intravitreale consente agli steroidi di superare anche la barriera emato-retinica,
portando a una dose più concentrata di farmaco per un periodo prolungato di tempo. È importante ricordare
che, prima dell’introduzione dei corticosteroidi nella cavità vitreale, erano necessarie elevate dosi di
corticosteroidi per via sistemica per trattare l’edema maculare (5).
b. 3. Impianti intravitreali
L’uso d’impianti ha rappresentato una vera e propria rivoluzione in quest’ ambito, fornendo una valida
alternativa alle iniezioni intravitreali che in alcuni casi sono frequenti e talvolta addirittura somministrate
mensilmente (65) e, essendo localizzato a livello del vitreo, non solo è associato a una limitata esposizione
sistemica di corticosteroidi, ma può anche ridurre il rischio d’infezioni e di distacco della retina (66,67).
I diversi impianti variano nel farmaco, nel tipo di materiale utilizzato e nelle indicazioni approvate. Infatti, si
può trattare di un impianto non biodegradabile oppure di un polimero biodegradabile che permette un
graduale riassorbimento, eliminando la necessità di rimozione.
Quando si utilizzano impianti intravitreali di formulazioni a rilascio prolungato, il farmaco che si libera crea
un gradiente diffusionale dal deposito alla macula con minima esposizione sistemica.
Una piccola frazione di farmaco agisce sulla macula e in molti pazienti ha un impatto molto positivo sulla
morfologia della retina e sull’acuità visiva; una frazione maggiore di farmaco attraversa la retina e è
eliminata o diffonde anteriormente al cristallino oppure è eliminata attraverso l’iride o una via di deflusso.
Una volta raggiunta la concentrazione terapeutica nella macula, lo steroide normalizza il sistema
microvascolare patologico e controlla in modo efficace l’infiammazione, permettendo il riassorbimento
dell’edema maculare e inibisce la nuova crescita vascolare (68,69).
La somministrazione di tali farmaci tramite impianti richiede l’uso di aghi più grossi (22-gauche), senza
determinare un aumento del rischio di complicanze operatorie (70).
2.2.1.3. Farmaci corticosteroidei
Ci sono forti evidenze che indicano che la struttura chimica di ciascun singolo steroide possieda la capacità
di generare un profilo trascrizionale unico nelle cellule e nei tessuti che determina presumibilmente una
distinta risposta farmacologica per ciascun farmaco che a sua volta inciderà sull’efficacia e sulla tollerabilità.
9
I corticosteroidi presenti in natura (es. cortisolo, cortisone, idrocortisone), così come il prednisolone (steroide
sintetico), mostrano una potente attività sia sui recettori glucocorticoidi che mineralcorticoidi. Al contrario
fluocinolone acetonide (FA), triamcinolone acetonide (TA) e desametasone (DEX) sono potenti agonisti
selettivi per il recettore dei glucocorticoidi e sono quelli utilizzati negli impianti dei dispositivi intravitreali.
Benché siano strutturalmente simili, sono notevolmente diversi per quanto attiene l’idrosolubilità e la
liposolubilità, il sistema di rilascio, la farmacocinetica e le interazioni con i recettori (Tabella 2).
Tabella 2. Grado di potenza dell’attivazione dei recettori per i glucocorticoidi e per i mineralcorticoidi
e idrosolubilità di alcuni steroidi (71).
Steroide
Cortisolo
Prednisolone
DEX
FA
TA
Potenza per RG
(nM)
72
8
3
0,4
1
Potenza per RM
(nM)
0,04
0,015
0,3
>100
>100
Solubilità in acqua
(µg/ml)
280
223
100
50
21
RG= recettore per i glucocorticoidi; RM= recettore per i mineralcorticoidi.
DEX=desametasone; FA=fluocinolone; TA=triamcinolone.
Tali composti si differenziano strutturalmente: FA e TA possiedono un gruppo acetonide stabile C16-C17,
mentre DEX ha un gruppo metilico in posizione C16 e un gruppo idrossilico in posizione C17 (71).
Sebbene l’emivita di eliminazione plasmatica per tali composti possa variare, tale differenza potrebbe non
essere presente a livello del vitreo (71). La frazione solubilizzata di questi 3 composti è rapidamente
eliminata dal vitreo, con un’emivita di eliminazione di 2-3 ore. Questa rapida clearance a livello del vitreo
obbliga l’utilizzo di un sistema di rilascio controllato. Rispetto agli steroidi somministrati con iniezione
intravitreale, l’impianto a lento rilascio di steroidi presenta i vantaggi di una maggiore durata d'azione, di un
numero inferiore di iniezioni e di un minore rischio di insorgenza di eventi avversi (72).
Triamcinolone (TA)
Tale steroide è stato molto utilizzato per iniezioni intravitreali e molto meno come principio attivo per gli
impianti. Il farmaco ha una potenza relativamente bassa (richiedendo dosaggi più elevati), è molto lipofilo e
può presentare cristalli nella soluzione da iniettare (73-75).
La lipofilia è importante perché aumenta la quantità di steroide che si lega alla rete trabecolare e al
cristallino, aumentando l’incidenza di ipertensione oculare e cataratta (73).
La presenza di cristalli è un altro elemento importante. La presenza di essi, infatti, sembra essere la causa
dell’endoftalmite sterile (75) e dell’ostruzione meccanica al deflusso osservata frequentemente dopo
iniezioni di TA. Le formulazioni disponibili, presenti e commercializzate, variano per il numero e le
dimensioni delle particelle, come dimostrato da Zacharias e coll. (74).
10

In Italia l’unica formulazione di triamcinolone acetonide per uso intravitreale autorizzato per uso
terapeutico (specialità Taioftal®) ha la seguente indicazione: “Malattie oculari infiammatorie che non
rispondono agli steroidi per uso locale”.
Secondo quanto riportato nel foglietto illustrativo, questo farmaco dovrebbe essere somministrato alla
dose di 0,05-0,1 ml pari a 4-8 mg di triamcinolone acetonide in un’unica somministrazione per occhio.
Tuttavia, in base al giudizio del medico, sono possibili dosi diverse. Poiché la confezione è di 1 ml, è
necessario quindi aprire la fiala e procedere al prelievo di una frazione del quantitativo, il che pone gli
stessi rischi che si hanno quando si deve allestire il bevacizumab per uso oculare. Inoltre, questa
formulazione di TA si presenta come sospensione di aspetto lattescente lievemente densa per cui il
flaconcino deve essere agitato molto bene per assicurare l’uniforme sospensione del medicinale prima di
prelevare la quantità da iniettare. Bisogna anche accertarsi, prima di effettuare l’iniezione, che non si
siano formati agglomerati. All’uopo, dopo aver prelevato la quantità da iniettare, bisogna
immediatamente procedere alla somministrazione per evitare che nella siringa sedimentino cristalli del
principio attivo. Il farmaco è stato approvato dall’AIFA in classe C (G.U. n. 119/2013), ma non è stato
approvato né dall’EMA (procedura centralizzata) né dall’FDA.
Come già detto, questa formulazione deve essere utilizzata “nelle malattie oculari infiammatorie che non
rispondono agli steroidi per uso locale”, esattamente come riportato nel foglietto illustrativo, cioè nelle
patologie in cui altri corticosteroidi non sono autorizzati. Tuttavia, in letteratura non esistono trial clinici
che permettano, agli estensori della presente review, di valutare la sua efficacia.
Altre formulazioni di triamcinolone non sono raccomandate per uso intravitreale perché non studiate per
tale via. In particolare il Kenacort (sospensione iniettabile di triamcinolone acetonide) non è indicato per
tale via di somministrazione e l’AIFA ha emesso una nota informativa che precisa di “Non usare il
farmaco per iniezione sottocongiuntivale, retrobulbare o intravitreale” (76). Questo perché, a seguito
della somministrazione intravitreale, sono stati riportati endoftalmiti, infiammazioni dell’occhio,
aumento della pressione intraoculare, disturbi della vista e cecità.
Esiste, inoltre, una sospensione iniettabile di triamcinolone acetonide (40 mg/ml) con il nome
commerciale di Triesence indicata solo a scopo diagnostico: “Visualizzazione durante vitrectomia”.

Per quel che riguarda gli impianti intravitreali, l’I-vation™ (68) contiene 925 μg di TA all’interno di un
lega metallica non ferrosa non biodegradabile, a forma elicoidale, delle dimensioni di 0,5 × 0,21 mm. La
forma elicoidale ottimizza l’area di superficie disponibile per ricoprire il farmaco e consente un sicuro
ancoraggio dell’impianto alla sclera una volta impiantato chirurgicamente. Il sistema utilizza anche una
fusione di polimeri polibutil-metacrilato e polietilene-vinil-acetato. Il rapporto tra polimeri può essere
variato per caratterizzare il rilascio del farmaco e la durata (1–3 μg/die o 6–24 mesi). Uno studio
condotto su conigli ha dimostrato la tollerabilità e il rilascio consistente a livello intravitreale dello
steroide (77).
Tale impianto non è commercializzato in Italia.
11
Fluocinolone (FA)
Studi su modelli animali hanno evidenziato che l’impianto può rilasciare il principio attivo in maniera lineare
per un lungo periodo di tempo senza determinare effetti tossici, come dimostrato da analisi cliniche,
elettroretinografiche ed istopatologiche (78,79).
Sugli esseri umani sono stati testati due diversi impianti che rilasciano questo steroide.

Retisert™ (68), non commercializzato in Italia, è un impianto intravitreale non biodegradabile, a forma
discoidale, delle dimensioni 3 × 2 × 5 mm che viene inserito e rimosso tramite un’incisione di 3–4 mm
durante procedure chirurgiche separate. È un elastomero in silicone contenente al suo interno 0,59 mg di
FA. Rilascia il farmaco inizialmente a 0,6 μg/die e alla fine raggiunge uno steady state di 0,3–0,4 μg/die
per circa 30 mesi.

