Alessandro Bosi, Integrazione, interazione e socialità nell’universo multiculturale, in Vincenza Pellegrino (a cura), Mediare tra chi e che cosa? Riflessioni di studiosi e operatori sanitari sull’incontro con il paziente migrante, Unicopli, Milano, 2007. Integrazione, interazione e socialità nell’universo multiculturale Alessandro Bosi 1. Multiculturale o multietnico? Sono trascorsi dieci anni da quando Will Kymlicka pubblicò il libro Multicultural Citinzenship nel quale, constatando come nel mondo fosse enorme il divario tra il numero di stati indipendenti (184) in rapporto alle molte comunità linguistiche (600) ed etniche (5000) esistenti, tracciò una distinzione fra i termini multiculturale e multietnico sulla quale ancor oggi non sembra esservi accordo. Kymlicka sottolineava come, nella storia, le “comunità politiche organizzate” sono perlopiù multietniche “in virtù della centralità delle conquiste e degli scambi a lungo raggio nelle vicende umane" (Kymlicka, 1999: 8). Questa articolazione avrebbe riscosso un’attenzione inadeguata da parte dei commentatori che avrebbero elaborato “un modello idealizzato della polis, in cui i cittadini condividono una stessa discendenza, una stessa lingua e una stessa cultura. Persino quando vivevano in imperi poliglotti che governavano un’ampia varietà di gruppi etnici e linguistici, i pensatori politici hanno spesso dato per scontato che le città-stato culturalmente omogenee dell’antica Grecia rappresentassero il modello basilare o standard di una comunità politica” (ibidem). Ai nostri giorni, un approccio di questo tipo, che ipotizza l’unità dove invece si afferma la diversità, si rivelerebbe in tutta la sua fragilità. Ovunque, il rapporto fra maggioranze e minoranze sarebbe “una fonte di divisioni” e Kymlica annota con cura i motivi ricorrenti di dissidio: “Le minoranze e le maggioranze si scontrano sempre più spesso su tematiche quali i diritti linguistici, l’autonomia regionale, la rappresentanza politica, i programmi educativi, le rivendicazioni territoriali, le politiche per l’immigrazione e la naturalizzazione e persino i simboli nazionali (come la scelta dell’inno nazionale o le festività pubbliche). La più grande sfida per le democrazie contemporanee consiste nel trovare soluzioni moralmente accettabili e politicamente praticabili di questi problemi. Nell’Europa dell’Est e nel terzo mondo i conflitti nazionalisti stanno intaccando i tentativi di creare istituzioni liberaldemocratiche. Nell'Occidente gli assunti che hanno guidato la vita politica per decenni sono messi in pericolo da scontri sui diritti degli immigrati, sui popoli indigeni e le altre minoranze culturali. Dalla fine della guerra fredda i conflitti etnonazionali sono diventati la più diffusa fonte di violenza politica al mondo, e nulla fa pensare che essi si attenueranno in futuro” (ivi: 7-8). Questo elenco di conflitti all’interno delle democrazie, potrebbe ai nostri giorni essere aggiornato in considerazione dell’intraprendenza che le minoranze sono venute guadagnando nel rivendicare i loro diritti e alla consapevolezza delle maggioranze di dover attuare politiche del riconoscimento che preservino gli equilibri politici consolidati. Seguendo questa logica, le maggioranze sono più avvertite di quanto non fossero in passato nel considerare nuove richieste; d’altra parte, proprio questa consapevolezza dilata ogni germe di domanda e ne favorisce il proliferare. L’agenda dei problemi proposta da Kymlicka, più o meno aggiornata, si è insomma trasformata nella fisiologia della democrazia e di conseguenza non possiamo continuare a ragionare come se fossimo di fronte alla questione del multiculturalismo che imporrebbe precisi indirizzi di ricerche e sedi istituzionali deputate a risolverla; dovremo invece ammettere di vivere in un ambiente multiculturale che orienta il nostro modo d’essere al mondo. Il multiculturalismo non è un oggetto di studio o l’obiettivo delle pratiche politiche orientate all’integrazione di tutte le diversità; è il nostro modo di esistere nel presente e nel futuro, per quanto ci sia dato di vedere. Le moderne società liberali, dove si trovano in abbondanza “varie nicchie di stili di vita, (di) movimenti sociali e associazioni di volontari”, ciascuno dotato di una “propria cultura” (ivi: 34)., avrebbero, secondo Kymlicka, attuato in modo esemplare quella diversificazione delle culture che è una caratteristica endogena di ogni società. 