Appunti del corso di “Processi territoriali delle aree asiatiche” 2007/2008
Introduzione
Il modulo didattico ha preso in esame i processi territoriali, che consentono di rilevare
delle dinamiche socio-territoriali dominanti in due ampie porzioni del continente
asiatico, segnatamente, il quadrante orientale e quello occidentale.
Rispetto al primo quadrante l’analisi ha vertito sul processo di regionalizzazione, in atto
nel corso degli ultimi decenni, caratterizzato da una doppia geometria, che evidenzia, in
primo luogo, un ritaglio territoriale limitato ai paesi del Sud-est asiatico connotati da un
comune denominatore nella cultura confuciana e, in secondo luogo, un ritaglio
territoriale amplissimo delimitato dall’oceano Pacifico. Sia il primo gruppo che il
secondo ambito costituiscono gli spazi su cui si stanno producendo dei processi
territoriali di regionalizzazione spontanea, che nel primo caso procedono da una antica e
consolidata atmosfera culturale, nel secondo caso sono espressione di una progettualità
politico-economica più recente.
Rispetto al secondo quadrante si è posta attenzione nell’analisi delle fratture e le
tensioni politiche, economiche, culturali, religiose e identitarie che stanno alla base dei
complessi processi territoriali di una regione apparentemente connotata dalla estesa
continuità del tratto culturale arabo-islamico, apparentemente dominante e unificante.
L’analisi si é focalizzata sul Libano contemporaneo, la cui complessa geografia umana
nonché le guerre, quella degli anni Ottanta e quella recentissima, che ne fanno terreno di
scontro tra Israele e Siria, lo rendono un territorio particolarmente rilevante per
realizzare una narrativa geografica dei conflitti mediorientali.
Il processo di regionalizzazione in Asia orientale (Estremo Oriente) e il perdurare di
processi implosivi e di frammentazione in Asia occidentale (Medio Oriente) consentono
di rilevare a una scala di analisi piccola due fenomeni opposti: il consolidarsi di una
dimensione post-coloniale, caratterizzata da un dialogo sempre più paritetico tra una
molteplicità di paesi tra cui la superpotenza statunitense, nel primo quadrante, e, di
contro, il perdurare di dinamiche coloniali nel secondo, connotato da una situazione di
egemonia statunitense.
Pertanto, il processo di regionalizzazione spontanea, preso in esame, è una
espressione della dimensione postcoloniale da cui le relazioni politiche tra i paesi
dell’area comprese le superpotenze, locali e mondiali, sono caratterizzate, nel
senso della tensione a instaurare relazioni paritetiche, in cui tutti i membri
riconoscono e rispettano la sovranità degli altri.
Laddove questo processo non emerge, nel Medio Oriente nello specifico, notiamo
che le relazioni tra gli Stati sono immerse in una dimensione neo-coloniale,
connotata dall’egemonia militare statunitense e dalla pretesa di egemonia miltiare,
terroristica e politica delle potenze locali, oggi Israele, Siria, Iran e Arabia Saudita.
1. I limiti delle grandi narrative culturali
Il confucianesimo e l’islam sono spesso considerati come strumenti di lettura
privilegiati per l’analisi delle componenti culturali delle macro-regioni soggetto di
studio del corso. Sebbene questi due vettori consentano di rilevare consistenti fenomeni
di similarità e continuità storiche, sociali e culturali, che determinano una specifica
1
organizzazione territoriale, tuttavia costituiscono anche dei limiti al rilevamento delle
notevoli articolazioni e differenze che connotano le soggettività territoriali indagate.
1.2 Cina, Giappone e India: il tridente confuciano
Cina, Giappone e India vengono spesso accomunati nell’espressione di Tridente
Confuciano. Le culture di questi paesi sono caratterizzate dalla antica osmosi tra
confucianesimo e buddhismo. Confucio e Buddha erano due raffinatissimi intellettuali
contemporanei, vissuti tra il V e il IV secolo a.C. rispettivamente in Cina e in India.
Il primo, Kong Qiu Zhong, passato alla storia come Kong Fuzi (maestro Kong), era un
filosofo che proclamava la saggezza come strumento per formare l’individuo utile alla
collettività. Il secondo, il principe, Siddharta Gautama, muove la sua speculazione
filosofica dalla constatazione delle miserabili condizioni dei suoi sudditi e costruì un
pensiero basato sul concetto di supermento del dolore e del desiderio nel
raggiungimento del nirvana. Il pensiero buddista assunse due declinazioni principali,
quella nota come Piccolo Veicolo, particolarmente elitaria, che non si diffuse oltre
l’India, essendo basata sull’idea che solo pochi eletti potessero raggiungere il nirvana e,
dunque, la saggezza; la seconda declinazione, nota come Grande Veicolo, fondata sul
principio che la salvezza non fosse appannaggio di pochi ma raggiungibile attraverso
l’impegno da tutti, ebbe molta fortuna anche in Cina e Giappone.
Il confucianesimo e il buddhismo, una volta usciti dagli ambiti originari, si
“territorializzarono” acquisendo diverse modulazioni: cinese, giapponese e indiana. In
tal modo “la regione confuciana” non viene assunta come un’area di omogeneità, ma di
similarità originate da confluenze e differenze. A questo proposito si guardi la Scheda
n. 1, che tratta nello specifico delle differenze che il confucianesimo ha assunto
“territorializzandosi” nella cultura cinese e giapponese.
Un’altra ragione del ricorso al confucianesimo come atmosfera culturale unificante di
questa ampia porzione di Asia è la presenza diffusa di comunità cinesi in larga parte del
Sud-Nord-Est asiatico: un’antica forma di diaspora cinese, che oggi la Repubblica
Popolare Cinese considera come un importante veicolo di predominio politico e
culturale della Cina su questo quadrante (si veda la Scheda n. 2).
Un mediatore culturale dovrebbe assumere la multiformità delle atmosfere
culturali che passano sotto la definizione unificante di Tridente confuciano,
considerando, inoltre, che è proprio la caratteristica essenzialista e rigida
dell’approccio conoscitivo occidentale alla base della difficoltà di comprensione di
questo contesto culturale. Nella Scheda n. 3 ho sintetizzato gli aspetti salienti del
pensiero occidentale confrontandoli con quelli del pensiero asiatico-orientale, per
offrirli alla Vostra riflessione di futuri mediatori culturali ed esperti di dinamiche
interculturali.
2
Scheda n. 1
Differenze nel confucianesimo tra Cina e Giappone
Cina
Giappone
Terra di mezzo
Centro del mondo
Tributo dai paesi limitrofi ed
estensione del loro numero
Continentalità
Imperatore
Mandato celeste
Doveri dell’autorità
Pace e cibo
Gerarchia
Mandarini (meritocrazia)
Armonia e rispetto
Terra data dagli Dei
Amaterasu
Popolo eletto
insularità: sakoku (isolamento)
Imperatore divino
discedenza diretta dalla dea Amaterasu
e dall’imperatore mitico Jimmu, autorità indiscutibile
Famiglia
Clanica
Prevalenza del vincolo di sangue
Gerontocrazia maschile
Autorità-Potere
Mandarini
Ruolo e discrezionalità
Suicidio protesta
Onore, status riconoscimento
Buddismo morbido
Famiglia
Ricchezza, commercio
Gerarchia
classi e ruoli chiusi
accettazione della struttura sociale
e del proprio ruolo nella società
Famiglia
monadica
Gerontocrazia maschile
Autorità-Potere
Discendenza divina imperatore
Funzionario tramite
gerarchia rigida
suicidio autopunizione
Onore, comportamento disinteressato
Bushido (fedeltà)
Buddismo Zen
individualismo
Ordine e culto dell’imperatore
natura, rapporto individuo e universo
Scheda n. 2
Diaspora cinese nell’Asia sinica
30 milioni di Cinesi d’oltremare di cui 26 vivono nel Sud-Est asiatico
7,5 in Indonesia
6,5 in Thailandia
4 nelle Filippine
5,5 in Malaysia (un terzo della popolazione)
1,5 in Vietnam
2,8 a Singapore (75% della popolazione)
La RPC tende a considerare la diaspora parte integrante della
Grande Cina
3
Scheda n. 3
Occidente e Asia orientale
Difficoltà di comprensione
ideologismo/pragmatismo
Cultura occidentale
dualismo ontologico
Platone (idee e realtà fenomenica)
yang)Pensiero cristiano (spirito e corpo)
Cartesio (mente e materia)
Gli esseri umani non fanno parte della natura
Fissità delle posizioni
Ricerca del principio di tutte le cose (essenzialismo)
centralità di Dio
Occidente
Logo-centrismo
(razionalità rigida)
Cultura asiatico-orientale
monismo organicistico
Confucio (armonia)Taoismo (compresenza degli opposti: yinGli esseri umani sono parte integrante della natura
Flusso, movimento
Ricerca del buon governo e della saggezza personale
Asia orientale
Loco-centrismo
(razionalità flessibile e contestualizzata)
4
1. 3 Le tante identità del Medio Oriente
Lo stesso problema riguardo all’uso di narrative (modalità di analisi) basate sui tratti
unificanti, sulle continuità, sulle somiglianze, si propone nell’approccio allo studio del
contesto mediorientale. Prendendo a prestito il titolo di un noto saggio dell’antropologopolitologo americano Bernard Lewis, è possibile presentare il quadrante asiatico di
nord-ovest (il Medio Oriente) come un complesso mosaico etnico-religioso,
giustapposizione di tante identità culturali, oltre il grande cappello unificante
dell’arabità (identità araba, fondata sulla ampia diffusione della lingua araba nonché dei
popoli etnicamente arabi) e dell’Islam.
Cominciamo col vedere come il riferimento all’Islam si configura quale strumento
limitante nell’approccio allo studio del quadrante mediorientale. Occorre mettere in
evidenza due grandi componenti che animano l’Islam: i musulmani sunniti e quelli
sciiti. Intese macroscopicamente, le differenze tra questi due gruppi si possono
sintetizzare nel modo in cui concepiscono il potere politico-religioso: per i Sunniti vige
un principio meritocratico (chi ne ha le capacità è degno di esercitare il potere anche se
non discende dal Profeta Mometto); per gli Sciiti, invece, il potere deve essere gestito
dai discendenti del Profeta Maometto, venerati come santi.
La declinazione sunnita dell’Islam ha nella penisola arabica la sua sede originaria da cui
si è diffusa, dal VII secolo d. C. in poi, con la conquista dei territori del Medio Oriente e
del Nord Africa da parte dei popoli arabi, autoctoni della penisola arabica appunto, dove
si trovano le principali città sante come La Mecca e Medina1. Oggi questa componente
dell’Islam vede nell’Arabia Saudita e nella monarchia Waabita una leadership politica e
un importante riferimento spirituale.
La declinazione sciita dell’Islam è piuttosto articolata, essa vede al suo interno diverse
correnti o sette, di cui le principali sono tre: i Settimani, presenti in Yemen, Iran e Iraq,
che venerano sette Iman santi; gli Ismailiti, diffusi tra Pakistan, Afghanistan e Siria,
discendenti da Isamele, figlio di Abramo e della schiava Agar, che hanno nell’Aga
Khan un capo spirituale; e gli Alawiti presenti in Siria e Turchia. Lo sciitismo è
maggioritario in Iran, dal 1979 Repubblica Islamica, dove la legge religiosa è
fondamento della legge dello Stato (Vi invito a vedere il film di animazione
“Persepolis” tratto dalle strisce di Marjane Satrapi).
La Carta n. 1 mostra la diffusione dello sciitismo come area di influenza geopolitica
dell’Iran: Vi invito a consultarla con attenzione per ricavarne l’impressione
cartografica e geografica.
La regione mediorientale ospita un gran numero di etnie. I Curdi, ad esempio,
concentrati prevalentemente sul territorio montuoso a cavallo tra Turchia, Siria, Iran e
Iraq; essi parlano una lingua imparentata a quelle indoeuropee (appartenendo al ceppo
iranico) e praticano un Islam vicino a quello sunnita. I Drusi, presenti prevalentemente
in Libano, Siria e Israele,vivono nei territori montuosi oggi appartenenti a questi tre
Stati e anche loro praticano una declinazione dell’Islam vicina a quella sunnita. E
ancora altre etnie originarie del Causaso o dell’Asia Centrale come i Turchi e i
Turcomanni (turcomongoli) o i Parsi (indoeuropei, etnia dominante in Iran). Solo per
citarne alcune.