Iluvien™ (68), autorizzato in Italia, è un impianto intravitreale contenente FA in un dispositivo non
biodegradabile a forma di bastoncino delle dimensioni di 3,5 × 0,37 mm. E’ stato ideato per fornire una
piccola dose giornaliera di corticosteroidi per un periodo di 18–36 mesi.
Desametasone (DEX)
Ha un’emivita relativamente breve (circa 3,5 ore), ma è 5 volte più potente rispetto al TA (80-82). Tale
corticosteroide è il principio attivo dell’impianto Ozurdex®.
 Questo impianto è costituito dal Novadur®, un sistema che contiene una matrice polimerica, il D,Llactide-co-glycolide (PLGA) senza conservante. All’interno di tale polimero sono presenti 0,7 mg di
DEX, che vengono rilasciati lentamente (68,83,84). La matrice polimerica si degrada lentamente in acido
lattico e acido glicolico all’interno dell’occhio. Pertanto, l’impianto, una volta inserito, non richiede
rimozione chirurgica.
Studi condotti su animali hanno dimostrato che tale impianto raggiunge una velocità di rilascio costante
nei primi 3 mesi, rallentando poi nei successivi due, quando il 90% del farmaco è già stato rilasciato
(85,86). In uno studio condotto da Chang-Lin e coll. (87) su 34 scimmie (Macaca fascicularis) di sesso
maschile, sono state valutate la farmacocinetica e la farmacodinamica di tale dispositivo. Negli animali è
stato impiantato il dispositivo (0,7 mg) in entrambi gli occhi raccogliendo poi campioni di sangue, di
vitreo e di retina ad intervalli predeterminati fino a 270 giorni dopo l’impianto. I risultati osservati in
questo studio sono riportati nella Tabella 3.
Questo studio dimostra che, dopo una prima fase in cui le concentrazioni di DEX sono elevate, è presente
una seconda fase durante la quale si liberano piccole concentrazioni di DEX per un periodo di circa 6 mesi.
Questa liberazione si associa con un’aumentata espressione genica del CYP3A8 (marker dell’attività
biologica del DEX) nella retina che permane per 6 mesi.
Questo impianto è stato approvato, in Italia, per il trattamento dell’edema maculare diabetico o secondario ad
occlusione retinica e per la uveite non infettiva del segmento posteriore dell’occhio.
12
Tabella 3. Parametri farmacocinetici di desametasone nell’umor vitreo, nella retina e nel plasma di
scimmie dopo impianto del dispositivo intravitreale (87).
Parametro
Cmax
Tmax
Clast
Tlast
AUC0-Tlast
Intervallo AUC
Umor vitreo
Retina
Plasma
213±49 ng/ml
60 G
0,00131±0,00194 ng/ml
180 G
11.300±1.500 ng·G/ml
0-180 G
1110±284 ng/g
60 G
0,0167±0,0193 ng/g
210 G
47.200±4.900 ng·G/g
0-210 G
1,11±0,11 ng/ml
60 G
1,11±0,11 ng/ml
60 G
33,4±1,4 ng·G/ml
0-60 G
G=giorno/i
2.2.1.4 Profilo di efficacia e sicurezza
Ai fini di valutare tale profilo sono stati presi in considerazione solo gli studi di fase 3 (registrativi); in
particolare sono presenti in letteratura un solo studio registrativo per il FA, 3 per il DEX e nessuno per il TA.
2.2.1.4.a Fluocinolone acetonide (FA)
 Campochiaro e coll. (88) hanno condotto un trial clinico in doppio cieco, multicentrico, su 953 occhi di
pazienti con edema maculare diabetico persistente dopo 1 o più trattamenti con laserterapia. I pazienti
sono stati randomizzati 1:2:2 a ricevere un’iniezione di sham (n=185) o un impianto di FA 0,2 μg/die
(n=375) o di FA 0,5 μg/die (n=393). Dopo 12 mesi ai pazienti con ridotta visione o aumentato spessore
centrale della macula veniva concesso di ripetere la somministrazione del trattamento loro assegnato a
discrezione dell’investigatore se erano presenti i criteri stabiliti a priori per il ritrattamento. La
percentuale di pazienti che ha ricevuto 1, 2 o 3 trattamenti nei 36 mesi è risultata, rispettivamente, pari
a 71,4%, 23,8% e 4,8% nel gruppo sham; a 74,4%, il 21,6% e 4,0% nel gruppo trattato con FA 0,2
μg/die e a 70,7%, 23,2% e 6,1% nel gruppo trattato con FA 0,5 μg/die.
Nei pazienti con edema maculare diabetico da ≥3 anni, la percentuale di pazienti che ha ricevuto 1, 2 o
3 trattamenti nei 36 mesi è risultata, rispettivamente, pari a 66,1% 27,7% e 6,3% nel gruppo sham
(N=112); a 76,1%, il 18,7% e 5,3% nel gruppo trattato con FA 0,2 μg/die (N=209) e a 68,8%, 24,2% e
7% nel gruppo trattato con FA 0,5 μg/die (N=215) (Tabella 8).
Va considerato che in questo trial clinico, dopo 6 settimane, ai pazienti era permesso di ricorrere ad un
trattamento laser e la percentuale di pazienti sottoposti a trattamento laser è risultata pari a 60,7% nel
gruppo sham, a 40,7% nel gruppo trattato con FA 0,2 μg/die e 34,9% in quello trattato con FA 0,5
μg/die. Ai pazienti veniva anche permesso di ricevere un’iniezione intravitreale di triamcinolone che è
stata effettuata nel 24,1%, nell’8,1% e nel 7,4%, rispettivamente, nei gruppi sham, FA 0,2 μg/die e FA
0,5 μg/die. Infine, essendo resisi disponibili gli anti-VEGF nel corso dei 36 mesi del trial, il 15,2% dei
pazienti trattati con sham ha ricevuto un anti-VEGF. La somministrazione di anti-VEGF si è ridotta nei
pazienti trattati con FA 0,2 μg/die (3,3%) e 0,5 μg/die (5,1%).
13
-
Efficacy: A 36 mesi, è stato osservato un miglioramento di ≥15 lettere nel 27,8% degli occhi trattati
(FA 0,5 μg/die) e nel 28,7% (FA 0,2 μg/die) versus il 18,9% degli occhi esposti a sham (p=0,018).
Un’analisi per sottogruppi ha evidenziato un particolare beneficio nei pazienti con edema maculare
diabetico per ≥3 anni.
-
Safety: E’ stato osservato che l’incidenza di cataratta era maggiore nei pazienti sottoposti ad
impianto di FA (42,7% nel gruppo trattato con FA 0,2 μg/die; 51,7% nel gruppo con FA 0,5 μg/die e
9,7% nel gruppo esposto a sham). Questi numeri rappresentano l’81,7%, l’88,7% e il 50,7%,
rispettivamente, dei pazienti di ciascun gruppo con occhi fachici all’inizio dello studio. E’ stata
riportata una maggiore necessità di ricorrere ad intervento chirurgico per glaucoma dopo 3 anni in
pazienti esposti a FA. La trabeculoplastica con laser è stata effettuata nel 2,5% dei casi nel gruppo
trattato con la dose alta, nell’1,3% in quello con dose bassa e nello 0% nel gruppo esposto a sham,
mentre l’intervento incisionale del glaucoma si era reso necessario nell’8,1% dei casi nel gruppo
trattato con la dose alta, nel 4,8% in quello con dose bassa e nello 0,5% nel gruppo esposto a sham.
2.2.1.4.b Desametasone (DEX)
 Haller e coll. (83) hanno valutato la sicurezza e l’efficacia di tale impianto rispetto all’esposizione sham
in pazienti con perdita della vista dovuta ad edema maculare associata a BRVO o CRVO. Si tratta di due
trial clinici randomizzati identici (ciascuno dei due trial includeva pazienti con BRVO e pazienti con
CRVO), multicentrici, randomizzati, della durata di 6 mesi, verso sham. Sono stati arruolati
complessivamente 1267 pazienti, di cui 427 sottoposti ad impianto di DEX 0,7 mg, 414 trattati con DEX
0,35 mg e 426 esposti a sham. Il follow-up è stato effettuato a 90 e a 180 giorni (dopo una singola
somministrazione; Tabella 8). L’outcome primario per i dati raccolti dai due studi era rappresentato dal
tempo che intercorreva per ottenere un miglioramento di 15 lettere nella Best-Corrected Visual Acuity
(BCVA). Quelli secondari includevano BCVA, lo spessore centrale della retina e la safety.
-
Efficacy: Dopo una singola somministrazione, il tempo intercorso per ottenere un miglioramento di
≥15 lettere nella BCVA era statisticamente inferiore in entrambi i gruppi trattati con desametasone
rispetto a quello esposto a sham (p<0,001). La percentuale di occhi con un miglioramento di ≥15
lettere nella BCVA era statisticamente superiore in entrambi i gruppi trattati con desametasone
rispetto a quello esposto a sham a 30-90 giorni (p<0,001). In tutte le visite di follow-up, la
percentuale di occhi con una perdita ≥15 lettere nella BCVA era statisticamente inferiore nel gruppo
trattato con DEX 0,7 mg rispetto a quello esposto a sham (p ≤0,036) sia nei pazienti con BRVO sia
in quelli con CRVO.
-
Safety: Viene riportato che l’incidenza di cataratta era pari al 7,3% dei pazienti (31/423) nel gruppo
trattato con DEX 0,7 mg, al 4,1% dei pazienti (17/411) in quello trattato con 0,35 mg ed al 4,5%
(19/422) dei soggetti esposti a sham (p=0,079). In 21 pazienti su 67, la cataratta era bilaterale.
Inoltre, sono stati osservati solo due casi di distacco di retina: 1 paziente (su 422) nel gruppo esposto
a sham ed 1 paziente (su 423) nel gruppo trattato con DEX 0,7 mg.
14
 Lowder e coll. (84) hanno condotto uno studio della durata di 26 settimane su 229 pazienti affetti da
uveite (77 trattati con impianto di DEX 0,7 mg, 76 con DEX 0,35 mg e 76 con sham). La principale
misura di outcome era la percentuale di occhi con uno score di opacità vitreali pari a 0 in 8 settimane. Lo
studio è stato completato da 217 su 229 pazienti (95%). I pazienti sono stati trattati con 1 solo impianto
nell’arco di 6 mesi (Tabella 8).
-
Efficacy: Ad 8 settimane, la percentuale di occhi con uno score di opacità vitreali pari a 0 era del
47% nel gruppo con impianto di DEX 0,7 mg, del 36% con DEX 0,35 mg e del 12% con sham
(p<0,001). Tale beneficio persisteva per tutte le 26 settimane. Durante lo studio, in tutte le visite, è
stato osservato un aumento di ≥15 lettere nella BCVA rispetto al basale in misura statisticamente
superiore nei gruppi trattati con DEX rispetto a quello con sham.
-
Safety: Solo 2 pazienti hanno interrotto lo studio a causa dell’insorgenza di eventi avversi (gruppo
con DEX 0,7 mg) e solo 1 per mancanza di efficacia (gruppo con DEX 0,35 mg). Al basale, la
cataratta era presente in 20 occhi fachici su 62 (32%) nel gruppo trattato con DEX 0,7 mg, in 32 su
51 (63%) nel gruppo con DEX 0,35 mg e in 27 su 55 (49%) nel gruppo sham. Durante il follow-up,
la cataratta è insorta in 9 occhi fachici su 62 (15%) nel gruppo trattato con DEX 0,7 mg, in 6 su 51
(12%) nel gruppo con DEX 0,35 mg e in 4 su 55 (7%) nel gruppo sham, anche se la differenza non
era statisticamente significativa (p=0,769). Tre pazienti hanno subito una procedura chirurgica per
cataratta nell’occhio trattato (1 nel gruppo con DEX 0,7 mg e 2 nel gruppo sham). Si sono verificati,
inoltre, 4 casi di distacco di retina (2 nel gruppo trattato con DEX 0,7 mg e 2 nel gruppo sham). In
<5% degli occhi la pressione intraoculare era ≥35 mm Hg e in <10% era ≥25 mm Hg (7,1% nel
gruppo trattato con DEX 0,7 mg; 8,7% in quello con DEX 0,35 mg; 4,2% con sham; p>0,05).
Durante le 26 settimane di studio, nel gruppo trattato con DEX 0,7 mg, era ≤23% la percentuale di
occhi che ha richiesto una terapia per ridurre la pressione intraoculare. In nessun caso si è reso
necessario l’intervento chirurgico incisionale, né la trabeculoplastica laser, né la crioterapia.
 Boyer e coll. (89) hanno valutato l’efficacia di tale impianto (due differenti dosi di DEX: 0,7 e 0,35 mg)
nell’edema maculare di origine diabetica. In due trial clinici di fase III, randomizzati, multicentrici,
sham-controllati con protocolli identici, sono stati arruolati 1048 pazienti con edema maculare diabetico
(DME) con una BCVA di 20/50 a 20/200 equivalenti Snellen e con uno spessore centrale retinico >300
μm misurato alla tomografia di coerenza ottica. I pazienti, randomizzati 1:1:1, sono stati trattati con DEX
0,7 mg (N=347), DEX 0,35 mg (N=343) o con procedura sham e seguiti per 3 anni (o per 39 mesi per i
pazienti trattati al 36esimo mese). Lo studio è stato completato (3 anni) da 225 pazienti trattati con DEX
0,7 mg (64,1%) e da 230 pazienti nel gruppo trattato con 0,35 mg (66,3%). I pazienti che rientravano nei
criteri di eleggibilità per un nuovo trattamento sono stati ritrattati non più spesso di ogni 6 mesi. In 3 anni
il numero medio di trattamenti ricevuti è stato pari a 4,1, 4,4 e 3,3, rispettivamente, a seguito
dell’impianto di DEX 0,7 mg, DEX 0,35 mg e sham (Tabella 8 e Tabella 9).
15
In accordo con la FDA, l’end point primario predefinito di efficacia era rappresentato dal
raggiungimento di un miglioramento ≥15 lettere nella BCVA rispetto al valore basale alla fine dello
studio.
-
Efficacy: La percentuale di pazienti con un miglioramento ≥15 lettere nella BCVA rispetto al basale
alla fine dello studio era maggiore nei pazienti con impianto di DEX 0,7 mg (22,2%) e DEX 0,35 mg
(18,4%) rispetto a quelli non esposti a trattamento farmacologico (12%; p≤0,018). La riduzione
media dello spessore centrale della retina rispetto al basale era maggiore nei pazienti trattati con
impianto di DEX 0,7 mg (-111,6 μm) e DEX 0,35 mg (-107,9 μm) rispetto a quelli con sham (-41,9
μm); la differenza nella riduzione fra pazienti trattati e quelli esposti a sham è risultata
statisticamente significativa (p<0,001).
-
Safety: E’ stato riportato un tasso di cataratta in occhi fachici, in cui era stato impiantato DEX, pari
a: 67,9% (0,7 mg), 64,1% (0,35 mg). Nel gruppo di controllo non esposto a farmaco il tasso di
cataratta è risultato pari a 20,4%. La presenza dell’impianto DEX ha comunque portato ad una
riduzione dell’edema maculare associato all’eventuale intervento per l’estrazione della cataratta.
Il distacco di retina si è verificato in 4 pazienti su 1048 trattati, 2 nel gruppo sham e 2 nel gruppo con
DEX 0,7 mg.
Per entrambe le dosi di DEX, la pressione intraoculare è risultata maggiore rispetto a quella
osservata nel gruppo sham. La maggior parte dei casi si è potuta trattare con l’impiego di farmaci
capaci di ridurre la pressione oculare ad eccezione di 8 casi (5 dopo la dose di 0,7 mg e 3 dopo la
dose di 0,35 mg) che rappresenta il 2,4% dei pazienti, in cui è stato necessario ricorrere a procedure
chirurgiche (trabeculoplastica, trabeculectomia, iridectomia, iridotomia). La percentuale di pazienti
trattati con farmaci capaci di ridurre la pressione è rimasta stabile di anno in anno, indicando che non
si è verificato un effetto cumulativo da parte dell’impianto di DEX sulla pressione intraoculare.
16
2.2.2. Terapia anti-VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor)
2.2.2.1. Caratteristiche farmacologiche
Da lungo tempo è stato ipotizzato un ruolo del VEGF quale mediatore della neovascolarizzazione coroidale
(90). Le accresciute conoscenze sui meccanismi biomolecolari e il conseguente sviluppo di farmaci antiVEGF nell’ultimo decennio hanno permesso un netto miglioramento della prognosi, soprattutto nei pazienti
diagnosticati e trattati precocemente.
Il VEGF ha la funzione di promuovere l’angiogenesi ed è in grado di stimolare le cellule endoteliali e
aumentare la permeabilità vasale. E’, quindi, considerato un importante fattore coinvolto nel processo
patologico che porta all’insorgenza delle patologie oculari di origine angioproliferative (91,92). La famiglia
delle proteine VEGF è composta da sei membri: VEGF-A, VEGF-B, VEGF-C, VEGF-D, VEGF-E e PlGF
(Placental Growth Factor). Queste proteine giocano un ruolo non solo nell’angiogenesi, ma anche nella
vasculogenesi e nella linfoangiogenesi. Tali fattori di crescita sembrano, inoltre, possedere un ruolo nella
risposta infiammatoria e nei meccanismi di neuroprotezione in seguito a danno ischemico (91,92).
Sono stati identificati tre recettori, situati nelle cellule endoteliali, che legano i diversi fattori di crescita del
VEGF: VEGFR1 (FLT-1), VEGFR2 (Flk1/KDR) e VEGFR3 (FLT4). L’interazione con tali recettori può
essere regolata anche da co-recettori non enzimatici quali neuropilina-1 e -2 (Nrp1 e Nrp2). Questi recettori
fanno parte della famiglia dei recettori tirosin chinasici (RTK). Si tratta di proteine caratterizzate da un
singolo dominio transmembrana, una regione extracellulare formata da sette domini simili alle
immunoglobuline (IG I-VII), e una parte intracellulare che presenta l’attività tirosin chinasica. Il dominio
tirosin chinasico in questi recettori è diviso in due frammenti (TK-1 e TK-2) mediante un inserto interchinasico (93).
Il VEGF-A è la forma maggiormente espressa di VEGF ed anche quella più studiata. La proteina consiste di
otto isoforme: VEGF-121, VEGF-145, VEGF-162, VEGF-165, VEGF-165B, VEGF-183, VEGF-189 e
VEGF-206 (94). La principale isoforma è VEGF-165, che lega VEGFR1, VEGFR2, Neutropilin-1 e
Neutropilin-2; essa è seguita da VEGF-189 e 121. Il VEGF-A è capace di provocare vasodilatazione,
aumento della permeabilità vascolare e rilascio di proteasi, importanti per l’invasione cellulare e
rimodellamento dei tessuti. Inoltre, il VEGF-A può prevenire l’apoptosi delle cellule endoteliali. Il VEGF-A
è espresso in molteplici organi e tessuti, quale surrene, cuore e rene, ma è anche espresso in numerosi tumori
maligni umani (95,96).
Il VEGF-B si presenta in due isoforme: VEGF-B167 e VEGF-B186. Il VEGF-B167 è l’isoforma
predominante. Il VEGF-B lega e attiva sia il VEGFR1 sia il NRP-1 ma, a differenza di VEGF-A, non è in
grado di legarsi a VEGFR2 (97). Questo fattore non sembra necessario per l’angiogenesi poiché è stato
dimostrato che i topi privi di VEGF-B manifestano solo difetti cardiaci minori (98).
Il VEGF-C e il VEGF-D legano e attivano VEGFR2 e VEGFR3. Entrambi svolgono un ruolo predominante
nella linfoangiogenesi, ma VEGF-C è anche principalmente espresso durante l’embriogenesi. Entrambi sono
sintetizzati come pre-proteine e sono sottoposti a processi proteolitici per diventare una proteina matura (99).
Sia VEGF-C sia VEGF-D, sono espressi in molteplici forme di neoplasie (100,101).
17
Il VEGF-E è una proteina codificata dal gene del parapox Orf virus, che attiva solo il VEGFR2 ed è un
potente stimolatore dell’angiogenesi. Infine, il PlGF è una glicoproteina omodimerica che condivide con il
VEGF circa il 50% della sua sequenza aminoacidica ed è in grado di legarsi a due dei recettori tipici di
questo fattore di crescita (VEGFR-1 e neuropilin-1). Il PlGF presenta quattro isoforme: PlGF-131, -152, -203
e -224 (102). Esso è, inoltre, espresso nel tessuto cardiaco, nel muscolo scheletrico, nella retina e nella pelle
(103,104), ma anche in tumori del seno (105), dello stomaco (106) e del polmone a cellule non piccole (107).
I recettori RTKs cui si legano i fattori della famiglia VEGF sono tre: VEGFR1, VEGFR2 e VEGFR3 (108)
(Figura 1).
Figura 1. Ligandi della famiglia VEGF e loro recettori (108).
Analogamente ad altri recettori con attività tirosin chinasica, la via di trasduzione del segnale mediata dai
recettori VEGFR ha inizio con il legame del ligando in forma dimerica legato covalentemente al dominio
extracellulare del recettore VEGFR (109) (Figura 2). Questa interazione promuove la omo- o eterodimerizzazione del recettore seguita dalla fosforilazione di specifici residui di tirosina, ubicati nel dominio
juxtamembrana intracellulare, nel dominio inserto della chinasi e nell’estremità carbossi-terminale del
recettore. In seguito, sono reclutate da parte del dimero del VEGFR una varietà di molecole del segnale,
dando origine all’assemblaggio di grandi complessi molecolari, il cosiddetto signalosoma, che attiva distinte
vie cellulari. L'interazione tra i vari VEGFR e gli effettori a valle è mediata principalmente dai domini Src
homology-2 (SH-2) e phosphotyrosine-binding (PTB).
18
Figura 2. Meccanismo di attivazione dei VEGFRs (109).
Il VEGFR1 (noto anche come fms-like tyrosine kinase Flt-1) è un recettore con un peso molecolare di circa
180 kDa. I ligandi sono rappresentati, oltre che dal VEGF-A, dal VEGF-B e dal PlGF. Questo recettore è
espresso, tramite splicing alternativo, in due isoforme: una solubile (sFlt-1) e una di membrana, localizzata
sulla superficie di cellule endoteliali, di cellule muscolari lisce e di monociti (110). Anche se l’affinità di
VEGF-A per VEGFR1 è maggiore rispetto a quella per VEGFR2, il VEGFR1 presenta una più debole
attività di fosforilazione tirosin-chinasica. A oggi, il suo ruolo nella funzionalità delle cellule endoteliali è
ancora poco chiaro. L’attivazione di VEGFR1 sembra sia implicata nell’aumento dell’espressione di
molecole coinvolte nella degradazione della matrice extracellulare, nella migrazione cellulare (111) e nella
chemiotassi dei monociti (112).
Il VEGFR2 (noto anche come Flk-1/KDR, Fetal liver kinase-1/Kinase Domain containing Receptor), è un
recettore cui si legano proteine VEGF a più basso peso molecolare, quali VEGF-A, VEGF-C, VEGF-D,
VEGF-E, VEGF-F. Il suo peso molecolare è di circa 200 kDa e la sua espressione è soprattutto nelle cellule
ematopoietiche, neurali e retiniche (108). Vi è inoltre una forma solubile circolante di VEGFR2, come per
VEGFR1 (113). Il VGFR2 è il mediatore principale di migrazione, proliferazione e sopravvivenza delle
cellule endoteliali stimolata da VEGF, e dell’aumento della permeabilità vascolare. Nonostante l’affinità del
VEGF-A per VEGFR2 sia minore di quella per VEGFR1, VEGFR2 è dotato di una maggiore attività tirosin
chinasica in risposta al suo ligando (114,115).
Il VEGFR3, o Flt-4, è un recettore dal peso molecolare di circa 195 kDa. I suoi ligandi sono rappresentati da
VEGF-C e VEGF-D. L’espressione di questo recettore ha inizio nelle cellule vascolari endoteliali embrionali
e si riduce gradualmente durante lo sviluppo per poi rimanere ristretta ai vasi linfatici (116). Esso svolge,
quindi, un ruolo principale nello sviluppo delle cellule endoteliali embrionali, ma contribuisce anche
all’angiogenesi e alla linfoangiogenesi nell’adulto. Sono stati identificati 5 residui tirosinici come siti di
autofosforilazione (Tyr 1230, 1231, 1265, 1337 e 1363). Il VEGFR3 promuove la migrazione cellulare e la
sopravvivenza dell’endotelio dei vasi linfatici mediante la via di attivazione della trasduzione del segnale
delle MAP-chinasi (117).
19
2.2.2.2. Farmaci anti-VEGF
Il primo impiego dei farmaci anti-VEGF per il trattamento delle patologie retiniche è avvenuto in modalità
“off-label” perché, non essendo ancora disponibile in Italia nel 2007 un trattamento anti-angiogenico per
l’AMD, l’Agenzia Regolatoria Italiana (AIFA) decise di inserire bevacizumab (Avastin®; ATC L01XC07;
Roche; autorizzazione EMA nel 2005) (118), allora e tuttora in commercio con l’indicazione terapeutica per
il trattamento di vari tipi di carcinoma, nella lista dell’ex Legge 648/199 per l’uso intravitreale nell’AMD.
L’AIFA ha poi eliminato da tale elenco il bevacizumab nel 2012, in seguito alla modifica del Riassunto delle
Caratteristiche del Prodotto, come richiesto dall’EMA, con l’inserimento d’informazioni riguardanti la
comparsa di eventi avversi oculari e sistemici per uso intravitreale. Di recente (aprile 2014) il Consiglio
Superiore di Sanità (CSS), in relazione a tale problematica, ha stabilito che sussistano le condizioni per
consentire nuovamente l’impiego di Avastin® in tale indicazione, poiché tale farmaco, pur nella diversità
strutturale e farmacologica, non presenta rispetto a Lucentis® differenze statisticamente significative dal
punto di vista dell’efficacia e della sicurezza nella terapia dell’AMD (119). E’ necessario, tuttavia, in attesa
della registrazione di tale indicazione, che il medicinale sia allestito in confezione monodose da farmacie
ospedaliere certificate in grado di garantire condizioni di sterilità e sia utilizzato in strutture ospedaliere
pubbliche per garantirne la sicurezza dell’uso.
Dal 2008 sono stati introdotti sul mercato italiano tre farmaci anti-VEGF, con specifica indicazione per
l’AMD, quali pegaptanib (Macugen®; ATC S01LA03; Pfizer; autorizzazione EMA nel 2006) (120),
ranibizumab (Lucentis®; ATC S01LA04; Novartis; autorizzazione EMA nel 2007) (121), e infine solo di
recente è entrato sul mercato italiano aflibercept (Eylea®; ATC S01LA05; Bayer; autorizzazione EMA nel
2012) (122).
I farmaci anti-VEGF utilizzati nelle patologie retiniche hanno in comune il meccanismo d’azione, poiché
riconoscono lo stesso bersaglio molecolare, incluse le isoforme biologicamente attive del VEGF-A. Essi si
legano a tali isoforme, prevenendo così il legame del VEGF-A ai suoi recettori VEGFR-1 e VEGFR-2.
Poiché, come detto, il legame tra il VEGF-A e i suoi recettori porta a una proliferazione delle cellule
endoteliali con neovascolarizzazione e a un aumento della permeabilità vasale, il blocco dell’attività
biologica di tale fattore di crescita fa regredire la progressione della forma neovascolare sia nelle patologie
retiniche su base neovascolare sia nei tumori, impedendo perciò la crescita tumorale.
Pur condividendo lo stesso bersaglio, sussistono, tuttavia, varie differenze sia di tipo strutturale sia di tipo
farmacologico tra queste molecole (123) (Tabella 4).
Tabella 4. Caratteristiche strutturali e farmacologiche dei farmaci anti-VEGF.
Categoria farmacoterapeutica
Codice ATC
Composizione
preparazione
della
®
Avastin
(bevacizumab)
Macugen®
(pegaptanib)
®
Lucentis
(ranibizumab)
®
Eylea
(aflibercept)
Agenti antineoplastici e
immunomodulatori,
anticorpi monoclonali
L01XC07
25 mg/ml concentrato.
Ogni flaconcino da 4 ml
contiene 100 mg di
Oftalmologici,
Farmaci per i disturbi
vascolari oculari
S01LA03
0,3 mg/ml.
Siringa pre-riempita in
singola dose che rilascia
Oftalmologici,
agenti
antineovascolarizzazione
S01LA04
10 mg/ml.
Ogni flaconcino contiene
2,3 mg di ranibizumab in
Oftalmologici / Sostanze
antineovascolarizzazione
20
S01LA05
40 mg/ml.
Siringa
contenente
pre-riempita
90
µlitri,
bevacizumab,
corrispondenti a 1,4 mg/ml
quando
diluiti
come
raccomandato.
Forma farmaceutica
Modo di somministrazione
Caratteristiche strutturali
Dimensioni molecolari
Glicosilazione
Target molecolare
Dose inibitoria (IC50) del
VEGF-A165
Emivita
media
di
eliminazione (dal vitreo)
Emivita
sistemica
di
eliminazione
Titolare AIC
Autorizzazione centralizzata
EMA
Soluzione per infusione
Infusione endovenosa
Anticorpo
monoclonale
umanizzato
prodotto
mediante la tecnica del
DNA ricombinante in
cellule ovariche di criceto
cinese
149 KDa
Assente
VEGF-A165b
0,21 nM
1,65 mg di pegaptanib,
corrispondente a 0,3 mg
della forma di acido
libero
dell’oligonucleotide, in
un volume nominale di
90 µlitri
Soluzione iniettabile
Iniezione intravitreale
Aptamero
(oligonucleotide
peghilato modificato)
0,23 ml di soluzione.
equivalenti a 3,6 mg di
aflibercept corrispondenti a
una dose singola di 2 mg/50
µlitri.
Contenuto estraibile = 4
mg/100 µlitri
Soluzione iniettabile
Iniezione intravitreale
Frammento di un anticorpo
monoclonale
umanizzato
prodotto nelle cellule di
Escherichia coli mediante
tecnologia
di
DNA
ricombinante
48,39 KDa
Presente
VEGF-A165b
0,24 nM
Soluzione iniettabile
Iniezione intravitreale
Proteina
di
fusione
composta dai domini chiave
dei 2 recettori umani
VEGFR1 e VEGFR2 e la
frazione
costante
(Fc)
dell’IgG1 umana
115 KDa
VEGF-A; VEGF-B; PIGF
-
~ 9 giorni
-
6,7 giorni *
~ 50 KDa
VEGF-A165b
4,08 nM
(200 volte > ranibizumab
e bevacizumab)
10 ± 4 giorni
20 giorni
-
2 ore
5-6 giorni
Pfizer
31 gennaio 2006
Novartis
22 gennaio 2007
Bayer
22 novembre 2012
Roche
12 gennaio 2005
(per uso antineoplastico,
ma
non
per
uso
intravitreale)
* Dosaggio nel vitreo dopo somministrazione IV
Questi farmaci anti-VEGF trovano impiego nel trattamento delle patologie retiniche, ma non tutti presentano
le stesse indicazioni autorizzate (Tabella 5). Come detto, solo bevacizumab non ha alcuna indicazione
prevista per le altre molecole.
Bevacizumab (Avastin®), il farmaco anti-VEGF utilizzato in modalità off label nelle patologie retiniche, è
un anticorpo monoclonale umanizzato intero IgG1 prodotto mediante la tecnica del DNA ricombinante in
cellule CHO (124). Esso agisce inibendo tutte le isoforme del VEGF-A con una IC50 di 0,21 nM. Il suo peso
molecolare è di 149 KDa. Diversamente dal ranibizumab, il bevacizumab è glicosilato, caratteristica che
conferisce una più prolungata emivita plasmatica, e contiene la porzione di frammento cristallizzabile, che ne
facilita l’assorbimento sistemico (125). Tali caratteristiche sono importanti per l’uso oncologico, mentre non
sono funzionali all’uso intravitreale, indicazione per cui, come già detto, bevacizumab non è approvato
(124). L’emivita media di eliminazione dal vitreo è di 6,7 giorni (125-127). L’impiego intravitreale del
bevacizumab, a differenza degli altri anti-VEGF, disponibili in formulazioni per somministrazione
intravitreale, richiede il frazionamento del contenuto di farmaco presente in una singola fiala (25 mg/ml
concentrato; 100 mg in 4 ml di soluzione per flacone) (128) in dosi più piccole per utilizzo intraoculare, con
conseguente rischio di contaminazione. Altro aspetto da considerare è che bevacizumab è somministrato per
via intravitreale a dosaggi che sono quasi tre volte più grandi rispetto a quelli del ranibizumab (1,25 mg/0,05
ml vs 0,5 mg/0,05 ml) (129).
21
Tabella 5. Indicazioni d’uso autorizzate per i farmaci anti-VEGF.
%
prevalenza
®
Avastin
(bevacizumab)
Macugen®
(pegaptanib)
®
Lucentis
(ranibizumab)
®
Eylea
(aflibercept)
sul totale
Degenerazione maculare essudativa
correlata all’età (AMD) (118)
41%
X