1 Alessandro Bosi, Integrazione, interazione e socialità nell’universo multiculturale, in Vincenza Pellegrino (a cura), Mediare tra chi e che cosa? Riflessioni di studiosi e operatori sanitari sull’incontro con il paziente migrante, Unicopli, Milano, 2007. Per queste ragioni, la proliferazione delle culture avviene senza che una società debba necessariamente incontrare a) popolazioni “di culture territorialmente concentrate che in precedenza si governavano da sole”1 b) una diversità culturale derivata “dall’immigrazione di individui e famiglie” (ivi: 21-22). Kymlicka considera questi i “due modelli generali di diversità culturale” (ib.) che caratterizzano in modo proprio le società nelle quali convivono popolazioni di diverse tradizioni e provenienza. A parer suo, l’uso dell’espressione società multiculturale non giova a descrivere condizioni di questo tipo e deriva da un equivoco sul termine cultura che descrive in questi termini: “Se la cultura si riferisce alla ‘civiltà’ di un popolo, allora tutte le società moderne condividono, in pratica, la stessa cultura. Se si definisce la cultura in questo modo, persino un paese multinazionale come la Svizzera o un paese polietnico come l’Australia si rivela essere poco ‘multiculturale’, in quanto i vari gruppi nazionali ed etnici che li compongono partecipano comunque alla stessa forma moderna e industrializzata di vita sociale” (ivi, 34-35). Per superare questi equivoci, Kymlicka considera la cultura come sinonimo di nazione o popolo e con essa “designa una comunità intergenerazionale, più o meno compiuta dal punto di vista istituzionale, che occupa un determinato territorio e condivide una lingua e una storia distinte” (ib.). In questo senso, l’espressione stato multiculturale appare generica se confrontata con stato multinazionale2 e con stato polietnico3. Kymlicka si propone di fondare una teoria politica che tenga conto degli ordinamenti giuridici attraverso i quali gli stati garantiscono il diritto di cittadinanza alle popolazioni straniere; nondimeno è evidente4 la sua attenzione ai limiti che gli strumenti concettuali disponibili rivelano di fronte a trasformazioni che investono le basi della convivenza civile come le abbiamo pensate con la nascita dello stato moderno. In un periodo della storia in cui l’emigrazione ha cambiato la geografia umana del globo ed è sempre più diffusa la tendenza degli individui a vivere e morire in una parte del mondo diversa da quella dove sono nati, Kymlicka s’interroga dunque su come si viene trasformando la fisionomia dello stato moderno. Ma come potremo utilizzare il suo schema di analisi se avanzeremo dubbi sulla sopravvivenza stessa dello stato? È quanto ci propone Zygmunt Bauman in uno scritto apparso cinque anni dopo quello di Kymlicka5. Emblematica, a questo riguardo, l’attuale condizione dell’Europa che Bauman analizza nel capitolo Dalle tribù alle nazioni e ritorno. Dopo aver ricordato come dalle tribù e dai gruppi etnici si passi alle nazioni e agli stati, Bauman osserva che “Stato e nazione erano l’unione perfetta, una coppia benedetta dal cielo” in quanto “poggiava solidamente sul treppiede della sovranità militare, economica e culturale” (Bauman, 2002: 245). Ma ben presto il potenziale distruttivo delle armi si fa beffe dei confini fisici e delle strategie militari così da rendere gli stati più insicuri È il caso di nazioni federate o di minoranze assorbite nel processo espansivo di uno stato. Nello schema precedentemente enunciato sarebbe il modello a), relativo a uno stato federale i cui membri appartengono a diverse nazioni 3 Nello schema precedentemente enunciato sarebbe il modello b), relativo a uno stato che accoglie membri immigrati da diverse nazioni 4 Lo si nota particolarmente quando affronta la questione dell’esclusione storica di gruppi endogeni (portatori d’handicap, gay, lesbiche, donne, classe operaia, atei, comunisti) che “attraversa i confini dei gruppi nazionali ed etnici” e soprattutto nel capitolo La tolleranza e i suoi limiti che meriterebbe una trattazione a parte. 