Appunti del corso di “Processi territoriali delle aree asiatiche” 2007/2008 Introduzione Il modulo didattico ha preso in esame i processi territoriali, che consentono di rilevare delle dinamiche socio-territoriali dominanti in due ampie porzioni del continente asiatico, segnatamente, il quadrante orientale e quello occidentale. Rispetto al primo quadrante l’analisi ha vertito sul processo di regionalizzazione, in atto nel corso degli ultimi decenni, caratterizzato da una doppia geometria, che evidenzia, in primo luogo, un ritaglio territoriale limitato ai paesi del Sud-est asiatico connotati da un comune denominatore nella cultura confuciana e, in secondo luogo, un ritaglio territoriale amplissimo delimitato dall’oceano Pacifico. Sia il primo gruppo che il secondo ambito costituiscono gli spazi su cui si stanno producendo dei processi territoriali di regionalizzazione spontanea, che nel primo caso procedono da una antica e consolidata atmosfera culturale, nel secondo caso sono espressione di una progettualità politico-economica più recente. Rispetto al secondo quadrante si è posta attenzione nell’analisi delle fratture e le tensioni politiche, economiche, culturali, religiose e identitarie che stanno alla base dei complessi processi territoriali di una regione apparentemente connotata dalla estesa continuità del tratto culturale arabo-islamico, apparentemente dominante e unificante. L’analisi si é focalizzata sul Libano contemporaneo, la cui complessa geografia umana nonché le guerre, quella degli anni Ottanta e quella recentissima, che ne fanno terreno di scontro tra Israele e Siria, lo rendono un territorio particolarmente rilevante per realizzare una narrativa geografica dei conflitti mediorientali. Il processo di regionalizzazione in Asia orientale (Estremo Oriente) e il perdurare di processi implosivi e di frammentazione in Asia occidentale (Medio Oriente) consentono di rilevare a una scala di analisi piccola due fenomeni opposti: il consolidarsi di una dimensione post-coloniale, caratterizzata da un dialogo sempre più paritetico tra una molteplicità di paesi tra cui la superpotenza statunitense, nel primo quadrante, e, di contro, il perdurare di dinamiche coloniali nel secondo, connotato da una situazione di egemonia statunitense. Pertanto, il processo di regionalizzazione spontanea, preso in esame, è una espressione della dimensione postcoloniale da cui le relazioni politiche tra i paesi dell’area comprese le superpotenze, locali e mondiali, sono caratterizzate, nel senso della tensione a instaurare relazioni paritetiche, in cui tutti i membri riconoscono e rispettano la sovranità degli altri. Laddove questo processo non emerge, nel Medio Oriente nello specifico, notiamo che le relazioni tra gli Stati sono immerse in una dimensione neo-coloniale, connotata dall’egemonia militare statunitense e dalla pretesa di egemonia miltiare, terroristica e politica delle potenze locali, oggi Israele, Siria, Iran e Arabia Saudita. 1. I limiti delle grandi narrative culturali Il confucianesimo e l’islam sono spesso considerati come strumenti di lettura privilegiati per l’analisi delle componenti culturali delle macro-regioni soggetto di studio del corso. Sebbene questi due vettori consentano di rilevare consistenti fenomeni di similarità e continuità storiche, sociali e culturali, che determinano una specifica 1 organizzazione territoriale, tuttavia costituiscono anche dei limiti al rilevamento delle notevoli articolazioni e differenze che connotano le soggettività territoriali indagate. 1.2 Cina, Giappone e India: il tridente confuciano Cina, Giappone e India vengono spesso accomunati nell’espressione di Tridente Confuciano. Le culture di questi paesi sono caratterizzate dalla antica osmosi tra confucianesimo e buddhismo. Confucio e Buddha erano due raffinatissimi intellettuali contemporanei, vissuti tra il V e il IV secolo a.C. rispettivamente in Cina e in India. Il primo, Kong Qiu Zhong, passato alla storia come Kong Fuzi (maestro Kong), era un filosofo che proclamava la saggezza come strumento per formare l’individuo utile alla collettività. Il secondo, il principe, Siddharta Gautama, muove la sua speculazione filosofica dalla constatazione delle miserabili condizioni dei suoi sudditi e costruì un pensiero basato sul concetto di supermento del dolore e del desiderio nel raggiungimento del nirvana. Il pensiero buddista assunse due declinazioni principali, quella nota come Piccolo Veicolo, particolarmente elitaria, che non si diffuse oltre l’India, essendo basata sull’idea che solo pochi eletti potessero raggiungere il nirvana e, dunque, la saggezza; la seconda declinazione, nota come Grande Veicolo, fondata sul principio che la salvezza non fosse appannaggio di pochi ma raggiungibile attraverso l’impegno da tutti, ebbe molta fortuna anche in Cina e Giappone. Il confucianesimo e il buddhismo, una volta usciti dagli ambiti originari, si “territorializzarono” acquisendo diverse modulazioni: cinese, giapponese e indiana. In tal modo “la regione confuciana” non viene assunta come un’area di omogeneità, ma di similarità originate da confluenze e differenze. A questo proposito si guardi la Scheda n. 1, che tratta nello specifico delle differenze che il confucianesimo ha assunto “territorializzandosi” nella cultura cinese e giapponese. Un’altra ragione del ricorso al confucianesimo come atmosfera culturale unificante di questa ampia porzione di Asia è la presenza diffusa di comunità cinesi in larga parte del Sud-Nord-Est asiatico: un’antica forma di diaspora cinese, che oggi la Repubblica Popolare Cinese considera come un importante veicolo di predominio politico e culturale della Cina su questo quadrante (si veda la Scheda n. 2). Un mediatore culturale dovrebbe assumere la multiformità delle atmosfere culturali che passano sotto la definizione unificante di Tridente confuciano, considerando, inoltre, che è proprio la caratteristica essenzialista e rigida dell’approccio conoscitivo occidentale alla base della difficoltà di comprensione di questo contesto culturale. Nella Scheda n. 3 ho sintetizzato gli aspetti salienti del pensiero occidentale confrontandoli con quelli del pensiero asiatico-orientale, per offrirli alla Vostra riflessione di futuri mediatori culturali ed esperti di dinamiche interculturali. 2 Scheda n. 1 Differenze nel confucianesimo tra Cina e Giappone Cina Giappone Terra di mezzo Centro del mondo Tributo dai paesi limitrofi ed estensione del loro numero Continentalità Imperatore Mandato celeste Doveri dell’autorità Pace e cibo Gerarchia Mandarini (meritocrazia) Armonia e rispetto Terra data dagli Dei Amaterasu Popolo eletto insularità: sakoku (isolamento) Imperatore divino discedenza diretta dalla dea Amaterasu e dall’imperatore mitico Jimmu, autorità indiscutibile Famiglia Clanica Prevalenza del vincolo di sangue Gerontocrazia maschile Autorità-Potere Mandarini Ruolo e discrezionalità Suicidio protesta Onore, status riconoscimento Buddismo morbido Famiglia Ricchezza, commercio Gerarchia classi e ruoli chiusi accettazione della struttura sociale e del proprio ruolo nella società Famiglia monadica Gerontocrazia maschile Autorità-Potere Discendenza divina imperatore Funzionario tramite gerarchia rigida suicidio autopunizione Onore, comportamento disinteressato Bushido (fedeltà) Buddismo Zen individualismo Ordine e culto dell’imperatore natura, rapporto individuo e universo Scheda n. 2 Diaspora cinese nell’Asia sinica 30 milioni di Cinesi d’oltremare di cui 26 vivono nel Sud-Est asiatico 7,5 in Indonesia 6,5 in Thailandia 4 nelle Filippine 5,5 in Malaysia (un terzo della popolazione) 1,5 in Vietnam 2,8 a Singapore (75% della popolazione) La RPC tende a considerare la diaspora parte integrante della Grande Cina 3 Scheda n. 3 Occidente e Asia orientale Difficoltà di comprensione ideologismo/pragmatismo Cultura occidentale dualismo ontologico Platone (idee e realtà fenomenica) yang)Pensiero cristiano (spirito e corpo) Cartesio (mente e materia) Gli esseri umani non fanno parte della natura Fissità delle posizioni Ricerca del principio di tutte le cose (essenzialismo) centralità di Dio Occidente Logo-centrismo (razionalità rigida) Cultura asiatico-orientale monismo organicistico Confucio (armonia)Taoismo (compresenza degli opposti: yinGli esseri umani sono parte integrante della natura Flusso, movimento Ricerca del buon governo e della saggezza personale Asia orientale Loco-centrismo (razionalità flessibile e contestualizzata) 4 1. 3 Le tante identità del Medio Oriente Lo stesso problema riguardo all’uso di narrative (modalità di analisi) basate sui tratti unificanti, sulle continuità, sulle somiglianze, si propone nell’approccio allo studio del contesto mediorientale. Prendendo a prestito il titolo di un noto saggio dell’antropologopolitologo americano Bernard Lewis, è possibile presentare il quadrante asiatico di nord-ovest (il Medio Oriente) come un complesso mosaico etnico-religioso, giustapposizione di tante identità culturali, oltre il grande cappello unificante dell’arabità (identità araba, fondata sulla ampia diffusione della lingua araba nonché dei popoli etnicamente arabi) e dell’Islam. Cominciamo col vedere come il riferimento all’Islam si configura quale strumento limitante nell’approccio allo studio del quadrante mediorientale. Occorre mettere in evidenza due grandi componenti che animano l’Islam: i musulmani sunniti e quelli sciiti. Intese macroscopicamente, le differenze tra questi due gruppi si possono sintetizzare nel modo in cui concepiscono il potere politico-religioso: per i Sunniti vige un principio meritocratico (chi ne ha le capacità è degno di esercitare il potere anche se non discende dal Profeta Mometto); per gli Sciiti, invece, il potere deve essere gestito dai discendenti del Profeta Maometto, venerati come santi. La declinazione sunnita dell’Islam ha nella penisola arabica la sua sede originaria da cui si è diffusa, dal VII secolo d. C. in poi, con la conquista dei territori del Medio Oriente e del Nord Africa da parte dei popoli arabi, autoctoni della