Edema Maculare secondario ad
Occlusione Venosa Retinica (RVO)
(118,120)
13%
X
X

CRVO
Infiammazione
del
segmento
posteriore causata da uveiti non
infettive (118,120-122)
<1%
X
X
X
X
Edema maculare diabetico (DME)
(118,120)
39%
X
X


Neovascolarizzazione coroideale in
miopia patologica (118,120,122)
7%
X
X

X
Pegaptanib (Macugen®) è stato il primo farmaco anti-VEGF a essere approvato per il trattamento della
AMD. Esso è un aptamero, ossia un piccolo oligonucleotide a RNA, legato covalentemente a due unità di
monometossi-polietilen-glicole da 20 KDa, che conferiscono una maggiore stabilità conformazionale e una
migliore farmacocinetica alla molecola. Esso è privo di glicosilazione e presenta un’emivita media di
eliminazione dal vitreo di 9 giorni (125-127). Il pegaptanib blocca soltanto l’isoforma patologica 165 del
VEGF-A (130). Riguardo al confezionamento, pegaptanib è contenuto in una siringa pre-riempita da 0,3
mg/ml, per una singola dose di 0,3 mg ogni 6 settimane (120).
Ranibizumab (Lucentis®) è costituito unicamente dal frammento Fab dell’anticorpo monoclonale
ricombinante umanizzato IgG1 (bevacizumab) prodotto in cellule di Escherichia coli, ha un peso molecolare
di 48,39 Kda (la struttura non presenta glicosilazione) ed è caratterizzato da una maggiore affinità nei
confronti del VEGF-A rispetto al bevacizumab (131). Il ranibizumab presenta un’emivita media di
eliminazione dal vitreo di 10 giorni. E’ presente in commercio come formulazione iniettiva (2,3 mg in 0,23
ml di soluzione per flacone) a uso intravitreale utilizzabile una sola volta al dosaggio di 0,5 mg (corrisponde
a un volume iniettato di 0,05 ml) il mese (121). La terapia deve essere iniziata con una fase di attacco di
un‘iniezione al mese per tre mesi consecutivi (loading phase), seguita da una fase di mantenimento. Se il
paziente manifesta una perdita di acuità visiva superiore a 5 lettere deve essere sottoposto a ritrattamento.
L’intervallo tra due dosi non deve essere inferiore a un mese. Quindi in un anno si può somministrare
ranibizumab fino a 12 volte.
Aflibercept (Eylea®) è una proteina di fusione completamente umana ottenuta da DNA ricombinante,
prodotta in cellule ovariche di criceto cinese (CHO) (122). Tale proteina del peso di 115 KDa è glicosilata e
inibisce non solo le isoforme del VEGF-A, ma anche VEGF-B e PIGF (132,133). Nei modelli sperimentali,
il farmaco ha dimostrato di ‘intrappolare’ il VEGF (da cui il nome VEGF Trap-Eye con cui è anche
designato) legandolo con un’affinità superiore rispetto a bevacizumab e ranibizumab.
22
Tutti i farmaci anti-VEGF con specifica indicazione nelle patologie oculari (pegaptanib, ranibizumab e
aflibercept) hanno un costo elevato; il bevacizumab, seppur appartenente alla stessa classe farmacologica e
con diverse indicazioni, presenta, invece, un costo inferiore considerando che la fiala per uso oncologico è
frazionata in diverse fiale monodose per uso intravitreale. La terapia a base di un farmaco anti-VEGF
necessita iniezioni ripetute frequentemente nel tempo dovuto alla breve emivita nel vitreo.
2.2.2.3 Profilo di efficacia e sicurezza
Ai fini di valutare tale profilo sono stati presi in considerazione solo gli studi di fase 3 (registrativi).
2.2.2.3.a Bevacizumab
AMD neovascolare
Il bevacizumab trova impiego nel trattamento di patologie neoplastiche; pertanto, come già sottolineato,
l’uso in ambito oculistico è di tipo “off-label”. Non vi sono, quindi, ad oggi studi registrativi a supporto di
tale utilizzo.
2.2.2.3.b Pegaptanib
AMD neovascolare
Due studi clinici prospettici, randomizzati, multicentrici, in doppio cieco, controllati, hanno valutato in
un’analisi combinata il trattamento con pegaptanib nella degenerazione maculare neovascolare correlata
all’età (130). I pazienti inclusi nell’analisi combinata di efficacia (1186) sono stati randomizzati a ricevere
sham (296) o pegaptanib (294 pazienti trattati con 0,3 mg, 300 pazienti con 1,0 mg, 296 pazienti con 3,0 mg)
ogni 6 settimane, per un periodo di 48 settimane, con un totale di 9 trattamenti (Tabella 10).
-
Efficacy: Approssimativamente il 90% dei pazienti di ogni gruppo ha completato lo studio. Una
perdita di meno di 15 lettere di acuità visiva è stata osservata alla 54a settimana in 206 (70%)
pazienti che hanno ricevuto pegaptanib 0,3 mg (p<0,001); 213 (71%) che hanno ricevuto pegaptanib
1,0 mg (p<0,001); 193 (71%) che hanno ricevuto pegaptanib 3,0 mg (p=0,03) in confronto ai 193
(55%) che hanno ricevuto sham. Un’alta percentuale di pazienti del gruppo con pegaptanib ha
mantenuto o guadagnato 1 o più lettere di acuità visiva, ovvero il 33% dei pazienti riceventi 0,3 mg
di pegaptanib (p=0,003), il 37% riceventi pegaptanib 1,0 mg (p<0,001) e il 31% riceventi pegaptanib
3,0 mg (p=0,02) vs il 23% dei pazienti riceventi sham. Alla 54a settimana, la percentuale di pazienti
del gruppo con pegaptanib che ha guadagnato 5, 10 o 15 lettere di acuità visiva è stata maggiore
rispetto a quella del gruppo sham. I pazienti del gruppo sham hanno presentato una probabilità
maggiore di manifestare una grave perdita della visione (perdita di 30 o più lettere) rispetto ai
pazienti riceventi 0,3 mg, 1,0 mg o 3,0 mg di pegaptanib (22% vs 10% e 8% p<0,001; 22% vs 14%
p=0,01). L’efficacia effettiva del pegaptanib, valutata mediante la media della perdita di acuità visiva
al basale e a ogni visita, è stata evidente già dopo 6 settimane (prima visita dello studio) ed è risultata
23
aumentare nel tempo fino alla 54a settimana (p<0,002 per una dose di pegaptanib 0,3 mg o 1,0 mg e
p<0,05 per una dose di 3,0 mg).
-
Safety: La percentuale di pazienti che ha interrotto il trattamento a causa di eventi avversi è stata
dell’1% sia nel gruppo con pegaptanib che nel gruppo con sham. La percentuale di eventi avversi,
quali eventi ipertensivi, emorragici, tromboembolici e perforazioni gastrointestinali, è stata simile tra
i gruppi; mentre gli eventi avversi oculari insorti più frequentemente sono stati dolore oculare,
cheratite, cataratta, opacità del vitreo, disturbi della visione, edema corneale, infiammazione della
camera anteriore e secrezioni oculari. Tra gli eventi avversi gravi rientrano endoftalmite, lesioni
traumatiche della lente e distacco della retina, associati ad una perdita dell’acuità visiva nello 0,1%
dei pazienti.
Il pegaptanib è risultato, pertanto, efficace nella terapia della AMD, nonostante non sia conosciuta la sua
sicurezza a lungo termine.
2.2.2.3.c. Ranibizumab
AMD neovascolare
Tre studi di fase III (MARINA, ANCHOR e PIER) sono stati condotti al fine di delineare il profilo di
efficacia e sicurezza del ranibizumab nella degenerazione maculare correlata all’età.

