management e protocollo terapeutico delle osteonecrosi dei

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 MANAGEMENT E PROTOCOLLO TERAPEUTICO
DELLE OSTEONECROSI DEI MASCELLARI DA
BIFOSFONATI
SIDCO
RESPONSABILE DEL PROGETTO:
prof Carmen Mortellaro
INDICE
1. Introduzione
2. Bifosfonati
3. Farmacocinetica dei bifosfonati
4. Bifosfonati e le loro applicazioni cliniche
5. Lesioni osteonecrotiche dei mascellari indotte dai bifosfonati
6. Schemi di prevenzione e trattamento delle lesioni osteonecrotiche in pazienti in
terapia con bifosfonati
7. Bibliografia
1. INTRODUZIONE
L’attenzione dei clinici e della comunità scientifica sugli effetti collaterali delle terapie
croniche a base di bifosfonati è cresciuta sensibilmente negli ultimi anni.
Da stime recenti, emerge che i bisfosfonati rientrano tra i 20 farmaci più prescritti al mondo.
I bifosfonati rappresentano infatti la terapia d'elezione nel trattamento e/o nella
prevenzione di diverse patologie, quali il mieloma multiplo, l’ipercalcemia maligna (tumorinduced), di alcuni tumori solidi, delle metastasi ossee, nonché dell’osteoporosi e di alcuni
disordini ossei, quali il morbo di Paget e l’osteogenesi imperfetta.
L’osteonecrosi dei mascellari indotta dall’uso dei bifosfonati rappresenta una importante
complicanza a medio e lungo termine, descritta originariamente solo a carico dei pazienti
oncologici trattati con bifosfonati per via parenterale, ma riscontrata più recentemente
anche in quelli trattati con il farmaco per via orale. Tuttavia, data la relativamente recente
introduzione di questi farmaci nella farmacopea mondiale, i dati epidemiologici disponibili
sull’osteonecrosi dei mascellari da bifosfonati sono ancora carenti.
Ad oggi, oltre al metodo di somministrazione parenterale, anche la dose di farmaco
cumulata nel tempo rappresenta un importante fattore di rischio per lo sviluppo di lesioni
orali. A questi si aggiungono svariati fattori predisponenti, tra cui quelli più frequenti per lo
sviluppo di lesioni osteonecrotiche dei mascellari sono rappresentati da un’anamnesi
positiva per procedure di chirurgia orale, traumi dentali, oppure traumatismi cronici indotti
da manufatti protesici.
Sebbene l’incidenza di questa patologia sia tuttora relativamente bassa, in rapporto al
grandissimo numero di pazienti trattati con successo con i bifosfonati, essa non può
essere trascurabile tanto più che la gestione delle osteonecrosi è spesso difficile e non
codificabile soprattutto per le lesioni estese ed inveterate. A tal proposito, differenti
protocolli sono stati proposti, improntati soprattutto sulla prevenzione dell’insorgenza delle
lesioni orali e sul trattamento dei pazienti colpiti dall’osteonecrosi, spesso già seriamente
provati e sofferenti per la loro condizione sistemica di base.
2. BIFOSFONATI
I bisfosfonati sono analoghi strutturali del pirofosfato inorganico. A causa della sostituzione
con un atomo di carbonio dell’atomo di ossigeno nell’asse principale della molecola (e
quindi la formazione del legame P-C-P), i bisfosfonati sono resistenti alla scissione
idrolitica da parte delle pirofosfatasi dell’organismo. Essi sono inoltre caratterizzati dalla
presenza di due catene laterali, R¹ e R², che ne influenzano l’affinità, la potenza relativa e
il profilo di tossicità. La catena R¹, generalmente corta, partecipa al legame con la matrice
ossea mineralizzata, mentre la catena R² è responsabile delle proprietà biologiche dei
bifosfonati e differisce notevolmente da composto a composto (Figura 1).