penisola arabica appunto, dove si trovano le principali città sante come La Mecca e Medina1. Oggi questa componente dell’Islam vede nell’Arabia Saudita e nella monarchia Waabita una leadership politica e un importante riferimento spirituale. La declinazione sciita dell’Islam è piuttosto articolata, essa vede al suo interno diverse correnti o sette, di cui le principali sono tre: i Settimani, presenti in Yemen, Iran e Iraq, che venerano sette Iman santi; gli Ismailiti, diffusi tra Pakistan, Afghanistan e Siria, discendenti da Isamele, figlio di Abramo e della schiava Agar, che hanno nell’Aga Khan un capo spirituale; e gli Alawiti presenti in Siria e Turchia. Lo sciitismo è maggioritario in Iran, dal 1979 Repubblica Islamica, dove la legge religiosa è fondamento della legge dello Stato (Vi invito a vedere il film di animazione “Persepolis” tratto dalle strisce di Marjane Satrapi). La Carta n. 1 mostra la diffusione dello sciitismo come area di influenza geopolitica dell’Iran: Vi invito a consultarla con attenzione per ricavarne l’impressione cartografica e geografica. La regione mediorientale ospita un gran numero di etnie. I Curdi, ad esempio, concentrati prevalentemente sul territorio montuoso a cavallo tra Turchia, Siria, Iran e Iraq; essi parlano una lingua imparentata a quelle indoeuropee (appartenendo al ceppo iranico) e praticano un Islam vicino a quello sunnita. I Drusi, presenti prevalentemente in Libano, Siria e Israele,vivono nei territori montuosi oggi appartenenti a questi tre Stati e anche loro praticano una declinazione dell’Islam vicina a quella sunnita. E ancora altre etnie originarie del Causaso o dell’Asia Centrale come i Turchi e i Turcomanni (turcomongoli) o i Parsi (indoeuropei, etnia dominante in Iran). Solo per citarne alcune. 1 Vi ricordo che terza città santa per l’Islam sunnita è Gerusalemme, nel Medio Oriente mediterraneo, dal 1980 dichiarata da una legge di rango costituzione dello Stato ebraico “sola, tutta intera ed eterna capitale dello Stato di Israele”, assumendo il ruolo di elemento conflittuale tra Israeliani, Palestinesi e mondo arabo, più in generale. 5 Oltre a varie forme di Islam, anche il Cristianesimo è presente in Medio Oriente in tante declinazioni. Le diverse comunità religiose cristiane presenti in Libano sono un esempio molto utile per capire la multiformità del Cristianesimo mediorientale, che annovera chiese antichissime, sorte con la prima evangelizzazione, dunque, di molto precedenti la chiesa cattolica romana e quasi coeve di Cristo. Tra le più antiche possiamo rilevare due grandi distinzioni legate al modo di concepire la natura di Cristo. Le chiese di obbedienza monofisita, come quella siriaca, armena, abissina e copta d’Egitto, pongono l’accento sulla natura esclusivamente divina di Gesù; esse hanno forti radici in Siria. Le chiese di obbedienza nestoriana, come la caldea e assira, affermano l’esistenza in Cristo di due nature di pari importanza, divina e umana; esse sono molto diffuse in Iraq. Queste due grandi correnti sono presenti tra le molte chiese cristiane del Libano cui vanno aggiunte quella di obbedienza melchita (originata dallo scisma d’Oriente del XIII secolo), tra cui la più nota comunità libanese greco-ortodossa; la chiesa maronita, fondata da San Marone nel VI in Siria, chiesa autocefala (autonoma dalla chiesa cattolica romana) come quella armena; la chiesa di rito latino, vicina a quella di Roma, che annovera tra i suoi fedeli Palestinesi, Libanesi e Siriani. A quest’ultima chiesa sono vicine le chiese cattoliche di rito orientale come la greco-cattolica, la siro-cattolica e la caldeo-cattolica, nata in seguito alla penetrazione della chiesa di Roma dal XVIII secolo nel contesto libanese. La Carta n. 2 consente di localizzare le presenze cristiane, e non solo, in Libano, microcosmo delle tante identità del Medio Oriente. Carta n. 1 Fonte: Limes, n. 5, 2006 6 Carta n. 2 Fonte: Limes , n. 3, 2005 7 Il Medio Oriente risulta, pertanto, come uno spazio di molteplicità identitarie e culturali, in cui i tratti apparentemente dominanti dell’arabità e islamicità sono alla base di dinamiche politico-culturali di fratture e ricomposizioni di complesse strategie e geometrie geopolitiche. L’analisi di questo tema verrà condotta soffermandosi su alcuni paesi come Siria, Libano, Israele, Giordania, Iraq e Iran, sottolineando la tendenza di Israele e Iran, analizzata in chiave storica e nell’attualità, a porsi e proporsi come leader delle minoranze (non arabe, non islamiche, non sunnite) nella ricerca di un ruolo di potenza regionale. L’attenzione si focalizzerà sul Libano contemporaneo, inteso come scacchiere dei conflitti mediorientali, in cui agiscono potenze globali e regionali ma anche come entità territoriale caratterizzata da processi di comunitarizzazione e frammentazione etnico-religiosa-culturale. 1.4 Approccio postcoloniale e interculturazione Al fine di sottrarci all’inganno delle grandi narrazioni (confucianesimo, islam, arabità, e finanche cristianesimo), che non consentono di rilevare le configurazioni locali dei fenomeni culturali, propongo un approccio analitico derivato dagli studi postcoloniali, che esalta le differenze e le peculiarità dei luoghi e ci invita a porci in una condizione di ascolto attento delle soggettività che indaghiamo, consapevoli del nostro bagaglio culturale e dei limiti che pone alla comprensione delle culture altre. Poniamoci, dunque, in una relazione intersoggettiva, ovvero rispettosa delle differenze e paritetica. Un primo approccio alla comprensione e mediazione interculturale basato sui principi di rispetto delle differenze e dell’intersoggettività e quello elaborato dal padre gesuita Alessandro Valignano durante il suo operato di missionario in India, Cina e Giappone alla fine del XVI secolo2. Il suo metodo è noto come “inculturazione”, che consiste nel calarsi nella cultura che si intende studiare, con la consapevolezza che gli strumenti derivanti dalla propria non saranno adeguati, che occorrerà una lunga pratica di osservazione partecipata per elaborarne di nuovi, tali da relativizzare le proprie posizioni e considerare con maggiore serenità le differenti logiche contestuali. 2. Inquadramento regionale: prospettive e soggettività territoriali Per identificare i territori asiatici si ricorre spesso a diverse denominazioni: vorrei dare una spiegazione geo-politica delle espressioni di Medio ed Estremo Oriente, o Vicino e Lontano Oriente o, ancora, del latino Asia Minor e Major, e di Ovest e SudEst e Nord Est asiatico.3 Le designazioni di Medio ed Estremo Oriente mi permetteranno di affrontare l’assetto coloniale dell’area e la relativa configurazione territoriale: le dislocazioni dei “tessuti utili” dei paesi soggetti al dominio coloniale o all’ingerenza imperialista, nella prospettiva delle potenze occidentali, tema che mi porterà a introdurre il concettoterritorio di “Rimland” (il margine costiero continentale). 2 Vi ricordo che in quell’epoca i gesuiti erano strumento del potere imperialistico dei regni cattolici di Spagna e Portogallo. 3 Lo stesso discorso vale per il Medio Oriente, o Vicino Oriente o, ancora, in latino Asia Minor, e Nord Ovest Asiatico. 8 Le denominazioni di Medio ed Estremo Oriente dipendono dallo sguardo e dalla posizione delle potenze occidentali: Medio ed Estremo Oriente come designazione posizionale dell’oggetto di potere coloniale in relazione alla soggettività occidentali, detentrici di questo potere. Le potenze coloniali europee sono molto distanti da questi territori fisicamente e culturalmente: proprio da questa distanza, intesa nel suo duplice valore, derivano i designatori di Medio ed Estremo Oriente e Vicino e Lontano Oriente (la stessa logica è sottesa ai designatori latini di Asia Minor e Major, che individuano rispettivamente i territori asiatici più vicini al Mediterraneo, regione in cui risiedeva la cultura latina che li ha coniati, e quelli più estesi e più lontani dal Mediterraneo). Vi invito ad aprire l’atlante geografico nella pagina del planisfero e a considerare come è organizzata la dislocazione, dunque, la descrizione delle terre che compongono il pianeta. Le designazioni di Ovest e Sud-Est e Nord-Est asiatico mi consentiranno di affrontare l’assetto postcoloniale (nel senso sia di cronologia storica – da collocarsi nella seconda metà del XX secolo - che di prospettiva culturale e politica) degli ampi quadranti continentali, presentando le soggettività territoriali, entità Stato-nazionali o locali (regioni, città, metropoli, gruppi di paesi), che attualmente animano la struttura geo-politica, geo-economica e geo-culturale di queste parti del mondo. La diversità delle soggettività territoriali identificate, ovvero gli Stati a cui si affiancano entità individuate a scala maggiore, come le realtà locali, consente di rilevare differenze economiche e culturali e, talvolta, politiche non rilevabili ragionando a scala Statonazionale e, conseguentemente, di individuare nel territorio i segni di processi sociali, politici, economici e culturali che agiscono su e provengono da diverse dimensioni (globale, statale, regionale, locale), inserendo così nella designazione generale di Ovest e Sud-Est e Nord-Est asiatico specificità e differenze. L’approccio che connota la mia esposizione si basa sulla geopolitica critica, un discorso della geografia politica delineatosi nel contesto scientifico anglofono negli ultimi vent’anni. Questo approccio è caratterizzato dall’articolazione trans-scalare del discorso, ovvero la narrativa proposta è tesa a mettere in correlazione più scale territoriali da quella locale a quella globale, considerando il territorio come sede di tracce: gli effetti e gli aspetti delle trasformazioni socio-economiche, che il territorio manifesta nelle sue articolazioni regionali, urbane e transcontinentali (ricordate il constante riferimento alla regione del Pacifico, che ci ha guidato durante tutto il corso!), oltre che essere valutate nella loro dimensione contemporanea vengono inserite e contestualizzate in una prospettiva