Lo studio MARINA (134) è un trial clinico multicentrico (96 sedi negli Stati Uniti), in doppio cieco,
controllato con sham e della durata di 2 anni, condotto su 716 pazienti di età superiore ai 50 anni, affetti
da AMD associata a neovascolarizzazione coroideale prevalentemente classica o occulta, arruolati (da
marzo 2003 a dicembre 2003) e randomizzati a ricevere in rapporto 1:1:1 iniezioni intravitreali di
ranibizumab (0,3 mg e 0,5 mg) e di sham per 24 mesi (1 iniezione al mese per un totale di 12 iniezioni
all’anno) (Tabella 10).
-
Efficacy: A 12 mesi, il 94,5% e il 94,6% dei pazienti trattati con ranibizumab (0,3 e 0,5 mg
rispettivamente) ha perso meno di 15 lettere di acuità visiva confrontato con il 62,2% del gruppo
sham (p<0,001 per entrambi i confronti). A 24 mesi, tale risultato è stato raggiunto nel 92,0% e nel
90,0% dei pazienti trattati rispettivamente con 0,3 mg e 0,5 mg contro il 52,9% dei pazienti del
gruppo sham p<0,001 per entrambi i confronti). L’incremento medio dell’acuità visiva è stato di 6,5
lettere nel gruppo trattato con ranibizumab 0,3 mg e 7,2 lettere nel gruppo ranibizumab 0,5 mg
rispetto ad una riduzione di 10,4 lettere nel gruppo sham (p<0,001 per entrambi i confronti). Il
beneficio dell’acuità visiva era mantenuto fino alla 24a settimana. Il beneficio medio associato a
ranibizumab rispetto allo sham era approssimativamente di 17 lettere in ciascun gruppo a 12 mesi e
di 20-21 lettere a 24 mesi.
-
Safety: Nel corso dei 2 anni, sono stati identificati 5 casi (su 477) di endoftalmite presunta (1%) e 6
casi (1,3%) di endoftalmite grave. L’incremento della pressione oculare, osservata solo 1 ora dopo
l’iniezione, è risultato assente prima della successiva iniezione, suggerendo che l’aumento pressorio
è transitorio e permettendo quindi di affermare che tale evento è transitorio. Ranibizumab non è
24
stato, inoltre, associato ad un aumento della frequenza di cataratta (15,7% dei pazienti nel gruppo
sham rispetto al 15,5% dei pazienti dei 2 gruppi con ranibizumab). Nel corso dei 2 anni, si sono
verificati 17 decessi: 6 nel gruppo sham (2,5%), 5 nel gruppo trattato con ranibizumab 0,3 mg
(2,1%) e 6 nel gruppo trattato con ranibizumab 0,5 mg (2,5%). L’incidenza complessiva di eventi
avversi non oculari (sistemici) gravi o non gravi, come eventi tromboembolici o ipertensione, sono
risultati simili tra i vari gruppi. Non è stato riportato alcun caso di proteinuria. La percentuale
cumulativa di emorragie non oculari è aumentata in tutti i gruppi durante il secondo anno di
trattamento, anche se in misura maggiore nei gruppi trattati con il farmaco. L’immunoreattività è
aumentata similarmente tra i gruppi; alla fine del secondo anno, la ricerca di anticorpi antiranibizumab era del 4,4% nel gruppo ranibizumab 0,3 mg, del 6,5% nel gruppo ranibizumab 0,5 mg
e del 1,1% nel gruppo sham.

Nello studio ANCHOR (135), un trial internazionale, multicentrico, in doppio cieco, della durata di 2
anni (risultati presentati a 1 anno), ha arruolato 423 pazienti di età superiore ai 50 anni affetti da AMD
associata a neovascolarizzazione coroideale prevalentemente classica. Dopo l’arruolamento (da giugno
2003 a settembre 2004) i pazienti sono stati randomizzati a ricevere, in rapporto 1:1:1, iniezioni
intravitreali di ranibizumab (0,3 mg e 0,5 mg) più terapia sham con verteporfina e di iniezioni
intravitreali sham più terapia attiva con verteporfina (seguita da irradiazione laser della macula) per 12
mesi (143 pazienti nel gruppo verteporfina e 140 nei due gruppi ranibizumab) (Tabella 10).
-
Efficacy: Più del 90,0% in ciascun gruppo (91,5% complessivamente) ha assunto il trattamento fino
al 12° mese. Delle 12 possibili iniezioni di ranibizumab o sham, il numero medio somministrato è
stato di 11,1 nel gruppo verteporfina, 11,0 nel gruppo ranibizumab 0,3 mg e 11,2 nel gruppo
ranibizumab 0,5 mg. A 12 mesi, il 94,3% e il 96,4% dei pazienti trattati con il farmaco (0,3 e 0,5 mg
rispettivamente) ha perso meno di 15 lettere di acuità visiva rispetto al basale confrontato con il
64,3% del gruppo verteporfina (p<0,001 per entrambi i confronti). La percentuale di pazienti la cui
acuità visiva è migliorata di 15 lettere rispetto al basale è stata significativamente maggiore con
ranibizumab ai due dosaggi (35,7% con ranibizumab 0,3 mg e 40,3% con ranibizumab 0,5 mg)
rispetto a verteporfina (5,6%) (p<0,001 per ogni confronto). Non si è verificata alcuna grave perdita
dell’acuità visiva durante il trattamento con ranibizumab (ad entrambi i dosaggi), mentre è stata del
13,3% nei pazienti trattati con verteporfina. L’incremento medio dell’acuità visiva è stato di 8,5
lettere nel gruppo trattato con 0,3 mg e 11,3 lettere nel gruppo 0,5 mg rispetto ad una riduzione di
9,5 lettere nel gruppo sham.
-
Safety: Dallo studio è emersa una maggiore percentuale di episodi di infiammazione intraoculare nei
gruppi trattati con il farmaco (10,2% con la dose di 0,3 mg e 15,0% con 0,5 mg) rispetto al gruppo
verteporfina (2,8%). Si è, inoltre, verificato un solo caso (0,7%) di endoftalmite in un paziente
trattato con la dose di 0,5 mg. I casi di aumento della pressione intraoculare (> 30 mmHg) dopo
iniezione con ranibizumab sono stati frequenti (8,8% con la dose di 0,3 mg e 8,6% con 0,5 mg)
rispetto a verteporfina (4,2%). I pazienti trattati con ranibizumab hanno presentato, inoltre, un
25
aumento della frequenza di cataratta (10,9% con la dose di 0,3 mg, 12,9% con 0,5 mg e 7,0% con
verteporfina). Nessuna differenza tra i gruppi è stata osservata in merito a eventi avversi gravi non
oculari (14,6% con la dose di 0,3 mg, 20,0% con 0,5 mg e 19,6% con verteporfina). Il numero di
decessi è stato simile tra i due gruppi (3 pazienti con la dose di 0,3 mg e 2 sia con la dose di 0,5 mg
che con verteporfina). L’incidenza di emorragia non oculare, un evento avverso che riflette
potenzialmente un’inibizione sistemica del VEGF, è stata maggiore nei gruppi con ranibizumab
(5,1% con la dose di 0,3 mg, 6,4% con 0,5 mg vs 2,1% con verteporfina). Non vi è stato, peraltro,
alcun incremento della pressione sistolica e diastolica o nella percentuale di ipertensione e
proteinuria. Eventi tromboembolici arteriosi si sono manifestati in 3 pazienti trattati con la dose di
0,3 mg, 6 con 0,5 mg e 3 con verteporfina.
Lo studio ha, quindi, dimostrato la superiorità delle iniezioni intravitreali mensili di ranibizumab rispetto alla
terapia con verteporfina con un accettabile profilo di tollerabilità dell’anti-VEGF. Sebbene lo studio non sia
stato disegnato per valutare la superiorità dei diversi dosaggi di ranibizumab, i risultati di efficacia
suggeriscono, secondo gli autori, un effetto dose-risposta.

Lo studio PIER (136), un trial di fase IIIb randomizzato, in doppio-cieco, controllato verso sham, della
durata di due anni, è stato disegnato per valutare la sicurezza e l’efficacia del ranibizumab nell’AMD
neovascolare. I pazienti arruolati da settembre 2004 a marzo 2005 hanno ricevuto iniezioni intravitreali
di ranibizumab 0,3 mg o 0,5 mg o iniezioni sham (una volta al mese per 3 dosi consecutive, seguite da
una dose somministrata una volta ogni 3 mesi) (Tabella 10).
-
Efficacy: Ad un anno, l’83,3% e il 90,2% dei pazienti trattati con ranibizumab (0,3 mg e 0,5 mg
rispettivamente) ha perso meno di 15 lettere di acuità visiva confrontato con il 49,2% del gruppo di
controllo. In particolare, i pazienti del gruppo sham hanno perso in media 16,3 lettere, mentre i
pazienti trattati con ranibizumab alla dose di 0,3 mg 1,6 lettere e quelli con la dose di 0,5 mg 0,2
lettere. Inoltre, i pazienti dei due gruppi con ranibizumab presentavano una differenza
statisticamente significativa rispetto al gruppo sham già al primo mese di trattamento. Mentre
l‘acuità visiva media dopo tre iniezioni a cadenza mensile di ranibizumab è risultata solo lievemente
inferiore al beneficio riscontrato negli studi MARINA e ANCHOR, essa è ritornata gradualmente al
valore iniziale dopo il passaggio alla somministrazione trimestrale. Da un’analisi per sottogruppi, è
risultato che tra i pazienti che hanno manifestato un miglioramento dell’acuità visiva nei primi 3
mesi, il 40% di questi ha mantenuto tale miglioramento fino a un anno nonostante il passaggio alla
terapia somministrata trimestralmente. Tali risultati suggeriscono la necessità di una frequenza di
somministrazione del farmaco individualizzata sulla base della risposta del paziente alla terapia.
-
Safety: Non sono state riscontrate differenze nei tre gruppi in termini di eventi avversi oculari e non
oculari. Non è stato riscontrato alcun caso di endoftalmite o uveite grave, mentre i casi di cataratta si
sono verificati nel 6,5% dei pazienti sham e nel 5,1% e 6,6% dei pazienti trattati con ranibizumab 0,3
mg e 0,5 mg. Come riportato nei precedenti trials, MARINA e ANCHOR, le variazioni della
26
pressione intraoculare in seguito all’iniezione erano transitorie e generalmente lievi. Nessun decesso
è stato registrato durante il primo anno di trattamento. Nessun altro evento avverso non oculare noto
(ipertensione, variazioni della pressione sistolica e diastolica, proteinuria, emorragia non oculare e
eventi tromboembolici), associato all’inibizione sistemica del VEGF, è stato considerato di
particolare interesse.
Da tale studio è emerso che il profilo complessivo di sicurezza del ranibizumab è in linea con quello
delineato nei precedenti studi ed indica che iniezioni intravitreali ripetute dell’anti-VEGF sono generalmente
ben tollerate.
DME
Tre studi di fase III (RESTORE, RISE e RIDE) sono stati condotti al fine di delineare il profilo di efficacia e
sicurezza del ranibizumab nell’edema maculare diabetico.

Lo studio RESTORE (137), un trial multicentrico di fase III, condotto su 345 pazienti con DME
randomizzati a ricevere iniezioni intravitreali di ranibizumab 0,5 mg + fotocoagulazione laser sham
(monoterapia) (n=116), ranibizumab 0,5 mg + fotocoagulazione laser (n=118) o iniezioni sham +
fotocoagulazione laser (n=111) (Tabella 10). Il trattamento con ranibizumab è iniziato con iniezioni
intravitreali mensili e continuato fino a che l’acuità visiva rimaneva stabile per almeno tre controlli
mensili consecutivi. Il trattamento è stato ripreso in caso di progressione del DME. La fotocoagulazione
laser è stata somministrata al basale e successivamente al bisogno.
-
Efficacy: I pazienti hanno ricevuto una media di 7 iniezioni di ranibizumab/sham nei 12 mesi. Il
trattamento con ranibizumab da solo o in combinazione con fotocoagulazione laser è risultato
superiore al solo laser nella variazione media dell’acuità visiva rispetto al basale dal 1° al 12° mese
(+6,1 e +5,9 vs 0,8; p<0,0001). Lo spessore retinico centrale medio è stato significativamente ridotto
dal basale con ranibizumab (-118,7 µm) e ranibizumab + laser (-128,3 µm) rispetto alla sola terapia
laser (61,3 µm; p<0,001).
-
Safety: Non si è verificato alcun caso di endoftalmite né un aumento del rischio di eventi
cardiovascolari o cerebrovascolari e solo in un paziente è stato segnalato un aumento della pressione
intraoculare.
E’ stata, quindi, dimostrata la superiorità di ranibizumab 0,5 mg in monoterapia o in combinazione con laser
sulla sola terapia laser. A 1 anno, non sono state rilevate differenze tra ranibizumab in monoterapia e
ranibizumab in associazione alla terapia laser.

Gli studi RISE e RIDE (138) (metodologicamente identici) multicentrici, randomizzati, in doppio cieco,
controllati con sham per 2 anni, della durata di 36 mesi, sono stati condotti in parallelo su 759 pazienti
randomizzati a ricevere mensilmente ranibizumab 0,5 mg o 0,3 mg o iniezione sham. Al terzo anno, i
pazienti sham sono stati trattati con ranibizumab 0,5 mg (Tabella 10).
27
-
Efficacy: I valori di acuità visiva osservati al 24° mese nei gruppi trattati con ranibizumab erano in
linea con quanto osservato al 36° mese. La percentuale di pazienti che ha guadagnato 15 lettere dal
basale a 36 mesi nei gruppi sham/ranibizumab 0,5 mg, ranibizumab 0,3 mg, e ranibizumab 0,5 mg
era rispettivamente di 19,2%, 36,8% e 40,2% nello studio RIDE e del 22,0%, 51,2% e 41,6% nello
studio RISE. Nei gruppi trattati con ranibizumab, la riduzione dello spessore centrale della fovea
osservato al 24° mese è stata, in media, sostenuta fino al 36° mese. Dopo 1 anno di trattamento con
ranibizumab, il guadagno medio dell’acuità visiva nel gruppo sham/0,5 mg era inferiore rispetto al
recupero osservato nei pazienti trattati con ranibizumab dopo 1 anno (2,8 vs 10,6 e 11,1 lettere).
-
Safety: La percentuale di episodi di endoftalmite per iniezione è rimasta bassa in tutto il periodo
considerato (circa 0,06% per iniezione). L’incidenza di eventi avversi gravi, potenzialmente correlati
all’inibizione sistemica del VEGF, è stata del 19,7% nei pazienti che hanno ricevuto ranibizumab 0,5
mg rispetto al 16,8% nel gruppo 0,3 mg. In conclusione, il miglioramento dell’acuità visiva e dello
spessore della retina ottenuti con ranibizumab dopo 24 mesi di trattamento è persistito fino al 36°
mese. Il trattamento ritardato nei pazienti che hanno ricevono l’iniziale terapia sham non sembra
determinare lo stesso miglioramento visivo osservato nei pazienti originariamente randomizzati con
ranibizumab. Anche al 36° mese, il profilo di sicurezza oculare e sistemico era in linea con i risultati
osservati al 24° mese.
BRVO e CRVO
Due studi di fase III (BRAVO e CRUISE) sono stati condotti al fine di delineare il profilo di efficacia e
sicurezza del ranibizumab nell’edema maculare secondario ad occlusione venosa retinica rispettivamente di
tipo periferico e centrale.