Figura 1: struttura chimica della molecola
Pirofosfato inorganico
Bisfosfonato
I bifosfonati furono sintetizzati per la prima volta negli anni ’60 e l’aggiunta di catene
laterali al nucleo centrale ha consentito successivamente la sintesi di composti
farmacologicamente più attivi, tutti con spiccata affinità per il tessuto osseo. Dal punto di
vista chimico, i bisfosfonati si distinguono in non-amino bisfosfonati (bisfosfonati
di
prima generazione) ed in amino-bisfosfonati (bisfosfonati di seconda generazione) a
seconda dell’assenza o presenza di un atomo di azoto nella formula di struttura (Tabella
1). La sostituzione della catena laterale azotata sull’atomo di carbonio centrale della
catena aumenta la potenza e probabilmente la tossicità. I bifosfonati di I generazione,
come l'etidronato ed il clodronato, con struttura molecolare molto simile al pirofosfato,
sono metabolizzati all’interno degli osteoclasti e di tutte le cellule derivate dalla stessa
linea cellulare (monociti, macrofagi) e convertiti in un analogo non idrolizzabile dell’ATP,
che una volta incorporato in queste cellule, provocando un deficit energetico, ne causa la
morte immediata. Gli amino-bifosfonati agiscono invece sulla via del mevalonato,
inibendone l'enzima chiave, la farnesil-pirofosfato sintetasi che catalizza la biosintesi del
colesterolo a partire dal mevalonato stesso, finendo col produrre dei derivati isoprenilici
che comportano la mancata prenilazione post-traduzionale di diverse classi di proteine
GTP-asi dipendenti (Ras, Rac, Rho ecc.), le quali svolgono un ruolo fondamentale nel
mantenimento del ciclo cellulare. Esse agiscono infatti sulla trasduzione dei segnali
intercellulari, sulla morfologia e sulla proliferazione cellulare, indispensabili per la funzione
biologica e la sopravvivenza della cellula osteoclastica. L’inibizione di tale meccanismo
causa un’alterazione del citoscheletro dell’osteoclasta tale da determinarne l’impossibilità
a formare il“ruffled border”(orletto a spazzola), ed ha come effetto finale, una sua più
rapida apoptosi.
Gli amino-bisfosfonati, sono più potenti e maggiormente selettivi rispetto ai bisfosfonati di
prima generazione, e sono risultati essere in grado di inibire l’angiogenesi e la
proliferazione delle cellule tumorali sia in vivo che in vitro. Tra gli amino-bisfosfonati,
l’acido pamidronico e l’acido zoledronico si sono dimostrati i più efficaci, sia da studi in
vitro che dal punto di vista terapeutico, per il trattamento delle metastasi ossee e
dell’ipercalcemia neoplastica; tuttavia, data la maggiore percentuale di incidenza e la più
rapida insorgenza delle lesioni osteonecrotiche dopo assunzione di zoledronato, oggi si
tende ad indicare il pamidronato come bisfosfonato di prima scelta al posto dello
zoledronato, nonostante quest’ultimo sia ancora quello più prescritto.
Dalle caratteristiche a livello molecolare dipendono le caratteristiche cliniche, quali il loro
accumulo nel tessuto osseo e la lunga emivita, che sono tra l’altro alla base degli effetti
collaterali di tali sostanze.
Tabella 1: principali molecole di bifosfonati classificati per struttura chimica ed indicazione del principale
metodo di somministrazione
I generazione •
•
II generazione •
Clodronato (somministrazione per via endovensa/intramuscolare)
Etidronato (somministrazione per via orale)
Alendronato (somministrazione per via orale)
•
Neridronato (somministrazione per via endovensa/intramuscolare)
•
Pamidronato (somministrazione per via endovensa/intramuscolare)
•
Ibandronato (somministrazione per via orale)
•
Risedronato (somministrazione per via endovensa/intramuscolare)
•
Zoledronato (somministrazione per via endovensa/intramuscolare)
Figura 2: molecole di sintesi derivate dal bifosfonato
3. FARMACOCINETICA DEI BIFOSFONATI
In generale, i bifosfonati sono scarsamente assorbiti nell’uomo come risultato della loro
scarsa lipofilia. L’assorbimento avviene nel tratto gastrointestinale, in particolare nel
duodeno, ed è dose-dipendente. Una volta assorbiti, si legano alle proteine plasmatiche, in
particolare all’albumina, essendo completamente ionizzati a pH=7. Il legame tra la
molecola e le proteine plasmatiche è fortemente influenzato dal pH e dalla presenza di
calcio. Infatti, il calcio, presente nel latte e nei suoi derivati, forma chelati insolubili con i
bifosfonati, ed altri alimenti, quali succhi di frutta, cibi ricchi di ferro, caffè, etc, rendono
difficile l’assorbimento della molecola a libello del tratto gastro-intestinale. Per tali ragioni si
consiglia l’assunzione di questi farmaci a stomaco vuoto.
La somministrazione endovenosa, così come quella intramuscolare, garantisce una
biodisponibilità del 100%, per cui si raggiunge rapidamente una dose elevata. Per questo
motivo tali vie si sono dimostrate più efficaci nella terapia delle ipercalcemie secondarie a
metastasi scheletriche di neoplasie solide e neoplasie dell’apparato emopoietico. La
somministrazione orale dei bifosfonati dà una bassa biodisponibilità che è condizionata
anche da una notevole variabilità individuale. I bifosfonati assunti per via orale sono
assorbiti in minima parte, ossia solo per circa lo 0,5-2%. Questa bassissima quota ha
inoltre una breve emivita. Dopo 12-24 ore infatti, solo il 20-50% di essa è captata
dall’osso, il resto viene rapidamente escreto con le urine. Per questi motivi la via orale è la
più utilizzata nel trattamento dell’osteoporosi postmenopausale, laddove dosi più basse
del farmaco sono sufficienti a controllarne il turnover osseo e ad impedire le complicanze
scheletriche.