5 Nei cinque anni che dividono l’analisi di Kymlicka dalla posizione radicale di Bauman, altri autori hanno considerato la crescente domanda di multiculturalismo delle popolazioni e dei diversi gruppi etnici come un fattore alla base della crisi cui va incontro lo stato-nazione nelle società postmoderne. Nel 1996, Jurgen Habermas aveva confrontato l’ipotesi di un superamento dello stato-nazione con quella di una concezione dell’inclusione che continua a fare i conti con esso (Habermas, 1998: 119-173). Nello stesso 1996, Habermas discute con Charles Taylor sulle lotte per il riconoscimento (Habermas, Taylor, 1998) che Axel Honneth aveva affrontato già nel 1992 (Honneth, 2002) analizzando, a partire dalla Realphilosophie jenese di Hegel, la struttura dei rapporti di riconoscimento nel passaggio dalla dimensione interpersonale (Mead) a quella sociale (Marx, Sorel e Sartre). 1 2 2 Alessandro Bosi, Integrazione, interazione e socialità nell’universo multiculturale, in Vincenza Pellegrino (a cura), Mediare tra chi e che cosa? Riflessioni di studiosi e operatori sanitari sull’incontro con il paziente migrante, Unicopli, Milano, 2007. e indifendibili: l’autosufficienza nazionale appare dunque un miraggio. Analogamente, la tendenza alla concentrazione di ricchezze aumenta fino all’affermarsi di un capitale sovranazionale che liquida ogni residua tendenza al protezionismo e alle politiche economiche così da infliggere un colpo mortale alla sovranità economica. Quanto all’indipendenza culturale, è del tutto evidente che l’avvento della rete informatica globale ha portato a compimento il processo, già evidente nei primi decenni del XX secolo, per cui i prodotti culturali, per vivere e fiorire, hanno bisogno di affermarsi in una dimensione mondiale. In breve, il treppiede della sovranità che “segnava i confini prospettici dell’esistenza statale” dà evidenti segni di cedimento e alimenta il sogno d’indipendenza delle comunità etniche. Su scala europea, il fenomeno dà luogo alle situazioni più differenziate. Ogni minoranza può rivendicare i propri diritti riferendosi all’autorità statale o al sistema di principi che meglio corrispondono ai suoi interessi. D’altra parte, una minoranza che, in epoca moderna non si era costituita in una propria identità collettiva generalmente riconosciuta, può recuperarne una dalla più lontana antichità o da una nuova acquisizione in materia di diritti. Le risposte che mirano a integrare le minoranze devono sapere a chi sono rivolte le richieste; ma spesso non è facile capirlo. Uno stato nazionale può sempre essere scavalcato da un’istanza sovranazionale, ma è anche possibile che una minoranza rivendichi l’autorità di un altro stato, nel quale identifica la propria storia e cultura, diverso da quello in cui si trova fisicamente. “Via via che l’Europa si unifica – scrive Bauman - e che si formano istituzioni europee legislative, esecutive e giuridiche centralizzate, lo stato nazionale diventa sempre più un organo amministrativo locale che controlla l’esecuzione delle decisioni prese al centro, cessando automaticamente di rappresentare una specie di contenitore naturale per le identità umane e le solidarietà che ne conseguono. Gli stati nazionali compresi nell’Unione Europea non sono interessati ad appellarsi al patriottismo e, se anche lo fossero, sono troppo poco sovrani per riuscire a imporre la propria autorità spirituale. Hanno perso il monopolio nel definire le identità umane e nel codificare i doveri di lealtà a esse legate. Oggi esistono molti modi e luoghi in cui cercare l’identità e postulare comunità dei più svariati ordini e gradi, senza limitazioni che, all’inizio dell’era moderna, intralciavano il volo della fantasia e delimitavano il realismo delle visioni politiche” (ivi: 249). Ma non sarebbero soltanto gli appetititi dei gruppi etnici ad accentuare la crisi dello stato moderno. Anche la tecnologia che sostituisce l’idea di proprietà territoriale con quella di accesso al cyberspazio (Rifkin, 2000) e la globalizzazione che prefigura una comunità di destino nella quale si realizzeranno processi di unificazione planetaria (Beck, 2003) mettono in discussione la sovranità dello