storica, pertanto, ci siamo avvalsi di testimonianze storiche. É proprio in questa veste che abbiamo assunto i documenti letti in classe. In qualità di testimoni, che coerentemente all’impostazione delle teorie postcoloniali, ci hanno consentito di porci vicino, d’appresso, ai nostri soggetti di studio. Utili strumenti concettuali per affrontare il nostro percorso sono stati i concetti di Heartland e Rimland, assunti nella loro connotazione originaria di geopolitica classica e nella nuova connotazione assunta nella società contemporanea. Ve li richiamo qui di seguito. Il concetto di Heartland è stato elaborato dal teorico di geopolitica britannico Halford Mackinder alla fine dell’Ottocento. In base alla sua visione lo sviluppo delle ferrovie aveva determinato il declino delle potenze marittime, mentre le masse continentali assumevano un crescente peso geopolitico. Egli aveva individuato un’area nevralgica per il controllo degli equilibri geopolitici mondiali nella massa continentale euroasiatica e nella Russia, nella fattispecie, definendola Heartland (cuore della terra). La potenza 9 che riusciva a controllare questa pivot area avrebbe controllato il mondo intero. In maniera proporzionale più aree “pivot” e, quindi, Heartlands potevano essere individuate nei diversi continenti4. Il concetto di Rimland è stato elaborato dall’americano Nicholas Spykman, ancora una volta a fine Ottocento, quando gli USA stavano per trasformarsi in una potenza marittima. Spykman sosteneva che le aree di maggiore rilievo geopolitico fossero i margini continentali, appunto le Rimlands, nella fattispecie quelle del Sud-Est Asiatico e dell’Europa Occidentale: i due margini che contornavano lo spazio di espansione degli Stati Uniti d’America5. Rivedendo questi concetti alla luce di un approccio postcoloniale, non teso al dominio politico delle dinamiche territoriali ma alla loro interpretazione, alla comprensione degli aspetti attuali e storici della regione asiatico-orientale, che il nostro corso prende in esame, notiamo che il territorio della Cina costituisce l’attuale Heartland mentre la regione del Pacifico una grande Rimland transcontinentale. 3. I processi di regionalizzazione dall’alto: assetti territoriali coloniali Le esperienze coloniali che i paesi dei due quadranti, presi in esame, hanno vissuto storicamente hanno prodotto processi di regionalizzazione dall’alto imposti dalle potenze imperialiste, di cui permangono ancora tracce e memorie territoriali. Oltre a un rapido excursus sul ruolo coloniale e regionalizzante di Gran Bretagna e Francia in quello che si può definire l’assetto coloniale ottocentesco, ci si soffermerà sul nuovo assetto coloniale, quello novecentesco, che vede protagonisti dapprima il Giappone, con la “comune sfera di prosperità” nell’ “Asia Giapponese”, poi l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, con particolare riferimento a questi ultimi ci si soffermerà sull’esperienza delle organizzazioni regionali degli anni Cinquanta SEATO, MEDO e CENTO. Riguardo al quadrante mediorientale, nello specifico, ci si soffermerà sulle dinamiche panarabiste della prima metà del Novecento mettendo in evidenza il ruolo di Giordania ed Egitto: discorso che costituisce una saldatura tra la dimensione coloniale e postcoloniale. ORDINE COLONIALE 3.1 Sguardo imperialista e territorio coloniale Si parte da una carta del continente asiatico, che vi invito a guardare su un atlante: essa rappresenta un’ampissima estensione territoriale continua rispetto al territorio europeo, e integrando la carta di partenza con una dotata di una proiezione diversa si può notare che l’Asia (termine spesso evocatore di mistero e di fascino di un altrove lontano e diverso) lambisce, mantenendo continuità territoriale, anche il continente americano (Carta n. 3), e notiamo anche che essa lambisce ancora un altro “altrove” percepito come remoto, l’Oceania. 4 5 O Thuathail G. (1996), Critical Geopolitics, London, Routledge. Ibidem. 10 Carta n. 3: L’Asia come ponte tra l’Europa, l’America e l’Oceania Fonte: www.lib.utexas.edu/maps, sito dell’Università del Texas, sezione cartografica “Perry Castaneda” Le rappresentazioni cartografiche selezionate sono funzionali a introdurre il discorso dei designatori o, meglio, a problematizzare il loro significato; si delinea un’operazione che utilizza i territori in una prospettiva storica e politica, un’operazione che utilizza il territorio come segno nel nostro linguaggio: un’operazione geografica, nel significato etimologico del termine: “scrivere il mondo (luogo e sistema di pensiero) descrivendolo”. Partiamo da un designatore tradizionale per indicare l’Asia e una delle porzioni di Asia, che il corso prende in esame. Asia come “Oriente”, il Sud-Est e il Nord-Est asiatico come “Estremo Oriente”. Il termine “Oriente” che proviene dal latino orior sorgere, nascere, si riferisce a un dato ambientale, l’Oriente è il luogo da cui il sole sorge e da cui inizia il suo percorso in direzione dell’ “Occidente”, detto altrimenti “Occaso”, da occido cado, svanisco, il luogo del tramonto. Il termine Oriente ci svela subito la provenienza del soggetto culturale che lo ha pensato nonché la sua posizione fisica, geografica, indicata immediatamente dalla lingua antica a cui ho fatto riferimento, il latino, che definisce subito una posizione mediterranea, dunque, sita nell’emisfero Boreale, a nord dell’Equatore, nel continente europeo. La designazione di “Estremo Oriente” come quella di “Vicino Oriente” consente di individuare con maggiore certezza il soggetto che la pronuncia, in considerazione della sua posizione, piuttosto che l’oggetto, l’Oriente, nello spazio in cui è collocato. Mi spiego meglio, indica una distanza da sé e di conseguenza il complesso di differenze, supposte, prima ancora che rilevate dall’osservazione diretta e dall’incontro o scontro con coloro che abitano quelle terre orientali, percepite, appunto, come lontane, diverse. Questi designatori svelano l’origine, legata all’Europa dei commerci di spezie e mercanzie preziose quanto esotiche, dunque, al mercantilismo (del lungo periodo che va dal Duecento al Settecento) poi all’Europa imperialista (dell’Ottocento e Novecento). 11 Essi definiscono quei territori lontani e non ben conosciuti dai soggetti geopolitici che hanno costruito i grandi imperi coloniali, dapprima di tipo economico poi politico: il Portogallo, l’Olanda, la Spagna, la Francia, l’Inghilterra (a cui poi si aggiungeranno altri soggetti politici). Inizieremo il nostro excursus storiografico dall’Ottocento, quando molti paesi, che costituiscono oggi le soggettività Stato-nazionali di questa regione, diventano parte dei più ampi imperi coloniali francese e britannico - mentre precedentemente questo destino coloniale ha accomunato l’Indonesia, le Filippine, Macao e Timor, rispettivamente possedimenti coloniali di Olanda (dal XVII secolo), Spagna (dal XVI secolo) e Portogallo (dal XVI secolo) - . L’Ottocento è anche il secolo in cui alcuni paesi di quest’area perdono autonomia, come rivela il caso della Cina, o vengono forzati al rapporto con gli Occidentali, come nel caso del Giappone (sebbene in questo caso il primo contatto unicamente commerciale con gli Europei risalga al XVI secolo con i mercanti olandesi). Cosa succede, dunque, nel corso dell’Ottocento? Nel corso di questo secolo le grandi potenze europee si spartiscono il mondo in possedimenti coloniali. La spinta fondamentale fu l’esistenza di imponenti capitali eccedenti da investire, la necessità da parte degli apparati industriali dei paesi europei, di antica e di nuova industrializzazione (come la Germania) di accaparrarsi materie prime e sbocchi di mercato. Il dominio politico diretto, in Africa e in Asia, apparve come la forma di tutela migliore di questi investimenti e delle attività economiche. Negli anni Ottanta dell’Ottocento, il politico francese, membro del Senato, Jules Ferry scrisse a proposito che: «La politica coloniale è la figlia della politica industriale».6 Non mancavano motivazioni e implicazioni ideologiche, strategiche e culturali alla base dell’imperialismo. Le motivazioni economiche necessitavano di strumenti e prospettive strategiche per essere implementate, ciò significava impadronirsi di un territorio in virtù della sua posizione e, pertanto, trasformarne o definirne lo status politico in relazione alla necessità della potenza coloniale senza tener conto dei connotati culturali locali. La dottrina imperialista si fondava sul principio della superiorità di determinate razze e nazioni nei confronti di altre popolazioni. Le “razze superiori” avevano nei confronti di questi popoli incapaci di amministrare, usare e gestire le proprie risorse, la responsabilità di assumerne la “tutela”, impadronendosi di queste risorse. É questa la ragione della “missione civilizzatrice” delle potenze europee che lo scrittore Rudyard Kipling, in relazione alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti d’America, definisce “fardello dell’uomo bianco”. (Lettura)7 La spartizione dell’Asia orientale in colonie e zone di influenza provocò contrasti e tensioni che si concentrarono sulla questione della Cina, un impero in disfacimento di cui Gran Bretagna, Francia e Russia erano intenzionati a dividersi le spoglie. A queste potenze europee, per così dire tradizionali si aggiungeva il Giappone, che nel corso del XIX secolo aveva vissuto una intensa quanto rapida trasformazione modernizzante, che lo portò a diventare una potenza industriale. Con le stesse caratteristiche del Giappone, anche la Germania imperiale affrontava la sfida coloniale, conquistando il controllo della penisola dello Shandong in Cina e delle isole del Pacifico a nord dell’Equatore, Marshal, Caroline e Marianne. Ma l’attore imperialista, forse, più interessante è costituito dagli Stati Uniti d’America. Gli USA utilizzarono strategie economiche e 6 Bontempelli M., Bruni E. (1990), Storia e coscienza storica, Milano, Trevisini. De Bernardi A., Guarracino S. (1987), L’operazione Storica, “L’età contemporanea 3”, I vol., lettura Il Fardello dell’Uomo Bianco, p. 744. 