Dopo la somministrazione, i bifosfonati si allontanano rapidamente dal plasma; la molecola
si lega fortemente all’idrossiapatite ossea e viene rilasciata nuovamente nel momento in
cui il tessuto osseo è riassorbito. I bifosfonati rilasciati durante il rimodellamento osseo
possono
essere
farmacologicamente
attivi.
La
quantità
di
farmaco
rilasciata
quotidianamente in questa maniera dopo 10 anni di trattamento è stimata in circa il 25%
della quantità assorbita. La distribuzione dei bifosfonati nel tessuto osseo non è omogenea
e si pensa sia correlata alla maggiore o minore esposizione dell’idrossiapatite nei siti che
vanno incontro al riassorbimento osseo. Ciò spiegherebbe la maggiore concentrazione dei
bifosfonati a livello delle ossa spugnose, delle estremità articolari e delle ossa mascellari.
La quota di farmaco assunto che non si lega al tessuto osseo è invece escreta
immodificata per via renale. L’escrezione avviene tramite le vie comuni di eliminazione
renale e non tramite i sistemi di trasporto renali cationici-anionici.
Gli effetti dei bifosfonati sul riassorbimento osseo possono essere considerati a tre livelli:
tissutale, cellulare e molecolare. A livello tissutale l’azione di tutti i bifosfonati attivi appare
essere simile e si esplica come una riduzione del turn-over osseo. Ciò è evidenziato da un
decremento sia nel riassorbimento che nella formazione dell’osso, come valutato grazie a
marcatori biochimici. A livello cellulare, c’è un consenso generale nel ritenere che il
bersaglio finale dell’azione dei bifosfonati sia l’osteoclasta. I bifosfonati potrebbero ridurre
il riassorbimento attraverso l’inibizione del reclutamento osteoclastico, l’inibizione
dell’attività osteoclastica, riduzione della vita media dell’osteoclasta, alterazione
dell’idrossiapatite ossea tale da causarne, mediante un meccanismo puramente
fisiochimico e non cellulare, il tasso di dissoluzione. A livello molecolare, l’azione dei
bifosfonati, atti a determinare una inattivazione o una ridotta formazione degli osteoclasti,
non è stata del tutto chiarita, sebbene sia probabile che la molecola leghi un recettore
della superficie cellulare o interagisca con un enzima il cui effetto si ripercuote sul
metabolismo cellulare.
Figura 3: farmacocinetica dei bifosfonati, assorbimento
Figura 4: farmacocinetica dei bifosfonati, escrezione
Figura 5: tempi di accumulo del farmaco nel tessuto osseo in base alla via di somministrazione
4. BIFOSFONATI E LORO APPLICAZIONI CLINICHE
I bifosfonati rappresentano la terapia d'elezione nel trattamento e/o nella prevenzione di
diverse patologie, quali il mieloma multiplo, l’ipercalcemia maligna (tumor-induced), di
alcuni tumori solidi (carcinoma prostatico, carcinoma mammario), delle metastasi ossee,
nonché dell’osteoporosi e di alcuni disordini ossei, quali il morbo di Paget e l’osteogenesi
imperfetta. Gli effetti positivi derivanti dall’uso di questi farmaci sono evidenti, come la
prevenzione di ulteriori danni ossei, la diminuzione del dolore e, quindi, della necessità di
antidolorifici, e la riduzione di fratture patologiche, nonché la riduzione della necessità di
eseguire trattamenti radioterapici su segmenti scheletrici ed il trattamento delle
ipercalcemie maligne.
Nel trattamento delle patologie scheletriche di tipo benigno, come l’osteoporosi e il morbo
di Paget, i bifosfonati vengono utilizzati prevalentemente in formulazioni orali con dosaggi
bassi e prolungati; in ambito oncologico, invece, per il trattamento delle metastasi ossee,
poiché sono necessarie dosi di farmaco molto più elevate, si fa ricorso quasi
esclusivamente alla somministrazione per via endovenosa piuttosto ravvicinata nel tempo,
in modo da raggiungere in breve tempo elevate concentrazioni scheletriche. Inoltre,
l’aderenza alla terapia è più elevata nel paziente oncologico rispetto a quella del paziente
con osteoporosi.