1
Vi ricordo che terza città santa per l’Islam sunnita è Gerusalemme, nel Medio Oriente mediterraneo, dal
1980 dichiarata da una legge di rango costituzione dello Stato ebraico “sola, tutta intera ed eterna capitale
dello Stato di Israele”, assumendo il ruolo di elemento conflittuale tra Israeliani, Palestinesi e mondo
arabo, più in generale.
5
Oltre a varie forme di Islam, anche il Cristianesimo è presente in Medio Oriente in tante
declinazioni. Le diverse comunità religiose cristiane presenti in Libano sono un esempio
molto utile per capire la multiformità del Cristianesimo mediorientale, che annovera
chiese antichissime, sorte con la prima evangelizzazione, dunque, di molto precedenti la
chiesa cattolica romana e quasi coeve di Cristo. Tra le più antiche possiamo rilevare
due grandi distinzioni legate al modo di concepire la natura di Cristo. Le chiese di
obbedienza monofisita, come quella siriaca, armena, abissina e copta d’Egitto, pongono
l’accento sulla natura esclusivamente divina di Gesù; esse hanno forti radici in Siria. Le
chiese di obbedienza nestoriana, come la caldea e assira, affermano l’esistenza in Cristo
di due nature di pari importanza, divina e umana; esse sono molto diffuse in Iraq.
Queste due grandi correnti sono presenti tra le molte chiese cristiane del Libano cui
vanno aggiunte quella di obbedienza melchita (originata dallo scisma d’Oriente del XIII
secolo), tra cui la più nota comunità libanese greco-ortodossa; la chiesa maronita,
fondata da San Marone nel VI in Siria, chiesa autocefala (autonoma dalla chiesa
cattolica romana) come quella armena; la chiesa di rito latino, vicina a quella di Roma,
che annovera tra i suoi fedeli Palestinesi, Libanesi e Siriani. A quest’ultima chiesa sono
vicine le chiese cattoliche di rito orientale come la greco-cattolica, la siro-cattolica e la
caldeo-cattolica, nata in seguito alla penetrazione della chiesa di Roma dal XVIII secolo
nel contesto libanese.
La Carta n. 2 consente di localizzare le presenze cristiane, e non solo, in Libano,
microcosmo delle tante identità del Medio Oriente.
Carta n. 1
Fonte: Limes, n. 5, 2006
6
Carta n. 2
Fonte: Limes , n. 3, 2005
7
Il Medio Oriente risulta, pertanto, come uno spazio di molteplicità identitarie e culturali,
in cui i tratti apparentemente dominanti dell’arabità e islamicità sono alla base di
dinamiche politico-culturali di fratture e ricomposizioni di complesse strategie e
geometrie geopolitiche.
L’analisi di questo tema verrà condotta soffermandosi su alcuni paesi come Siria,
Libano, Israele, Giordania, Iraq e Iran, sottolineando la tendenza di Israele e Iran,
analizzata in chiave storica e nell’attualità, a porsi e proporsi come leader delle
minoranze (non arabe, non islamiche, non sunnite) nella ricerca di un ruolo di potenza
regionale. L’attenzione si focalizzerà sul Libano contemporaneo, inteso come
scacchiere dei conflitti mediorientali, in cui agiscono potenze globali e regionali ma
anche come entità territoriale caratterizzata da processi di comunitarizzazione e
frammentazione etnico-religiosa-culturale.
1.4 Approccio postcoloniale e interculturazione
Al fine di sottrarci all’inganno delle grandi narrazioni (confucianesimo, islam, arabità, e
finanche cristianesimo), che non consentono di rilevare le configurazioni locali dei
fenomeni culturali, propongo un approccio analitico derivato dagli studi postcoloniali,
che esalta le differenze e le peculiarità dei luoghi e ci invita a porci in una condizione di
ascolto attento delle soggettività che indaghiamo, consapevoli del nostro bagaglio
culturale e dei limiti che pone alla comprensione delle culture altre. Poniamoci, dunque,
in una relazione intersoggettiva, ovvero rispettosa delle differenze e paritetica.
Un primo approccio alla comprensione e mediazione interculturale basato sui principi di
rispetto delle differenze e dell’intersoggettività e quello elaborato dal padre gesuita
Alessandro Valignano durante il suo operato di missionario in India, Cina e Giappone
alla fine del XVI secolo2. Il suo metodo è noto come “inculturazione”, che consiste nel
calarsi nella cultura che si intende studiare, con la consapevolezza che gli strumenti
derivanti dalla propria non saranno adeguati, che occorrerà una lunga pratica di
osservazione partecipata per elaborarne di nuovi, tali da relativizzare le proprie
posizioni e considerare con maggiore serenità le differenti logiche contestuali.
2. Inquadramento regionale: prospettive e soggettività territoriali
Per identificare i territori asiatici si ricorre spesso a diverse denominazioni:
vorrei dare una spiegazione geo-politica delle espressioni di Medio ed Estremo Oriente,
o Vicino e Lontano Oriente o, ancora, del latino Asia Minor e Major, e di Ovest e SudEst e Nord Est asiatico.3
Le designazioni di Medio ed Estremo Oriente mi permetteranno di affrontare l’assetto
coloniale dell’area e la relativa configurazione territoriale: le dislocazioni dei “tessuti
utili” dei paesi soggetti al dominio coloniale o all’ingerenza imperialista, nella
prospettiva delle potenze occidentali, tema che mi porterà a introdurre il concettoterritorio di “Rimland” (il margine costiero continentale).
2
Vi ricordo che in quell’epoca i gesuiti erano strumento del potere imperialistico dei regni cattolici di
Spagna e Portogallo.
3
Lo stesso discorso vale per il Medio Oriente, o Vicino Oriente o, ancora, in latino Asia Minor, e Nord
Ovest Asiatico.
8
Le denominazioni di Medio ed Estremo Oriente dipendono dallo sguardo e dalla
posizione delle potenze occidentali: Medio ed Estremo Oriente come designazione
posizionale dell’oggetto di potere coloniale in relazione alla soggettività occidentali,
detentrici di questo potere. Le potenze coloniali europee sono molto distanti da questi
territori fisicamente e culturalmente: proprio da questa distanza, intesa nel suo duplice
valore, derivano i designatori di Medio ed Estremo Oriente e Vicino e Lontano Oriente
(la stessa logica è sottesa ai designatori latini di Asia Minor e Major, che individuano
rispettivamente i territori asiatici più vicini al Mediterraneo, regione in cui risiedeva la
cultura latina che li ha coniati, e quelli più estesi e più lontani dal Mediterraneo).
Vi invito ad aprire l’atlante geografico nella pagina del planisfero e a considerare
come è organizzata la dislocazione, dunque, la descrizione delle terre che
compongono il pianeta.
Le designazioni di Ovest e Sud-Est e Nord-Est asiatico mi consentiranno di
affrontare l’assetto postcoloniale (nel senso sia di cronologia storica – da collocarsi
nella seconda metà del XX secolo - che di prospettiva culturale e politica) degli ampi
quadranti continentali, presentando le soggettività territoriali, entità Stato-nazionali o
locali (regioni, città, metropoli, gruppi di paesi), che attualmente animano la struttura
geo-politica, geo-economica e geo-culturale di queste parti del mondo.
La diversità delle soggettività territoriali identificate, ovvero gli Stati a cui si affiancano
entità individuate a scala maggiore, come le realtà locali, consente di rilevare differenze
economiche e culturali e, talvolta, politiche non rilevabili ragionando a scala Statonazionale e, conseguentemente, di individuare nel territorio i segni di processi sociali,
politici, economici e culturali che agiscono su e provengono da diverse dimensioni
(globale, statale, regionale, locale), inserendo così nella designazione generale di Ovest
e Sud-Est e Nord-Est asiatico specificità e differenze.
L’approccio che connota la mia esposizione si basa sulla geopolitica critica, un
discorso della geografia politica delineatosi nel contesto scientifico anglofono negli
ultimi vent’anni. Questo approccio è caratterizzato dall’articolazione trans-scalare del
discorso, ovvero la narrativa proposta è tesa a mettere in correlazione più scale
territoriali da quella locale a quella globale, considerando il territorio come sede di
tracce: gli effetti e gli aspetti delle trasformazioni socio-economiche, che il territorio
manifesta nelle sue articolazioni regionali, urbane e transcontinentali (ricordate il
constante riferimento alla regione del Pacifico, che ci ha guidato durante tutto il
corso!), oltre che essere valutate nella loro dimensione contemporanea vengono inserite
e contestualizzate in una prospettiva storica, pertanto, ci siamo avvalsi di testimonianze
storiche. É proprio in questa veste che abbiamo assunto i documenti letti in classe. In
qualità di testimoni, che coerentemente all’impostazione delle teorie postcoloniali, ci
hanno consentito di porci vicino, d’appresso, ai nostri soggetti di studio.
Utili strumenti concettuali per affrontare il nostro percorso sono stati i concetti
di Heartland e Rimland, assunti nella loro connotazione originaria di geopolitica
classica e nella nuova connotazione assunta nella società contemporanea. Ve li richiamo
qui di seguito.
Il concetto di Heartland è stato elaborato dal teorico di geopolitica britannico Halford
Mackinder alla fine dell’Ottocento. In base alla sua visione lo sviluppo delle ferrovie
aveva determinato il declino delle potenze marittime, mentre le masse continentali
assumevano un crescente peso geopolitico. Egli aveva individuato un’area nevralgica
per il controllo degli equilibri geopolitici mondiali nella massa continentale euroasiatica
e nella Russia, nella fattispecie, definendola Heartland (cuore della terra). La potenza
9
che riusciva a controllare questa pivot area avrebbe controllato il mondo intero. In
maniera proporzionale più aree “pivot” e, quindi, Heartlands potevano essere
individuate nei diversi continenti4.
Il concetto di Rimland è stato elaborato dall’americano Nicholas Spykman, ancora una
volta a fine Ottocento, quando gli USA stavano per trasformarsi in una potenza
marittima. Spykman sosteneva che le aree di maggiore rilievo geopolitico fossero i
margini continentali, appunto le Rimlands, nella fattispecie quelle del Sud-Est Asiatico
e dell’Europa Occidentale: i due margini che contornavano lo spazio di espansione degli
Stati Uniti d’America5.
Rivedendo questi concetti alla luce di un approccio postcoloniale, non teso al dominio
politico delle dinamiche territoriali ma alla loro interpretazione, alla comprensione degli
aspetti attuali e storici della regione asiatico-orientale, che il nostro corso prende in
esame, notiamo che il territorio della Cina costituisce l’attuale Heartland mentre la
regione del Pacifico una grande Rimland transcontinentale.
3. I processi di regionalizzazione dall’alto: assetti territoriali coloniali
Le esperienze coloniali che i paesi dei due quadranti, presi in esame, hanno vissuto
storicamente hanno prodotto processi di regionalizzazione dall’alto imposti dalle
potenze imperialiste, di cui permangono ancora tracce e memorie territoriali. Oltre a un
rapido excursus sul ruolo coloniale e regionalizzante di Gran Bretagna e Francia in
quello che si può definire l’assetto coloniale ottocentesco, ci si soffermerà sul nuovo
assetto coloniale, quello novecentesco, che vede protagonisti dapprima il Giappone, con
la “comune sfera di prosperità” nell’ “Asia Giapponese”, poi l’Unione Sovietica e gli
Stati Uniti, con particolare riferimento a questi ultimi ci si soffermerà sull’esperienza
delle organizzazioni regionali degli anni Cinquanta SEATO, MEDO e CENTO.
Riguardo al quadrante mediorientale, nello specifico, ci si soffermerà sulle dinamiche
panarabiste della prima metà del Novecento mettendo in evidenza il ruolo di Giordania
ed Egitto: discorso che costituisce una saldatura tra la dimensione coloniale e
postcoloniale.