7 12 commerciali antiprotezionistiche come grimaldello per costruire una egemonia politica imperialista.8 Anche dal punto di vista geografico gli USA costituiscono una soggettività interessante, in quanto introducono una nuova categoria territoriale per affrontare questo quadrante regionale: quello della “Pacific Rim”. Ma procediamo con ordine, secondo una logica spaziale e temporale. La Cina è il fulcro del discorso coloniale e del nuovo assetto di soggetti imperialisti nel quadrante dell’Asia Orientale. Nel corso dell’Ottocento si realizzò quello che, sebbene impropriamente, potremmo definire lo “scramble of China”: ormai debole, il controllo territoriale della dinastia Menchu, era contrastato dalla penetrazione britannica, che avveniva attraverso il contrabbando dell’oppio con cui i Britannici creavano e sostenevano un contro-potere economico. Il fine delle guerre dell’oppio, così vennero denominati i conflitti anglo-cinesi avvenuti alla fine degli anni Trenta e poi alla fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento, non era l’istituzione di un dominio coloniale diretto ma l’abbattimento delle politiche protezionistiche e l’imposizione al governo cinese della politica delle “Porte Aperte”. (Letture)9 Contemporaneamente si svolgeva un altro conflitto quello franco-cinese (1840-1885), che portò alla istituzione dell’Indocina, con la sottrazione al controllo cinese del Viet Nam.10 Infatti, per quanto riguarda Francia l’espansione coloniale in Asia orientale comincia negli anni Ottanta dell’Ottocento, quando alla Cambogia e al Viet Nam meridionale, che la Francia possedeva già dal 1863, si aggiunge il Viet Nam settentrionale, sottratto al controllo della Cina, costituendo il possesso coloniale dell’Indocina, a cui nel 1893 si aggiungerà il Laos. In questo stesso periodo la Francia ottenne la libertà di penetrazione commerciale in Cina.11 Negli stessi anni la Gran Bretagna portò a compimento l’occupazione della Birmania (oggi Myanmar) nel 1886, che fu aggregata all’impero indiano, e si spinse poi alla conquista delle isole del Pacifico e della Nuova Guinea, che spartì con Germania e Olanda. Alla fine dell’Ottocento la Gran Bretagna possedeva la Birmania, la Malesia, Hong Kong (oltre a India e Pakistan).12 Nella metà degli anni Novanta (1894-95) il Giappone aggredì la Cina, sconfiggendola rapidamente. Con il trattato di Shimonoseki il Giappone ottenne possedimenti territoriali in Cina (l’isola di Formosa, oggi nota come Taiwan), da cui ebbe inizio un penetrazione che mutò profondamente il suo ruolo geopolitico in questa area.13 Alla fine del secolo la Cina consisteva in un complesso di “concessioni”, diritti esercitati dalle potenze imperialiste sul suo territorio, situazione che determinò la rivolta anti-imperialista nota come guerra dei Boxers (in realtà era una rivolta operata dalla società segreta denominata “Ordine letterario e patriottico dei pugni armoniosi”) (Lettura)14. A questa seguì una spedizione punitiva internazionale, condotta da Gran Bretagna, Francia, Germania (che ottenne lo Shandong), Russia, USA e Italia (che ottenne la concessione del Tien Tsin). Una ulteriore conseguenza fu lo scontro tra Russia e Giappone entrambi interessati alla Manciuria e alla Corea, conclusasi con il successo del Giappone con la vittoria contro la Russia nella guerra del 1905, in seguito 8 Di Nolfo E. (1994), Storia delle relazioni internazionali 1918-1992, Bari, Laterza. De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit, I vol., letture sulla guerra dell’oppio, pp. 454, 456. 10 Di Nolfo E. (1994) e De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit. 11 Di Nolfo E. (1994), op. cit. 12 Ibidem 13 Ibidem 14 De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit, I vol., La rivolta dei boxers, p. 758 . 9 13 alla quale il Giappone ottenne il protettorato sulla Corea, il controllo della penisola cinese di Liadong, l’annessione di metà dell’isola di Sakhalin e il controllo sulla Manciuria ( Figura n. 1).15 Nel corso dell’Ottocento gli USA diventarono una potenza navale, ma una potenza economica più in generale grazie al successo della Standard Oil Company e delle acciaierie. Il nuovo grande potenziale consentiva al giovane Stato di potersi espandere ma soprattutto di poter espandere la sua influenza, dapprima, oltre i propri confini, poi, oltre il proprio continente. Ma la logica continentale sembra presto superata da una logica regionale, fondata sulla regione del Pacifico. Una delle radici dell’imperialismo statunitense può essere considerata la dottrina Monroe, enunciata nel 1823. Essa si fondava su un motto “L’America agli Americani”, e sebbene inizialmente fosse rivolta contro le ingerenze europee nel continente americano (contro l’intervento della Santa Alleanza a difesa degli interessi coloniali della Spagna) si trasformò ben presto nel fondamento ideologico dell’egemonia statunitense a scala continentale: il panamericanismo targato USA. Questo shift ideologico viene perfezionato da Theodore Roosevelt, assertore già dagli anni Ottanta (dunque, prima di diventare presidente) di una politica espansionista basata sul potenziamento della marina militare e di conseguenza dell’abbandono delle tesi isolazioniste. Diventato presidente nel 1901, modificò la dottrina Monroe con un corollario detto poi “Corollario Roosevelt” del 1904: controllo economico e politico statunitense sui paesi sudamericani, estensione del nazionalismo di Monroe a una scala continentale in direzione del Pacifico, ovvero estendendosi oltre la costa la frontiera occidentale. L’occasione strategica fu la ribellione di Cuba nel 1895 contro la Spagna a cui seguì la guerra ispano-americana del 1898, poiché gli USA intervennero a fianco di Cuba. La sconfitta della Spagna, determinò l’autonomia di Cuba (in realtà sotto controllo USA), ma anche il passaggio sotto la sovranità USA delle Hawai, delle Filippine e di Guam (nel Pacifico, appunto). Un’altra significativa svolta “Pacifica” degli USA è costituita dal protettorato su Panama e dal taglio del canale nel 1914: nuova soglia sul Pacifico (Figura n. 3). 15 Ibidem 14 Figura n. 1: Imperialismo giapponese Fonte: De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit., p. 667. 15 Figura n. 2: Espansione americana verso l’Asia: la regione del Pacifico Fonte: De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit., p. 666 3.2 I guerra mondiale e I dopoguerra: Il protagonismo giapponese e la convergenza anglo-americana nel Pacifico Gli eventi della I guerra mondiale determinano l’emergere del Giappone come potenza regionale in Asia Orientale. Il delinearsi di una soggettività politica e strategica locale comporta una prima mutazione di designatori di riferimento regionale: la posizione in situ di un soggetto politico strategico riconfigura la direzione dello sguardo o, meglio, ne fa emergere uno interno. Il terreno in cui si costruisce il nuovo assetto politico regionale è la Cina. Il Giappone, alleatosi con le potenze dell’Intesa, continua l’operazione di penetrazione nel territorio cinese, avvantaggiato dalla lotta tra i latifondisti e progressisti all’interno del Guomondang e il partito comunista. Guomindang e partito comunista si alleano in funzione antigiapponese ma nel 1927 ha fine la collaborazione tra questi due partiti, tesa a mantenere l’integrità nazionale della Cina, mentre il partito comunista è costretto a ritirarsi nelle aree più periferiche del Jiangxi da cui comincia la lunga marcia per il potere. Una tappa importante del loro viaggio fu il loro insediamento nella regione dello Yunnan, dove il partito risiedette dal 1935 al 1943 e si riconfigurò sotto la guida di Mao Tze-tung (Figura n. 3). 16 Figura n. 3: La lunga marcia dei comunisti in Cina Fonte: De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit.,II vol., p. 426. 17 La sopravvivenza politica di una Cina autonoma fu anche il motivo dello scontro tra USA e Giappone: gli USA difendevano la Cina per difendere la politica delle porte aperte (nel ‘17 la Cina, diventata ormai repubblicana nel 1912, entrò in guerra schierandosi a fianco degli USA). La rivoluzione russa e la sconfitta tedesca segnarono la vittoria del Giappone e gli diedero il via libera all’ascesa geopolitica in Asia. Alla conferenza di Parigi (1919) il Giappone ottenne il controllo sui territori controllati dai Tedeschi (isole del Pacifico e penisola dello Shandong e la Siberia orientale). L’imponente presenza giapponese in Asia e nel Pacifico indusse i Britannici a rivedere la propria posizione e a confluire con gli USA in un atteggiamento teso al controllo anti-nipponico sul Pacifico, ciò portò alla conferenza di Washington (1921-22) che segnò il definitivo riconoscimento degli USA come grande potenza militare oltre che economica, segnato dalla parità navale con la Gran Bretagna nel Pacifico (fu stabilita la presenza degli incrociatori di entrambe le potenze nella regione in base al principio della Balance of Power). Ma poniamo maggiore attenzione al Giappone e al suo ridisegno degli assetti geopolitici in Asia: un racconto territoriale che supera gli eventi della I guerra mondiale e arriva al II dopoguerra. 