stato-nazione. Con Vincenzo Cesareo (Cesareo, 1998, 2000, 2001) i termini monoculturalismo, pluralismo culturale, multiculturalismo e multietnicità, assunti nel confronto con le problematiche della politica del riconoscimento e dei diritti universali della persona, sono piuttosto declinati in funzione della società. In particolare, è qui utile richiamare la sua “affermazione di carattere generale” per cui “la società multietnica è sempre multiculturale, quella multiculturale è spesso, ma non necessariamente, multietnica” (Cesareo, 2000: 13). Cesareo riabilita la nozione di etnia, spesso usata per etichettare le diversità, a partire dal suo originario “complesso mito-simbolico” e ricorda come il suo significato più proprio vada “ricercato nei miti, nella memoria, nei valori e nei simboli”. Rifacendosi a Max Weber, distingue in questo modo éthnos, popolo, sia dal gruppo parentale, caratterizzato dalla comunanza di sangue, sia dalla nazionalità che rimanda all’ordine della politica, del diritto e dello Stato sovrano. Inoltre, la multietnicità, come del resto la multiculturalità, vanno intesi non solo come “fatti oggettivi”, ma anche come “processi di costruzione sociale delle differenze” che, attraverso l’autodefinizione e l’eterodefinizione danno luogo a forme d’interazione sociale da cui derivano “l’allocazione delle risorse sociali” ma che “possono anche sfociare nella costruzione delle disuguaglianze” (Cesareo 2001: 29-30). In secondo luogo, Cesareo sottolinea il peso del revival etnico che assume diversi aspetti a seconda degli ambienti in cui si presenta e “può dar luogo a rischi degenerativi, ma può anche costituire una nuova (o meglio rinnovata) modalità di aggregazione sociale e di mobilitazione collettiva” e comunque è stato un elemento di promozione del “multiculturalismo nelle sue diverse espressioni” (Cesareo, 2000: 31). Più cauto sull’uso del termine etnia è Maurizio Ambrosini che include il termine in un capitolo su Pregiudizio, discriminazione, razzismo e, dopo aver sottolineato come l’etnocentrismo consista nella tendenza a “distinguere il proprio gruppo (talvolta definito in-group) dagli altri 3 Alessandro Bosi, Integrazione, interazione e socialità nell’universo multiculturale, in Vincenza Pellegrino (a cura), Mediare tra chi e che cosa? Riflessioni di studiosi e operatori sanitari sull’incontro con il paziente migrante, Unicopli, Milano, 2007. gruppi (out-group) e a conferire una preferenza sistematica agli ‘interni’ nei confronti degli ‘esterni’”, segnala il rischio che possa “innescare derive xenofobe” (Ambrosini, 2005: 257). Decisamente più intransigente nel criticare il ricorso al concetto di etnia è la recente lettura della società multiculturale proposta da Domenica Denti, Mauro Ferrari e Fabio Perocco. Soffermandosi soprattutto sull’analisi della condizione lavorativa tipica della comunità cinese, e seguendo in parte una linea argomentativa utilizzata dallo stesso Ambrosini (op. cit.), gli autori segnalano lo “strabismo delle scienze sociali che etnicizzando la questione dell’immigrazione etnicizza anche tutta la questione sociale”. In questo modo, le scienze sociali dissimulano le caratteristiche delle strutture locali e lo stato di cose preesistente all’arrivo degli immigrati mentre la lettura etnicista dell’immigrazione occulta il processo di “ristrutturazione mondiale della manodopera” e “naturalizza la presenza degli immigrati (…) in dati settori economici” ipotizzando un’attitudine imprenditoriale settorializzata che, perlopiù, non trova alcun riscontro nella storia che condussero nei loro paesi d’origine (Denti, Ferrari, Perocco, 2005: 10-11). 