ORDINE COLONIALE
3.1 Sguardo imperialista e territorio coloniale
Si parte da una carta del continente asiatico, che vi invito a guardare su un atlante:
essa rappresenta un’ampissima estensione territoriale continua rispetto al territorio
europeo, e integrando la carta di partenza con una dotata di una proiezione diversa si
può notare che l’Asia (termine spesso evocatore di mistero e di fascino di un altrove
lontano e diverso) lambisce, mantenendo continuità territoriale, anche il continente
americano (Carta n. 3), e notiamo anche che essa lambisce ancora un altro “altrove”
percepito come remoto, l’Oceania.
4
5
O Thuathail G. (1996), Critical Geopolitics, London, Routledge.
Ibidem.
10
Carta n. 3: L’Asia come ponte tra l’Europa, l’America e l’Oceania
Fonte: www.lib.utexas.edu/maps, sito dell’Università del Texas, sezione cartografica “Perry
Castaneda”
Le rappresentazioni cartografiche selezionate sono funzionali a introdurre il discorso dei
designatori o, meglio, a problematizzare il loro significato; si delinea un’operazione che
utilizza i territori in una prospettiva storica e politica, un’operazione che utilizza il
territorio come segno nel nostro linguaggio: un’operazione geografica, nel significato
etimologico del termine: “scrivere il mondo (luogo e sistema di pensiero)
descrivendolo”.
Partiamo da un designatore tradizionale per indicare l’Asia e una delle porzioni di Asia,
che il corso prende in esame. Asia come “Oriente”, il Sud-Est e il Nord-Est asiatico
come “Estremo Oriente”.
Il termine “Oriente” che proviene dal latino orior sorgere, nascere, si riferisce a
un dato ambientale, l’Oriente è il luogo da cui il sole sorge e da cui inizia il suo
percorso in direzione dell’ “Occidente”, detto altrimenti “Occaso”, da occido cado,
svanisco, il luogo del tramonto. Il termine Oriente ci svela subito la provenienza del
soggetto culturale che lo ha pensato nonché la sua posizione fisica, geografica, indicata
immediatamente dalla lingua antica a cui ho fatto riferimento, il latino, che definisce
subito una posizione mediterranea, dunque, sita nell’emisfero Boreale, a nord
dell’Equatore, nel continente europeo.
La designazione di “Estremo Oriente” come quella di “Vicino Oriente” consente di
individuare con maggiore certezza il soggetto che la pronuncia, in considerazione della
sua posizione, piuttosto che l’oggetto, l’Oriente, nello spazio in cui è collocato. Mi
spiego meglio, indica una distanza da sé e di conseguenza il complesso di differenze,
supposte, prima ancora che rilevate dall’osservazione diretta e dall’incontro o scontro
con coloro che abitano quelle terre orientali, percepite, appunto, come lontane, diverse.
Questi designatori svelano l’origine, legata all’Europa dei commerci di spezie e
mercanzie preziose quanto esotiche, dunque, al mercantilismo (del lungo periodo che va
dal Duecento al Settecento) poi all’Europa imperialista (dell’Ottocento e Novecento).
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Essi definiscono quei territori lontani e non ben conosciuti dai soggetti geopolitici che
hanno costruito i grandi imperi coloniali, dapprima di tipo economico poi politico: il
Portogallo, l’Olanda, la Spagna, la Francia, l’Inghilterra (a cui poi si aggiungeranno altri
soggetti politici).
Inizieremo il nostro excursus storiografico dall’Ottocento, quando molti paesi,
che costituiscono oggi le soggettività Stato-nazionali di questa regione, diventano parte
dei più ampi imperi coloniali francese e britannico - mentre precedentemente questo
destino coloniale ha accomunato l’Indonesia, le Filippine, Macao e Timor,
rispettivamente possedimenti coloniali di Olanda (dal XVII secolo), Spagna (dal XVI
secolo) e Portogallo (dal XVI secolo) - . L’Ottocento è anche il secolo in cui alcuni
paesi di quest’area perdono autonomia, come rivela il caso della Cina, o vengono forzati
al rapporto con gli Occidentali, come nel caso del Giappone (sebbene in questo caso il
primo contatto unicamente commerciale con gli Europei risalga al XVI secolo con i
mercanti olandesi).
Cosa succede, dunque, nel corso dell’Ottocento? Nel corso di questo secolo le grandi
potenze europee si spartiscono il mondo in possedimenti coloniali. La spinta
fondamentale fu l’esistenza di imponenti capitali eccedenti da investire, la necessità da
parte degli apparati industriali dei paesi europei, di antica e di nuova industrializzazione
(come la Germania) di accaparrarsi materie prime e sbocchi di mercato. Il dominio
politico diretto, in Africa e in Asia, apparve come la forma di tutela migliore di questi
investimenti e delle attività economiche. Negli anni Ottanta dell’Ottocento, il politico
francese, membro del Senato, Jules Ferry scrisse a proposito che: «La politica coloniale
è la figlia della politica industriale».6 Non mancavano motivazioni e implicazioni
ideologiche, strategiche e culturali alla base dell’imperialismo. Le motivazioni
economiche necessitavano di strumenti e prospettive strategiche per essere
implementate, ciò significava impadronirsi di un territorio in virtù della sua posizione e,
pertanto, trasformarne o definirne lo status politico in relazione alla necessità della
potenza coloniale senza tener conto dei connotati culturali locali. La dottrina
imperialista si fondava sul principio della superiorità di determinate razze e nazioni nei
confronti di altre popolazioni. Le “razze superiori” avevano nei confronti di questi
popoli incapaci di amministrare, usare e gestire le proprie risorse, la responsabilità di
assumerne la “tutela”, impadronendosi di queste risorse. É questa la ragione della
“missione civilizzatrice” delle potenze europee che lo scrittore Rudyard Kipling, in
relazione alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti d’America, definisce “fardello dell’uomo
bianco”. (Lettura)7
La spartizione dell’Asia orientale in colonie e zone di influenza provocò contrasti e
tensioni che si concentrarono sulla questione della Cina, un impero in disfacimento di
cui Gran Bretagna, Francia e Russia erano intenzionati a dividersi le spoglie. A queste
potenze europee, per così dire tradizionali si aggiungeva il Giappone, che nel corso del
XIX secolo aveva vissuto una intensa quanto rapida trasformazione modernizzante, che
lo portò a diventare una potenza industriale. Con le stesse caratteristiche del Giappone,
anche la Germania imperiale affrontava la sfida coloniale, conquistando il controllo
della penisola dello Shandong in Cina e delle isole del Pacifico a nord dell’Equatore,
Marshal, Caroline e Marianne. Ma l’attore imperialista, forse, più interessante è
costituito dagli Stati Uniti d’America. Gli USA utilizzarono strategie economiche e
6
Bontempelli M., Bruni E. (1990), Storia e coscienza storica, Milano, Trevisini.
De Bernardi A., Guarracino S. (1987), L’operazione Storica, “L’età contemporanea 3”, I vol., lettura Il
Fardello dell’Uomo Bianco, p. 744.
7
12
commerciali antiprotezionistiche come grimaldello per costruire una egemonia politica
imperialista.8 Anche dal punto di vista geografico gli USA costituiscono una
soggettività interessante, in quanto introducono una nuova categoria territoriale per
affrontare questo quadrante regionale: quello della “Pacific Rim”. Ma procediamo con
ordine, secondo una logica spaziale e temporale.
La Cina è il fulcro del discorso coloniale e del nuovo assetto di soggetti
imperialisti nel quadrante dell’Asia Orientale. Nel corso dell’Ottocento si realizzò
quello che, sebbene impropriamente, potremmo definire lo “scramble of China”: ormai
debole, il controllo territoriale della dinastia Menchu, era contrastato dalla penetrazione
britannica, che avveniva attraverso il contrabbando dell’oppio con cui i Britannici
creavano e sostenevano un contro-potere economico. Il fine delle guerre dell’oppio, così
vennero denominati i conflitti anglo-cinesi avvenuti alla fine degli anni Trenta e poi alla
fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento, non era l’istituzione di un dominio coloniale
diretto ma l’abbattimento delle politiche protezionistiche e l’imposizione al governo
cinese della politica delle “Porte Aperte”. (Letture)9 Contemporaneamente si svolgeva
un altro conflitto quello franco-cinese (1840-1885), che portò alla istituzione
dell’Indocina, con la sottrazione al controllo cinese del Viet Nam.10
Infatti, per quanto riguarda Francia l’espansione coloniale in Asia orientale comincia
negli anni Ottanta dell’Ottocento, quando alla Cambogia e al Viet Nam meridionale, che
la Francia possedeva già dal 1863, si aggiunge il Viet Nam settentrionale, sottratto al
controllo della Cina, costituendo il possesso coloniale dell’Indocina, a cui nel 1893 si
aggiungerà il Laos. In questo stesso periodo la Francia ottenne la libertà di penetrazione
commerciale in Cina.11
Negli stessi anni la Gran Bretagna portò a compimento l’occupazione della Birmania
(oggi Myanmar) nel 1886, che fu aggregata all’impero indiano, e si spinse poi alla
conquista delle isole del Pacifico e della Nuova Guinea, che spartì con Germania e
Olanda. Alla fine dell’Ottocento la Gran Bretagna possedeva la Birmania, la Malesia,
Hong Kong (oltre a India e Pakistan).12
Nella metà degli anni Novanta (1894-95) il Giappone aggredì la Cina, sconfiggendola
rapidamente. Con il trattato di Shimonoseki il Giappone ottenne possedimenti
territoriali in Cina (l’isola di Formosa, oggi nota come Taiwan), da cui ebbe inizio un
penetrazione che mutò profondamente il suo ruolo geopolitico in questa area.13
Alla fine del secolo la Cina consisteva in un complesso di “concessioni”, diritti
esercitati dalle potenze imperialiste sul suo territorio, situazione che determinò la rivolta
anti-imperialista nota come guerra dei Boxers (in realtà era una rivolta operata dalla
società segreta denominata “Ordine letterario e patriottico dei pugni armoniosi”)
(Lettura)14. A questa seguì una spedizione punitiva internazionale, condotta da Gran
Bretagna, Francia, Germania (che ottenne lo Shandong), Russia, USA e Italia (che
ottenne la concessione del Tien Tsin). Una ulteriore conseguenza fu lo scontro tra
Russia e Giappone entrambi interessati alla Manciuria e alla Corea, conclusasi con il
successo del Giappone con la vittoria contro la Russia nella guerra del 1905, in seguito
8
Di Nolfo E. (1994), Storia delle relazioni internazionali 1918-1992, Bari, Laterza.
De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit, I vol., letture sulla guerra dell’oppio, pp. 454, 456.
10
Di Nolfo E. (1994) e De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit.
11
Di Nolfo E. (1994), op. cit.
12
Ibidem
13
Ibidem
14
De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit, I vol., La rivolta dei boxers, p. 758 .
9
13
alla quale il Giappone ottenne il protettorato sulla Corea, il controllo della penisola
cinese di Liadong, l’annessione di metà dell’isola di Sakhalin e il controllo sulla
Manciuria ( Figura n. 1).15
Nel corso dell’Ottocento gli USA diventarono una potenza navale, ma una
potenza economica più in generale grazie al successo della Standard Oil Company e
delle acciaierie. Il nuovo grande potenziale consentiva al giovane Stato di potersi
espandere ma soprattutto di poter espandere la sua influenza, dapprima, oltre i propri
confini, poi, oltre il proprio continente. Ma la logica continentale sembra presto superata
da una logica regionale, fondata sulla regione del Pacifico.
Una delle radici dell’imperialismo statunitense può essere considerata la dottrina
Monroe, enunciata nel 1823. Essa si fondava su un motto “L’America agli Americani”,
e sebbene inizialmente fosse rivolta contro le ingerenze europee nel continente
americano (contro l’intervento della Santa Alleanza a difesa degli interessi coloniali
della Spagna) si trasformò ben presto nel fondamento ideologico dell’egemonia
statunitense a scala continentale: il panamericanismo targato USA. Questo shift
ideologico viene perfezionato da Theodore Roosevelt, assertore già dagli anni Ottanta
(dunque, prima di diventare presidente) di una politica espansionista basata sul
potenziamento della marina militare e di conseguenza dell’abbandono delle tesi
isolazioniste. Diventato presidente nel 1901, modificò la dottrina Monroe con un
corollario detto poi “Corollario Roosevelt” del 1904: controllo economico e politico
statunitense sui paesi sudamericani, estensione del nazionalismo di Monroe a una scala
continentale in direzione del Pacifico, ovvero estendendosi oltre la costa la frontiera
occidentale.