3.3 L’Asia Orientale giapponese L’ascesa del Giappone allo status di grande potenza nel Pacifico era dovuto oltre che agli eventi di scala mondiale della I guerra mondiale a trasformazioni interne. Il Giappone era un giovane potenza industriale caratterizzata da un forte surplus finanziario, sul piano politico occorre rilevare che la tradizionale oligarchia militare era stata affiancata e per certi versi sostituita da due grandi poteri: l’industria e la proprietà terriera rappresentate dal partito Seyukai, fautore di una politica estera imperialista da sviluppare in Manciuria e Mongolia, e il settore dell’alta finanza-commercio rappresentato dal Minseito, partito liberale fautore di una politica di espansione commerciale. Entro i primi trent’anno del Novecento la nuova alleanza tra i giovani samurai e l’imperatore (esito del nuovo assetto del paese, passato alla storia come Restaurazione Meiji del 1868) si connota come il lungo periodo delle riforme secondo lo slogan Fukoku-Kyohei (Paese ricco esercito forte) che conciliava Wakon (tradizione) e Yosai (modernità), ispirato alla parallela industrializzazione/militarizzazione della Prussia, che diventa modello geopolitico per il Giappone. Lo Stato giapponese assume un atteggiamento fortemente dirigista in economia, vengono abolite le classi confuciane (in base alle quali i mercanti sono all’ultimo posto della scala sociale) considerate ostacolo alla modernizzazione, si investe nel rafforzamento del capitalismo e nel sistema scolastico. Le guerre imperialistiche di penetrazione in Cina e il raggiungimento della Balance of Power, il riconoscimento della status di potenza regionale dalle grandi potenze (Gran Bretagna e USA) sono l’esito di questa trasformazione. La presenza giapponese relativa alle attività produttive era molto forte in Cina e si sarebbe estesa nel corso degli anni Trenta. I Giapponesi godevano del controllo della Manciuria per via delle ferrovie, godevano di diritti di sfruttamento minerario, di attività agricole, industriali e commerciali, proprio questi interessi costituirono il pretesto dell’occupazione militare di questa regione da parte delle forze giapponesi contro la costante reazione cinese a limitare i diritti giapponesi allo sfruttamento del territorio cinese. Lo stato di occupazione della Manciuria si consolidò con la sua trasformazione 18 nello Stato indipendente del Manciukuò (legato al Giappone da una alleanza) su cui i Giapponesi posero l’ex-imperatore cinese Pu Yi (Figura n. 4). In seguito il Giappone continuò la sua penetrazione negli spazi cinesi dirigendo verso la Mongolia ma anche lungo la costa da Shangai fino a Nanchino (1937) occupando Canton e Hankow, ostacolato dalla resistenza cinese, ma anche dai Sovietici e dalla propaganda americana, tuttavia, incapace di agire, mentre le potenze europee non comprendevano né intuivano la portata della minaccia Giapponese, nella loro logica di considerare i territori asiatici, appunto, lontani. Alla fine degli anni Trenta il fronte militarista-imperialista del Giappone prende definitivamente il potere ed esprime l’ideologia sottesa allo sforzo bellico-imperialista del Giappone. La decisione tardiva delle potenze europee di concedere crediti alla Cina, ebbe come conseguenza l’occupazione da parte del Giappone dell’isola di Hainan, delle isole Spartly, del Tien-Tsin e delle sue riserve d’argento. Stipulata l’alleanza con la Germania nazista nel 1941 il Giappone si apprestava a concretizzare il progetto egemonico in Asia/Sud Est Asiatico la così detta “sfera di comune prosperità” in cui rientrarono ben presto anche i territori indocinesi, malaysiani e indonesiani (Lettura L’Asia Giapponese)16. La prima reazione da parte degli USA fu quella di incorporare le truppe delle Filippine nell’esercito americano e di chiudere il canale di Panama alle navi giapponesi, poi il confronto continuò sul piano diplomatico, fino a quando il Giappone non svelò le sue carte: la richiesta di riconoscimento dello status quo, ovvero della sua incontrastata egemonia sul Sud-Nord-Est asiatico, esplicitata nella cosiddetta “proposta B”, che i Giapponesi posero agli Americani durante i negoziati del novembre del 1941. Allo sdegno USA i Giapponesi risposero con l’attacco a Pearl Harbour nelle Hawai. Dopo un periodo di vittorie giapponesi, sostenute dai consensi anticolonialisti, che il programma egemonico giapponese dell’Asia agli Asiatici aveva conquistato, gli Americani cominciarono a guadagnare posizione a partire dal maggio del ’42. 16 De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit, II vol., lettura La grande Asia Orientale, pp.466-67. 19 Figura n. 4: Territori persi dal Giappone Fonte: De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit.,II vol., p. 416. 20 3.4 Il II dopoguerra: scenario geopolitico in Asia Orientale Ancora una volta è la Cina l’elemento che consente una lettura geopolitica che dall’Asia Orientale mette in moto una serie di movimenti planetari. Il primo ottobre del 1949 il partito comunista cinese proclama la nascita della Repubblica Popolare Cinese, i nazionalisti cinesi lasciano il continente per rifugiarsi nell’isola di Formosa, dando vita al baluardo americano anticomunista di Taiwan, che dal 1945 fino al 1971 ha occupato un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU (poi sostituita dalla Repubblica Popolare Cinese). É opportuno ricordare sinteticamente a tutti alcune caratteristiche salienti del programma di Mao per la neonata Cina comunista. Le sue quattro modernizzazioni, agricoltura, industria, difesa, scienza, sono tutte incardinate sulla Legge sul matrimonio del 1950, che segna il progetto di distruzione della famiglia patriarcale e l’abolizione del concubinaggio, considerando il ruolo della donna, la sua liberazione dalla condizione di soggezione in un sistema maschilista e gerontocratico, come il perno della trasformazione sociale della Cina. Il laboratorio territoriale di tale trasformazione veniva individuato nella campagne, dove la collettivizzazione delle terre e la costruzione di cucine collettive (mense pubbliche che servivano cancellare il sistema di organizzazione sociale fondato sulla famiglia tradizionale e a instaurare un sistema sociale in cui tutti i Cinesi si considerassero unicamente figli fedeli di Mao, il padre della patria) erano i cardini del progetto teso a realizzare le condizioni per un’adesione interiorizzata al partito, in consonanza con quanto era avvenuto durante la lunga marcia: la politicizzazione dell’Armata Rossa (ogni soldato era un militante e diffusore della dottrina di Mao), la riforma fondiaria (esproprio e collettivizzazione delle terre), riforme sociali (liberazione delle donne). Vi invito a ricordare la lettura di Jan Myrdal sulla condizione delle donne nella Cina tradizionale.(Lettura )17 Sebbene segnati da differenze ideologiche, che col tempo si approfondiranno, la Repubblica Popolare Cinese nel ’50 firma un patto di alleanza difensiva con l’URSS, segnando l’inizio di una sfera di influenza che trasformerà il Sud-Est asiatico in una regione geopoliticamente tanto nevralgica per il sistema bipolare quanto l’Europa dell’Est. Assieme alla Cina rientrano nella sfera di influenza sovietica la Corea del Nord, il Viet Nam del Nord, il Laos e la Cambogia. Nella sfera di influenza USA sono, invece, il Giappone (sotto occupazione, che diventa il bastione americano contro il comunismo), la Tailandia, le Filippine, la Corea del Sud. Lo scenario asiatico così ricomposto mostra la fine del sistema multipolare: USA e URSS scalzano la Gran Bretagna e la Francia. Ma di lì a poco si definiscono altri attori geopolitici e altre potenze regionali: prime fra tutti l’Australia e il nuovo Giappone demilitarizzato e democratico, che riportano l’attenzione sulla regione dell’Oceano Pacifico. L’esperienza della colonizzazione giapponese pose le basi per l’indipendenza di alcuni territori coloniali, come l’Indonesia, che proclamò la sua indipendenza dall’Olanda nel 1946, e la Birmania poi Myanmar, e la Malesia, poi Malaysia; nel 1954 con gli accordi di Ginevra l’Indocina francese cessava di esistere, mentre la regione animata da nuovi Stati indipendenti cadeva sotto le mire degli USA e della Cina popolare, nuovo attore geopolitico sulla via per diventare una potenza regionale. 17 De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit, II vol., Storia di un villaggio cinese, pp. 559-562. 21 Il NUOVO ORDINE COLONIALE vede protagoniste l’URSS e gli USA, la prima raggruppa i paesi amici nel Patto di Varsavia e li lega a sé con le alleanze difensive, la seconda usa una logica regionale, promuovendo la creazione e la stipulazione della SEATO (South East Asia Treatry Organization 1954) - sul modello della NATO, come altre organizzazioni regionali quale la CENTO per il Medio Oriente con il Patto di Baghdad del 1955 -. La SEATO costituiva una organizzazione di difesa e collaborazione che comprendeva Filippine, Pakistan, Thailandia, Laos, Cambogia, Vietnam del Sud, a cui si aggiungevano altri paesi in qualità di osservatori, come l’Australia, la Nuova Zelanda, oltre a USA, Gran Bretagna e Francia. Essa promanava dall’idea di creare uno spazio politico sotto l’egida statunitense, alla base del quale sottostava la teoria del domino elaborata da Eisenhower, in base alla quale occorreva prevenire il passaggio nell’area di influenza sovietica di alcuni paesi, specie il Viet Nam, al fine di non far innescare l’effetto domino, ovvero il passaggio tempestivo e automatico dei paesi vicini sotto la stessa influenza. La stipulazione della SEATO innescò la reazione del fronte comunista, proprio a partire dal tessuto sensibile del Viet Nam del Nord: i partigiani comunisti Vietcong penetrarono nel Viet Nam del Sud e poi in Cambogia e nel Laos (Figura n. 5). Questi eventi diedero luogo alla guerra tra Viet Nam e USA risoltasi nel 1975 con l’unificazione del paese e il passaggio dei paesi occupati sotto influenza vietnamita e, pertanto, sovietica. Durante gli anni di questa guerra si realizza paradossalmente la distensione nelle relazioni tra Cina e USA, magistralmente orchestrata dal segretario di Stato USA Henry Kissinger. Il Viet Nam era uno Stato sotto la protezione cinese ma la Repubblica Popolare non intervenne mai a sua difesa contro gli USA, che nel 1971 le riconobbero il diritto a sedere nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU in sostituzione della Cina nazionalista di Taiwan (di fatto un protettorato americano), inoltre, a conclusione della guerra del Viet Nam, le relazioni tra USA e Cina si erano del tutto normalizzate: gli USA avevano riconosciuto nella RPC una potenza regionale, interlocutore fondamentale per tutte le questioni relative al quadrante dell’Asia orientale. Nasceva un nuovo ordine coloniale mondiale in cui la RPA veniva riconosciuta come grande potenza, accanto a USA, URSS e potenze europee. 