L’alendronato, il risedronato e l’ibandronato vengono comunemente somministrati per via
enterale nelle donne in post-menopausa per il trattamento dell’osteoporosi e
dell’osteopenia, mentre il pamidronato e lo zoledronato hanno specifica indicazione nella
prevenzione delle complicanze ossee e nel trattamento dell’ipercalcemia maligna
associata a mieloma multiplo o a metastasi ossee.
I bifosfonati orali, quali l’etidronato ed il tiludronato sono di elezione per la terapia del
morbo di Paget, in fase attiva. L’ibandronato è usato, invece, per il trattamento
dell’osteopenia e dell’osteoporosi. Non sono stati ancora approvati l’utilizzo del
pamidronato per il trattamento infantile di osteogenesi imperfecta grave, displasia fibrosa,
osteoporosi, malattia di Gaucher, osteoporosi da corticosteroidi, per la prevenzione di
metastasi ematiche negli adulti e per ridurre la progressione della perdita di supporto
osseo nelle donne in gravidanza.
Per quanto riguarda le metastasi ossee, infatti, questi farmaci riducono l’attività
osteoclastica ed impediscono l’accrescimento delle dimensioni tumorali ed aumentano la
sopravvivenza e la qualità di vita dei malati. Per quanto riguarda l’ipercalcemia, l’acido
zoledronico è in grado di ridurre i valori calcemici entro i ranges fisiologici di (8.5 – 11.5
mg/dL) entro 24 ore.
L’azione antiriassorbimento e ipocalcemizzante è visibile anche nel morbo di Paget, e
aumenti della densità ossea sono stati riscontrati nel trattamento dell’osteoporosi con
alendronato.
5. LESIONI OSTEONECROTICHE DEI MASCELLARI INDOTTE DAI BIFOSFONATI
La prima descrizione di una complicanza odontoiatrica in una paziente in terapia con
bifosfonati è stata riportata nel 1995. Tra i possibili effetti collaterali dell’assunzione cronica
dei bifosfonati, l’insorgenza di osteonecrosi dei mascellari è stata ampiamente riportata in
letteratura, soprattutto dopo somministrazione per via sistemica, per la terapia
dell’ipercalcemia maligna e per la prevenzione delle fratture patologiche in soggetti a
rischio, con metastasi ossee o mieloma multiplo.
L’osteonecrosi dei mascellari è definita come una patologia infettiva e necrotizzante a
carattere progressivo con scarsa tendenza alla guarigione, descritta solo recentemente in
associazione alla terapia con bifosfonati.
Studi riportano come l’incidenza dell’osteonecrosi dei mascellari da bisfosfonati
somministrati per via endovenosa vari dallo 0.8% all’1.2%, in assenza di fattori di rischio
locali, fino ad arrivare al 9% qualora siano state effettuate estrazioni dentarie in corso o al
termine della terapia con il farmaco.
È stato dimostrato come un dosaggio di 4 mg al mese di zoledronato, possa causare
esposizione ossea entro 6 – 12 mesi, mentre un dosaggio di 90 mg al mese di
pamidronato, a somministrazione regolare, può dare esposizione ossea in 10 – 16 mesi.
Più recentemente, sono stati segnalati casi di osteonecrosi dei mascellari anche in
soggetti che assumevano il farmaco in trattamento con bisfosfonati orali (ad esempio con
alendronato o risendronato) per la cura e/o prevenzione dell’osteoporosi. In uno studio di
Mavrokokki et al., l’incidenza dell’osteonecrosi dei mascellari da bisfosfonati orali varia
dallo 0,01% allo 0,34%, anche in seguito ad estrazioni dentarie; una dose di 70
mg/settimana di alendronato somministrato per via endorale potrebbe causare
esposizione ossea in almeno 3 anni. Nonostante il minor rischio relativo, legato alla
tipologia di farmaco ed alla modalità di assunzione, la larga diffusione di pazienti che sono
in terapia con bisfosfonati orali per il trattamento dell’osteoporosi, giustifica l’allarme
sociale per le lesioni dei mascellari da bisfosfonati.
I meccanismi patogenetici dell’osteonecrosi dei mascellari non sono stati ancora
completamente compresi ed il management dei pazienti affetti si è finora basato su linee
guida cliniche redatte da opinionisti esperti e da analisi di case series.
Il meccanismo con cui i bisfosfonati determinano l’insorgenza dell’osteonecrosi dei
mascellari sembrerebbe legato alla marcata riduzione del flusso ematico che si verifica
all’interno del tessuto osseo. Inoltre, il coinvolgimento selettivo della ossa mascellari nello
sviluppo delle lesioni è correlato all’elevato turn-over delle ossa mascellari e mandibolari,
nonché
alla
particolarità
dell’ambiente
orale,
in
quanto
tali
strutture
risultano
costantemente esposte a traumatismi ed a possibili infezioni.