Nello studio BRAVO (139) multicentrico, prospettico, randomizzato, controllato con sham, in doppio
cieco, della durata di al massimo 12 mesi, sono stati arruolati 397 pazienti e randomizzati in rapporto
1:1:1 in gruppi che hanno ricevuto iniezioni di 0,5 mg e 0,3 mg di ranibizumab (Tabella 10) e sham. Lo
studio ha previsto un periodo di screening di 28 giorni; un periodo di trattamento di 6 mesi durante il
quale i pazienti ricevevano un'iniezione al mese per 6 mesi per un massimo di 6 iniezioni; un periodo di
osservazione della durata di 6 mesi (dalla fine del sesto mese del periodo di trattamento) durante il quale
i pazienti che soddisfacevano requisiti anatomico-funzionali prestabiliti (es. valori di Snellen equivalentcorrected visual acuity, BCVA 20/40 sulla carta di lettura ETDRS o spessore medio retinico 250 m
alla tomografia a coerenza ottica) potevano ricevere iniezioni oculari. Durante i primi 6 mesi di studio i
pazienti erano sottoposti a visite periodiche; una il giorno della somministrazione e una dopo 7 giorni
dalla somministrazione. Ad ogni visita è stato effettuato un esame complessivo dell'occhio (incluso una
tomografia a coerenza ottica per valutare lo spessore centrale della fovea). Dopo 15 minuti dall'iniezione
veniva valutata la capacità del paziente di contare le dita e veniva valutata dopo 50-70 minuti la
pressione intraoculare. Se dopo 3 mesi di trattamento i pazienti presentavano valori di Snellen equivalent
BCVA 20/40, spessore medio retinico 250 m alla tomografia a coerenza ottica, riduzione di < 5
28
lettere alla BCVA o riduzione di 50 m dello spessore medio retinico rispetto alla visita effettuata 3 mesi
prima e l'emorragia era sufficientemente ridotta, i pazienti venivano sottoposti a fotocoagulazione laser.
-
Efficacy: In accordo con l'outcome primario definito, ovvero la variazione dello Snellen BCVA dal
valore basale (arruolamento) a 6 mesi, è stato osservato un miglioramento della BVCA rispetto al
basale di 16,6 (IC 95% 14,7–18,5) e 18,3 (IC 95% 16,0–20,6) rispettivamente nel gruppo di pazienti
trattamenti con ranibizumab 0,3 mg e 0,5 mg e un miglioramento di 7,3 (IC 95% 5,1–9,5) nel gruppo
con sham (tutte statisticamente significative). Inoltre, nel gruppo dei trattati con ranibizumab si
otteneva un miglioramento ≥ di 7,5 lettere entro 7 giorni rispetto al gruppo trattato con sham. È stato,
inoltre, evidenziato che il 55,2% dei pazienti arruolati ha avuto un risultato ≥15 lettere a sei mesi del
valore di BVCA rispetto al valore basale di BVCA nel gruppo trattato con 0,3 mg; mentre per il
gruppo trattato con 0,5mg si è ottenuta una percentuale del 61,1% e con lo Sham una percentuale del
28,8%. Di questi pazienti, la percentuale con Snellen BCVA ≥ 20/40 (considerato il valore della
scala che permette la lettura e la guida) è stato del 67,9% nel gruppo trattato con 0,3 mg, di 64,9%
nel gruppo trattato con 0,5mg e 41,7% nel gruppo trattato con sham. Si è osservata a 6 mesi una
riduzione dello spessore della fovea centrale (CTF) di 337 µm (nel gruppo con 0,3 mg), di 345 µm
(nel gruppo con 0,5 mg) e di 158 µm (nel gruppo con sham). La mediana della riduzione a 6 mesi del
CTF è stata di 97%, 97,6% e 27,9% rispettivamente per i gruppi 0,3 mg, 0,5 mg e sham. Solo il
18,7% e il 19,8% dei pazienti trattati rispettivamente con 0,3 mg e 0,5 mg hanno ricorso al
trattamento con laser rispetto al 54,5% dei riceventi sham. Quindi, le iniezioni intraoculari di 0,3 mg
e 0,5 mg di ranibizumab promuovono un rapido ed efficace trattamento del BRVO.

Safety: E’ stato osservato un basso tasso di eventi avversi oculari e non oculari.
Nello studio CRUISE (140) multicentrico, prospettico, randomizzato, controllato e in doppio cieco, 392
pazienti con edema maculare secondario a CRVO sono stati randomizzati in rapporto 1:1:1 a ricevere
iniezioni intraoculari mensili di 0,3 mg, 0,5 mg di ranibizumab o sham (Tabella 10).
-
Efficacy: La variazione media della BCVA dal basale a 6 mesi è stata di 12,7 (9,9 -15,4) e 14,9 (12,6
-17,2) nei gruppi 0,3 mg e 0,5 mg di ranibizumab e 0,8 (da -2,0 a 3,6) nel gruppo sham (p<0,0001
per ogni gruppo ranibizumab vs sham). La percentuale di pazienti che ha guadagnato più di 15
lettere è stata del 46,2% (0,3 mg) e 47,7% (0,5 mg) nei gruppi ranibizumab e del 16,9% nel gruppo
sham (p<0,0001 per ogni gruppo ranibizumab vs sham). A 6 mesi, un numero significativamente
maggiore di pazienti trattati con ranibizumab (0,3 mg=43,9%; 0,5 mg=46,9%) ha presentato valori
di BCVA ≥ 20/40 rispetto ai pazienti con sham (20,8%; p<0,0001 per ogni gruppo ranibizumab vs
sham). Si è osservata a 6 mesi una riduzione del CTF di 434 µm (nel gruppo con 0,3 mg), di 452 µm
(nel gruppo con 0,5 mg) e di 168 µm (nel gruppo con sham). La mediana della riduzione a 6 mesi del
CTF è stata di 94,0%, 97,3% e 23,9% rispettivamente per i gruppi 0,3 mg, 0,5 mg e sham.
29
-
Safety: Anche in questo caso, il profilo di sicurezza era paragonabile a quanto osservato nei
precedenti studi di fase III e, quindi, favorevole con una bassa percentuale di eventi avversi oculari e
non oculari.
2.2.2.3.d Aflibercept
CRVO
Due studi di fase III (COPERNICUS e GALILEO) sono stati condotti al fine di delineare il profilo di
efficacia e sicurezza dell’aflibercept nell’edema maculare secondario ad occlusione venosa retinica di tipo
centrale.

Lo studio COPERNICUS (141,142) di fase III randomizzato, controllato con sham, in doppio cieco, ha
valutato la somministrazione di aflibercept intravitreale in pazienti con CRVO. I 189 pazienti reclutati
nello studio sono stati randomizzati in rapporto 3:2 a ricevere 2 mg di aflibercept intravitreale o sham,
ogni 4 settimane per 24 settimane, con un totale di 6 dosi somministrate (Tabella 10). Dalla 24a alla 52a
settimana i pazienti sono stati visitati mensilmente ed hanno ricevuto iniezioni intravitreali di aflibercept
al bisogno. Tutti i pazienti sono risultati eleggibili a ricevere la fotocoagulazione laser in caso di
progressione della neovascolarizzazione.
-
Efficacy: Alla 24a settimana la percentuale di pazienti che ha guadagnato 15 lettere o più di acuità
visiva è stata di 56,1% e 12,3% rispettivamente nel gruppo con aflibercept e sham (p<0,001); alla
52a settimana, invece, le percentuali sono state di 55,3% e 30,1%. La variazione media dal basale di
acuità visiva nel gruppo con aflibercept e nel gruppo sham è stata, alla 24a settimana, di 16,2 vs -4,0
lettere (p<0,001). Inoltre, quando è stata aggiunta al gruppo con sham la somministrazione al
bisogno di aflibercept, la variazione media dal basale di acuità visiva, alla 52a settimana, è
migliorata da -0,4 a +3,8 lettere. La riduzione dello spessore retinico centrale (CRT) è stata di -457,2
μm nel gruppo con aflibercept alla 24a settimana e -413,0 μm alla 52a settimana, mentre nel gruppo
sham è stata rispettivamente di -144,8 e -381,8.
-
Safety: La percentuale di pazienti che hanno manifestato eventi avversi è stata simile tra i due
gruppi. Gli eventi avversi oculari più frequenti in entrambi i gruppi sono stati: riduzione dell’acuità
visiva, emorragia congiuntivale, dolore oculare e aumento della pressione intraoculare. Gli eventi
avversi più comuni non oculari sono stati ipertensione, nasofaringite e infezioni del tratto
respiratorio superiore.
Il trattamento con aflibercept è, quindi, risultato statisticamente significativo nel miglioramento dell’acuità
visiva e dello spessore retinico centrale dopo 24 settimane, mantenuto anche fino alla 52a settimana.