22 Figura n. 5: La guerra del Viet nam Fonte: Di Nolfo E. (1994), op. cit., p. 1 3.5 Processi di regionalizzazione dall’alto in Medio Oriente: riaffermazione di un ordine coloniale Il discorso sull’Ordine coloniale e i processi di regionalizzazione dall’alto in Medio Oriente parte cronologicamente dagli eventi della prima guerra mondiale o, meglio dal 1916, anno in cui Francia e Gran Bretagna firmano gli accordi Sykes-Picot, con cui si spartiscono la Mezza Luna Fertile, l’estesa area che va dal Mediterraneo orientale (le odierne coste di Israele e Libano) fino a comprendere la Mesopotamia (dunque gli odierni paesi di Siria, Giordania, Iraq e territori Palestinesi - Autorità Nazionale Palestinese). Fino a quel momento l’unica soggettività sovrana su questo territoro era l’Impero Ottomano, la cui autorità nel corso dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento era stata contrastata dal crescere dei nazionalismi arabi, egiziani e libanesi in particolare, e dal movimento modernizzatore dei Giovani Turchi, la cui geografia politica insisteva sulla Turchia (penisola anatolica) e sulla centralità del mono-etnismo turco. 23 Il nuovo Medio Oriente post-ottomano, nasce con i trattati di Losanna, che nel 1926, recepiscono gli accordi Sykes Picot, riconoscendo uno spazio coloniale britannico - sul territorio attualmente costituito dai seguenti Stati: Israele, ANP, Giordania e Iraq (a cui vanno associati gli Stati autonomi di Arabia Saudita e gli emirati del Golfo arabicopersico) – e uno spazio coloniale francese - sui territori oggi noti come Libano e Siria – sottoposti a un regime di Mandato, ovvero sotto amministrazione diretta delle due potenze europee. La Turchia acquistava la forma che oggi conosciamo, avendo accettato di perdere le isole dell’Egeo (a favore della Grecia) e l’area di Mosul (a favore dell’Iraq del Mandato britannico), pur di mantenere il controllo degli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, porte di accesso al Mediterraneo dall’Asia e dalla grande area russa. L’instaurazione del dominio coloniale diretto delle due potenze straniere in Medio Oriente aveva fatto sorgere un movimento di reazione anti-coloniale, ravvisabile nel complesso fenomeno del pan-arabismo, che nelle prime fasi del Novecento esprime una portata anti-francese con il progetto della Grande Siria (una grande espressione politico territoriale che avrebbe compreso tutta la Mezza Luna Fertile, vista come orbitante attorno al polo di Damasco); era questo un movimento che raggruppava diverse componenti del mondo arabo modernista, tra cui molti cristiani. Un’altra espressione del pan-arabismo faceva perno sull’emiro Hashemita Hussein, che contrattando con in Britannici ottenne in un primo momento il loro sostegno a formare un grande Stato, sotto il suo controllo, sui territori amministrati dalla Gran Bretagna. Ma a causa degli eventi della I guerra mondiale i Britannici furono spinti dagli USA a sostenere la causa sionista, riconoscendo con la Dichiarazione Balfour (1917) la disponibilità a far sorgere in Palestina una “National Home” (un focolare nazionale) per gli Ebrei, progetto che non solo erodeva lo spazio del grande Stato panarabo ma vi introduceva un elemento esogeno (il popolo ebraico, ben presto intenzionato a darsi forma di Stato-Nazione). Tuttavia, nel corso degli anni Venti i Britannici vennero incontro alle esigenze degli Arabi nei territori sotto il loro controllo, non in termini pan-arabi ma fondativi di un discorso nazionalista, creando gli Stati di Transgiordania, affidata all’emiro Hashemita Abdullah e dell’Iraq, affidato al fratello di quest’ultimo Feisal, mostrando di recepire almeno in parte delle chiare istanze locali, mentre tennero sotto controllo diretto il territorio oggi costituito da Israele e ANP. Negli anni che trascorsero tra il I fino al II dopoguerra le presenze coloniali francesi e britanniche con metodi diversi cercarono di enfatizzare gli elementi della complessa geografa umana e culturale del Medio Oriente, la presenza di una molteplicità di religioni ed etnie, a loro favore secondo il principio romano del divide et impera. I Francesi enfatizzarono le differenze e le conflittualità creando un sistema di gestione comunitaria del potere politico in Libano: avevano elaborato il comunitarismo, una ideologia e mitologia esogena, in cui il politologo francese Georges Corm riconosce l’origine dei conflitti libanesi e per estensione di tutto il Medio Oriente18. I Britannici attraverso lo strumento del nazionalismo, enfatizzando le rivalità tra gli Stati già indipendenti sotto la sua orbita, come l’Egitto, Transgiordania, Iraq e Arabia Saudita, e attraverso la modernizzazione che creava fratture interne tra strati e gruppi sociali tradizionali e nuove élites, generalmente nate nelle leve della burocrazia e delle forze armate. 18 Corm G. (2006), Il Libano contemporaneo, Milano, Jaka Book. 24 I conflitti interni al mondo mediorientale, esaltati e talvolta creati ad hoc dalle potenze colonialiste/imperialiste, si acuirono con la nascita dello Stato di Israele, proclamatosi indipendente dalla colonizzazione britannica nel maggio del 1948. Da questo evento derivò una guerra tra cinque Stati arabi (Egitto, Giordania - ex Transgiordania-, Iraq, Siria e Libano) e Israele, vinta da quest’ultimo, grazie all’aiuto indiretto dei sovietici. Questo conflitto diede luogo un altro fattore di destabilizzazione di quest’area: la diaspora palestinese, ovvero l’afflusso di numerosi rifugiati palestinesi negli Stati arabi limitrofi, dove rimasero sempre dei corpi estranei. Inoltre, in seguito a questa guerra l’Egitto prese sotto la sua amministrazione la Striscia di Gaza, la Giordania la Cisgiordania, mentre la Siria occupò le alture del Golan. (Carta n. 4) Nei primi anni Cinquanta, anni di ricostruzione per l’Europa e di consolidamento del nuovo ruolo di superpotenza mondiale per gli USA, si vengono delineando due diverse strategie per Gran Bretagna e USA (la Francia, una volta diventati indipendenti Libano e Siria nel corso degli anni Quaranta, è fuori dal Medio Oriente). La Gran Bretagna gestisce il proprio controllo su questo quadrante attraverso un sistema di alleanze, un controllo unificato denominato MEDO, incentrato sull’Egitto. Si tratta di un controllo regionale unificato, caratterizzato da una forma di ingerenza diretta molto profonda, teso a gestire una macro-regione che si articola su più quadranti il Mediterraneo, il Golfo arabico-persico, e l’Oceano Indiano. I due quadranti estremi sono i lembi da cui il petrolio del Golfo viene inoltrato al resto del Commonwealth, madre patria compresa. 25 Carta n. 4: Israele nel 1949 Fonte: Limes, n. 2, 2002 26 Dopo il viaggio del segretario di Stato Dulles, 1953, la strategia americana riguardo al Medio Oriente prende nuova forma. Gli USA intendono attuare una strategia di controllo debole, di superficiale ingerenza all’interno della politico-amministrativa dei singoli Stati, attraverso un sistema di alleanze, che prevedono sostegno militare in cambio di aiuti economici (formalizzato nel 1957 come dottrina Eisenhower, dal nome del presidente che l’aveva pensata e attuata). La logica alla base di questo sistema risiede nella funzione anti-sovietica di queste alleanze (parallele a quelle stipulate nel quadrante dell’Asia orientale) che ha una precisa geografia, quella della Northern Tier (cintura settentrionale), che vedeva nella Turchia (vi ricordo che la Turchia fa parte della NATO) e nell’Iran i due Stati-territori fondamentali (vi invito a guardarli su un atlante). Nel 1955 a Baghdad sotto l’egida americana viene sottoscritto da tutti i paesi del Medio Oriente, Afghanistan compreso, un patto di alleanza con gli USA che darà luogo nel 1959 alla CENTO (Central Treaty Organization, centrale tra la NATO e la SEATO), che consolida la geografia anti-sovietica degli USA (Europa Occidentale, Medio Oriente, Estremo Oriente). Il cambiamento di governo in Egitto che porta al potere Nasser, leader nazionalista e panarabo di orientamento baathista (socialista) e strenuamente anti-israeliano, induce gli USA a scegliere come alleati più stretti la Giordania e il Libano, mentre i Sovietici, sostenendo Nasser e poi Saddam Hussein (altro leader baathista) cominciano a entrare nelle vicende mediorientali. (Lettura)19 La personalità politica di Nasser e i suoi propositi panarabi, che lo portano a costituire una unione tra Egitto e Siria, con la Repubblica Araba Unita nel 1958 (particolare tentativo di regionalismo anti-coloniale), sono ostacolati dal rafforzarsi di un panarabismo religioso a opera della Fratellanza Musulmana e dall’Arabia Saudita, regime monarchico integralista, che intende assumere il ruolo di potenza regionale. La crisi di Suez del 1956 (che riporta la regione a vivere delle tensione di vecchio stampo coloniale ordite dalla Francia, che usa Israele in funzione anti-egiziana)20 ma soprattutto il conflitto arabo-israeliano del 1967, che fa conoscere un Israele potenza militare indiscussa in Medio Oriente, destabilizza ulteriormente il quadrante e impedisce il sorgere di dimensioni post-coloniali, anzi un ordine neo-coloniale si afferma sotto l’egida israelo-statuntense. La Carta n. 5 mostra un “grande” Israele, che alla fine della guerra dei Sei Giorni ha occupato il Sinai, la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e di fatto annesso Gerusalemme Est e il Golan, comportando un nuovo flusso di rifugiati palestinesi, né una enfatica testimonianza. La lunga guerra civile libanese del 1975-1991 è una delle tragiche espressioni delle questioni mediorientali, che ci consente di capire come le dinamiche coloniali e neocoloniali in atto in questo quadrante non solo non sembrano tendere a cessare ma si configurano territorialmente facendo del Libano uno spazio conflittuale e simbolico. 19 De Bernardi A., Guarracino S. (1987), op. cit, II vol., L’Egitto e la crisi mediorientale, pp. 579-581. Vi ricordo che la crisi di Suez ha origine in seguito alla nazionalizzazione del canale di Suez di cui Gran Bretagna e Francia erano azioniste. 