Nel 2005 Marx, in uno studio condotto su 119 pazienti, attribuiva le presunte cause di
osteonecrosi alle estrazioni dentarie (37,8%), alla chirurgia parodontale ed endodontica
(12%), ad interventi di implantologia (3,4%), e segnalava un rapporto con le
parodontopatie nel 28,6% dei casi. Nonostante l'accertato rapporto patogenetico tra
interventi di chirurgia orale ed osteonecrosi da bifosfonati, sono stati segnalati numerosi
casi a insorgenza spontanea o idiopatica; studi più recenti riportano una percentuale più
elevata di queste forme di osteonecrosi, dal 25-30% a oltre il 40%. In tali forme non
connesse a terapia odontoiatrica non è chiaro il ruolo che giocano gli altri fattori, locali o
sistemici, nel causare, promuovere o far progredire la patologia ossea. In alcuni casi sono
riscontrabili differenti patologie odontostomatologiche quali lesioni parodontali, carie,
ascessi odontogeni, trattamenti endodontici incompleti, ed è inoltre da segnalare la
presenza di tori palatini e mandibolari; l’ipotesi è che vi sarebbe un danno all’epitelio da
bifosfonati che compromettendo la capacità di guarigione della mucosa orale ai traumi
porterebbe ad una infezione secondaria dell’osso spontanee potrebbero essere dovute a
infezioni dento-parodontali reiterate.
Le lesioni osteonecrotiche dei mascellari possono perdurare in maniera asintomatica
anche per settimane, mesi o anni, manifestandosi solo a seguito della loro esposizione
nella cavità orale, o esordire con imponente sintomatologia dolorosa. Il passaggio da una
condizione asintomatica alla comparsa della sintomatologia spesso è determinato da
sovrainfezione batterica o in presenza di un trauma dei tessuti molli. L'osteonecrosi può
anche presentarsi con disturbi blandi, spesso che il paziente riconduce a dolenzie a carico
della gengiva o della mucosa orale.
Segni e sintomi tipici, oltre all’esposizione di osso alveolare necrotico (giallo-grigio) a
livello mandibolare e/o mascellare che non ha tendenza alla guarigione, includono la
presenza di sequestri ossei e di deiscenze mucose che non cicatrizzano, ma tendono anzi
a peggiorare, tumefazione dei tessuti molli e del volto, mobilità dentale seguita dalla
perdita degli stessi elementi dentari, alterazioni della sensibilità, sotto forma di parestesie
o disestesie, dolore alle ossa mascellari o dentale, spesso resistente ai comuni farmaci
anti-infiammatori, sovrainfezioni batteriche ricorrenti o persistenti dei tessuti molli perilesionali, presenza di fistole intra ed extraorali drenanti pus, alitosi, difficoltà nella comune
igiene orale, nell’alimentazione, e nell’eloquio, calo ponderale, trisma reattivo dei muscoli
masticatori, fratture patologiche.
Tabella 2: Revisione della letteratura effettuata da T. Van den Wyngaert e Coll. (2006)
6.
SCHEMI
DI
PREVENZIONE
E
TRATTAMENTO
DELLE
LESIONI
OSTEONECROTICHE IN PAZIENTI IN TERAPIA CON BIFOSFONATI
A seguito delle frequenti segnalazioni, si è creata una forte sensibilizzazione verso questo
raro ma severo evento avverso associato alla terapia con bisfosfonati. Tuttavia, non pochi
restano i dubbi al riguardo. È stata pubblicata una serie di raccomandazioni, rivolte allo
specialista odontoiatra e maxillo-facciale, per la gestione del paziente in trattamento con
bisfosfonati, le quali, tuttavia, presentano alcuni limiti.
Il primo di tali limiti è quello di accomunare tutti i pazienti che per diverse indicazioni sono
in terapia con bisfosfonati, in quanto non sempre sono gli stessi i fattori di rischio che
incidono sul paziente mielomatoso, oncologico o osteoporotico. Il secondo limite è
rappresentato dalla scarsità di evidenze scientifiche sull’argomento; alla base di tali
argomentazioni sono pochi infatti gli studi longitudinali ed i trials randomizzati, mentre la
fanno da padrone le opinioni di singoli clinici o di gruppi di esperti.