L’occasione strategica fu la ribellione di Cuba nel 1895 contro la Spagna a cui seguì la
guerra ispano-americana del 1898, poiché gli USA intervennero a fianco di Cuba.
La sconfitta della Spagna, determinò l’autonomia di Cuba (in realtà sotto controllo
USA), ma anche il passaggio sotto la sovranità USA delle Hawai, delle Filippine e di
Guam (nel Pacifico, appunto). Un’altra significativa svolta “Pacifica” degli USA è
costituita dal protettorato su Panama e dal taglio del canale nel 1914: nuova soglia sul
Pacifico (Figura n. 3).
15
Ibidem
14
Figura n. 1: Imperialismo giapponese
Fonte: De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit., p. 667.
15
Figura n. 2: Espansione americana verso l’Asia: la regione del Pacifico
Fonte: De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit., p. 666
3.2 I guerra mondiale e I dopoguerra: Il protagonismo giapponese e la convergenza
anglo-americana nel Pacifico
Gli eventi della I guerra mondiale determinano l’emergere del Giappone come
potenza regionale in Asia Orientale. Il delinearsi di una soggettività politica e strategica
locale comporta una prima mutazione di designatori di riferimento regionale: la
posizione in situ di un soggetto politico strategico riconfigura la direzione dello sguardo
o, meglio, ne fa emergere uno interno. Il terreno in cui si costruisce il nuovo assetto
politico regionale è la Cina. Il Giappone, alleatosi con le potenze dell’Intesa, continua
l’operazione di penetrazione nel territorio cinese, avvantaggiato dalla lotta tra i
latifondisti e progressisti all’interno del Guomondang e il partito comunista.
Guomindang e partito comunista si alleano in funzione antigiapponese ma nel 1927 ha
fine la collaborazione tra questi due partiti, tesa a mantenere l’integrità nazionale della
Cina, mentre il partito comunista è costretto a ritirarsi nelle aree più periferiche del
Jiangxi da cui comincia la lunga marcia per il potere. Una tappa importante del loro
viaggio fu il loro insediamento nella regione dello Yunnan, dove il partito risiedette dal
1935 al 1943 e si riconfigurò sotto la guida di Mao Tze-tung (Figura n. 3).
16
Figura n. 3: La lunga marcia dei comunisti in Cina
Fonte: De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit.,II vol., p. 426.
17
La sopravvivenza politica di una Cina autonoma fu anche il motivo dello scontro tra
USA e Giappone: gli USA difendevano la Cina per difendere la politica delle porte
aperte (nel ‘17 la Cina, diventata ormai repubblicana nel 1912, entrò in guerra
schierandosi a fianco degli USA).
La rivoluzione russa e la sconfitta tedesca segnarono la vittoria del Giappone e gli
diedero il via libera all’ascesa geopolitica in Asia. Alla conferenza di Parigi (1919) il
Giappone ottenne il controllo sui territori controllati dai Tedeschi (isole del Pacifico e
penisola dello Shandong e la Siberia orientale). L’imponente presenza giapponese in
Asia e nel Pacifico indusse i Britannici a rivedere la propria posizione e a confluire con
gli USA in un atteggiamento teso al controllo anti-nipponico sul Pacifico, ciò portò alla
conferenza di Washington (1921-22) che segnò il definitivo riconoscimento degli USA
come grande potenza militare oltre che economica, segnato dalla parità navale con la
Gran Bretagna nel Pacifico (fu stabilita la presenza degli incrociatori di entrambe le
potenze nella regione in base al principio della Balance of Power).
Ma poniamo maggiore attenzione al Giappone e al suo ridisegno degli assetti
geopolitici in Asia: un racconto territoriale che supera gli eventi della I guerra mondiale
e arriva al II dopoguerra.
3.3 L’Asia Orientale giapponese
L’ascesa del Giappone allo status di grande potenza nel Pacifico era dovuto oltre
che agli eventi di scala mondiale della I guerra mondiale a trasformazioni interne. Il
Giappone era un giovane potenza industriale caratterizzata da un forte surplus
finanziario, sul piano politico occorre rilevare che la tradizionale oligarchia militare era
stata affiancata e per certi versi sostituita da due grandi poteri: l’industria e la proprietà
terriera rappresentate dal partito Seyukai, fautore di una politica estera imperialista da
sviluppare in Manciuria e Mongolia, e il settore dell’alta finanza-commercio
rappresentato dal Minseito, partito liberale fautore di una politica di espansione
commerciale. Entro i primi trent’anno del Novecento la nuova alleanza tra i giovani
samurai e l’imperatore (esito del nuovo assetto del paese, passato alla storia come
Restaurazione Meiji del 1868) si connota come il lungo periodo delle riforme secondo
lo slogan Fukoku-Kyohei (Paese ricco esercito forte) che conciliava Wakon (tradizione)
e Yosai (modernità), ispirato alla parallela industrializzazione/militarizzazione della
Prussia, che diventa modello geopolitico per il Giappone. Lo Stato giapponese assume
un atteggiamento fortemente dirigista in economia, vengono abolite le classi confuciane
(in base alle quali i mercanti sono all’ultimo posto della scala sociale) considerate
ostacolo alla modernizzazione, si investe nel rafforzamento del capitalismo e nel
sistema scolastico. Le guerre imperialistiche di penetrazione in Cina e il raggiungimento
della Balance of Power, il riconoscimento della status di potenza regionale dalle grandi
potenze (Gran Bretagna e USA) sono l’esito di questa trasformazione.
La presenza giapponese relativa alle attività produttive era molto forte in Cina e si
sarebbe estesa nel corso degli anni Trenta. I Giapponesi godevano del controllo della
Manciuria per via delle ferrovie, godevano di diritti di sfruttamento minerario, di attività
agricole, industriali e commerciali, proprio questi interessi costituirono il pretesto
dell’occupazione militare di questa regione da parte delle forze giapponesi contro la
costante reazione cinese a limitare i diritti giapponesi allo sfruttamento del territorio
cinese. Lo stato di occupazione della Manciuria si consolidò con la sua trasformazione
18
nello Stato indipendente del Manciukuò (legato al Giappone da una alleanza) su cui i
Giapponesi posero l’ex-imperatore cinese Pu Yi (Figura n. 4).
In seguito il Giappone continuò la sua penetrazione negli spazi cinesi dirigendo verso la
Mongolia ma anche lungo la costa da Shangai fino a Nanchino (1937) occupando
Canton e Hankow, ostacolato dalla resistenza cinese, ma anche dai Sovietici e dalla
propaganda americana, tuttavia, incapace di agire, mentre le potenze europee non
comprendevano né intuivano la portata della minaccia Giapponese, nella loro logica di
considerare i territori asiatici, appunto, lontani.
Alla fine degli anni Trenta il fronte militarista-imperialista del Giappone prende
definitivamente il potere ed esprime l’ideologia sottesa allo sforzo bellico-imperialista
del Giappone. La decisione tardiva delle potenze europee di concedere crediti alla Cina,
ebbe come conseguenza l’occupazione da parte del Giappone dell’isola di Hainan, delle
isole Spartly, del Tien-Tsin e delle sue riserve d’argento.
Stipulata l’alleanza con la Germania nazista nel 1941 il Giappone si apprestava a
concretizzare il progetto egemonico in Asia/Sud Est Asiatico la così detta “sfera di
comune prosperità” in cui rientrarono ben presto anche i territori indocinesi, malaysiani
e indonesiani (Lettura L’Asia Giapponese)16.
La prima reazione da parte degli USA fu quella di incorporare le truppe delle Filippine
nell’esercito americano e di chiudere il canale di Panama alle navi giapponesi, poi il
confronto continuò sul piano diplomatico, fino a quando il Giappone non svelò le sue
carte: la richiesta di riconoscimento dello status quo, ovvero della sua incontrastata
egemonia sul Sud-Nord-Est asiatico, esplicitata nella cosiddetta “proposta B”, che i
Giapponesi posero agli Americani durante i negoziati del novembre del 1941. Allo
sdegno USA i Giapponesi risposero con l’attacco a Pearl Harbour nelle Hawai.
Dopo un periodo di vittorie giapponesi, sostenute dai consensi anticolonialisti, che il
programma egemonico giapponese dell’Asia agli Asiatici aveva conquistato, gli
Americani cominciarono a guadagnare posizione a partire dal maggio del ’42.
16
De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit, II vol., lettura La grande Asia Orientale, pp.466-67.
19
Figura n. 4: Territori persi dal Giappone
Fonte: De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit.,II vol., p. 416.
20
3.4 Il II dopoguerra: scenario geopolitico in Asia Orientale
Ancora una volta è la Cina l’elemento che consente una lettura geopolitica che
dall’Asia Orientale mette in moto una serie di movimenti planetari.
Il primo ottobre del 1949 il partito comunista cinese proclama la nascita della
Repubblica Popolare Cinese, i nazionalisti cinesi lasciano il continente per rifugiarsi
nell’isola di Formosa, dando vita al baluardo americano anticomunista di Taiwan, che
dal 1945 fino al 1971 ha occupato un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza
dell’ONU (poi sostituita dalla Repubblica Popolare Cinese).
É opportuno ricordare sinteticamente a tutti alcune caratteristiche salienti del
programma di Mao per la neonata Cina comunista. Le sue quattro modernizzazioni,
agricoltura, industria, difesa, scienza, sono tutte incardinate sulla Legge sul matrimonio
del 1950, che segna il progetto di distruzione della famiglia patriarcale e l’abolizione del
concubinaggio, considerando il ruolo della donna, la sua liberazione dalla condizione di
soggezione in un sistema maschilista e gerontocratico, come il perno della
trasformazione sociale della Cina. Il laboratorio territoriale di tale trasformazione
veniva individuato nella campagne, dove la collettivizzazione delle terre e la
costruzione di cucine collettive (mense pubbliche che servivano cancellare il sistema di
organizzazione sociale fondato sulla famiglia tradizionale e a instaurare un sistema
sociale in cui tutti i Cinesi si considerassero unicamente figli fedeli di Mao, il padre
della patria) erano i cardini del progetto teso a realizzare le condizioni per un’adesione
interiorizzata al partito, in consonanza con quanto era avvenuto durante la lunga marcia:
la politicizzazione dell’Armata Rossa (ogni soldato era un militante e diffusore della
dottrina di Mao), la riforma fondiaria (esproprio e collettivizzazione delle terre), riforme
sociali (liberazione delle donne). Vi invito a ricordare la lettura di Jan Myrdal sulla
condizione delle donne nella Cina tradizionale.(Lettura )17
Sebbene segnati da differenze ideologiche, che col tempo si approfondiranno, la
Repubblica Popolare Cinese nel ’50 firma un patto di alleanza difensiva con l’URSS,
segnando l’inizio di una sfera di influenza che trasformerà il Sud-Est asiatico in una
regione geopoliticamente tanto nevralgica per il sistema bipolare quanto l’Europa
dell’Est. Assieme alla Cina rientrano nella sfera di influenza sovietica la Corea del
Nord, il Viet Nam del Nord, il Laos e la Cambogia.
Nella sfera di influenza USA sono, invece, il Giappone (sotto occupazione, che diventa
il bastione americano contro il comunismo), la Tailandia, le Filippine, la Corea del Sud.
Lo scenario asiatico così ricomposto mostra la fine del sistema multipolare: USA e
URSS scalzano la Gran Bretagna e la Francia. Ma di lì a poco si definiscono altri attori
geopolitici e altre potenze regionali: prime fra tutti l’Australia e il nuovo Giappone
demilitarizzato e democratico, che riportano l’attenzione sulla regione dell’Oceano
Pacifico.
L’esperienza della colonizzazione giapponese pose le basi per l’indipendenza di
alcuni territori coloniali, come l’Indonesia, che proclamò la sua indipendenza
dall’Olanda nel 1946, e la Birmania poi Myanmar, e la Malesia, poi Malaysia; nel 1954
con gli accordi di Ginevra l’Indocina francese cessava di esistere, mentre la regione
animata da nuovi Stati indipendenti cadeva sotto le mire degli USA e della Cina
popolare, nuovo attore geopolitico sulla via per diventare una potenza regionale.