20 27 Carta n. 5: Grande Israele 1967 Fonte: Limes, n. 2, 2002 Conflittuale perché attraverso la crisi apparentemente interna alla società libanese, i diversi Stati del Medio Oriente hanno agito per affermare il proprio ruolo di potenze 28 regionali e tendenzialmente egemoniche. Simbolico perché racchiude come un microcosmo tutte le eredità coloniali alla base delle questioni mediorientali, legate alla difficile gestione di uno spazio transcontinentale complesso e strategico, per la presenza di risorse energetiche fondamentali e per collocazione geopolitica (snodo tra Europa, Africa e Asia; spazio di prossimità alle Heartlands – Russia, Iran e Asia Centrale – e alle Rimalands – Mediterraneo e Oceano Indiano e Pacifico). Alla base della crisi libanese c’è l’esasperazione del comunitarismo e l’emergere della comunità cristiana maronita come comunità egemonica oltre che dal punto di vista politico anche economico (vi rammento il ruolo del partito falangista). Questo stato è da ascriversi all’ingerenza della Francia, che vede nell’insinuarsi nella questione libanese un modo per riaffermare il suo potere in Medio Oriente; ma è più interessante notare che con la stessa dinamica e prospettiva coloniale si muovono le altre potenze regionali locali. A parte la Siria, che da sempre esercita un potere coloniale sul Libano, da considerarsi una sorta di suo protettorato, Israele, Iraq, Iran e Arabia Saudita hanno usato la struttura comunitaristica del Libano per agire su tutto lo scacchiere mediorientale. Israele sin dalla fine degli anni Settanta si è proposto come difensore dei cristiani libanesi, sostenendo poi politicamente e militarmente il partito falangista: nel 1982 l’esercito israeliano entra a Beirut, sancendo lo stato di occupazione del paese. Nel corso di questa guerra le singole comunità agiscono nello scontro armato attraverso le milizie dei partiti che le rappresentano nel parlamento libanese. Al partito falangista e alla sua milizia si deve il successo della comunità maronita, da sempre raffinata componente intellettuale del paese ponte con le potenze occidentali ma priva del potere economico (detenuto dalle comunità urbane dei Sunniti e dei Greco-ortodoss) e politico (gestito dai Drusi e dal loro controllo nel Monte libano e delle loro alleanza con il mondo musulmano sunnita), che con la guerra e il comportamento predatorio del partito falangista (che acquisisce banche e capitali provati) assume potere economico. Vi ricordo che il comporamento predatorio dei partiti nella guerra civile ha significato anche uccisione di civili inermi, costretti in quartieri-ghetto, e distruzione della città di Beirut (Vi ricordo le fotografie di Gabriele Basilico “Beirut 1990”). Anche l’Iraq di Saddam Hussein si pone come protettore dei cristiani in funzione antisiriana e anti-israeliana. L’Iran usa la presenza sciita nel paese come grimaldello per agire più o meno indirettamente nelle questioni strategiche. Il Libano vede da sempre la presenza armata dei movimenti palestinesi (sia l’Olp, che quelli di matrice religiosa), dunque per l’Iran agire in Libano significa poter agire indirettamente contro Israele. Inoltre, le dinamiche della crisi libanese, consentono all’Iran di agire attraverso Hezbollah, il partito sciita armato (creato dall’Iran nel 1982), in relazione all’imporsi di un potere politico espressione di un fondamentalismo islamico nella versione proposta dalla Repubblica islamica iraniana: fondato su un atteggiamento contrario alle élites tradizionali, che richiama le esigenze delle masse povere e propone una modernità di tipo islamico. Infine, l’Arabia Saudita, con il suo sostegno alla comunità sunnita, di cui è il referente identitario e religioso per eccellenza (vi ricordo che l’Arabia Saudita è difensore della ortodossia sunnita), agisce sullo scacchiere mediorientale sostenendo la Siria in funzione anti-irachena. L’Iraq, infatti, era all’epoca una potenza che agiva sullo stesso territorio dell’Arabia Saudita, ovvero la Penisola arabica e il Golfo arabico-persico (vi ricordo la guerra Iran-Iraq, svoltasi nel corso degli anni Ottanta, e successivamente l’occupazione del Kuwait da parte dell’Iraq), oscurandone il potere. Per le sue 29 caratteristiche economiche (è uno dei maggiori produttori di petroli al mondo), religiose (faro dell’ortodossia sunnita), politiche (è una monarchia assoluta) e politiche internazionali (è un forte alleato degli USA), socio-antropologiche (è la piena espressione di un mondo arabo, che si propone come omogeneo: senza minoranze etnico-religiose) l’Arabia Saudita è l’unica potenza che ha tutte le carte per porsi come soggetto politico egemonico capace di imporre un processo di regionalizzazione (anche questo dall’alto ovvero di stampo coloniale). Sin dagli anni Ottanta presiede il Consiglio di cooperazione del Golfo, che coinvolge gli emirati del Golfo arabico-persico, sostenendone l’ambizione ad agire anche su altri quadranti: il controllo del Libano (che si realizza a conclusione della crisi, negli anni Novanta con il governo di Rafik Hariri) consente a queste potenze economiche di accedere al Mediterraneo, come spazio strategico politico ed economico. Il conflitto in Libano si salda con la crisi irachena degli anni Novanta e Duemila (tuttora in corso) da cui l’Iraq, oggi sottoposto a uno stato di occupazione militare statunitense, esce come smembrato. La Carta n. 6 mostra come il paese non esita più ma al suo posto ci sono tre entità riarticolate su base comunitaria: uno Sciistan, un Sunnistan e un territorio Curdo, o Curdistan iracheno. I casi libanese e iracheno sono la cartina di tornasole del riaffemarsi di una condizione coloniale in Medio Oriente, costituita da grandi e piccole potenze in cerca di affermare il controllo sul quadrante, utilizzando la complessità identitaria e culturale di questo quadrante come instrumentum regni, strumento di potere, alimentando tensioni e rapporti squilibrati di potere. In Medio Oriente processi di regionalizzazione dal basso, sebbene ipotizzati da qualcuno (Shimon Peres per Israele, Libano e Giordania ad esempio) sono al momento impossibili. 30 Carta n. 6: The scramble of Iraq Fonte: Limes, n. 5, 2006 31 4. I processi di regionalizzazione: l’assetto territoriale post-coloniale Alla fine degli anni Sessanta nel quadrante dell’Asia orientale si delineano decisi processi di regionalizzazione nell’area del Mar della Cina che portano le soggettività stato-nazionali del Sud-est asiatico a costituire l’organizzazione intergovernativa dell’ASEAN. Gli sviluppi dell’ASEAN e della più recente APEC, testimoniano un potente processo di “regionalizzazione spontanea”, come definito da Sergio Conti, nella più vasta area dell’oceano Pacifico. La “regione Pacifico” costituisce l’evidenza strategico-territoriale di un assetto geopolitico animato da un moltitudine di soggettività in rapporto tendenzialmente paritetico; in questa stessa relazione di dialogo paritetico con i paesi di questo quadrante asiatico si inseriscono anche gli Stati Uniti. Diversamente, le dinamiche di rinnovata egemonia statunitense, che si producono sui territori del Medio Oriente dagli anni Novanta fino a oggi, testimoniano della persistenza di pratiche coloniali, a cui si oppongono processi di reazione attuati da soggettività locali o internazionali (di tipo terroristico) o statuali come l’Iran. La nuova guerra del Libano e la sua endemica crisi interna come la costante opposizione tra Iran e Israele si configurano come effetti dell’assetto neo-coloniale o come tentavi di scardinarlo. “ORDINE” POSTCOLONIALE 4.1 Sud-Nord Est Asiatico: da “ lontano da chi?” a “ vicino a chi?” la transizione postcoloniale e i suoi soggetti. Parlare di “Ordine” in riferimento al Postcoloniale è senza dubbio inadeguato, ma forse ha senso se lo pensiamo come canone geopolitico non occidentale, non pensato da una posizione politica e geografica occidentale o, comunque, non locale, non Pacifica. Il primo elemento/evento geopolitico di questo nuovo assetto è testimoniato dalla Conferenza di Bandung, in Indonesia, nel 1955 sotto l’egida dell’India a cui si affiancarono presto Pakistan, Sri Lanka, Birmania, Indonesia nel ruolo di promotori. Il loro progetto politico era il non allinemento, ovvero la possibilità di non schierarsi o meglio ancora di non inserirsi in un’area di influenza né del Primo Mondo (USA e potenze europee) né del Secondo Mondo (URSS e paesi socialisti) ma di costituire il Terzo Mondo, una definizione politica dei paesi che uscivano sulla scena degli Stati sovrani con il processo della decolonizzazione e che, pur partendo dall’Asia, raggruppava Stati afro-asiatici, sostenuti con forte simpatia dai paesi minori dello schieramento socialista. La Cina Popolare partecipò come osservatore alla conferenza, e questa partecipazione anticipò la rottura con l’URSS, che avverrà dopo i fatti di Ungheria, tra il ‘56 e il ’61, e il suo riconfigurarsi come potenza politica regionale autonoma nella dottrina e nelle scelte politiche. 