Poiché al momento non esiste una terapia efficace per l’osteonecrosi dei mascellari da
bisfosfonati, che rimane attualmente una patologia con andamento peggiorativo e
invalidante, è importante l’attuazione di protocolli di prevenzione primaria, o eseguire uno
screening sui pazienti sottoposti a terapia cronica con bifosfonati allo scopo di
intraprendere una diagnosi precoce della patologia e prevenire le potenziali complicazioni.
Prima di iniziare il trattamento con bifosfonati, i pazienti dovranno essere
adeguatamente informati sui benefici della terapia e dei possibili rischi connessi, compresa
la reale entità del rischio di osteonecrosi da bifosfonati; inoltre, essi dovrebbero essere
sottoposti ad una visita odontoiatrica per la valutazione della salute orale, per
l’impostazione di un adeguato programma di prevenzione e l’eventuale trattamento di
patologie locali.
I pazienti con patologia orale e/o coloro che per la patologia e/o la terapia in atto
presentano compromissione del sistema immunitario e/o maggior rischio infettivo, come
chi è affetto da diabete mellito non controllato, sindrome da immunodeficienza acquisita o
malattie ematologiche, chi è sottoposto a terapia immuno-soppressiva o corticosteroidea
cronica, o chi fa abuso cronico di alcool o fumo, devono essere considerati a maggior
rischio di sviluppare osteonecrosi da bifosfonati.
In tali casi, il medico specialista e/o il medico di medicina generale, dovrebbero indirizzare
ad una visita odontoiatrica i propri assistiti che devono iniziare la terapia farmacologica.
L’odontoiatra prende in carico il paziente ed, in accordo con il medico specialista, identifica
il trattamento terapeutico di cui necessita.
Nello specifico, nei pazienti trattati dal punto di vista odontostomatologico prima dell’inizio
della terapia con bisfosfonati, la prevenzione dell’osteonecrosi dei mascellari consiste
nell’esecuzione della terapia odontoiatrica (chirurgica e non) prima della somministrazione
di questi farmaci. È necessario posticipare la terapia endovenosa di 2 – 3 mesi,
permettendo all’odontoiatria di eliminare i potenziali fattori di rischio per l’osteonecrosi. Nei
pazienti con un buon controllo di placca, la terapia endovenosa può essere fatta prima di
questo tempo. Per quanto riguarda i pazienti con scarsa igiene orale, bisogna dare priorità
ai trattamenti di terapia parodontale non chirurgica ed a quelli di tipo conservativo –
endodontici, per prevenire l’esecuzione futura di estrazioni. Occorre, inoltre, programmare
subito le estrazioni dei denti in inclusione parziale (inclusione mucosa) o di quelli con
scarsa prognosi (denti con malattia parodontale severe o non recuperabili da punto di vista
conservativo-protesico). La riabilitazione protesica non deve essere a supporto implantare
per il rischio di rimodellamento osseo, che può aversi a causa della malattia, ma deve
prevedere solo riabilitazioni con protesi fissa o mobile, anche eliminando i tori di grandi
dimensioni.
Le protesi rimovibili, laddove già presenti, andrebbero modificate, sostituite o ribasate allo
scopo di prevenire e ridurre fenomeni di decubito o compressione meccanica dei tessuti
orali
In linea generale, la terapia con bifosfonati dovrebbe essere posticipata al raggiungimento
di un adeguato stato di salute dento-parodontale. Tuttavia, per i pazienti che devono
sottoporsi a terapia odontoiatrica non chirurgica, la somministrazione di bisfosfonati può
non essere differita. Quest’ultima deve avere la priorità su qualsiasi cura odontoiatrica,
informando il paziente del rischio che le lesioni ossee possano comparire nell’arco di sei
mesi.
Nel caso di interventi chirurgici orali indispensabili per il trattamento dell'infezione e del
dolore, l'odontoiatra valuta, in accordo con il medico specialista, il possibile rischio di
osteonecrosi, adotta protocolli di trattamento specifici, utilizza tecniche che minimizzino il
trauma locale ai tessuti, ed effettua un monitoraggio postoperatorio frequente. In tali
pazienti, è opportuno che la terapia con bifosfonati venga posticipata di almeno un mese e,
comunque, fino al completo ristabilimento della continuità della mucosa gengivale
sovrastante la breccia chirurgica; sono comunque sconsigliati interventi di implantologia
orale; è necessario, inoltre, rendere meno traumatici i manufatti protesici rimovibili.
La scelta dell’iter preventivo e terapeutico di un paziente già in terapia con bifosfonati
che non presenta lesioni osteoneocrotiche dei mascellari parte innanzitutto dalla sequenza
classica: anamnesi, esame obiettivo e piano di trattamento.