2. Accordo terminologico e ambiti disciplinari Per quanto sommaria, la ricostruzione del dibattito sui termini multiculturale e multietnico dovrebbe aver evidenziato l’ampiezza dei problemi trattati. E tuttavia, nonostante una così ricca varietà di posizioni e la vivacità di una letteratura che continua ad arricchirsi di nuovi contributi, vi è un evidente ritardo degli studi nel distinguere obiettivi e metodi di lavoro in corrispondenza di precisi ambiti. È difficile trovare feconde intese terminologiche tra chi conduce studi di teoria politica, dove è prevalente la domanda in ordine agli assetti istituzionali, chi s’interroga sui flussi migratori, analizzandone le ragioni storiche, sociali, economiche e la loro sostenibilità, chi studia il sistema dei servizi e la tenuta del welfare, chi analizza le modificazioni delle strutture urbane in presenza di popolazioni diverse e chi, occupandosi di educazione interculturale6, s’interroga su come cambia l’istruzione partendo dal dato di fatto che agli immigrati, quale che sia il giudizio sulla loro presenza, è comunque riconosciuto il diritto all’istruzione dalla nostra Costituzione e da istanze mondiali. Negli studi su questi temi, la necessaria distinzione dei linguaggi tarda ad affermarsi come sarebbe necessario per la tendenza ancora accentuata ad esprimere giudizi sull’intera materia. Non possiamo quindi stupirci se la terminologia adottata per denominare un modello di società con presenze immigrate ha dovuto fare i conti con quadri oltremodo statici come sono abitualmente quelli condizionati da una visione ideologica della realtà. Quale che sia il dinamismo del migrante nella sua nuova società, e comunque evolvano le relazioni che stabilisce con gli altri gruppi sociali, la sua condizione è codificata attraverso le parole che ne descrivono la fase di vita più acuta e nevralgica, quella dell’accoglienza. Sopraggiungendo in un paese straniero, il migrante vive, in molti casi, lo stato di necessità in cui non può occuparsi da solo dei bisogni essenziali (casa, lavoro, salute, istruzione) per provvedere alla sopravvivenza. In questa condizione, l’accoglienza primaria è garantita attraverso gli assessorati ai servizi sociali che perlopiù predispongono sportelli e informazioni elementari per il pronto intervento. Inoltre, poiché la fame e la miseria spesso si mescolano al disordine sociale, le città ricorrono a misure particolari per garantire l’ordine pubblico. Nel loro insieme, le misure adottate definiscono pratiche di prima accoglienza che, quando vanno a buon esito, consentono agli stranieri vantaggiose forme d’integrazione negli usi e nei costumi della popolazione locale e l’acquisizione delle elementari regole di cui tutti abbiamo bisogno per muoverci nella quotidianità. Un cosiffatto processo d’integrazione dello straniero corrisponde a precisi obiettivi istituzionali e formalmente rappresenta un’accettabile risposta ai problemi dettati dall’emergenza sociale. 6 Gli studi sull’educazione interculturale sono stati particolarmente generosi nel nostro paese. Fra le molte opere, mi limito a ricordare D. Demetrio e G. Favaro, 1992; F. Susi, 1995; E. Damiano, 1998, 1999, F. Pinto Minerva 2002. M. Ferretti (in M. Ferretti, A. Jabbar, N. Lonardi 2003) ha curato una bibliografia diversificata in rapporto ai temi affrontati, una sitografia e un indice sulla normativa della scuola italiana dal 1981 al 2000 di cui per altro fornisce un’analisi nel suo articolo (pp. 49-67). Il CD Educazione interculturale nella scuola dell’autonomia, curato dal Ministero della Pubblica Istruzione (Parma, 2000), raccoglie i quattro convegni di studio realizzati dalla Commissione nazionale per l’educazione interculturale tra il 1998 e il 1999. 4 Alessandro Bosi, Integrazione, interazione e socialità nell’universo multiculturale, in Vincenza Pellegrino (a cura), Mediare tra chi e che cosa? Riflessioni di studiosi e operatori sanitari sull’incontro con il paziente migrante, Unicopli, Milano, 2007. La fotografia che fissa questa prima immagine del migrante ha una particolare pregnanza e tende a nascondere la successiva fase della sua vita che, viceversa, è particolarmente istruttiva per le scienze sociali. Quando, dopo la fase dell’accoglienza, abbia l’opportunità d’insediarsi stabilmente nel paese che lo ospita, di ricostituire la famiglia d’origine, o di formarne una nuova, alla quale garantire assistenza sanitaria e istruzione, il migrante comincia a trascorrere parte del suo tempo con altri individui dell’originaria cultura d’appartenenza o all’interno di associazioni che ne tutelano i diritti. In questa seconda fase della sua vita privata, il migrante contratta collettivamente la sua presenza con la cultura locale. Ora, i suoi bisogni, anche quando siano personali, hanno una valenza collettiva: il riconoscimento