Analogamente allo studio Copernicus, è stato condotto lo studio GALILEO (143,144) su 177 pazienti
(Tabella 10).
30
-
Efficacy: Lo studio ha mostrato che, alla 24a settimana, la percentuale di pazienti che ha guadagnato
15 lettere o più di acuità visiva è stata di 60,2% e 22,1% rispettivamente nel gruppo con aflibercept e
sham; alla 52a settimana, invece, le percentuali sono state di 60,2% e 32,4%. La variazione media
dal basale di acuità visiva nel gruppo con aflibercept e nel gruppo sham è stata di 18,0 vs 3,3 lettere
alla 24a settimana e 16,9 vs 3,8 lettere alla 52a settimana (p<0,0001). Alla 24a settimana, la
riduzione media del CRT è stata di 448,6 μm e 169,3 μm, rispettivamente nel gruppo con aflibercept
e con sham (p<0,0001).
-
Safety: La percentuale di eventi avversi al basale è stata nel gruppo sham e di aflibercept di 64,7% e
54,8% alla 24a settimana e 50,9% e 69,1% alla 52a settimana. Gli eventi avversi oculari più
frequenti nei due gruppi sono stati
dolore all’occhio, aumento della pressione intraoculare,
emorragia congiuntivale, peggioramento dell’edema maculare e riduzione della acuità visiva.
L’incidenza degli eventi avversi non oculari è stata simile tra i due gruppi e l’evento avverso più
comunemente osservato era rappresentato dalla nasofaringite. Dalla 24a alla 52a settimana, la
maggioranza dei pazienti ha ricevuto 2,5±1,7 iniezioni di aflibercept. Il trattamento con aflibercept
intravitreale vs sham dopo 52 settimane ha determinato significativi benefici funzionali ed
anatomici. Inoltre, i miglioramenti ottenuti con 6 dosi di aflibercept alla 24a settimana sono stati
mantenuti fino alla 52a settimana.
AMD neovascolare
Due trial clinici randomizzati denominati VIEW (VEGF Trap-Eye-Investigation of Efficacy and Safety in
Wet Age-Related Macular Degeneration) 1 e 2 (145) hanno valutato la non inferiorità di tre regimi di
aflibercept a confronto con 0,5 mg di ranibizumab somministrato mensilmente su un totale di quasi 2500
pazienti. I quattro bracci di trattamento prevedevano la somministrazione intravitreale di a) aflibercept 0,5
mg al mese, b) aflibercept 2 mg al mese, c) aflibercept 2 mg ogni 2 mesi dopo 3 dosi iniziali mensili e d)
ranibizumab 0,5 mg somministrato mensilmente.
-
Efficacy: I risultati di questi due grandi studi hanno dimostrato che tutti i regimi di trattamento con
aflibercept determinavano effetti non inferiori e clinicamente equivalenti a ranibizumab
somministrato una volta al mese per l’end point primario (mantenimento della visione perdendo
meno di 15 lettere di BCVA a 52 settimane).
2.2.3. Studi di confronto
DEX vs FA
 In un case series pubblicato da Arcinue e coll. (146) sono stati presi in considerazione 27 occhi con
uveite non infettiva (16 trattati con FA e 11 con DEX). Il follow-up variava da 6 mesi a 2 anni. La
principale misura di outcome era rappresentata dal tasso di recidiva di uveite dopo impianto.
31
-
Efficacy: Nell’arco di 24 mesi, è stato osservato un tasso di recidiva di uveite pari a 17 e 5 per 1000
mesi-persona, rispettivamente, nel gruppo trattato con FA e in quello con DEX. Gli occhi trattati con
FA presentavano un rischio di recidiva 3,16 volte superiore, non statisticamente significativo
(p=0,41). Limitandosi ai primi 12 mesi di follow-up, l’incidenza di recidiva di uveite è risultata pari
a 28,57% nel gruppo trattato con FA e a 9,09% in quello trattato con DEX. Il risk ratio era pari a
3,14 (Retisert® vs Ozurdex®) con IC 95% di 0,41-24,27, ma la differenza non è risultata
statisticamente significativa (p=0,34). Il miglioramento dello score infiammatorio e della BCVA è
risultato sovrapponibile.
In 5 occhi su 11 (45%) trattati con DEX si è reso necessario un secondo impianto rispetto a 2 occhi
su 16 (12,5%) trattati con FA (Tabella 8). Il tempo mediano intercorso prima di un secondo
impianto era pari a 13 e 28 mesi, rispettivamente, nel gruppo trattato con DEX e in quello con FA
(p=0,0028). E’ stata osservata una probabilità 5 volte superiore che gli occhi trattati con DEX
ricevessero un secondo impianto (p=0,02).
-
Safety: E’ stato osservato che solo il 50% degli occhi fachici al basale, trattati con DEX, ha mostrato
una progressione della cataratta necessaria di un intervento chirurgico, mentre tale intervento si è
reso necessario nel 100% degli occhi fachici trattati con FA. Gli autori hanno concluso affermando
che “gli occhi sottoposti ad impianto di FA hanno un rischio 4,7 volte superiore di sviluppare una
progressione della cataratta (p=0,04) rispetto a quelli trattati con DEX”.
Tra i due gruppi non è stata osservata una differenza statisticamente significativa nell’incidenza di
aumento della pressione intraoculare ≥10 mm Hg. Nel gruppo trattato con DEX non si sono verificati
casi in cui si è resa necessaria una terapia antiglaucoma, intervento chirurgico o laser rispetto al 44%
(7 occhi) nel gruppo esposto a FA (p=0,02).
DEX vs bevacizumab
 Gado e coll. (147) hanno condotto uno studio per confrontare l’efficacia di tale impianto rispetto ad
iniezioni intravitreali di bevacizumab (Avastin) in pazienti con edema maculare secondario a CRVO. Si
tratta di un trial clinico randomizzato condotto negli Ospedali Universitari del Cairo su 60 pazienti (60
occhi) con diagnosi di edema maculare secondario a CRVO, senza evidenza di ischemia retinica e/o
neovascolarizzazione e con uno spessore della macula ≥300 μm.
I pazienti sono stati randomizzati a ricevere l’impianto intravitreale a base di DEX o iniezioni di
bevacizumab ripetute se necessario (30 occhi in ciascun gruppo). Durante il periodo di studio di 6 mesi,
nel gruppo trattato con DEX, il 100% dei pazienti (30) ha avuto bisogno di un secondo impianto alla
sedicesima settimana (2 trattamenti in 6 mesi), mentre nel gruppo trattato con bevacizumab la media è
stata di 4,3 iniezioni/occhio (4,3 in 6 mesi) (Tabella 8). Le misure di outcome erano rappresentate dalla
BCVA e dallo spessore della macula durante un periodo di 6 mesi.
-
Efficacy: Non sono state osservate differenze statisticamente significative nella BCVA fra i due
gruppi durante i 6 mesi (p>0,05). Nel gruppo esposto a bevacizumab, è stata osservata una riduzione
32
statisticamente significativa dello spessore ad 1 mese (p=0,006) e non statisticamente significativa
per il resto dei 6 mesi (p>0,05). Nel gruppo esposto a DEX, in tutti gli occhi (n=30; 100%) si è reso
necessario un solo ulteriore impianto al quarto mese (16 settimane), per mantenere l’effetto sulla
BCVA e sull’edema maculare.
-
Safety: E’ stato osservato che su 30 pazienti trattati con DEX solo tre pazienti (10%) hanno
sviluppato cataratta al quinto mese dopo aver ricevuto un secondo impianto al quarto mese. Inoltre,
non hanno osservato casi di endoftalmite e/o di distacco di retina nei pazienti trattati con DEX o con
bevacizumab durante il periodo di trattamento di 6 mesi.
 Lo studio BEVORDEX (70) riporta i risultati a 12 mesi di un confronto testa a testa tra un impianto di
DEX (0,7 mg) e bevacizumab (1,25 mg) condotto su 88 occhi (61 pazienti) con edema maculare
diabetico. Bevacizumab è stato somministrato in 42 occhi ogni 4 settimane e l’impianto di DEX è stato
somministrato in 46 pazienti ogni 16 settimane, entrambi pro re nata. I pazienti assegnati al trattamento
di bevacizumab hanno ricevuto una media di 8,6 iniezioni nell’anno, rispetto ad una media di 2,7
trattamenti con impianto di desametasone (Tabella 8).
-
Efficacy: Un miglioramento della BCVA di ≥10 lettere è stato osservato nel 40% degli occhi (17/42)
trattati con bevacizumab e nel 41% dei pazienti (19/46) trattati con DEX. Un significativo
miglioramento è stato osservato nello spessore maculare centrale (122 μm/bevacizumab e 187
μm/DEX) (p=0,015). Gli autori concludono che: “l’impianto di DEX ha una percentuale simile di
miglioramento nell’acuità rispetto a quella del bevacizumab con superiori outcome anatomici
attraverso un numero inferiore di iniezioni”.
-
Safety: E’ stato riportato che 4 occhi hanno subito un intervento di cataratta durante i primi 12 mesi
di studio di cui 1 paziente trattato con bevacizumab e 3 con DEX. Un aumento di ≥2 gradi rispetto al
basale nella densità di cataratta è stato osservato nel 13% (6/46) degli occhi trattati con DEX rispetto
al 4,8% (2/42) di quelli tratti con bevacizumab.
Inoltre, non sono stati osservati casi di distacco di retina correlati al trattamento nei pazienti allocati a
bevacizumab (N=42) o a DEX (N=46).
Nello studio si riporta che, durante il primo anno di studio, è stato osservato un aumento della
pressione intraoculare di almeno 5 mm Hg rispetto al basale nel 46% (21/46) degli occhi trattati con
DEX e nel 19% (8/42) di quelli trattati con bevacizumab. In 12 occhi trattati con DEX è stato
osservato un valore di pressione intraoculare >25 mm Hg. A fronte di tale evento, gli Autori
affermano che “nella pratica routinaria si dovrebbero esaminare gli occhi trattati con impianto di
DEX a 4-6 settimane dall’iniezione per monitorare la pressione intraoculare, per cui il numero di
visite da effettuare potrebbe non essere molto minore di quello necessario a seguito di
somministrazione di bevacizumab, ma il ridotto numero di iniezioni potrebbe essere associato a
meno rischi operativi, come endoftalmite infettiva.” Gli autori aggiungono anche che “E’ probabile
che i pazienti preferiscono un minor numero di iniezioni”.
33
Review su DEX vs FA vs TA
A. Ciulla e coll. (7)
E’ stata pubblicata recentemente una revisione della letteratura scientifica esistente allo scopo di valutare i
profili di efficacia delle iniezioni intravitreali di TA e degli impianti di FA e di DEX nel trattamento
dell’edema maculare diabetico. Tale analisi riporta le seguenti evidenze scientifiche.
a. Iniezioni intravitreali di Triamcinolone (TA):
-
Jonas e Degenring (148) hanno condotto uno studio su 26 occhi (20 pazienti) somministrando una
singola iniezione intravitreale di 25 mg. L’acuità visiva è migliorata in misura statisticamente
significativa (p<0,001) da 0,12 ± 0,08 dal valore basale ad un massimo di 0,19 ± 0,14 durante un periodo
medio di follow-up di 6,64 ± 6,10 mesi.
-
Martidis e coll. (149) hanno condotto uno studio trattando, con un’iniezione intravitreale di
triamcinolone, 16 occhi dopo il fallimento della fotocoagulazione con laser. Hanno osservato un
miglioramento medio dell’acuità visiva pari a 2,4, 2,4 ed 1,3 linee di Snellen, rispettivamente, ad 1, 3 e 6
mesi di follow-up. L’ispessimento della macula centrale si è ridotto del 55%, 58% e 38%,
rispettivamente, ad 1, 3 e 6 mesi di follow-up. A causa della ricomparsa di edema maculare è stato
necessario effettuare un’altra iniezione dopo 6 mesi in 3 pazienti su 8.
-
Massin e coll. (150) hanno condotto uno studio su 15 pazienti con edema maculare diabetico diffuso
bilaterale. Riportano che nell’occhio trattato con una singola iniezione intravitreale di 4 mg di TA è stata
osservata una riduzione statisticamente significativa dello spessore della retina rispetto all’occhio
controlaterale che rappresentava il controllo; tuttavia l’acuità visiva non migliorava in misura
statisticamente significativa.
-
Audren e coll. (151) hanno condotto uno studio su casi clinici di edema maculare diabetico refrattario
alla fotocoagulazione in 17 pazienti. Un occhio di ciascun paziente è stato trattato con una singola
iniezione intravitreale di 4 mg di TA, mentre l’altro occhio rappresentava il controllo. Il principale
outcome era rappresentato dallo spessore maculare centrale misurato prima dell’iniezione e poi a 4, 12 e
24 settimane. Negli occhi trattati questo parametro è migliorato da 566 ± 182 μm (al basale) a 359 ± 161
μm (a 24 settimane).
b. Impianto di fluocinolone (FA):
-
Pearson e coll. (152) hanno condotto uno studio su 196 occhi con edema maculare diabetico refrattario o
persistente allo scopo di valutare l’efficacia e la sicurezza di tale impianto. Gli occhi sono stati
randomizzati 2:1 a ricevere un impianto di 0,59 mg di FA (n=127) o standard of care (n=69) con
laserterapia o osservazione. L’outcome primario era rappresentato da un miglioramento di ≥15 lettere
nell’acuità visiva a 6 mesi, mentre gli outcome secondari includevano la risoluzione dello spessore
maculare e il Diabetic Retinopathy Severity Score. E’ stato evidenziato un miglioramento ≥3 linee
nell’acuità visiva nel 16,8% degli occhi sottoposti ad impianto rispetto all’1,4% degli occhi trattati con lo
standard of care a 6 mesi (p=0,0012), nel 16,4% versus l’8,1% ad 1 anno (p=0,1191), nel 31,8% versus
34
il 9,3% a 2 anni (p=0,0016) e nel 31,1% versus il 20% a 3 anni (p=0,1566). Il numero di occhi sottoposti
ad impianto, che non mostravano evidenza di ispessimento della retina centrale, era maggiore rispetto al
gruppo controllo a 6 mesi (p<0,0001), ad 1 anno (p<0,0001, 72% versus 22%), a 2 anni (p=0,016) e a 3
anni (p=0,0207).
-
Nello studio FAMOUS (153), 37 pazienti con edema maculare diabetico persistente, nonostante una
precedente laserterapia, sono stati randomizzati 1:1 a ricevere un impianto FA 0,2 o 0,5 μg/die per via
intravitreale. Dopo somministrazione di 0,2 μg/die, la BCVA variava rispetto al basale di 5,1, 2,7 ed 1,3
lettere, rispettivamente, a 3, 6 e 12 mesi, mentre dopo somministrazione di 0,5 μg/die variava di 7,5, 6,9
e 5,7 lettere, rispettivamente, a 3, 6 e 12 mesi. I campioni di umor acqueo hanno evidenziato un rilascio
prolungato intraoculare di FA per >1 anno.
-
Campochiaro and coll. (88) hanno riportato i risultati a 3 anni relativi a 953 occhi di pazienti con edema
maculare diabetico persistente dopo 1 o più trattamenti con laserterapia, randomizzati 1:2:2 a ricevere
un’iniezione di sham (n=185) o di FA a basso dosaggio (0,2 μg/die; n=375) o ad alto dosaggio (0,5
μg/die; n=393). A 36 mesi, è stato osservato un miglioramento di ≥15 lettere nel 27,8% degli occhi
trattati (FA ad alto dosaggio) e nel 28,7% (FA a basso dosaggio) versus il 18,9% degli occhi esposti a
sham (p=0,018). Un’analisi per sottogruppi ha evidenziato un particolare beneficio nei pazienti con
edema maculare diabetico per ≥3 anni.
c. Impianto di desametasone (DEX):
-
Nello studio PLACID (154), sono stati esaminati 253 occhi con edema maculare diffuso, in cui è stato
confrontato l’effetto dell’impianto di un dispositivo con 0,7 mg di DEX al basale associato a trattamento
con laser dopo 1 mese rispetto all’impianto di sham al basale e trattamento con laser dopo 1 mese. A 12
mesi nei 2 gruppi non è stata riscontrata una differenza statisticamente significativa nella percentuale di
pazienti che hanno raggiunto ≥10 lettere della BCVA, mentre la percentuale di pazienti nel gruppo
trattato con terapia combinata era maggiore ad 1 mese (p<0,001) e a 9 mesi (p=0,007). Nei pazienti con
edema maculare diabetico diffuso verificato con l’angiografia è stato osservato un miglioramento
maggiore della BCVA nel gruppo trattato con terapia combinata rispetto al gruppo che ha ricevuto solo
la terapia con laser (7,9 vs 2,3 lettere; p<0,013).
-
Pacella e coll. (155), hanno impiantato 0,7 mg di DEX in 17 pazienti (20 occhi) affetti da edema
maculare diabetico. Il numero medio di lettere è migliorato da 19 al basale a 26 dopo 1 mese, a 28 dopo
3 mesi, a 26 dopo 4 mesi e a 21 dopo 6 mesi. Lo spessore maculare centrale medio si è ridotto da 519 μm
al basale a 413 μm al 3° giorno, a 292 μm ad 1 mese e a 347 μm a 3 mesi; poi è aumentato a 477 e a 494
μm, rispettivamente, a 4 e a 6 mesi.
-
Nello studio CHAMPLAIN (156) sono stati arruolati 55 pazienti con edema maculare diabetico
resistente al trattamento e con una storia di vitrectomia, a cui è stato inserito il dispositivo intravitreale a
rilascio di 0,7 mg di DEX. I pazienti sono stati seguiti per 26 settimane. È stato osservato un
miglioramento statisticamente e clinicamente significativo sia nell’acuità visiva sia nel leakage vascolare
a 26 settimane. All’8° settimana, il 30,4% dei pazienti ha raggiunto ≥10 lettere nella BCVA.
35
Gli autori della revisione sopra riportata (7) concludono affermando che “la somministrazione intravitreale di
steroidi da un lato minimizza gli eventi avversi sistemici, dall’altro lato ha il vantaggio di inibire la
retinopatia diabetica e l’edema maculare diabetico attraverso l’azione su molteplici pathway. Inoltre, il
rilascio prolungato di basse dosi attraverso l’impianto di dispositivi a rilascio di DEX o FA può limitare la
frequenza delle iniezioni intravitreali, spesso necessarie con la terapia intravitreale a base di anti-VEGF.
L’impianto di glucocorticoidi probabilmente limiterebbe anche i costi associati a ripetuti trattamenti con la
terapia anti-VEGF che è molto costosa. Inoltre, verrebbe minimizzato anche il rischio di endoftalmite, dato il
numero inferiore di somministrazioni”. Concludono affermando che “Pur non essendo stati effettuati
confronti diretti tra i due dispositivi, sembra che quelli a rilascio di FA da un lato abbiano una durata
maggiore rispetto a quello a rilascio di DEX (riducendo potenzialmente il numero di visite ed il peso sui
pazienti e sui loro familiari), ma dall’altro lato potrebbe risultare associato ad un rischio maggiore di
ipertensione oculare e cataratta”.
B. Kiddee e coll. (157)
Per valutare l’associazione tra corticosteroidi ed insorgenza di ipertensione oculare, è stata condotta una
revisione sistematica della letteratura ed una metanalisi, tramite una ricerca condotta su Medline, Embase e
Cochrane Registry, in cui sono stati inclusi solo gli articoli in lingua inglese relativi a trial clinici
randomizzati, studi di coorte prospettici e studi retrospettivi condotti su soggetti di età ≥15 anni sottoposti a
somministrazione intravitreale di steroidi per una patologia oculare. La principale misura di outcome era
rappresentata dalla percentuale di pazienti con un aumento della pressione intraoculare. Gli outcome
secondari includevano l’esordio, la durata, l’entità, la gestione ed i fattori di rischio di aumento della
pressione intraoculare a seguito della somministrazione intravitreale di steroidi.
Dopo aver effettuato lo screening su 1.338 abstract, sono stati analizzati 174 articoli full text da cui sono
risultati eleggibili 129 studi (115 su iniezioni intravitreali di triamcinolone, 1 su iniezioni di desametasone, 7
su impianti a rilascio di fluocinolone e 6 su impianti a rilascio di desametasone).
Da tali articoli si evince che i fattori di rischio correlati al farmaco per l’ipertensione oculare sono
rappresentati dal tipo e dal dosaggio di corticosteroide e dal numero di iniezioni:
a. Tipo di Steroide: La prevalenza di ipertensione oculare dopo somministrazione intravitreale è risultata
decrescente nei gruppi trattati con FA, seguita dal TA e poi dal DEX. Tali confronti sono limitati tuttavia
dalle diverse definizioni utilizzate per l’ipertensione oculare.
b. Dosaggio di Steroidi: È stato osservato un trend tra l’aumento della dose di steroidi ed aumento del rischio
di ipertensione oculare; tale differenza era statisticamente significativa solo per il TA alla dose di 4 mg
rispetto alla dose di 25 mg.
c. Numero di iniezioni: Roth e coll. (158) hanno riportato un maggiore rischio di ipertensione oculare in
seguito a ripetute iniezioni, con il 26,9% (IC 95% 14,1-29,9) dei pazienti che hanno sviluppato ipertensione
oculare dopo una singola iniezione rispetto al 34,7% (IC 95% 29,7-39,9) e al 42,6% (IC 95% 33,7-51,9),
rispettivamente, dopo 2 e 3 iniezioni intravitreali di TA. Questo fatto è una considerazione importante in