Nell’anamnesi medica generale, ed in quella dentale specifica, è utile inserire domande
chiave che possano permettere di individuare i pazienti a rischio per tale patologia, ed
eventualmente le caratteristiche della sintomatologia che hanno convinto il paziente a
rivolgersi allo specialista. Soprattutto per quanto riguarda il trattamento dei pazienti che
assumono bisfosfonati per via endovenosa è importante rilevare il nome del farmaco,
l’indicazione, la via e la frequenza di somministrazione.
L’esame obiettivo, extra- ed intraorale, deve essere accurato ed accompagnato da test ed
esami radiografici appropriati, per mettere in luce le situazioni che chiaramente possono
suggerire la presenza di un’osteonecrosi o di un’osteomielite, come esposizione di osso,
fistole di dubbia origine, alitosi, presenza di tumefazioni localizzate, dolore, disestesie o
parestesie. È estremamente importante l’utilizzo dei test di vitalità, quelli per valutare lo
stato infiammatorio dei tessuti periapicali (palpazione e percussione) e l’osservazione con
mezzi d’ingrandimento di una valida radiografia endorale. Utili sono anche le
ortopantomografie (OPT) le tomografie assiali computerizzate (TC) o la RMN.
La visita di un paziente che assume bisfosfonati per via endovenosa prevede la ricerca di
aree di esposizione ossea con attenzione alla corticale linguale posteriore del mascellare
inferiore e non deve prescindere da un esame radiografico con OPT. Tale esame
evidenzia la presenza di masse osteolitiche, con attenzione al legamento parodontale, in
cui si può assistere a fenomeni di slargamento, sclerosi o perdita della lamina dura.
Alcune lesioni possono, poi, coinvolgere le forcazioni dei molari inferiori.
Al fine di formulare un corretto piano di trattamento, occorre in primo luogo cercare di
avere un rapporto diretto con gli altri specialisti coinvolti nella gestione del paziente per
quanto riguarda le patologie che hanno determinato la necessità della terapia con
bisfosfonati. Dinanzi ad un paziente oncologico, il contatto con l’oncologo o l’ematologo
che ha prescritto la terapia è utile, specialmente se questo ha consigliato al paziente di
sottoporsi ad una visita odontoiatrica prima dell’inizio della terapia. Se il paziente assume i
bisfosfonati per la cura dell’osteoporosi, il confronto con il medico di base si rivela molto
importante. Infine, il rapporto con il chirurgo maxillo-facciale è inevitabile per affrontare le
complicanze delle lesioni osteonecrotiche, quando già manifestate.
Altro elemento importante da valutare e la durata del trattamento con i bifosfonati, dato
che tali farmaci subiscono il fenomeno dell’accumulo nel tessuto osseo a causa della
lunga emivita.
Se la durata del trattamento mediante bifosfonati per via orale è inferiore ai 3 anni, ed in
assenza di fattori di rischio locali e/o sistemiche, è necessario il raggiungimento e
mantenimento di un adeguato stato di salute dento-parodontale e di igiene orale.
In assenza di lesioni clinicamente obiettivabili, il trattamento odontoiatrico deve essere
estremamente conservativo, evitando, per quanto possibile, ogni forma di chirurgia.
Bisogna, quindi preferire la terapia parodontale non chirurgica, i trattamenti endodontici, lo
splintaggio dei denti con elevata mobilità, eliminare i fattori di rischio locali (manufatti
protesici o otturazioni incongrue, margini dentali appuntiti o taglienti), ed evitare l’utilizzo di
vasocostrittore associato all’anestetico locale.
La terapia parodontale deve essere eseguita con scaling del tartaro sopragengivale,
accompagnata dalla prescrizione di sciacqui a base di clorexidina 0,20%. La terapia
protesica prevede l’utilizzo di protesi mobili da ribasare frequentemente per evitare
decubiti.
Se è presente un elemento dentario con mobilità superiore al III grado o con un ascesso, e
l’unica terapia possibile è l’estrazione, essa deve essere eseguita sotto adeguata
copertura antibiotica. Prima di ogni procedura invasiva che comporti manipolazione delle
ossa mascellari, è consigliabile effettuare una consulenza specialistica con il medico
prescrittore del farmaco, per valutare l’eventuale sospensione della terapia (3 mesi
secondo Marx, sebbene non sussistano al momento evidenze scientifiche), o la
prescrizione di una terapia sostitutiva. È inoltre possibile effettuare la valutazione del CTX
sierico come marker di valutazione del turn-over osseo.
Nel caso di peri-implantiti, la terapia non chirurgica è da preferirsi a quella chirurgica.
Qualora si renda necessario l’approccio chirurgico, è possibile eseguire una revisione
chirurgica dei tessuti molli peri-implantari sotto copertura antibiotica (effettuando un
minimo rimodellamento dei contorni ossei, se necessario).