di precisi diritti, scuole, chiese, locali per gli affari e per il divertimento entrano stabilmente nelle sue richieste e rivendicazioni. Il migrante interviene in questo modo significativamente nella costituzione materiale della società e nei cambiamenti molecolari della città. Ben presto, i diritti acquisiti da pochi diventano una regola per tutti mentre la parlata, i profumi, i colori della città, ma anche gli abiti, i cibi, i negozi dicono della sua presenza come attore collettivo nella vita quotidiana. Per quanto la presenza del migrante nella nuova città sia più duratura nella seconda fase, dove peraltro ha una maggiore incidenza nei cambiamenti sociali, l’immaginario collettivo, e perfino gli studiosi, sono attratti dal momento dell’emergenza. Di conseguenza, le denominazioni alle quali si ricorre per descrivere società caratterizzate dalla presenza di diverse culture sono piuttosto declinate sulla prima che sulla seconda fase. Questa immagine privilegiata, che altro non è se non è un aspetto nella mutevole relazione sociale tra diverse culture, viene così assunta come paradigmatica di un’epoca; per analizzarla si trasferisce su di essa l’armamentario concettuale utilizzato per gli studi sul disagio sociale e sulla marginalità mentre, in mancanza di obiettivi circostanziati e di metodologie studiate per la situazione, il ricorso a politiche inclusive è giudicato conseguente all’emergenza sociale dichiarata. Quanto al concetto d’integrazione, utilizzato nella fase dell’accoglienza per consentire al migrante elementari forme di corrispondenza con l’ambiente, viene indebitamente esteso a ogni forma di relazione sociale così da diventare buono per tutti gli usi e da costituire un sinonimo dell’impegno a favore degli immigrati. A ben vedere, il concetto d’integrazione mira alla ricostituzione di una condizione che può essere conseguita soltanto tra elementi fra di loro identici. Nell’ambito delle società, l’integrazione è praticabile tra individui della medesima identità culturale mentre è inapplicabile alle diversità con le quali si interagisce in rapporti di scambio. Si potrebbe certo obiettare che la nozione di identità culturale è tutt’altro che precisa, soprattutto quando si viva in società caratterizzate, per ogni individuo, da appartenenze molteplici. È comunque chiaro che gli stranieri non hanno la stessa identità culturale dei locali. Certo ambiscono ad acquisire quelle conoscenze e abilità che consentono le forme d’integrazione necessarie per provvedere alla sussistenza nella quotidianità, ma non sono affatto propensi a riconoscersi nell’altrui cultura per aspetti che attengono alle tradizioni, alla filosofia di vita e alla spiritualità. Una più forte esigenza d’integrazione può talvolta subentrare nelle giovani generazioni che avvertono il bisogno d’identificazione con i propri pari. Questo processo non è tuttavia lineare: la generazione dei nipoti potrebbe avvertire il bisogno di tornare agli avi, come del resto abbiamo appreso dai giovani terroristi di Londra della scorsa estate. In ogni caso, la scelta compete agli individui, non alle istituzioni. Nonostante nelle scienze sociali prevalga la tendenza a un integrazionismo generalizzato che non mette conto di distinguere gli atti quotidiani dal sistema dei valori, nonostante il termine integrazione sia usato in modo del tutto incontrastato, l’analisi delle scelte istituzionali adottate nel nostro paese ci mostra la presenza di approcci diversificati alle relazioni sociali tra culture diverse. 3. Sistema integrazionista e interazionista Volendo semplificare la complessità degli orientamenti politico istituzionali in materia di multiculturalismo, credo si possa affermare che nel nostro paese agiscono: − un sistema funzionale che caratterizza l’universo dell’assistenza sociale (assessorati, e ministero alla Sanità e ai Servizi Sociali, corsi di laurea per assistenti sociali); 5 Alessandro Bosi, Integrazione, interazione e socialità nell’universo multiculturale, in Vincenza Pellegrino (a cura), Mediare tra chi e che cosa? Riflessioni di studiosi e operatori sanitari sull’incontro con il paziente migrante, Unicopli, Milano, 2007. − un sistema comunicativo che caratterizza l’universo