17
De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit, II vol., Storia di un villaggio cinese, pp. 559-562.
21
Il NUOVO ORDINE COLONIALE vede protagoniste l’URSS e gli USA, la prima
raggruppa i paesi amici nel Patto di Varsavia e li lega a sé con le alleanze difensive, la
seconda usa una logica regionale, promuovendo la creazione e la stipulazione della
SEATO (South East Asia Treatry Organization 1954) - sul modello della NATO, come
altre organizzazioni regionali quale la CENTO per il Medio Oriente con il Patto di
Baghdad del 1955 -.
La SEATO costituiva una organizzazione di difesa e collaborazione che comprendeva
Filippine, Pakistan, Thailandia, Laos, Cambogia, Vietnam del Sud, a cui si
aggiungevano altri paesi in qualità di osservatori, come l’Australia, la Nuova Zelanda,
oltre a USA, Gran Bretagna e Francia. Essa promanava dall’idea di creare uno spazio
politico sotto l’egida statunitense, alla base del quale sottostava la teoria del domino
elaborata da Eisenhower, in base alla quale occorreva prevenire il passaggio nell’area di
influenza sovietica di alcuni paesi, specie il Viet Nam, al fine di non far innescare
l’effetto domino, ovvero il passaggio tempestivo e automatico dei paesi vicini sotto la
stessa influenza.
La stipulazione della SEATO innescò la reazione del fronte comunista, proprio a partire
dal tessuto sensibile del Viet Nam del Nord: i partigiani comunisti Vietcong
penetrarono nel Viet Nam del Sud e poi in Cambogia e nel Laos (Figura n. 5). Questi
eventi diedero luogo alla guerra tra Viet Nam e USA risoltasi nel 1975 con
l’unificazione del paese e il passaggio dei paesi occupati sotto influenza vietnamita e,
pertanto, sovietica.
Durante gli anni di questa guerra si realizza paradossalmente la distensione nelle
relazioni tra Cina e USA, magistralmente orchestrata dal segretario di Stato USA Henry
Kissinger. Il Viet Nam era uno Stato sotto la protezione cinese ma la Repubblica
Popolare non intervenne mai a sua difesa contro gli USA, che nel 1971 le riconobbero il
diritto a sedere nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU in sostituzione della Cina
nazionalista di Taiwan (di fatto un protettorato americano), inoltre, a conclusione della
guerra del Viet Nam, le relazioni tra USA e Cina si erano del tutto normalizzate: gli
USA avevano riconosciuto nella RPC una potenza regionale, interlocutore fondamentale
per tutte le questioni relative al quadrante dell’Asia orientale. Nasceva un nuovo ordine
coloniale mondiale in cui la RPA veniva riconosciuta come grande potenza, accanto a
USA, URSS e potenze europee.
22
Figura n. 5: La guerra del Viet nam
Fonte: Di Nolfo E. (1994), op. cit., p. 1
3.5 Processi di regionalizzazione dall’alto in Medio Oriente: riaffermazione di un
ordine coloniale
Il discorso sull’Ordine coloniale e i processi di regionalizzazione dall’alto in Medio
Oriente parte cronologicamente dagli eventi della prima guerra mondiale o, meglio dal
1916, anno in cui Francia e Gran Bretagna firmano gli accordi Sykes-Picot, con cui si
spartiscono la Mezza Luna Fertile, l’estesa area che va dal Mediterraneo orientale (le
odierne coste di Israele e Libano) fino a comprendere la Mesopotamia (dunque gli
odierni paesi di Siria, Giordania, Iraq e territori Palestinesi - Autorità Nazionale
Palestinese).
Fino a quel momento l’unica soggettività sovrana su questo territoro era l’Impero
Ottomano, la cui autorità nel corso dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento era
stata contrastata dal crescere dei nazionalismi arabi, egiziani e libanesi in particolare, e
dal movimento modernizzatore dei Giovani Turchi, la cui geografia politica insisteva
sulla Turchia (penisola anatolica) e sulla centralità del mono-etnismo turco.
23
Il nuovo Medio Oriente post-ottomano, nasce con i trattati di Losanna, che nel 1926,
recepiscono gli accordi Sykes Picot, riconoscendo uno spazio coloniale britannico - sul
territorio attualmente costituito dai seguenti Stati: Israele, ANP, Giordania e Iraq (a cui
vanno associati gli Stati autonomi di Arabia Saudita e gli emirati del Golfo arabicopersico) – e uno spazio coloniale francese - sui territori oggi noti come Libano e Siria –
sottoposti a un regime di Mandato, ovvero sotto amministrazione diretta delle due
potenze europee. La Turchia acquistava la forma che oggi conosciamo, avendo accettato
di perdere le isole dell’Egeo (a favore della Grecia) e l’area di Mosul (a favore dell’Iraq
del Mandato britannico), pur di mantenere il controllo degli stretti del Bosforo e dei
Dardanelli, porte di accesso al Mediterraneo dall’Asia e dalla grande area russa.
L’instaurazione del dominio coloniale diretto delle due potenze straniere in Medio
Oriente aveva fatto sorgere un movimento di reazione anti-coloniale, ravvisabile nel
complesso fenomeno del pan-arabismo, che nelle prime fasi del Novecento esprime una
portata anti-francese con il progetto della Grande Siria (una grande espressione politico
territoriale che avrebbe compreso tutta la Mezza Luna Fertile, vista come orbitante
attorno al polo di Damasco); era questo un movimento che raggruppava diverse
componenti del mondo arabo modernista, tra cui molti cristiani.
Un’altra espressione del pan-arabismo faceva perno sull’emiro Hashemita Hussein, che
contrattando con in Britannici ottenne in un primo momento il loro sostegno a formare
un grande Stato, sotto il suo controllo, sui territori amministrati dalla Gran Bretagna.
Ma a causa degli eventi della I guerra mondiale i Britannici furono spinti dagli USA a
sostenere la causa sionista, riconoscendo con la Dichiarazione Balfour (1917) la
disponibilità a far sorgere in Palestina una “National Home” (un focolare nazionale) per
gli Ebrei, progetto che non solo erodeva lo spazio del grande Stato panarabo ma vi
introduceva un elemento esogeno (il popolo ebraico, ben presto intenzionato a darsi
forma di Stato-Nazione).
Tuttavia, nel corso degli anni Venti i Britannici vennero incontro alle esigenze degli
Arabi nei territori sotto il loro controllo, non in termini pan-arabi ma fondativi di un
discorso nazionalista, creando gli Stati di Transgiordania, affidata all’emiro Hashemita
Abdullah e dell’Iraq, affidato al fratello di quest’ultimo Feisal, mostrando di recepire
almeno in parte delle chiare istanze locali, mentre tennero sotto controllo diretto il
territorio oggi costituito da Israele e ANP.
Negli anni che trascorsero tra il I fino al II dopoguerra le presenze coloniali francesi e
britanniche con metodi diversi cercarono di enfatizzare gli elementi della complessa
geografa umana e culturale del Medio Oriente, la presenza di una molteplicità di
religioni ed etnie, a loro favore secondo il principio romano del divide et impera. I
Francesi enfatizzarono le differenze e le conflittualità creando un sistema di gestione
comunitaria del potere politico in Libano: avevano elaborato il comunitarismo, una
ideologia e mitologia esogena, in cui il politologo francese Georges Corm riconosce
l’origine dei conflitti libanesi e per estensione di tutto il Medio Oriente18.
I Britannici attraverso lo strumento del nazionalismo, enfatizzando le rivalità tra gli
Stati già indipendenti sotto la sua orbita, come l’Egitto, Transgiordania, Iraq e Arabia
Saudita, e attraverso la modernizzazione che creava fratture interne tra strati e gruppi
sociali tradizionali e nuove élites, generalmente nate nelle leve della burocrazia e delle
forze armate.
18
Corm G. (2006), Il Libano contemporaneo, Milano, Jaka Book.
24
I conflitti interni al mondo mediorientale, esaltati e talvolta creati ad hoc dalle potenze
colonialiste/imperialiste, si acuirono con la nascita dello Stato di Israele, proclamatosi
indipendente dalla colonizzazione britannica nel maggio del 1948. Da questo evento
derivò una guerra tra cinque Stati arabi (Egitto, Giordania - ex Transgiordania-, Iraq,
Siria e Libano) e Israele, vinta da quest’ultimo, grazie all’aiuto indiretto dei sovietici.
Questo conflitto diede luogo un altro fattore di destabilizzazione di quest’area: la
diaspora palestinese, ovvero l’afflusso di numerosi rifugiati palestinesi negli Stati arabi
limitrofi, dove rimasero sempre dei corpi estranei. Inoltre, in seguito a questa guerra
l’Egitto prese sotto la sua amministrazione la Striscia di Gaza, la Giordania la
Cisgiordania, mentre la Siria occupò le alture del Golan. (Carta n. 4)
Nei primi anni Cinquanta, anni di ricostruzione per l’Europa e di consolidamento del
nuovo ruolo di superpotenza mondiale per gli USA, si vengono delineando due diverse
strategie per Gran Bretagna e USA (la Francia, una volta diventati indipendenti Libano
e Siria nel corso degli anni Quaranta, è fuori dal Medio Oriente). La Gran Bretagna
gestisce il proprio controllo su questo quadrante attraverso un sistema di alleanze, un
controllo unificato denominato MEDO, incentrato sull’Egitto. Si tratta di un controllo
regionale unificato, caratterizzato da una forma di ingerenza diretta molto profonda,
teso a gestire una macro-regione che si articola su più quadranti il Mediterraneo, il
Golfo arabico-persico, e l’Oceano Indiano. I due quadranti estremi sono i lembi da cui il
petrolio del Golfo viene inoltrato al resto del Commonwealth, madre patria compresa.
25
Carta n. 4: Israele nel 1949
Fonte: Limes, n. 2, 2002
26
Dopo il viaggio del segretario di Stato Dulles, 1953, la strategia americana riguardo al
Medio Oriente prende nuova forma. Gli USA intendono attuare una strategia di
controllo debole, di superficiale ingerenza all’interno della politico-amministrativa dei
singoli Stati, attraverso un sistema di alleanze, che prevedono sostegno militare in
cambio di aiuti economici (formalizzato nel 1957 come dottrina Eisenhower, dal nome
del presidente che l’aveva pensata e attuata). La logica alla base di questo sistema
risiede nella funzione anti-sovietica di queste alleanze (parallele a quelle stipulate nel
quadrante dell’Asia orientale) che ha una precisa geografia, quella della Northern Tier
(cintura settentrionale), che vedeva nella Turchia (vi ricordo che la Turchia fa parte
della NATO) e nell’Iran i due Stati-territori fondamentali (vi invito a guardarli su un
atlante). Nel 1955 a Baghdad sotto l’egida americana viene sottoscritto da tutti i paesi
del Medio Oriente, Afghanistan compreso, un patto di alleanza con gli USA che darà
luogo nel 1959 alla CENTO (Central Treaty Organization, centrale tra la NATO e la
SEATO), che consolida la geografia anti-sovietica degli USA (Europa Occidentale,
Medio Oriente, Estremo Oriente).
Il cambiamento di governo in Egitto che porta al potere Nasser, leader nazionalista e
panarabo di orientamento baathista (socialista) e strenuamente anti-israeliano, induce gli
USA a scegliere come alleati più stretti la Giordania e il Libano, mentre i Sovietici,
sostenendo Nasser e poi Saddam Hussein (altro leader baathista) cominciano a entrare
nelle vicende mediorientali. (Lettura)19
La personalità politica di Nasser e i suoi propositi panarabi, che lo portano a costituire
una unione tra Egitto e Siria, con la Repubblica Araba Unita nel 1958 (particolare
tentativo di regionalismo anti-coloniale), sono ostacolati dal rafforzarsi di un
panarabismo religioso a opera della Fratellanza Musulmana e dall’Arabia Saudita,
regime monarchico integralista, che intende assumere il ruolo di potenza regionale. La
crisi di Suez del 1956 (che riporta la regione a vivere delle tensione di vecchio stampo
coloniale ordite dalla Francia, che usa Israele in funzione anti-egiziana)20 ma soprattutto
il conflitto arabo-israeliano del 1967, che fa conoscere un Israele potenza militare
indiscussa in Medio Oriente, destabilizza ulteriormente il quadrante e impedisce il
sorgere di dimensioni post-coloniali, anzi un ordine neo-coloniale si afferma sotto
l’egida israelo-statuntense. La Carta n. 5 mostra un “grande” Israele, che alla fine della
guerra dei Sei Giorni ha occupato il Sinai, la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e di fatto
annesso Gerusalemme Est e il Golan, comportando un nuovo flusso di rifugiati
palestinesi, né una enfatica testimonianza.