36
patologie croniche che richiedono ritrattamenti nel tempo. Altri studi hanno riportato invece che non vi erano
differenze nel tasso di ipertensione oculare tra pazienti che ricevevano più iniezioni rispetto a quelli trattati
con una singola iniezione (159,160).
Analizzando maggiormente questi studi si documenta quanto segue relativamente al tipo e al dosaggio di
farmaco utilizzato:
-
Iniezioni intravitreali di TA (Tabella 6): Sono stati ritenuti eleggibili 56 studi con differenti dosi di
farmaco (4, 8, 10, 20 e 25 mg). Il TA 4 mg rappresentava il dosaggio più comunemente utilizzato nei
trial clinici (N=42) e con il numero più consistente di occhi inclusi (N=3654). Per tale dosaggio la
percentuale complessiva di occhi con pressione intraoculare ≥21 mm Hg o con un aumento ≥10 mm Hg
rispetto al basale è risultata pari a 32,1% (IC 95% 28,2-36,3). Il rischio di ipertensione oculare era
maggiore in misura statisticamente significativa per il dosaggio di 25 mg (45,9%; IC 95% 36,9 – 55,3)
rispetto alla dose di 4 mg.
-
Iniezioni intravitreali di DEX: Un solo studio ritenuto eleggibile riporta una percentuale pari a 16,7%
di occhi in cui era stato somministrato DEX per via intravitreale alla dose di 0,8 mg. Nei casi in cui era
stata somministrata la dose di 0,4 mg la pressione intraoculare non aveva mai superato 21 mm Hg.
-
Impianto intravitreale di FA (Tabella 6): Quattro studi sono stati ritenuti eleggibili con due dosaggi, di
cui 3 alla dose di 0,59 mg (totale: 190 occhi) ed 1 alla dose di 2,1 mg (N=168 occhi). La percentuale
complessiva di pazienti con un aumento ≥10 mm Hg rispetto al basale o una pressione intraoculare >21
mm Hg è risultata pari al 65,9% (IC 95% 50,2 – 78,8) in seguito al dosaggio di 0,59 mg e pari al 79%
(IC 95% 72,2 – 84,5) in seguito all’impianto di 2,1 mg di FA. La percentuale complessiva di pazienti con
ipertensione oculare (definita come pressione ≥30 mm Hg) è risultata pari a 61,4% (IC 95% 54,4 – 68,0)
in seguito ad impianto di 0,59 mg di FA. Non sono state osservate differenze statisticamente significative
in base alla dose.
-
Impianto intravitreale di desametasone (Tabella 6): 10 studi sono stati ritenuti eleggibili: 4 (per un
totale di 650 occhi) che hanno usato la dose di 0,35 mg e 6 (746 occhi) che hanno impiegato la dose di
0,7 mg. Un aumento della pressione intraoculare ≥10 mm Hg rispetto al valore basale o un valore di
pressione intraoculare ≥25 mm Hg si è verificato nel 10,9% (IC 95% 6,4-17,9) e nel 15,3% (IC 95% 9,2–
24,3) dei casi a seguito dell’impianto di DEX, rispettivamente, alla dose di 0,35 e 0,7 mg.
37
Tabella 6. Ipertensione oculare a seguito di trattamento intravitreale con steroidi: meta-analisi di trial
clinici (157).
Farmaco
Dose
TA acetonide
4 mg/0,1 ml
8 mg/0,2 ml
10 mg/0,2 ml
20 mg/0,2 ml
25 mg/0,2 ml
0,59 mg
2,1 mg
0,35 mg
0,7 mg
FA impianto
DEX impianto
Numero di studi
inclusi
42
4
2
5
3
3
1
4
6
Numero di occhi
inclusi
3 654
319
53
396
114
190
168
650
746
Stima cumulativa
(%)
32,1a
31,8a
30,0a
39,8a
45,9a
65,9a
79,0a
10,9b
15,3b
Intervallo
di
confidenza 95%
28,2-36,3
20,4-45,8
17,9-45,7
35,0-44,8
36,9-55,3
50,2-78,8
72,2-84,5
6,4-17,9
9,2-24,3
% = percentuale di occhi studiati che hanno sviluppato ipertensione oculare.
a
Ipertensione oculare definita come IPO ≥ 21 mmHg o ≥ 10 mmHg rispetto al basale.
b
Ipertensione oculare definita come IPO ≥ 25 mmHg o ≥ 10 mmHg rispetto al basale.
L’ipertensione oculare compare dopo un certo tempo di latenza dalla somministrazione intravitreale. I dati
disponibili documentano quanto segue:
-
Iniezioni intravitreali di TA: I risultati complessivi estrapolati dai trial clinici randomizzati eleggibili
hanno evidenziato che il tempo che intercorreva tra l’iniezione intravitreale di 4 mg di TA e
l’ipertensione oculare era pari a 2-4 settimane, mentre da studi non randomizzati emergeva che era di 1-8
settimane (149,150,161-171). In diversi studi è stato riportato che insorgeva anche prima di 1 settimana
dalla somministrazione (32,161-163,168,172-174).
L’occlusione del trabecolato da parte di cristalli di TA poteva essere la causa di ipertensione oculare
entro i primi giorni dall’iniezione (174).
Nel Diabetic Retinopathy Clinical Research (DRCR) network’s study (175) e nel lavoro di Lauer e coll.
(172) si riporta che l’insorgenza di ipertensione oculare è precoce dopo la somministrazione di 0,4 mg di
TA per via intravitreale. In questi studi, in cui l’ipertensione oculare era definita come un valore della
pressione oculare ≥30 mm Hg oppure un aumento della stessa >10 mm Hg rispetto al basale, tale evento
è stato osservato nello 0,4% dei casi dopo 4 ± 3 giorni dalla somministrazione, richiedendo la
somministrazione di farmaci antiglaucoma. Nel 4% dei casi, in cui è stata effettuata una successiva
iniezione intravitreale di TA, si è sviluppata un’ipertensione oculare entro 4 giorni e in >50% dei casi è
stato necessario effettuare un trattamento per ridurre la pressione oculare.
In due studi retrospettivi è stato osservato un aumento tardivo della pressione intraoculare (10 - 14
settimane dopo l’iniezione) (160,176).
In un piccolo case series l’ipertensione oculare si è manifestata dopo 20 – 24 settimane con valori di
circa 50 mm Hg (177).
Nei casi in cui si è sviluppata ipertensione oculare a seguito dell’iniezione intravitreale di 4 mg di TA, la
durata riportata è di 1–9 mesi con un picco massimo di pressione entro 2-12 settimane, con il ritorno ai
valori basali entro 4-9 mesi dopo l’iniezione (161,162,164,165,167,169,178-185).
Pochi studi hanno stabilito il tempo intercorso tra somministrazione intravitreale di 8 mg di
triamcinolone ed insorgenza di ipertensione oculare.
38
Ito e coll. (186) hanno riscontrato che il valore medio della pressione oculare iniziava ad aumentare 4
settimane dopo l’iniezione e raggiungeva un massimo a 12 settimane. La durata dell’ipertensione oculare
era di 6 mesi, con un valore medio che ritornava al livello basale a 6-9 mesi (186-188).
Nei casi di ipertensione oculare a seguito della somministrazione di 20-25 mg di TA, il tempo medio di
insorgenza era pari a 1-9 settimane dopo l’iniezione, con un livello massimo raggiunto a 12 settimane
(189,190). Il tempo medio per il ritorno al livello basale è di 5-9 mesi (189-198).
-
Iniezioni intravitreali di DEX: Solo in uno studio è stata riportata l’insorgenza di ipertensione
oculare dopo iniezione intravitreale di desametasone. Tale effetto si è manifestato il primo giorno
dopo la somministrazione e il valore della pressione oculare è tornato al valore basale circa 1 mese
dopo l’iniezione (199).
-
Impianto intravitreale di FA: L’insorgenza di ipertensione oculare dopo impianto intravitreale di
FA avviene entro 2–4 settimane, raggiungendo un massimo di 24-28 settimane e ritornando al
valore basale circa 9-12 mesi dopo l’impianto (153,200-202).
-
Impianto intravitreale di DEX: Non vengono riportate segnalazioni relative all’insorgenza di
ipertensione oculare dopo impianto intravitreale di desametasone; il tempo per il picco della
pressione intraoculare, tuttavia, è di 60 giorni dopo l’impianto, ritornando al valore basale entro 6
mesi (83,156,203,204).
Questa meta-analisi, limitata nella possibilità di un accurato confronto tra studi a causa delle diverse
definizioni per l’ipertensione oculare, evidenzia che la prevalenza di ipertensione oculare è maggiore nei
gruppi sottoposti ad impianto di FA o ad iniezioni di TA, rispetto a quelli con impianto di DEX. Evidenzia
anche che una storia pregressa o familiare di glaucoma sembra essere associata ad un maggiore rischio di
sviluppo di ipertensione oculare dopo somministrazione intravitreale di steroidi.
Infine, i risultati dello SCORE Study Research Group (205), che riporta l’ipertensione oculare osservata
dopo iniezione intravitreale di triamcinolone (4 mg, soluzione priva di conservanti), quando confrontati con i
risultati ottenuti dallo studio GENEVA (206) condotto su pazienti sottoposti ad impianto di DEX,
permettono di creare la sottostante tabella (Tabella 7).
Tabella 7. Ipertensione oculare da corticosteroidi: confronto tra i risultati dello studio GENEVA (206)
e quelli dello studio SCORE (205).
Numero di pazienti nello studio
Pressione intraoculare ≥ 35 mm Hg
Aumento della pressione intraoculare ≥10 mmHg
Farmaci per ridurre la pressione
Interventi chirurgici per rimuovere la cataratta
Studio
GENEVA DEX
0,7 mg
421
0%
0,9%
25%
1,3%
TA = triamcinolone acetonide priva di conservanti
39
Studio SCORE
TA 4 mg
(CRVO)
91
8,8%
26%
35%
5,3%
Studio SCORE
TA 4 mg
(BRVO)
138
10%
36%
41%
3,6%
Bevacizumab vs ranibizumab
Poiché nella pratica clinica bevacizumab è stato ampiamente utilizzato in campo oculistico, grazie
soprattutto ad un prezzo più favorevole rispetto alle altre molecole anti-VEGF con indicazione autorizzata, vi
sono diversi studi (post-marketing) che suggeriscono una efficacia simile a quella delle altre molecole, in
particolare con ranibizumab. Tali studi hanno dimostrato che l’effetto clinico del bevacizumab è
sostanzialmente sovrapponibile a quello del ranibizumab, così come in gran parte, ma non completamente, il
profilo di tollerabilità e sicurezza sia ad un anno che a due anni di trattamento. In tali studi, è stata valutata
l’efficacia comparativa di bevacizumab (1,25 mg) e ranibizumab (0,50 mg) per somministrazione
intravitreale mensile o quando necessario (in presenza di attiva neovascolarizzazione) in pazienti con età
superiore a 50 anni.
Nello studio multicentrico CATT-1 (207), di non inferiorità e a singolo cieco, in cui sono stati arruolati
1185 pazienti, il bevacizumab si è dimostrato equivalente rispetto a ranibizumab sia per somministrazione
mensile sia quando bevacizumab è stato assunto al bisogno o mensilmente rispetto a ranibizumab al bisogno.
L’assunzione sporadica di bevacizumab rispetto a ranibizumab mensile ha dato, invece, risultati non
conclusivi. Non sono state osservate differenze significative nella percentuale di pazienti con cambiamento
della migliore acuità visiva corretta di almeno 15 lettere (tra 91,5% a 95,4%) né in termini di tollerabilità.
Analoghi risultati sono stati ottenuti prolungando lo studio a 2 anni (studio CATT-2) (208). Solo l’incidenza
di eventi avversi sistemici gravi è risultata maggiore nei pazienti trattati con bevacizumab rispetto a quelli
trattati con ranibizumab (39,9% vs 31,7%; p=0,004).
Nello studio multicentrico IVAN (209) condotto su 628 pazienti non si è raggiunto un risultato conclusivo
tra bevacizumab e ranibizumab assunti mensilmente o al bisogno in termini di cambiamento medio
dell’acuità visiva (Tabella 8). La frequenza di eventi avversi (es. aterotrombotici e ospedalizzazione per
insufficienza cardiaca) e di mortalità non differiva tra i due gruppi.
Anche nello studio multicentrico MANTA (210) della durata di 1 anno, condotto su 317 pazienti, non vi
sono state differenze significative nell’aumento medio dell’acuità visiva, nella riduzione dello spessore della
retina, nelle dimensioni della lesione e nel numero di eventi avversi tra i due gruppi (Tabella 8). Pertanto,
bevacizumab si è dimostrato non inferiore al ranibizumab.
Infine, nello studio multicentrico GEFAL (211), che ha arruolato 501 pazienti, bevacizumab non è risultato
inferiore a ranibizumab; infatti, entrambi hanno ridotto in maniera analoga lo spessore maculare con una
simile incidenza di eventi avversi sistemici o oculari gravi (Tabella 8). Pertanto, il dato conclusivo che
emerge da tali studi di confronto è una sostanziale sovrapponibilità in termini di efficacia e sicurezza del
bevacizumab rispetto al ranibizumab nel trattamento di questa patologia.
Di contro a tali studi, diverse rivalutazioni di trial clinici pre-marketing e studi osservazionali hanno
evidenziato che bevacizumab, quando somministrato nell’occhio, anche se ad una dose molto inferiore (circa
un settantesimo di quella utilizzata in oncologia), può portare ad un aumento del rischio di eventi avversi,
rispetto ad altri anti-VEGF come ranibizumab. Infatti, i risultati di una recente revisione sistemica e meta40
analisi (212), sebbene non conclusivi, suggeriscono che i pazienti trattati con ranibizumab vanno incontro ad
un rischio più basso di infiammazione oculare (RR: 0,45; 95% CI: 0,23 to 0,89; P=0,02) ed eventi trombotici
venosi (RR: 0,27; 95%CI: 0,08 to 0,89; P=0,03) rispetto ai pazienti trattati con bevacizumab. Tuttavia, le
differenze tra i due gruppi non sono risultate significative in termini di decesso (P=0,69) e di eventi
tromboembolici arteriosi (P=0,71). Questi risultati sono, però, in contrasto con altre evidenze scientifiche, in
base alle quali non sussistono di fatto differenze sostanziali tra bevacizumab e ranibizumab. Ciò è quanto
riscontrato negli studi di confronto diretto tra bevacizumab e ranibizumab (ad es. CATT-1, CATT-2, IVAN).
Anche in uno studio di coorte retrospettivo che ha coinvolto oltre 146.000 pazienti non sono emerse, dopo
aggiustamento per fattori socio-economici, differenze tra bevacizumab e ranibizumab in termini di mortalità,
infarto miocardico acuto, ictus e sanguinamenti (213). Anche da una recente meta-analisi condotta dal
Gruppo Cochrane Italiano su commissione della Regione Emilia Romagna, non vi sarebbero differenze nel
profilo di sicurezza dei due farmaci (214).
Si attendono ulteriori dati (dallo studio osservazionale del programma LUMINOUS) (215) su una
popolazione più ampia di pazienti al fine di delineare meglio la sicurezza a lungo termine di questo farmaco
e di valutare ulteriormente il rischio di eventi rari ma gravi nel real life.
41
3. Problematica dell’aderenza alla terapia farmacologica
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) l’aderenza terapeutica è definita come “il grado di
effettiva coincidenza tra il comportamento individuale del paziente e le prescrizioni terapeutiche ricevute dal
personale sanitario curante” (216). L’OMS afferma, inoltre, che “La scarsa aderenza alle terapie croniche
compromette gravemente l’efficacia del trattamento, caratterizzandosi come un elemento critico per la
salute della popolazione, sia dal punto di vista della qualità di vita che dell’economia sanitaria … Interventi
tesi ad aumentare l’aderenza consentono un significativo ritorno degli investimenti, sia in prevenzione
primaria, sia in prevenzione secondaria … L’aderenza è un importante “modificatore” dell’efficacia dei
sistemi sanitari … Aumentare l’aderenza terapeutica può avere un impatto sulla salute della popolazione
molto maggiore di ogni miglioramento di specifici trattamenti terapeutici”.
L’aderenza alla prescrizione dipende dalla compliance del paziente nel rispettare il regime posologico (dose
e frequenza di assunzione) e la continuità al trattamento nel tempo, così come indicato dal medico
prescrittore (217).
L’adesione del paziente al trattamento porta, quindi, ad una maggiore probabilità di successo, minori
procedure diagnostiche, minori ospedalizzazioni e minor rischio di mortalità. Nello specifico di questa
review, l’aderenza dipende, non soltanto dall’efficacia del trattamento, ma anche dalla sua modalità e
soprattutto dalla frequenza delle somministrazioni.
Una prima considerazione va fatta sul numero di somministrazioni sulla base dei trial clinici e degli studi
osservazionali esistenti.
3.1. Aderenza al trattamento con un impianto di desametasone o fluocinolone
Un’analisi degli studi registrativi precedentemente citati permette di riassumere in tabella il numero di
somministrazioni intravitreali effettuate (Tabella 8).
Tabella 8. Numero di somministrazioni effettuate nei vari studi relativi agli steroidi
Studio
(n. bibliografia)
Dose/mg
Indicazione
N.
pazienti
N. medio di
somministrazioni
Haller JA et al., 2010 (83)
DEX 0,35
DEX 0,7
DEX 0,35
DEX 0,7
DEX 0,35
RVO
414
427
76
77
343
1 (6 mesi)
4,4 ± 1,9 (3 anni)
Lowder C et al., 2011 (84)
Boyer DS et al., 2014 (89)
Uveite
DME
DEX 0,7
Gado AS et al., 2014 (147)
Gillies MC et al., 2014
(Bevordex Study) (70)
Campochiaro PA et al., 2012 (88)
347
4,1 ± 2,0 (3 anni)
DEX 0,7
DEX 0,7
RVO
DME
30
46
2 (6 mesi)
2,7 (12 mesi)
FA 0,2
DME
209
76,1% = 1 (36 mesi)
18,7% = 2 (36 mesi)
5,3% = 3 (36 mesi)
68,8% = 1 (36 mesi)
24,2% = 2 (36 mesi)
7,0% = 3 (36 mesi)
1.1 (28 mesi)
1.4 (13 mesi)
FA 0,5
Arcinue CA et al., 2013 (146)
1 (6 mesi)
215
FA 0,59
DEX 0,7
Uveite
42
16
11
In particolare nello studio di Boyer viene riportato il numero di somministrazioni, medio e mediano, di
desametasone riportato in Tabella 9.
Tabella 9. Numero medio e mediano di somministrazioni di DEX (89)
Numero di trattamenti
in studio
1, n (%)
2, n (%)
3, n (%)
4, n (%)
5, n (%)
6, n (%)
7, n (%)
Media (DS)
Mediana
DEX impianto 0,7 mg
(n=347)
44 (12,7)
54 (15,6)
39 (11,2)
42 (12,1)
49 (14,1)
88 (25,4)
31 ( 8,9)
4,1 ( 2,0)
4
DEX impianto 0,35 mg
(n=343)
34 ( 9,9)
45 (13,1)
41 (12,0)
40 (11,7)
41 (12,0)
105 (30,6)
37 (10,8)
4,4 ( 1,9)
5
Sham
(n=350)
106 (30,3)
63 (18,0)
41 (11,7)
26 ( 7,4)
29 ( 8,3)
50 (14,3)
35 (10,0)
3,3 ( 2,2)
3
DEX = desametasone; DS = Deviazione Standard.
3.2. Aderenza al trattamento con farmaci anti-VEGF
3.2.1. Aderenza in base ai trial clinici
Un’analisi degli studi registrativi precedentemente citati permette di riassumere in tabella il numero di
somministrazioni intraoculari effettuate (Tabella 10).
Tabella 10. Numero di somministrazioni di ranibizumab (Ran), pegaptanib (Peg), aflibercept (Afl) e
bevacizumab (Bev)
Studio
Dose/mg
Indicazione
N. Pazienti
N. medio di iniezioni
(n. referenza)
MARINA
(134)
ANCHOR
(135)
PIER
(136)
RESTORE
(137)
RISE/RIDE
(138)
BRAVO/CRUISE
(139,140)
Gragoudas ES et
al., 2004
(130)
COPERNICUS
(141,142)
GALILEO
(143,144)
Ran 0,3
Ran 0,5
Ran 0,3
Ran 0,5
Ran 0,3
Ran 0,5
Ran 0,5
Ran 0,5 + laser
Ran 0,3
Ran 0,5
Ran 0,3
Ran 0,5
Peg 0,3
Peg 1,0
Peg 3,0
Afl 2
Afl 2
AMD
neovascolare
AMD
neovascolare
AMD
neovascolare
DME
CRVO
238
240
140
140
60
61
116
118
250 (125+125)
252 (125+127)
266 (134+132)
261 (131+130)
297
305
320
115
CRVO
104
DME
BRVO/CRVO
AMD
neovascolare
43
12 (12 mesi)
11,0 (12 mesi)
11,2 (12 mesi)
7 (12 mesi)
7 (12 mesi)
7 ± 2,81 (12 mesi)
6,8 ± 2,95 (12 mesi)
10,6 ± 2,6 (12 mesi)
10,9 ± 2,2 (12 mesi)
8,7 (12 mesi)
9 trattamenti (48 settimane)
5,8 (6 mesi)
8,5 (12 mesi)
11,8 ± 2,8 (52 settimane)
CATT
(207,208)
Bev 1,25 (iniezione mensile)
IVAN
(209)
MANTA
(210)
GEFAL
(211)
Bev 1,25
Bev 1,25 (al bisogno)
Bev 1,25
Bev 1,25
AMD
neovascolare
129
23,4 ± 2,8 (2 anni)
251
14,1 ± 7,0 (2 anni)
AMD
neovascolare
AMD
neovascolare
AMD
neovascolare
149
12 (2 anni)
154
6,1 ± 2,8 (12 mesi)
191
6,8 ± 2,7
§ fotocoag. al basale ed al 3 mese se necessario; §§ fotocoagulazione al basale ed al 3 mese.
* fino ad un massimo di 9; ** fino ad un massimo di 9; *** fino ad un massimo di 6.
^ dalla 24ma alla 52ma settimana tutti i pazienti ricevevano se necessario un’iniezione di 2 mg (media 2,7 ± 2,2).
3.2.2. Aderenza in base agli studi osservazionali
Nella pratica clinica, tuttavia, come si evince da numerosi studi di “real life”, viene somministrato un
numero minore di iniezioni di farmaci anti-VEGF rispetto a quanto utilizzato negli studi di registrazione.
Alla luce del concetto di aderenza sopra citato, tale tendenza ha delle inevitabili conseguenze quali la
possibile riduzione di efficacia del farmaco stesso.
A tael proposito sono presenti in letteratura studi che hanno valutato gli effetti derivanti dal reale utilizzo
nella pratica clinica di questi farmaci. Ad esempio:

Lo studio osservazionale AURA (218), retrospettivo e internazionale (Canada, Francia, Germania,
Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Regno Unito, Venezuela), è stato condotto su pazienti affetti da AMD trattati
con ranibizumab tra l’1 gennaio e il 31 agosto 2009 e monitorati per un periodo di follow-up fino a 2,5
anni. Questo studio riporta che il numero medio d’iniezioni in 2 anni è stato 9,0 nel Regno Unito, 6,3
in Francia, 5,6 in Germania e 5,2 in Italia.

Lo studio osservazionale, retrospettivo LUMIERE (219), che ha incluso 551 pazienti trattati con
ranibizumab e affetti da AMD, ha osservato un aumento medio dell’acuità visiva a 12 mesi di 3,2±14,8
lettere. Meno del 40% dei pazienti ha ricevuto il trattamento raccomandato delle 3 dosi iniziali mensili.
In più del 50% dei pazienti l’attesa tra la diagnosi e l’inizio della terapia è stata maggiore di 8 giorni. I
pazienti sono stati trattati in media con 5,1 iniezioni.

Lo studio osservazionale, multicentrico, EPICOHORT della durata 2 anni (220), pur essendo
finalizzato a valutare in pazienti con AMD il profilo di sicurezza di ranibizumab 0,5 mg nella pratica
clinica di routine (in termini di incidenza di eventi avversi, esposizione al trattamento, trattamento
bilaterale, compliance del paziente a quanto indicato in scheda tecnica, acuità visiva migliore corretta
(BCVA) oltre i 2 anni di trattamento) ha permesso di notare che i pazienti sono stati trattati con minore
frequenza rispetto a quanto previsto dalle raccomandazioni. Hanno, infatti, ricevuto in media 6,2
iniezioni nel corso dei 2 anni. Nella maggior parte dei pazienti sono state riportate deviazioni nel
protocollo in termini di aderenza al trattamento.

Ad oggi, è in corso un programma di monitoraggio del profilo di efficacia e sicurezza del ranibizumab
nelle patologie oculari. Tale programma (LUMINOUS) comprende una parte retrospettiva e una
prospettica (215). Quella prospettica, di natura osservazionale e della durata di 5 anni (ancora in corso),
include circa 30.000 pazienti (provenienti da Asia, Australia, Europa e Nord e Sud America) ed è
44
finalizzato a valutare la sua sicurezza ed efficacia nella pratica clinica; quello retrospettivo ha previsto,
invece, l’analisi dei dati di sicurezza, ad 1 anno, provenienti da 4 Registri europei sul suo utilizzo nella
AMD, al fine di stimare l’incidenza di eventi avversi di particolare interesse correlati a tale farmaco.
Nello studio retrospettivo, i dati raccolti e raggruppati hanno riguardato 4444 pazienti provenienti da
Germania (n=3470), Olanda (n=243), Belgio (n=260) e Svezia (n=471). La maggior parte dei pazienti
era, quindi, tedeschi (79%), di sesso femminile e di età compresa tra 77,6 e 78,7 anni. Il periodo di
follow-up di 1 anno è stato completato nel 70,4% - 84,4% dei pazienti. In base ai Registri tedesco,
olandese e svedese, il numero medio di iniezioni di ranibizumab per paziente che ha completato
l’intero anno è stato rispettivamente di 4,3, 5,5 e 4,7. Per tutti i pazienti del Registro belga, il
numero medio d’iniezioni è stato di 5,0.
Relativamente al profilo di sicurezza, da tale programma è emerso che gli eventi oculari di particolare
interesse più frequenti sono rottura dell’epitelio pigmentato retinico (27 pazienti; <1%) ed alterazione
della pressione intraoculare (12 pazienti; <0,3%). Tali eventi sono risultati più frequenti in Olanda. Tra
gli eventi non oculari è risultato, invece, di particolare interesse l’ictus (19 pazienti; 0,43%), anche se
l’incidenza annuale di ictus era bassa in tutti i registri (0,0-0,5%).
3.3. Aderenza comparativa tra impianto di desametasone ed iniezioni intravitreali di bevacizumab
Lo studio Bevordex (70) ha confrontato, come precedentemente riportato, i risultati clinici di un impianto di
DEX verso l’iniezione intravitreale di bevacizumab in pazienti con edema maculare diabetico. Nell’arco di
12 mesi (Figura 3) i pazienti hanno ricevuto in media 2,7 somministrazioni di DEX verso 8,6
somministrazioni di bevacizumab.
Figura 3. Numero di trattamenti in base al tipo di farmaco somministrato (70).
In base al confronto effettuato, gli Autori dello studio affermano quanto segue: “Il ridotto numero di
trattamenti richiesti dall’impianto di DEX (numero medio di trattamenti: 2,7 in 12 mesi) rappresenta
45
un’importante vantaggio rispetto al bevacizumab (numero medio: 8,6 in 12 mesi). Infatti, il ridotto numero di
iniezioni può essere associato con un minor rischio operatorio (esempio endoftalmite)”.
4. Compliance ed efficacia clinica

Lo studio osservazionale AURA (218), retrospettivo e internazionale (Canada, Francia, Germania,
Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Regno Unito, Venezuela), il cui obiettivo primario è stato il cambiamento di
acuità visiva in base all’effettivo utilizzo del farmaco, ha dimostrato che il miglioramento dell’acuità
visiva è risultato inferiore rispetto a quanto atteso a causa di un minore numero di iniezioni e di visite di
monitoraggio previste in un anno. I risultati (Tabella 11) evidenziano come l’aderenza alla terapia nei
pazienti arruolati in Italia era più bassa rispetto agli altri Paesi europei, determinando un peggioramento
della vista a 2 anni.
Tabella 11. Sintesi dell’utilizzo delle risorse e i cambiamenti nell’acuità visiva per Paese.
Paese
N.
N.
(medio)
visite
complessive
in 2 anni
Paesi arrulanti > 400 pazienti
Regno Unito
410
18,4
Olanda
350
12,7
Francia
398
13,4
Germania
420
10,8
Italia
365
12,7
N. (medio)
test per
AV
N. (medio)
TOC
eseguiti
N.
(medio)
iniezioni
Variazione
di AV
Variazione
di AV
Variazione
di AV
Valore di
AV
(medio)
in 2 anni
in 2 anni
in 2 anni
al 90° g
a 1 anno
a 2 anni
a 2 anni
17,8
7,0
9,2
7,7
6,5
16,6
5,9
9,1
3,4
4,9
9,0
8,7
6,3
5,6
5,2
5,7
4,6
4,1
3,3
1,4
6,0
3,8
0,8
1,1
0
4,1
2,6
-1,1
-0,8
-2,9
59,0
52,4
54,4
51,9
62,7
AV=acuità visiva; TOC=tomografia ottica a coerenza di fase; g=giorno.

Lo studio LUMIERE (219) ha dimostrato che al 3° mese l’aumento dell’acuità visiva era maggiore nei
pazienti che avevano ricevuto la somministrazione raccomandata e in quelli in cui la terapia era
cominciata tempestivamente e che nessun paziente è stato sottoposto a controllo mensile come da linee
guida.

Lo studio EPICOHORT (220) ha osservato che il calo medio della BCVA era di -1,5 lettere al 12° mese
e -1,3 lettere al 24° mese e ciò era associato ad un sottostimato trattamento rispetto al gruppo trattato più
intensamente, e comunque inferiore a quanto suggerito dalle linee guida.
La ridotta efficacia di un trattamento inappropriato trova conferma anche negli studi clinici. Infatti,
un’analisi retrospettiva dei 4 studi di fase III/IIIb (ANCHOR, MARINA, PIER e SAILOR) relativamente
all’impiego di ranibizumab nella AMD, dimostra quanto la compliance sia importante ai fini dell’efficacia
nei tempi di risposta in termini di acuità visiva del trattamento con ranibizumab (sia 0,3 mg che 0,5 mg). Nei
primi due studi (ANCHOR e MARINA) i pazienti hanno utilizzato dosi fisse mensili del farmaco per l’intero
periodo di studio. Nei secondi due studi clinici (PIER e SAILOR) 1067 pazienti hanno assunto il farmaco
con minore frequenza (trimestrale o al bisogno) dopo le iniziali 3 dosi di carico (221). Al 3° mese, dal 14,9%
al 29,4% dei pazienti aveva guadagnato ≥ 15 lettere. Non tutti i pazienti hanno raggiunto i valori massimi di
46
acuità visiva al 3° mese. Dopo il 3° mese, l’incremento persisteva quando è stato mantenuto il regime
mensile (ANCHOR e MARINA), mentre diminuiva quando si è passati al regime trimestrale o al bisogno
senza alcun successivo incremento (PIER e SAILOR) (Figura 4). Si è verificato un incremento ulteriore nel
regime mensile, dopo i primi 3 mesi, poiché vi sono stati più pazienti rispondenti in maniera ritardata al
trattamento (14,7-16,1%) rispetto a quelli con minor frequenza di trattamenti (5,0-6,0%). I pazienti che
hanno risposto precocemente alla terapia con un incremento di 15 lettere avevano una acuità visiva al basale
inferiore rispetto ai responder tardivi negli studi ANCHOR e MARINA. La somministrazione mensile ha
comportato una maggiore percentuale di pazienti con un recupero dell’acuità visiva ≥ di 15 lettere
rispetto ai pazienti che hanno seguito uno schema posologico meno frequente.
Figura 4. Variazione media dell’acuità visiva nel tempo tra i pazienti trattati con ranibizumab di
diversi studi clinici raggruppati (221).
Tutto quanto sopra dimostra inequivocabilmente che il ritrattamento frequente (e quindi il numero di
iniezioni di farmaco anti-VEGF) è fondamentale al fine di migliorare la BCVA.
Una retta di regressione costituita analizzando i trattamenti effettuati nei vari trial clinici (figura 5) conferma
ulteriormente lo stretto rapporto tra numero di somministrazioni intravitreali e miglioramento dell’acuità
visiva.
47
BCVA: migliore acuità visiva corretta; ETDRS: Early Treatment Diabetic Retinopathy Study
Figura 5. Correlazione tra il numero di iniezioni anti-VEGF e il guadagno medio di lettere ETDRS a
12 mesi nei trial clinici principali (137,138,222-226).
48
Conclusioni
La terapia farmacologica per il trattamento delle malattie retiniche ha negli anni compiuto notevoli passi
avanti grazie alla conoscenza dei meccanismi patogenetici di tali patologie, passando da un trattamento
sistemico gravato da una maggiore frequenza e gravità di eventi avversi a una terapia locale.
Corticosteroidi e anti-VEGF a uso intravitreale sono stati efficaci nel trattamento di tali malattie retiniche,
anche se non del tutto confrontabili perché, a oggi, solo pochissimi studi diretti di confronto sono disponibili.
In questo position paper sono analizzate le caratteristiche dei diversi cortisonici e anti-VEGF utilizzati nel
trattamento delle malattie retiniche, prevalentemente attraverso somministrazioni intravitreali. Inoltre, sono
riportati vari studi dalla letteratura che hanno valutato il profilo di efficacia e sicurezza di tali farmaci. E’
stata quindi affrontata la problematica dell’aderenza alla terapia per le patologie retiniche.
E’ ben noto che la mancata aderenza alla terapia può indurre un’efficacia inferiore a quella osservata nei trial
clinici registrativi e a quanto indicato nella scheda tecnica di un farmaco. Anche nella terapia delle malattie
retiniche con farmaci intravitreali, è stata evidenziata talora una scarsa aderenza al trattamento. Infatti, studi
osservazionali di real life mostrano che i pazienti sottoposti a terapia con anti-VEGF, per diversi motivi, non
sempre rispettano lo schema di somministrazione previsto. Un recente studio retrospettivo statunitense ha
riportato che i pazienti, cui era stato diagnosticato da poco tempo il DME, hanno ricevuto meno di 4
iniezioni di anti-VEGF nei primi 12 mesi di trattamento nella pratica clinica e ciò in netto contrasto con il
numero medio di 7-11 iniezioni somministrate nei trial clinici (227). Migliore risulta, invece, l’aderenza al
trattamento con impianti di corticosteroidi per i quali, dopo una risposta iniziale alla terapia, non sono
previste ripetute somministrazioni, salvo che il paziente non inizi a peggiorare o se a giudizio del medico il
paziente trarrà beneficio da un ritrattamento. Poiché l’impianto di desametasone permane nella retina per
circa 6 mesi, l’analisi degli studi descritti evidenzia che il numero di somministrazioni varia tra 1 e 3 l’anno e
ciò in linea con quanto previsto.
In Italia, la problematica dell’aderenza al trattamento intravitreale per le patologie oculari è stata affrontata,
alla luce delle limitazioni di spesa per il Sistema Sanitario, anche a livello regionale. In Regione Campania è
stata condotta un’analisi al fine di confrontare i costi totali per le terapie autorizzate per la RVO, quali
l’impianto a lungo rilascio di desametasone (DEX/Ozurdex®) e ranibizumab (Lucentis®) (228). Da tale
analisi è risultato che il costo della terapia (farmaco+prestazione) è per DEX 4,5 volte inferiore rispetto al
trattamento con ranibizumab. Pertanto, la Regione Campania ha deliberato che i farmaci a uso intravitreale
vanno utilizzati privilegiando il miglior rapporto costo/ beneficio per la specifica indicazione, prendendo in
considerazione il costo totale terapia/ paziente/ anno (farmaco+prestazione) e utilizzando lo schema
posologico degli studi registrativi (Decreto n. 70 del 10.06.2013 BURC n. 38 del 15 Luglio 2013).
Anche la Regione Emilia Romagna ha recentemente deliberato su questa problematica, specificando che
“Per quanto riguarda l’indicazione di ranibizumab nell’edema maculare secondario a RVO, non essendo
disponibili studi di confronto diretto con desametasone impianto intravitreale, la scelta dovrà essere
effettuata dal clinico, sulla base delle caratteristiche individuali dei pazienti considerando, a parità di
indicazione, il costo del trattamento” (documento PTR 223).
49
La gestione appropriata delle risorse sanitarie non è solo un problema italiano, ma anche di altri paesi come
evidenziato di recente dal Royal National Institute of Blind People (RNIB) per il Regno Unito. In un
sondaggio condotto nelle cliniche oftalmologiche inglesi su 172 operatori sanitari, oltre l'80% ha dichiarato
che il proprio reparto di oculistica ha una capacità insufficiente per soddisfare la domanda attuale e il 94% ha
affermato che la capacità futura non sarà in grado di soddisfare la crescente domanda con i budget esistenti.
Inoltre, con l'introduzione di terapie anti-VEGF, seppur riconoscendo il beneficio clinico delle stesse, si
rende necessario un numero sempre più elevato di trattamenti e visite e ciò a discapito di alcune condizioni
croniche oculari, che non potendo essere trattate con terapie anti-VEGF, rimangono di conseguenza prive di
trattamento (229).
In conclusione, vi sono oggi disponibili per il trattamento delle malattie retiniche soprattutto i farmaci
corticosteroidei e i farmaci anti-VEGF. Se si vuole tenere in considerazione soprattutto i costi e l’aderenza
alla terapia, gli impianti a lungo rilascio di corticosteroidi possono essere considerati farmaci da usare in
prima istanza per la maggior parte dei trattamenti delle malattie retiniche.
50
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