dell’istruzione (assessorati, ministero all’istruzione e alla cultura, corsi di laurea in scienze della formazione e dell’educazione, formazione degli insegnanti ai vari gradi fino alle Scuole di Specializzazione per l’insegnamento Secondario, Ssis). A questi sistemi istituzionali si può aggiungere una ricca presenza del terzo settore, spesso favorito o aggregato alle istituzioni del quale tuttavia non posso tenere conto in questo articolo. Ho definito funzionale il primo sistema in quanto mira alla soddisfazione dei bisogni primari e all’integrazione delle popolazioni straniere attraverso politiche di tipo inclusivo. Ho invece definito comunicativo il secondo sistema in quanto prende le mosse dalla relazione tra popolazioni del luogo e straniere e ricerca forme d’interazione che procedano oltre la dissimetria fra chi accoglie e chi è accolto. Nelle istituzioni del nostro paese, questi due sistemi convivono nelle istituzioni da una decina d’anni. Il merito di aver introdotto anche un approccio diverso da quello funzionalista, che in altri paesi non conosce alternative, va attribuito al sistema dell’istruzione e alla cultura della formazione. Tuttavia, le nostre istituzioni non sembrano avere la necessaria consapevolezza delle distinzioni che caratterizzano i due sistemi e di conseguenza li utilizzano senza che l’uno tragga giovamento quanto potrebbe dall’altro. Questo dipende, essenzialmente, da un persistente ritardo nell’elaborazione teorica sulla materia e dal fatto che l’urgenza di mettere mano alla questione del multiculturalismo ha indotto a condividere frettolosamente gli stessi termini anche quando siano utilizzati in ambiti concettuali distinti. Con tutta l’approssimazione che uno schema duale impone (e consente), potremo ipotizzare due momenti, quello dell’integrazione e quello dell’interazione, corrispondenti alle due fasi di vita del migrante tratteggiate nel paragrafo precedente e che ora analizzeremo brevemente nelle relazioni che caratterizzano le popolazioni delle società multiculturali. Entrambi i momenti, come mostra la tabella sottostante, sono regolati dal sistema istituzionale e di potere della società che, negli stati di diritto, operano nell’osservanza delle leggi e nel rispetto degli individui. INTEGRAZIONE INTERAZIONE Contrattazione individuale Contrattazione collettiva Accoglienza SISTEMA ISTITUZIONALE Scambio Assistenza Luogo Casa Socialità Lavoro Linguaggio Salute POTERI Cibo Istruzione Socializzazione Ordine pubblico Ospitalità 6 Alessandro Bosi, Integrazione, interazione e socialità nell’universo multiculturale, in Vincenza Pellegrino (a cura), Mediare tra chi e che cosa? Riflessioni di studiosi e operatori sanitari sull’incontro con il paziente migrante, Unicopli, Milano, 2007. Il momento dell’integrazione (banda a sinistra) corrisponde alla fase di contrattazione del sistema istituzionale e di potere col singolo all’interno di una politica generale di accoglienza del migrante; quello dell’interazione (banda a destra), alla fase della contrattazione collettiva. In condizioni ottimali, il sistema funzionale e integrazionista rileva i bisogni e offre soluzioni preservando l’ordine dato. Il sistema comunicativo interagisce invece con la domanda e cerca soluzioni di reciproco vantaggio. Il modello di sistema funzionale è costituito dagli sportelli per stranieri che, in ogni città, afferiscono agli assessorati ai servizi sociali e dal lavoro degli assistenti sociali mentre per il sistema comunicativo il modello va ricercato nella scuola. Poiché sul primo modello ci siamo già soffermati dedichiamo ora la nostra attenzione al secondo. Nel 2000, la Commissione nazionale per l’educazione interculturale del Ministero della Pubblica Istruzione ha articolato in tredici punti i propri orientamenti in materia di educazione interculturale. Due di essi ne fissano gli orientamenti generali affermando − che l’educazione interculturale non è una disciplina, ma un indirizzo generale col quale si abbandona il terreno dell’istruzione etnocentrica tipico del passato; − che l’educazione interculturale non è una risposta contingente alla presenza d’immigrati, ma costituisce un valore permanente che la scuola italiana è impegnata a praticare anche