Per evitare il rischio di sovrainfezioni batteriche, frequenti nei pazienti oncologici, è
necessario prescrivere una terapia profilattica. La profilassi si attua con somministrazione
di una dose di amoxicillina/acido clavulanico 1000 mg, eventualmente combinata a
metronidazolo, da assumere a partire da 1-2 giorni prima della procedura odontoiatrica e
da proseguire per ulteriori 7-10 giorni dopo la procedura. Nei pazienti allergici alle
penicilline si può prescrivere levofloxacina, da somministrare in dosi di 500 mg 1 - 2 ore
prima dell’intervento, ed una volta al giorno per i 5 giorni successivi, o in alternativa
azitromicina, in dosi di 500 mg 1 - 2 ore prima dell’intervento ed una volta al giorno per i 5
giorni successivi. La clindamicina da sola non è adeguata, perché non è attiva contro le
Eikenella e Moraxella ed ha bassa attività contro gli Actinomyces, coinvolti nelle lesioni da
osteonecrosi da mascellari.
La sospensione del bisfosfonato per un periodo di alcune settimane prima e dopo
l’intervento odontoiatrico invasivo può essere raccomandato in via cautelativa, sebbene
non esistano evidenze che tale approccio riduca il rischio di osteonecrosi da bifosfonati.
I pazienti con lesioni osteonecrotiche conclamate devono essere inviati ad un chirurgo
maxillo – facciale. L’esame clinico odontostomatologico prevede la rilevazione della
lesione, che si manifesta come osso necrotico, spiegandone al paziente la natura e le
possibili complicanze (carattere irreversibile di essa, sintomatologia, fratture). La lesione, a
causa della necrosi, si presenta generalmente non dolente, tranne quando si espone
ulteriormente e si infetta. Risulta, quindi, molto importante la terapia antisettica.
L’approccio chirurgico dovrebbe essere considerato solo in casi limitati sintomatici, quando
la gestione antimicrobica non è in grado di controllare la malattia. Terapie palliative come
la
somministrazione
di
clindamicina
e
l’ossigenoterapia
non
sembrano
essere
particolarmente efficaci. È altrettanto inutile sospendere la terapia con i farmaci, dato la
loro lunga emivita.
La terapia non chirurgica (conservativa, endodontica, protesica e parodontale) deve
essere sempre tesa al raggiungimento e mantenimento di un adeguato stato di salute
dento – parodontale e di un adeguato stato di igiene orale. La terapia farmacologica varia
in base al quadro clinico e sintomatologico.
In caso di limitata esposizione ossea ed algia moderata, è indicata una antibiotico –
terapia ciclica (ad esempio una settimana al mese) ad ampio spettro, mediante
amoxicillina/acido clavulanico 1000 mg ogni 12 ore per 15 giorni, da associare
eventualmente a metronidazolo 250 mg ogni 12 ore per 15 giorni, da effettuare anche in
caso di miglioramento clinico o completa remissione della sintomatologia algica. A tale
protocollo farmacologico va aggiunta la prescrizione di sciacqui con clorexidina più
applicazioni in gel ed eventuale associazione di antimicobatterici ed antimicotici. Vanno
inoltre valutati i pro ed i contro della sospensione della terapia ed effettuati controlli
periodici anche in caso di miglioramenti clinici.
In caso di grave esposizione ossea ed algia severa, il protocollo farmacologico
precedentemente
descritto
può
essere
sostituito
con
somministrazione
di
piperacillina/tazobactam i.m. (1 fl ogni 12 hh per 15 gg) oppure ampicillina/sulbactam i.m.
(1 fl ogni 12 hh per 15 gg). Può essere consigliato il courettage osseo delicato della zona
necrotica esposta e/o causa di traumi ai tessuti, evitando ulteriore esposizione di tessuto
osseo sano, sotto copertura antibiotica ad ampio spettro, oltre alla prescrizione di farmaci
analgesici per ridurre la sintomatologia algica.
In caso di esposizione ossea più severa, è indicato un debridement o la sequestrectomia
per mezzo di terminale piezoelettrico e, nei casi più gravi, resezione parziale, marginale o
segmentale dei mascellari seguita o meno da una fase ricostruttiva. In ogni caso, va
evitato l’utilizzo di vasocostrittore in associazione all’anestetico locale.
Alla luce di queste considerazioni, è importante sottolineare che molti di questi pazienti
presentano una condizione di compromissione sistemica, talvolta non compatibile con
trattamenti più radicali, così come una minore aspettativa di vita, per cui già il solo
ottenimento di una migliore qualità di vita attraverso procedure poco invasive può essere
considerato un traguardo sufficiente e favorevole.
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