La lunga guerra civile libanese del 1975-1991 è una delle tragiche espressioni delle
questioni mediorientali, che ci consente di capire come le dinamiche coloniali e neocoloniali in atto in questo quadrante non solo non sembrano tendere a cessare ma si
configurano territorialmente facendo del Libano uno spazio conflittuale e simbolico.
19
De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit, II vol., L’Egitto e la crisi mediorientale, pp. 579-581.
Vi ricordo che la crisi di Suez ha origine in seguito alla nazionalizzazione del canale di Suez di cui
Gran Bretagna e Francia erano azioniste.
20
27
Carta n. 5: Grande Israele 1967
Fonte: Limes, n. 2, 2002
Conflittuale perché attraverso la crisi apparentemente interna alla società libanese, i
diversi Stati del Medio Oriente hanno agito per affermare il proprio ruolo di potenze
28
regionali e tendenzialmente egemoniche. Simbolico perché racchiude come un
microcosmo tutte le eredità coloniali alla base delle questioni mediorientali, legate alla
difficile gestione di uno spazio transcontinentale complesso e strategico, per la presenza
di risorse energetiche fondamentali e per collocazione geopolitica (snodo tra Europa,
Africa e Asia; spazio di prossimità alle Heartlands – Russia, Iran e Asia Centrale – e
alle Rimalands – Mediterraneo e Oceano Indiano e Pacifico).
Alla base della crisi libanese c’è l’esasperazione del comunitarismo e l’emergere della
comunità cristiana maronita come comunità egemonica oltre che dal punto di vista
politico anche economico (vi rammento il ruolo del partito falangista). Questo stato è da
ascriversi all’ingerenza della Francia, che vede nell’insinuarsi nella questione libanese
un modo per riaffermare il suo potere in Medio Oriente; ma è più interessante notare
che con la stessa dinamica e prospettiva coloniale si muovono le altre potenze regionali
locali. A parte la Siria, che da sempre esercita un potere coloniale sul Libano, da
considerarsi una sorta di suo protettorato, Israele, Iraq, Iran e Arabia Saudita hanno
usato la struttura comunitaristica del Libano per agire su tutto lo scacchiere
mediorientale.
Israele sin dalla fine degli anni Settanta si è proposto come difensore dei cristiani
libanesi, sostenendo poi politicamente e militarmente il partito falangista: nel 1982
l’esercito israeliano entra a Beirut, sancendo lo stato di occupazione del paese.
Nel corso di questa guerra le singole comunità agiscono nello scontro armato attraverso
le milizie dei partiti che le rappresentano nel parlamento libanese. Al partito falangista e
alla sua milizia si deve il successo della comunità maronita, da sempre raffinata
componente intellettuale del paese ponte con le potenze occidentali ma priva del potere
economico (detenuto dalle comunità urbane dei Sunniti e dei Greco-ortodoss) e politico
(gestito dai Drusi e dal loro controllo nel Monte libano e delle loro alleanza con il
mondo musulmano sunnita), che con la guerra e il comportamento predatorio del partito
falangista (che acquisisce banche e capitali provati) assume potere economico. Vi
ricordo che il comporamento predatorio dei partiti nella guerra civile ha significato
anche uccisione di civili inermi, costretti in quartieri-ghetto, e distruzione della città di
Beirut (Vi ricordo le fotografie di Gabriele Basilico “Beirut 1990”).
Anche l’Iraq di Saddam Hussein si pone come protettore dei cristiani in funzione antisiriana e anti-israeliana. L’Iran usa la presenza sciita nel paese come grimaldello per
agire più o meno indirettamente nelle questioni strategiche. Il Libano vede da sempre la
presenza armata dei movimenti palestinesi (sia l’Olp, che quelli di matrice religiosa),
dunque per l’Iran agire in Libano significa poter agire indirettamente contro Israele.
Inoltre, le dinamiche della crisi libanese, consentono all’Iran di agire attraverso
Hezbollah, il partito sciita armato (creato dall’Iran nel 1982), in relazione all’imporsi di
un potere politico espressione di un fondamentalismo islamico nella versione proposta
dalla Repubblica islamica iraniana: fondato su un atteggiamento contrario alle élites
tradizionali, che richiama le esigenze delle masse povere e propone una modernità di
tipo islamico.
Infine, l’Arabia Saudita, con il suo sostegno alla comunità sunnita, di cui è il referente
identitario e religioso per eccellenza (vi ricordo che l’Arabia Saudita è difensore della
ortodossia sunnita), agisce sullo scacchiere mediorientale sostenendo la Siria in
funzione anti-irachena. L’Iraq, infatti, era all’epoca una potenza che agiva sullo stesso
territorio dell’Arabia Saudita, ovvero la Penisola arabica e il Golfo arabico-persico (vi
ricordo la guerra Iran-Iraq, svoltasi nel corso degli anni Ottanta, e successivamente
l’occupazione del Kuwait da parte dell’Iraq), oscurandone il potere. Per le sue
29
caratteristiche economiche (è uno dei maggiori produttori di petroli al mondo), religiose
(faro dell’ortodossia sunnita), politiche (è una monarchia assoluta) e politiche
internazionali (è un forte alleato degli USA), socio-antropologiche (è la piena
espressione di un mondo arabo, che si propone come omogeneo: senza minoranze
etnico-religiose) l’Arabia Saudita è l’unica potenza che ha tutte le carte per porsi come
soggetto politico egemonico capace di imporre un processo di regionalizzazione (anche
questo dall’alto ovvero di stampo coloniale). Sin dagli anni Ottanta presiede il Consiglio
di cooperazione del Golfo, che coinvolge gli emirati del Golfo arabico-persico,
sostenendone l’ambizione ad agire anche su altri quadranti: il controllo del Libano (che
si realizza a conclusione della crisi, negli anni Novanta con il governo di Rafik Hariri)
consente a queste potenze economiche di accedere al Mediterraneo, come spazio
strategico politico ed economico.
Il conflitto in Libano si salda con la crisi irachena degli anni Novanta e Duemila (tuttora
in corso) da cui l’Iraq, oggi sottoposto a uno stato di occupazione militare statunitense,
esce come smembrato. La Carta n. 6 mostra come il paese non esita più ma al suo
posto ci sono tre entità riarticolate su base comunitaria: uno Sciistan, un Sunnistan e un
territorio Curdo, o Curdistan iracheno.
I casi libanese e iracheno sono la cartina di tornasole del riaffemarsi di una condizione
coloniale in Medio Oriente, costituita da grandi e piccole potenze in cerca di affermare
il controllo sul quadrante, utilizzando la complessità identitaria e culturale di questo
quadrante come instrumentum regni, strumento di potere, alimentando tensioni e
rapporti squilibrati di potere. In Medio Oriente processi di regionalizzazione dal basso,
sebbene ipotizzati da qualcuno (Shimon Peres per Israele, Libano e Giordania ad
esempio) sono al momento impossibili.
30
Carta n. 6: The scramble of Iraq
Fonte: Limes, n. 5, 2006
31
4. I processi di regionalizzazione: l’assetto territoriale post-coloniale
Alla fine degli anni Sessanta nel quadrante dell’Asia orientale si delineano decisi
processi di regionalizzazione nell’area del Mar della Cina che portano le soggettività
stato-nazionali del Sud-est asiatico a costituire l’organizzazione intergovernativa
dell’ASEAN. Gli sviluppi dell’ASEAN e della più recente APEC, testimoniano un
potente processo di “regionalizzazione spontanea”, come definito da Sergio Conti, nella
più vasta area dell’oceano Pacifico. La “regione Pacifico” costituisce l’evidenza
strategico-territoriale di un assetto geopolitico animato da un moltitudine di soggettività
in rapporto tendenzialmente paritetico; in questa stessa relazione di dialogo paritetico
con i paesi di questo quadrante asiatico si inseriscono anche gli Stati Uniti.
Diversamente, le dinamiche di rinnovata egemonia statunitense, che si producono sui
territori del Medio Oriente dagli anni Novanta fino a oggi, testimoniano della
persistenza di pratiche coloniali, a cui si oppongono processi di reazione attuati da
soggettività locali o internazionali (di tipo terroristico) o statuali come l’Iran. La nuova
guerra del Libano e la sua endemica crisi interna come la costante opposizione tra Iran e
Israele si configurano come effetti dell’assetto neo-coloniale o come tentavi di
scardinarlo.
“ORDINE” POSTCOLONIALE
4.1 Sud-Nord Est Asiatico: da “ lontano da chi?” a “ vicino a chi?” la transizione
postcoloniale e i suoi soggetti.
Parlare di “Ordine” in riferimento al Postcoloniale è senza dubbio inadeguato, ma forse
ha senso se lo pensiamo come canone geopolitico non occidentale, non pensato da una
posizione politica e geografica occidentale o, comunque, non locale, non Pacifica.
Il primo elemento/evento geopolitico di questo nuovo assetto è testimoniato dalla
Conferenza di Bandung, in Indonesia, nel 1955 sotto l’egida dell’India a cui si
affiancarono presto Pakistan, Sri Lanka, Birmania, Indonesia nel ruolo di promotori. Il
loro progetto politico era il non allinemento, ovvero la possibilità di non schierarsi o
meglio ancora di non inserirsi in un’area di influenza né del Primo Mondo (USA e
potenze europee) né del Secondo Mondo (URSS e paesi socialisti) ma di costituire il
Terzo Mondo, una definizione politica dei paesi che uscivano sulla scena degli Stati
sovrani con il processo della decolonizzazione e che, pur partendo dall’Asia,
raggruppava Stati afro-asiatici, sostenuti con forte simpatia dai paesi minori dello
schieramento socialista.
La Cina Popolare partecipò come osservatore alla conferenza, e questa
partecipazione anticipò la rottura con l’URSS, che avverrà dopo i fatti di Ungheria, tra il
‘56 e il ’61, e il suo riconfigurarsi come potenza politica regionale autonoma nella
dottrina e nelle scelte politiche.
32
Temi discussi e programmi politici delineatisi alla conferenza furono:
- diritto all’autodeterminazione nazionale e condanna del colonialismo
- astensione dal partecipare ad accordi difensivi asservendosi alle grandi potenze
Si tratta di espressioni dalla formulazione ambigua, che costituiva spazi di autonomia.
Cina e Giappone sono i cardini del nuovo canone postcoloniale in Asia,
considerati per i loro percorsi individuali e per le loro relazioni con le grandi potenze:
gli USA per quanto riguarda il Giappone, e l’URSS e il nuovo rapporto amichevole con
gli USA per quanto riguarda la Cina.
Il Giappone utilizza a suo favore la soggezione agli USA, determinatasi nell’immediato
dopoguerra. Sotto l’amministrazione americana, che ha trasformato l’impero in una
monarchia costituzionale con un parlamento animato dal bipartitismo, il Giappone è
stato demilitarizzato, dunque, eliminate le spese militari, il paese ha potuto concentrarsi
sulla ricostruzione economica e industriale al passo con i tempi, riuscendoci
brillantemente, tanto che già nel corso degli anni Settanta si è reso sempre più
indipendente dagli USA, di cui è diventato poi un pericoloso concorrente economico,
ma anche un soggetto economico di spicco nel Pacifico, pronto a interloquire con paesi
come Australia e Nuova Zelanda anch’essi intenzionati a rendersi autonomi dagli USA
e dalle relazioni coloniali, elaborando un’identità radicata nell’Oceano Pacifico.