in loro assenza. In questo modo, le politiche dell’istruzione non producono vuoti orizzonti, né si fanno carico di educare individui e collettività a una nuova idea di cittadinanza in attesa di assetti sociali che saranno decisi a livello planetario, ma introducono una loro interpretazione della storia che agisce qui e ora sul modo d’intendere e organizzare la vita sociale. Di più: queste posizioni hanno un’incidenza sul piano epistemologico perché c’inducono a concepire, tra la stessa popolazione, luoghi in cui è ammissibile e persino doverosa l’asimmetria sociale (e dunque l’integrazione delle diversità nella cultura dell’identità ospitante) e luoghi in cui opera la simmetria tra le diversità e l’identità ospitante. In questa logica è iscritta una cultura dell’ospitalità alla quale si lavora da più parti7 e di cui si cominciano a intravedere i lineamenti. Sinteticamente, possiamo dire che la cultura dell’ospitalità non è concepita assumendo il modello dei nostri rituali quotidiani nei quali un Ego-soggetto ospita Alter-oggetto e, in un tempo differito, è forse ricambiato; essa recupera invece l’originaria ambivalenza del termine che indica sia chi dà, sia chi riceve ospitalità. Questa condizione presuppone che i diversi soggetti percepiscano di ospitarsi reciprocamente essendo ospitati. Così vivono gl’innamorati che, nell’ospitarsi l’un l’altro costruiscono insieme uno spazio fisico e mentale che li accolga ospitando il loro amore. Ma questa è anche la nostra soggettiva condizione. Nell’essere parte del mondo, abbiamo il mondo stesso come nostro ospite. È in questo modo che le diverse culture, nel loro processo di risoluzione, contrattano di continuo la propria storia individuale nell’ambito di un territorio e, così facendo, cambiano la fisionomia della città che le ospita. In questa accezione, l’ospitalità comporta almeno due requisiti: la deterritorializzazione e la simultaneità. Non è pensabile un’ospitalità in cui un soggetto demarchi il proprio territorio e concepisca la relazione a partire dall’idea che l’altro lo sta occupando. La deterritorializzazione implica l’idea che, nella relazione, si viene costruendo una nuova città dalla quale farsi ospitare. Né potremo pensare a tempi distinti in cui si dà e si riceve ospitalità. Per come viene qui intesa, l’ospitalità comporta invece la simultaneità dell’ospitarsi reciprocamente facendosi ospitare dallo spazio che insieme si viene definendo. Il sistema comunicativo prefigura dunque sul modello della scuola e del concetto di ospitalità qui sommariamente richiamato, forme d’interazione sociale che intervengono a modificare la stessa cultura materiale. La banda di destra mostra come, sulla base della contrattazione collettiva e dello scambio, l’interazione sociale guadagni aspetti sempre più complessi della vita individuale e collettiva. La compresenza delle popolazioni modifica in modo inintenzionale i 7 Cfr. J. Derrida,; C. Di Sante, 1986; E Jabes, 1991; A. Valleriani, 2003. Sull’argomento mi sono soffermato in diverse occasioni (Bosi, 1996, 1998, 2002, 2004). 7 Alessandro Bosi, Integrazione, interazione e socialità nell’universo multiculturale, in Vincenza Pellegrino (a cura), Mediare tra chi e che cosa? Riflessioni di studiosi e operatori sanitari sull’incontro con il paziente migrante, Unicopli, Milano, 2007. luoghi di vita, le forme della socialità immediata e quotidiana, i linguaggi e il cibo che consumiamo. In forma intenzionale, crea poi forme di socializzazione e di ospitalità. La compresenza nelle istituzioni di un sistema funzionale e di uno comunicativo merita di essere approfondita ben oltre i limiti di questa nota. Ma ciò che qui preme richiamare è che questa diversificazione di offerta dei servizi, non è rilevante chiedersi quanto consapevole, rende ormai indifferibile un’articolazione degli studi in rapporto all’oggetto e al metodo di lavoro. Ogni precedente intesa terminologica, per quanto faticosamente raggiunta, sarebbe comunque scritta sull’acqua. Nota bibliografica Ambrosini M., Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna, 2005. Bauman Z. (2000), Il disagio della postmodernità, tr. it. Bruno Mondatori, Milano, 2002. 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