Abbazia del Santo Salvatore
Attestata per la prima volta dalle fonti nel 1075 (Bolla emessa al
termine di un Concilio provinciale dall’allora Arcivescovo di Benevento
Milone, e sottoscritta da Leopoldo, abate del monastero), l’Abbazia di San
Salvatore è uno dei monumenti meglio conservati e più suggestivi della
valle Telesina. L. Petrucci ne fa risalire la costruzione agli anni tra il 774
ed il 782, epoca del principe longobardo Arechi II, mentre A. M.
Iannacchino cita un atto di donazione di Aione, duca di Benevento, come
prova dell’esistenza a San Salvatore (nel IX secolo) di una cella monastica
alle dipendenze di Montecassino, intorno alla quale cominciano a disporsi
le abitazioni dei telesini in fuga dalla città romana, in seguito a terremoti
ed incursioni saracene.
Grazie alle fonti letterarie si possono seguire le vicende degli abati
succedutisi nella conduzione del monastero e, per il loro tramite, aprire
interessanti prospettive sulla storica politico-religiosa del Sud Italia in
epoca medievale, non soltanto per l’ospitalità concessa a personaggi
importanti, ma anche per il ruolo assunto dal monastero nella
conservazione della cultura in quanto sede di un’importante officina
scrittoria.
Il convento ospitò Anselmo d’Aosta nell’estate del 1098, quando
l’allora arcivescovo di Canterbury fu invitato a Roma dal papa Urbano
II. La “Storia di Telesia” dello Iannachino, ci dice che l’abate
Giovanni, superiore dell’abbazia di San Salvatore alla fine del sec. XI e
discepolo di Anselmo quando questi era stato abate presso il monastero di
Bec in Normandia nel 1078, convinse il teologo di Aosta a soggiornare a
San Salvatore. Secondo quanto è riportato nel testo, il frate e biografo di
Anselmo, Edmero, sostiene che durante la permanenza nell’abbazia, il
grande teologo avrebbe scritto il suo capolavoro,”Cur Deus homo”; al
santo aostano è ancora oggi dedicato un pozzo che serviva per le esigenze
dei frati e la cui fonte (secondo la leggenda) venne individuata dal santo in
un periodo di siccità di siccità.
Un altro personaggio storico legato strettamente alle sorti
dell’abbazia fu il re normanno di Sicilia, Ruggiero II, al quale un
importante abate, Alessandro Telesino, dedicò una biografia, “De rebus
gestis Ruggierii Siciliae Regis”, nella quale riporta la notizia che Ruggiero
fu ospite della badia nel 1134 e nel 1135, il sovrano donò al monastero
oltre che oro ed argento la “collina di Massa Superiore, il feudo di
Carattano e la Villa degli Schiavi”. Un ulteriore elemento che ci autorizza
a credere che tra i secc. XI e XIII l’abbazia di San Salvatore abbia svolto
un ruolo importante nella vita religiosa di questa parte dell’Italia
Meridionale è un atto notarile dal quale si evince che quando nel luglio del
1237 il “monaco cassinese”, Giovanni da Capua fu consacrato abate di San
Salvatore da papa Gregorio IX (fu colui che scomunicò l’imperatore
Federico II di Svevia), il re Carlo II d’Angiò ne pretese un giuramento di
fedeltà. La storia della nostra abbazia si intreccia con le storie di altri
siti benedettini presenti in Italia Meridionale, tutti a loro volta dipendenti
dalla casa madre di Montecassino, presso la quale dall’Alto Medioevo era
un funzione uno straordinario laboratorio di realizzazione di codici miniati
che con le loro immagini tratte dall’arte bizantina hanno irradiato in tutto il
Sud Italia la maniera pittorica dell’Impero Romano d’Oriente, prima del
soggiorno napoletano di Giotto e dell’arrivo di Pietro Cavallini, proprio a
qualche suo valente seguace penetrato nell’entroterra campano si
potrebbero attribuire i cicli di affreschi conservati nella cappella di
Sant’Antonio a Sant’Angelo d’Alife ed in quella di San Biagio a
Piedimonte Matese.
Sorta sul sito già occupato da una imponente villa suburbana di età
tardo repubblicana (scavi 1991- 2007), l’abbazia è costituita in origine da
una semplice cella benedettina che intorno al X secolo diventa un vero e
proprio monastero. Il complesso è composto inizialmente da una serie di
vani rettangolari (forse ambienti di servizio, refettori, dormitori e
magazzini), a cui si riferiscono una serie di fosse granarie. A questa fase si
riferisce una necropoli di tombe a cassa di tufo, che occupano parte
dell’interno della villa, tagliando un bel mosaico in opus signinum
realizzato con tessere incrociate di colore bianco e nero, che nel settore
centrale creano un motivo geometrico.
Dell’edificio, di recente oggetto di studio e restauro, rimangono l’interno a
tre navate lunghe 33 m ca., di cui quella centrale larga 7,4 m e le laterali 4
m, terminanti con tre absidi tagliate da un transetto largo 19 m; nell’area
antistante sono visibili il chiostro, il campanile ed il giardino. Dalla navata
laterale sinistra si accede agli ambienti sotterranei, che costituiscono la
Cripta.
All’interno delle absidi si conservano squarci di pregevoli affreschi,
restaurati nel 2007, che si datano tra il XII e il XIII secolo, stilisticamente
inquadrabili nella pittura sacra di tradizione gotico-bizantina. Nell’abside
centrale si conservano resti acefali pertinenti a dodici figure sacre,
interpretabili come apostoli o santi, disposti su due file. Nell’abside
laterale destra è rappresentata da un lato l’immagine di un santo con
pastorale e libro sacro (forse sant’Anselmo), dall’altro la figura di Santa
Scolastica, che sorregge un tralcio di gigli ed un libro sacro incastonato.
Nell’abside laterale sinistra si conserva, in posizione simmetrica rispetto
alla sorella, la raffigurazione di San Benedetto associata ad una ulteriore
figura di santo.
Il monastero, gestito dagli abati per oltre 400 anni, diviene oltre che
un centro di preghiera, una vera e propria azienda agricola, luogo cruciale
per l’economia di tutto il territorio, fino all’abbandono definitivo alla fine
del 1500. La crisi del monachesimo benedettino, unita al ruolo non sempre
fortunato assunto dagli abati nelle vicende storico-politiche del territorio,
tra le quali il coinvolgimento dell’abate Mattia nella congiura dei Baroni
contro Ferdinando di Aragona, determinano la definitiva decadenza
dell’abbazia; essa viene soppressa per volontà del re e trasformata nel
1450-1460 in una Commenda ecclesiastica, che persiste fino alla fine del
Settecento, quando, con l’occupazione militare francese e l’abolizione dei
privilegi feudali, la commenda viene messa in vendita e rilevata dalla
famiglia Pacelli.
Nel XIX secolo il complesso subisce un cambiamento di destinazione
d’uso: al suo interno viene ricavato un impianto di trasformazione agricola
con magazzini e un frantoio; la cripta viene ampliata e utilizzata come
cantina per vini, mentre davanti alla chiesa viene costruito un palazzotto
signorile con cappella annessa. La creazione di un mulino rimasto in
funzione fino alla fine degli anni Sessanta del Novecento, costituisce
l’ultima trasformazione del complesso prima di diventare sede
dell’Antiquarium, che ospita oggi i reperti provenienti dall’antica Telesia.