Il nuovo e progressivo protagonismo-autonomismo giapponese spinge gli USA a
riscoprire un paese da sempre interessante al loro sguardo, la Cina (in questo gli USA
erano stati preceduti dalla Francia, che si avvicina alla Cina già alla fine degli anni
Sessanta). Il distacco dall’URSS consentiva una concreta possibilità di instaurare un
dialogo amichevole, che fu magistralmente tessuto da Kissinger. Le ragioni per
avvicinare la Cina, oltre a quella del contenimento del Giappone (pericoloso
concorrente economico), derivavano dal fatto che gli USA la vedevano come una
potenza in ascesa, da non trascurare, un grande mercato da riconquistare, un
deuteragonista nel Pacifico. Kissinger svelava di ragionare in termini regionali,
recuperando una tendenza antica nella geopolitica americana. Questo processo di
avvicinamento produsse il riconoscimento da parte degli USA della Repubblica
Popolare Cinese nel 1978, e la Cina dal canto suo comincia la strada delle riforme
economiche21.
Il nuovo corso della Repubblica Popolare Cinese consisterà da questo momento in poi a
realizzare la convivenza tra comunismo (in politica) e capitalismo (in economia)
all’insegna dello slogan “un paese due sistemi”. Il primo effetto si esprime come una
riorganizzazione territoriale: nel corso degli anni Ottanta nascono le ZES, Zone
Economiche Speciali, ambiti territoriali collocati lungo la lunga fascia costiera in cui si
praticano forme economiche capitalistiche, dove sono possibili investimenti diretti
dall’estero, dove è possibile l’attività imprenditoriale privata. Si veda a riguardo la
carta n. 7 che mostra la collocazione delle ZES, le cui peculiarità economiche si
estendono progressivamente ai territori circostanti, configurando un processo di
riorganizzazione regionale all’interno del territorio statuale cinese. Le prime ZES sono i
territori costieri di sud-est Fujan e Zhegiang, poi il processo coinvolge aree più a nord e
a nord ovest e i relativi hinterland nel corso degli anni Novanta, come mostra la carta.
Il Guadong, provincia collocata all’estremo Sud-Est, gode di autonomia economica
all’interno del sistema comunista già dagli anni Cinquanta.
21
In questi stessi anni l’URSS entra sempre più in crisi, praticando una politica sempre più aggressiva (si
veda la guerra in Afghanistan).
33
Il successo delle ZES in Cina si lega al fenomeno delle Tigri Asiatiche. Sono noti come
Tigri o Dragoni asiatici quei paesi che sin dagli anni Sessanta hanno intrapreso un
serratissimo percorso di industrializzazione, che negli anni Settanta si è esteso a
Malaysia, Thailandia, Filippine, Indonesia e alle Zes (Zone Economiche Speciali della
Cina - Guandong e Fujian -). A questi si sono aggiunti negli anni Novanta il Viet Nam e
le regioni cinesi dello Jiangsu e dello Zhejiang. Ma le Tigri originarie sono Singapore,
Taiwan, Hong Kong e Corea del Sud, questi paesi hanno svolto un ruolo determinante
nel processo di regionalizzazione del Sud-Est asiatico, impegnandosi in un imponente
processo di investimenti diretti nelle economie non ancora dinamiche e avanzate
dell’area, accompagnandolo con un trasferimento di competenze nel management e
tecnologico, insieme al Giappone. Colpite dalla crisi dell’economia globale del biennio
1997-99 e dall’epidemia di SARS, nei primi anni Duemila, hanno riorganizzato le loro
economie attraverso un orientamento volto alla territorializzazione, ovvero slegare le
loro economie dal sistema globale per radicarle in un sistema regionale asiatico
pacifico, guardando ai modelli di Giappone e Cina e alla loro apertura sulla più ampia
regione del Pacifico, che si può sintetizzare negli slogan di “Look at East and at
Pacific”.
34
Carta n. 7: Le ZES
Fonte: www.lib.utexas.edu/maps, sito dell’Università del Texas, sezione cartografica “Perry
Castaneda”
35
In questo quadro prende avvio nel 1967 l’esperienza dell’ASEAN (Association of South
East Asia Nations), nata come associazione anti-sovietica, ma poi sviluppatasi come
strumento per una politica di regionalizzazione spontanea.
L’ASEAN è stata istituita nel 1967 a Bangkok. Gli Stati fondatori erano Indonesia,
Malaysia, Filippine, Singapore e Thailandia a cui si unirono successivamente Brunei,
Viet Nam, Laos, Myanmar e Cambogia.
É una associazione inter-governativa, il cui organo decisionale è composta dai capi di
Stato e di governo e che prevede incontri annuali tra i ministri degli Stati contraenti, ha
inoltre una delegazione diplomatica nelle principali città del pianeta, per sostenere le
relazioni esterne.
I propositi dell’organizzazione sono accelerare la crescita economica e lo sviluppo
culturale dei paesi della regione, promuovere la pace, la stabilità politica, la sicurezza
sociale nei paesi contraenti, sviluppando le relazioni tra loro, dunque, attraverso la
collaborazione. L’organizzazione è progressivamente cresciuta e ha maturato i suoi
obiettivi sancendoli attraverso dichiarazioni. Le principali sono le seguenti: quella del
1992 che ha istituito l’AFTA (Asia Free Trade Area); quella del 1994 istituitiva del
ARF Asia Regional Forum per promuovere la costruzione di buone relazioni, un
sistema di diplomazia preventiva e approcci per la risoluzione dei conflitti; quella del
1997 che ha definito la piattaforma programmatica dell’ASEAN Vision 2020 per
promuovere l’apertura verso i paesi terzi e i paesi associati, la prosperità e relazioni di
reciproca cura oltre al rispetto dell’integrità territoriale e alla sovranità di ciascuno Stato
(come stabilito dal TAC); nel 2003 la Dichiarazione del II Concordato ASEAN di Bali,
che ha stabilito lo sviluppo dell’ASEAN secondo tre pilastri fondamentali: l’ASEAN
Security Community, Economic Community e la Socio-Cultural Community. Il
Security Community opera per la risoluzione pacifica dei conflitti tra gli Stati membri.
L’Economic Community ha l’obiettivo di realizzare una comunità economica per il
2020 come previsto dalle Asean Vision, perseguendo obiettivi sociali oltre che
finanziari come la lotta contro la povertà e le disparità economiche, ma anche un
mercato interno che attraverso l’abbattimento delle barriere tariffarie consenta una
ampia e libera circolazione di merci e capitali. A questo si deve l’istituzione dell’AFTA
e dell’AIA (area di investimenti asiatica). Molto interessanti sono gli accordi tesi a
migliorare le comunicazioni elettroniche e fisiche, attraverso il potenziamento delle
infrastrutture, per incrementare i flussi turistici ma anche gli scambi intellettuali,
obiettivo specifico della Socio-cultural Community (oltre ai temi di tutela ambietale e
delle fasce più deboli della popolazione). Le relazioni esterne sono un punto centrale
dell’assetto dell’ASEAN, specie quelle con i paesi dell’Asia nordorientale, Giappone
Corea del Sud e Cina, stabilite nell’ambito di accordi stilupati nel 1999 e ulteriori
accordi bilaterali. Altri accordi di cooperazioni legano i paesi Asean a India, Pakistan,
Australia, Nuova Zelanda, Russia, USA, Canada e United Nations Develpment
Programme. Consistente è anche lo sforzo di collaborazione con altre organizzazioni
intergovernative su base regionale come il South Pacific Forum, la Gulf Cooperation
36
Council, Asian-Africa sub-regional Organisation Conference, Asia-Pacific Economic
Cooperation, East Asia Latin America Forum, Asia Europe Meeting.
Particolarmente interessante è il ruolo dell’Asia Regional Forum, che include Australia,
Brunei, Cambogia, Canada, Cina, Unione Europea, India, Indonesia, Giappone, Corea
del Nord, Corea del Sud, Laos, Malaysia, Mongolia, Myanmar, Nuova Zelanda,
Pakistan, Papua Nuova Guinea, Filippine, Federazione Russa, Singapore,
Thailandia,USA e Viet Nam. Il forum si occupa di temi regionali e transazionali come
la lotta la terrorismo, al crimine e alle difficili relazioni nel Mare della Cina meridionale
(che concernono i contrasti sulla sovranità sulle isole Spartly e sulle risorse che
giacciono sul fondo oceanico).
Il complesso di questi eventi porta a modificare le definizioni, con cui nel corso del
tempo i paesi, di cui ci siamo occupati, sono stati etichettati. PVS (Paesi in via di
Sviluppo) svela una valutazione economica pensata sulla scorta di un preciso percorso
di sviluppo legato a una esperienza come a uno sguardo/canone occidentale.
NIC, Newly Industrialized Countries, è allo stesso tempo una valutazione economica e
culturale, che si fonda sul riconoscimento di diversi percorsi, tempi, e ritmi di sviluppo,
fondato su specificità locali, sul passaggio spesso repentino dall’arcaicità alle nuove
frontiere dell’elettronica.
4.2 Regione “Pacifico”
La nuova auto-consapevolezza dei paesi del Pacifico e la ridefinizione dei loro
rapporti all’interno di un’organizzazione aperta come l’ASEAN, svela un processo
territoriale in cui il Sud-Est Asiatico non è più un quadrante continentale, geopolitico o
una rappresentazione cartografica, ma il soggetto territoriale che dà vita a
un’espressione politica e culturale.
Molti geografi, tra cui l’italiano Sergio Conti, parlano di un processo di
“regionalizzazione spontanea”, che coagula attorno a strategie economiche e fasi di
produzione una identità asiatica (basata sul confucianesimo) in dialogo con una Pacifica
(multietnica e multiculturale e multimediale, che mette insieme porzioni di America,
Oceania, Asia, le cui specificità si perdono nel “passaggio pacifico”, identità di terra a
identità di mare).
Conferma della regionalizzazione sono i percorsi migratori, come la nuova attenzione
che paesi terzi mostrano per questo territorio regionale.
È importante a riguardo l’interesse che la Russia mostra verso questa regione,
rinsaldando il rapporto con la Cina. La Russia si è inserita nei mercati del Pacifico
sviluppando in quest’area rapporti commerciali in continua espansione, tali da costituire
una grossa aliquota del suo commercio internazionale relativamente ai settori
dell’industria militare, del settore energetico e dell’elettronica. Così come la Russia
intesse rapporti con i soggetti economici piccoli e grandi dell’Asia, questi rivelano
interesse comune per le ex-Repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale. Queste
Repubbliche (serbatoi petroliferi e di materie prime) sotto attualmente oggetto di
interesse di molteplici soggetti geopolitici, come la Turchia (e attraverso questa gli
USA), l’Iran, l’UE e la Russia, naturalmente, ma anche della regione sudestasiaticapacifica, che cerca di attrarle sulla Rimland pacifica.
L’ASEAN, lungi dall’essere una organizzazione su base regionale costituita da
un gruppo di paesi omogenei, è in realtà segnata da numerose differenze, economiche,
politiche e socio-culturali, e pare riuscire a funzionare proprio in virtù di queste
37
differenze assunte consapevolmente in una riformulazione integrata. Le
regionalizzazione in Asia orientale si presenta come un fenomeno volto a sfruttare la
complemetarità fra le varie economie in termini di risorse naturali, capacità
tecnologiche, salari e livelli di reddito. Le differenze insite nell’ASEAN, per certi versi
enfatizzate, si ritrovano nell’APEC.
L’APEC (Asia Pacific Economic Cooperation) è stata istituita con l’accordo di
Canberra nel 1989, si caratterizza come una organizzazione intergovernativa, procede
nel suo sviluppo attraverso meeting annuali. Come l’ASEAN ha avuto uno sviluppo
notevole in virtù della fine del sistema bipolare, così l’APEC prende avvio proprio dalla
fine di questo sistema. Oggi è costituita da 21 membri: Australia, Brunei, Canada, Cile,
RPC, Hong Kong (dal 1998 parte della RPC), Indonesia, Giappone, Corea del Sud,
Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Perù, Filippine, Russia,
Singapore, Taiwan, Thailandia, USA e Viet Nam.
L’Asia-Pacific Economic Cooperation si pone lo scopo di perseguire i tre obiettivi di
Bogor (1994) l’instaurazione di un’area di libero mercato entro il 2010 per le economie
sviluppate ed entro il 2020 per le economie in via di sviluppo. L’APEC poggia su tre
pilastri:
1. Il mercato e la liberalizzazione degli investimenti (abbattimento delle barriere
tariffarie e l’incremento delle politiche per la liberalizzazione dell’economia)
2. Le facilitazioni all’impresa (riduzione dei costi delle transazioni scambio di
informazioni, allineamento delle politiche e delle strategie di impresa per la
crescita e il libero mercato).
3. ECOTECH provvede alla formazione e alla costruzione di capacità per la
cooperazione, per sviluppare i potenziali economici dei singoli paesi della futura
regione.
Il coordinamento ASEAN e APEC lascia pensare al delinearsi di quello che il geografo
economico californiano (della Scuola di Los Angeles) Allen J. Scott22 chiama Direttorio
Regionale, con cui non intende una istituzione ma una dimensione di collaborazione e
sinergia transfrontaliera e transnazionale tra paesi. Ecco le caratteristiche di un
Direttorio Regionale che fanno pensare al delinearsi di un direttorio regionale nella
regione del Pacifico (Carta n. 8):1. Coerenza organizzativa
2. Legittimazione e autorità (accordi)
3. Capacità politica e gestione delle risorse finanziarie oltre le realtà locale
4.Capacità organizzativa finalizzata: guida temporale strategica dell’intera economia
regionale
5.Incontri significativi con altri direttori regionali
22
Scott A. J., (2001) Le regioni nell’economia mondiale, Bologna, Il Mulino.
38
Carta n. 8:
Fonte: www.lib.utexas.edu/maps, sito dell’Università del Texas, sezione cartografica “Perry
Castaneda”
39
4.3 Convergenza della regione Pacifico di India e Iran
L’importanza di questo direttorio del Pacifico è confermata dalle scelte di politica
economica internazionale di India e Iran.
India: Cindia
L’India mostra una volontà di integrazione sempre maggiore con le economie dei paesi
dell’Est asiatico, all’interno di un processo di sviluppo e integrazione di una grande
regione in questo quadrante continentale. Molto serrata è la collaborazione con Cina,
Corea e Taiwan. Interessante è soprattutto il rapporto tra Cina e India, che appaiono
complementari. Le stime demografiche per la metà del secolo vedono una Cina più ricca
ma con una popolazione più vecchia a fronte di una India in rapida e forte crescita
economica e con una popolazione giovane, con particolare riguardo a quella attiva nel
settore lavorativa: dunque l’India costituirà il serbatoio di forza lavoro, sempre più
specializzata, della Asia rampante, ovvero il nucleo di Cindia23. Interessante da rilevare
anche gli aspetti di politica internazionale: l’integrazione Cina-India porterà al
miglioramento delle relazioni tra quest’ultima e gli USA, che negli ultimi anni dopo
l’11 settembre ha puntato sul suo rivale storico, il Pakistan. Tuttavia, gli USA sono la
meta privilegiata di studio e lavoro della giovane elite indiana, la relazione tra i due
paesi nel settore economico appare molto vitale e curata da entrambi. Al crescente
interesse degli USA per l’India, si contrappone il progressivo declino dell’UE.
Ma c’è un altro quadrante su cui l’India punta per costruire il suo futuro, quello dei
paesi limitrofi con cui le relazioni sono difficili ma migliorabili. L’India sta elaborando
per sé il ruolo di leader di una gruppo di paesi, che ancorandosi all’India beneficerebbe
del traino Cina-India-Sudest asiatico.
Sto parlando di Pakistan, Bangladesh, Bhutan, Maldive, Nepal e Sri lanka uniti all’India
nella South Asian Association for Regional Cooperation (SAARC) voluta da Rajiv
Gandhi nel 1985. Oggi la SAARC ha dato vita a una zona di libero scambio, SAPTA,
che dovrebbe funzionare a pieno regime nel 2016. La possibilità di un mercato ampio e
libero con questi Stati e la crescente integrazione delle loro risorse, gli
approviggionamenti energetici forniti dal Pakistan, i cui oleodotti apportano il petrolio
iraniano e dei paesi dell’Asia centrale, le riserve di gas del Bangladesh e del Myanmar,
che l’India comincia corteggiare, nonché le forniture agricole e dell’industria di base di
questi paesi costituirebbero la base per un ulteriore potenziamento dell’economia
indiana, lanciata verso la conquista di nuovi spazi regionali: il Medio Oriente, l’Africa e
la regione del Pacifico, dato il crescente miglioramento delle relazioni con gli USA.24
La Carta n. 9 riporta in verde l’indicazione degli Stati poveri, mentre in rosso evidenzia
gli Stati con un’economia più dinamica: molti si trovano sul versante orientale che
guarda a est (Cina, Giappone e Pacifico). In particolar modo si segnalano le aree più
dinamiche la punta estrema della penisola indiana (Tamil Nadu e Karnata) con il
corridoio Bangalore-Madras. Su versante occidentale si segnala il triangolo delle città di
Bombay-Pune-Goa, specializzato nelle relazioni con il Medio Oriente, ovvero i ricchi
23
Questo termine è stato coniato nella letteratura geo-economica anglo-americana, in Italia è stato
introdotto dalla pubblicistica internazionale e nello specifico la sua diffusione si deve a Federico
Rampini, si veda a proposito il suo saggio L’impero di Cindia, Milano, Mondadori, 2006.
24
Boillot J.J., L’economia dell’India, Bologna, Il Mulino, 2006.
40
paesi del Golfo arabico-persico in particolare. Assi produttivi di ricchezza sono il
corridoio di Ahmadabad-Hyderabad e la regione della capitale federale New Dehli.
Carta n. 9:
Fonte: rielaborazione da Boillot J.J., L’economia dell’India, Bologna, Il Mulino, 2006.
Lo scacchiere stragegico dell’Iran contemporaneo
41
La Carta n. 10 mostra il sistema geo-strategico dell’Iran contemporaneo, quello
presieduto da Ahmadinejad, strenuo oppositore di Israele e USA. Le relazioni politiche
internazionali dell’Iran sono compromesse da un articolo della costituzione
repubblicana che sancisce la sua avversità a Israele, alla base di ogni possibile relazione
pacifica e distesa con gli USA.
La carta mostra in verde scuro i due paesi che l’Iran considera strategici nel suo sistema:
la Turchia potenza regionale alleata degli Stati Uniti e amica di Israele che
indirettamente potrebbe normalizzare le relazioni con questi due paesi, importanti
soggetti regionali e globali; e l’India porta di accesso alle economie dinamiche dell’Asia
Orientale e del Pacifico, inserimento che necessita la costruzione di buone relazioni
politiche e commerciali con la Cina e ancora la normalizzazione dei rapporti con gli
USA. La vicenda iraniana mostra che le strategie economiche costituiscono una tattica
per superare gli stalli delle dichiarazioni di principio della politica. Il rafforzamento
della regione del Pacifico avrebbe notevoli risvolti di politica internazionale.
Carta n. 10: La geografia politica ed economica dell’Iran contemporaneo
Fonte: Limes, n 5, 2006
42
4.4 Il Monte Libano nell’impero ottomano: l’emergere dell’entità libanese
Il termine postcoloniale non si intende solo come connotazione cronologica (seconda
metà del XX secolo) ma è piuttosto un modo di pensare, un atteggiamento intellettuale
teso a evidenziare una prospettiva sul mondo che non abbia un orientamento dall’alto
verso il basso, la visione delle grandi potenze, ma piuttosto quella della comunità locali,
dei soggetti deboli, esclusi dalla narrazione della storia, scritta dai potenti e spesso dagli
Occidentali.
Anche l’Impero Ottomano un tempo è stato potente e ha gestito una moltitudine di
territori diversi per espressione culturale, lingua, religione, visione del mondo e della
propria storia. Tanti sono stati i movimenti di opposizione al potere politico ottomano,
quello di cui ci siamo occupati durante il corso è quello del Monte Libano, ovvero la
prima espressione territoriale dell’identità libanese, termine che attraversi il riferimento
al territorio trasforma popoli diversi, per connotati culturali e religiosi, in una nazione.
Il Monte Libano, sistema di territorio-popolo-nazione, può essere letto attraverso la
lente postcoloniale come processo di regionalizzazione spontanea, costitutiva nello
specifico di un embrione stato-nazionale, in Medio Oriente.
Il Monte Libano, il complesso montuoso situato all’interno del paese, è la sede
territoriale delle comunità druse e maronite; costituirà ben presto una espressione sociopolitico-culturale in cui un gruppo umano eterogeneo riconosce una identità comune su
una base territoriale. Il Monte Libano è un emirato; all’inizio del XVI secolo con il
dominio della dinastia drusa dei Maan sorge un soggetto politico dotato di stabilità e
forza coesiva sulle delle diverse comunità stanziate sul Monte Libano e capace di
interagire con gli sciiti del territorio circostante, le pianure orientali e meridionali. Esso
vive il periodo di massima fortuna sotto il governo di Fakhreddin II (1591-1635),
dissolvendosi di lì a poco. Il successo dell’emirato si deve alla forza pervasiva della
dinastia maanide, che fa da collante tra le comunità, in consonanza con la capacità
modernizzatrice dei maroniti. L’emirato è orientato culturalmente e politicamente verso
l’Europa (Francia e Italia) in virtù dei legami religiosi dei Maroniti. Drusi e Maroniti
alla ricerca di autonomia nell’ambito dell’impero ottomano, prendono contatto con gli
europei, segnatamente Francesi e Stato Pontificio, instaurando una relazione che non si
configura come quelle di “tipo coloniale”: essi chiedono il sostegno delle potenze
europee in funzione anti-ottomana dopo averne esplorato con piena autonomia e
soggettività politica le caratteristiche culturali, simili alle proprie.
L’esperienza del Monte Libano sembra ispirare il Patto Nazionale del 1943, atto che
segna l’indipendenza del Libano dalla colonizzazione francese. Anche il Patto
Nazionale ha una connotazione territoriale, risultante dall’unione delle città della costa e
del Monte Libano. Ad animarlo sono i Sunniti, componente storica della società
mercantile costiera, dunque detentrice del potere economico e inserita in una geografia
culturale ed economica che arriva fino al Golfo arabico-persico, e i Maroniti, detentori
del potere intellettuale, gestori dei rapporti politici e culturali con l’Occidente e la
Francia. Il Patto Nazionale e la sua geografia, che unifica tutto il territorio libanese,
sono gli strumento con cui le soggettività locali intendono inserire il Libano nella
geografia mondiale delle relazioni internazionali da soggetto sovrano e autonomo dal
potere coloniale. Ma il progetto nasce viziato da comunitarismo, come afferma Corm,
che lo porterà al fallimento, facendo ricadere il paese nelle dimaniche coloniali.
A nulla servirà il progetto del presidente Fuad Chehab. Nel corso degli anni Sessanta
egli tenterà un processo di riforme politiche ed economiche tese a costruire uno Stato
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forte e moderno, che non fosse ostaggio del potere comunitario (oligarchico e
plutocratico25), per avviare un processo di sviluppo socio-economico e realizzare le
possibilità per le pari opportunità degli individui libanesi, indipendentemente dalla loro
affiliazione comunitaria o appartenenza a una grande famiglia.
É proprio nel sistema comunitaristico della gestione del potere politico, concepita dai
Francesi per gestire il Libano e le sue ricchezze sotto il mandato coloniale, che il
politologo Geoges Corm individua le ragioni del suo permanere in un costante stato di
crisi, eredità coloniale, che ne fa terra di conquista e terreno di guerra tra le potenze
regionali, riaffermando la dimensione neo-coloniale del Medio Oriente.
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La gestione del potere nel Libano comunitario risponde alla categoria dell’oligarchia e della
plutocrazia. Oligarchia significa potere dei pochi. Plutocrazia significa potere dei ricchi. Nel caso libanese
al di là della gestione comunitaristica del potere si rileva una situazione che consiste nella concentrazione
di potere politico in un piccolo gruppo di famiglie ricche, che ordiscono trame di alleanze o competizioni
tra le comunità.
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