32 Temi discussi e programmi politici delineatisi alla conferenza furono: - diritto all’autodeterminazione nazionale e condanna del colonialismo - astensione dal partecipare ad accordi difensivi asservendosi alle grandi potenze Si tratta di espressioni dalla formulazione ambigua, che costituiva spazi di autonomia. Cina e Giappone sono i cardini del nuovo canone postcoloniale in Asia, considerati per i loro percorsi individuali e per le loro relazioni con le grandi potenze: gli USA per quanto riguarda il Giappone, e l’URSS e il nuovo rapporto amichevole con gli USA per quanto riguarda la Cina. Il Giappone utilizza a suo favore la soggezione agli USA, determinatasi nell’immediato dopoguerra. Sotto l’amministrazione americana, che ha trasformato l’impero in una monarchia costituzionale con un parlamento animato dal bipartitismo, il Giappone è stato demilitarizzato, dunque, eliminate le spese militari, il paese ha potuto concentrarsi sulla ricostruzione economica e industriale al passo con i tempi, riuscendoci brillantemente, tanto che già nel corso degli anni Settanta si è reso sempre più indipendente dagli USA, di cui è diventato poi un pericoloso concorrente economico, ma anche un soggetto economico di spicco nel Pacifico, pronto a interloquire con paesi come Australia e Nuova Zelanda anch’essi intenzionati a rendersi autonomi dagli USA e dalle relazioni coloniali, elaborando un’identità radicata nell’Oceano Pacifico. Il nuovo e progressivo protagonismo-autonomismo giapponese spinge gli USA a riscoprire un paese da sempre interessante al loro sguardo, la Cina (in questo gli USA erano stati preceduti dalla Francia, che si avvicina alla Cina già alla fine degli anni Sessanta). Il distacco dall’URSS consentiva una concreta possibilità di instaurare un dialogo amichevole, che fu magistralmente tessuto da Kissinger. Le ragioni per avvicinare la Cina, oltre a quella del contenimento del Giappone (pericoloso concorrente economico), derivavano dal fatto che gli USA la vedevano come una potenza in ascesa, da non trascurare, un grande mercato da riconquistare, un deuteragonista nel Pacifico. Kissinger svelava di ragionare in termini regionali, recuperando una tendenza antica nella geopolitica americana. Questo processo di avvicinamento produsse il riconoscimento da parte degli USA della Repubblica Popolare Cinese nel 1978, e la Cina dal canto suo comincia la strada delle riforme economiche21. Il nuovo corso della Repubblica Popolare Cinese consisterà da questo momento in poi a realizzare la convivenza tra comunismo (in politica) e capitalismo (in economia) all’insegna dello slogan “un paese due sistemi”. Il primo effetto si esprime come una riorganizzazione territoriale: nel corso degli anni Ottanta nascono le ZES, Zone Economiche Speciali, ambiti territoriali collocati lungo la lunga fascia costiera in cui si praticano forme economiche capitalistiche, dove sono possibili investimenti diretti dall’estero, dove è possibile l’attività imprenditoriale privata. Si veda a riguardo la carta n. 7 che mostra la collocazione delle ZES, le cui peculiarità economiche si estendono progressivamente ai territori circostanti, configurando un processo di riorganizzazione regionale all’interno del territorio statuale cinese. Le prime ZES sono i territori costieri di sud-est Fujan e Zhegiang, poi il processo coinvolge aree più a nord e a nord ovest e i relativi hinterland nel corso degli anni Novanta, come mostra la carta. Il Guadong, provincia collocata all’estremo Sud-Est, gode di autonomia economica all’interno del sistema comunista già dagli anni Cinquanta. 21 In questi stessi anni l’URSS entra sempre più in crisi, praticando una politica sempre più aggressiva (si veda la guerra in Afghanistan). 33 Il successo delle ZES in Cina si lega al fenomeno delle Tigri Asiatiche. Sono noti come Tigri o Dragoni asiatici quei paesi che sin dagli anni Sessanta hanno intrapreso un serratissimo percorso di industrializzazione, che negli anni Settanta si è esteso a Malaysia, Thailandia, Filippine, Indonesia e alle Zes (Zone Economiche Speciali della Cina - Guandong e Fujian -). A questi si sono aggiunti negli anni Novanta il Viet Nam e le regioni cinesi dello Jiangsu e dello Zhejiang. Ma le Tigri originarie sono Singapore, Taiwan, Hong Kong e Corea del Sud, questi paesi hanno svolto un ruolo determinante nel processo di regionalizzazione del Sud-Est asiatico, impegnandosi in un imponente processo di investimenti diretti nelle economie non ancora dinamiche e avanzate dell’area, accompagnandolo con un trasferimento di competenze nel management e tecnologico, insieme al Giappone. Colpite dalla crisi dell’economia globale del biennio 1997-99 e dall’epidemia di SARS, nei primi anni Duemila, hanno riorganizzato le loro economie attraverso un orientamento volto alla territorializzazione, ovvero slegare le loro economie dal sistema globale per radicarle in un sistema regionale asiatico pacifico, guardando ai modelli di Giappone e Cina e alla loro apertura sulla più ampia regione del Pacifico, che si può sintetizzare negli slogan di “Look at East and at Pacific”. 34 Carta n. 7: Le ZES Fonte: www.lib.utexas.edu/maps, sito dell’Università del Texas, sezione cartografica “Perry Castaneda” 35 In questo quadro prende avvio nel 1967 l’esperienza dell’ASEAN (Association of South East Asia Nations), nata come associazione anti-sovietica, ma poi sviluppatasi come strumento per una politica di regionalizzazione spontanea. L’ASEAN è stata istituita nel 1967 a Bangkok. Gli Stati fondatori erano Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore e Thailandia a cui si unirono successivamente Brunei, Viet Nam, Laos, Myanmar e Cambogia. É una associazione inter-governativa, il cui organo decisionale è composta dai capi di Stato e di governo e che prevede incontri annuali tra i ministri degli Stati contraenti, ha inoltre una delegazione diplomatica nelle principali città del pianeta, per sostenere le relazioni esterne. I propositi dell’organizzazione sono accelerare la crescita economica e lo sviluppo culturale dei paesi della regione, promuovere la pace, la stabilità politica, la sicurezza sociale nei paesi contraenti, sviluppando le relazioni tra loro, dunque, attraverso la collaborazione. L’organizzazione è progressivamente cresciuta e ha maturato i suoi obiettivi sancendoli attraverso dichiarazioni. Le principali sono le seguenti: quella del 1992 che ha istituito l’AFTA (Asia Free Trade Area); quella del 1994 istituitiva del ARF Asia Regional Forum per promuovere la costruzione di buone relazioni, un sistema di diplomazia preventiva e approcci per la risoluzione dei conflitti; quella del 1997 che ha definito la piattaforma programmatica dell’ASEAN Vision 2020 per promuovere l’apertura verso i paesi terzi e i paesi associati, la prosperità e relazioni di reciproca cura oltre al rispetto dell’integrità territoriale e alla sovranità di ciascuno Stato (come stabilito dal TAC); nel 2003 la Dichiarazione del II Concordato ASEAN di Bali, che ha stabilito lo sviluppo dell’ASEAN secondo tre pilastri fondamentali: l’ASEAN Security Community, Economic Community e la Socio-Cultural Community. Il Security Community opera per la risoluzione pacifica dei conflitti tra gli Stati membri. L’Economic Community ha l’obiettivo di realizzare una comunità economica per il 2020 come previsto dalle Asean Vision, perseguendo obiettivi sociali oltre che finanziari come la lotta contro la povertà e le disparità economiche, ma anche un mercato interno che attraverso l’abbattimento delle barriere tariffarie consenta una ampia e libera circolazione di merci e capitali. A questo si deve l’istituzione dell’AFTA e dell’AIA (area di investimenti asiatica). Molto interessanti sono gli accordi tesi a migliorare le comunicazioni elettroniche e fisiche, attraverso il potenziamento delle infrastrutture, per incrementare i flussi turistici ma anche gli scambi intellettuali, obiettivo specifico della Socio-cultural Community (oltre ai temi di tutela ambietale e delle fasce più deboli della popolazione). Le relazioni esterne sono un punto centrale dell’assetto dell’ASEAN, specie quelle con i paesi dell’Asia nordorientale, Giappone Corea del Sud e Cina, stabilite nell’ambito di accordi stilupati nel 1999 e ulteriori accordi bilaterali. Altri accordi di cooperazioni legano i paesi Asean a India, Pakistan, Australia, Nuova Zelanda, Russia, USA, Canada e United Nations Develpment Programme. Consistente è anche lo sforzo di collaborazione con altre organizzazioni intergovernative su base regionale come il South Pacific Forum, la Gulf Cooperation 36 Council, Asian-Africa sub-regional Organisation Conference, Asia-Pacific Economic Cooperation, East Asia Latin America Forum, Asia Europe Meeting. Particolarmente interessante è il ruolo dell’Asia Regional Forum, che include Australia, Brunei, Cambogia, Canada, Cina, Unione Europea, India, Indonesia, Giappone, Corea del Nord, Corea del Sud, Laos, Malaysia, Mongolia, Myanmar, Nuova Zelanda, Pakistan, Papua Nuova Guinea, Filippine, Federazione Russa, Singapore, Thailandia,USA e Viet Nam. Il forum si occupa di temi regionali e transazionali come la lotta la terrorismo, al crimine e alle difficili relazioni nel Mare della Cina meridionale (che concernono i contrasti sulla sovranità sulle isole Spartly e sulle risorse che giacciono sul fondo oceanico). Il complesso di questi eventi porta a modificare le definizioni, con cui nel corso del tempo i paesi, di cui ci siamo occupati, sono stati etichettati. PVS (Paesi in via di Sviluppo) svela una valutazione economica pensata sulla scorta di un preciso percorso di sviluppo legato a una esperienza come a uno sguardo/canone occidentale. NIC, Newly Industrialized Countries, è allo stesso tempo una valutazione economica e culturale, che si fonda sul riconoscimento di diversi percorsi, tempi, e ritmi di sviluppo, fondato su specificità locali, sul passaggio spesso repentino dall’arcaicità alle nuove frontiere dell’elettronica. 4.2 Regione “Pacifico” La nuova auto-consapevolezza dei paesi del Pacifico e la ridefinizione dei loro rapporti all’interno di un’organizzazione aperta come l’ASEAN, svela un processo territoriale in cui il Sud-Est Asiatico non è più un quadrante continentale, geopolitico o una rappresentazione cartografica, ma il soggetto territoriale che dà vita a un’espressione politica e culturale. Molti geografi, tra cui l’italiano Sergio Conti, parlano di un processo di “regionalizzazione spontanea”, che coagula attorno a strategie economiche e fasi di produzione una identità asiatica (basata sul confucianesimo) in dialogo con una Pacifica (multietnica e multiculturale e multimediale, che mette insieme porzioni di America, Oceania, Asia, le cui specificità si perdono nel “passaggio pacifico”, identità di terra a identità di mare). Conferma della regionalizzazione sono i percorsi migratori, come la nuova attenzione che paesi terzi mostrano per questo territorio regionale. È importante a riguardo l’interesse che la Russia mostra verso questa regione, rinsaldando il rapporto con la Cina. La Russia si è inserita nei mercati del Pacifico sviluppando in quest’area rapporti commerciali in continua espansione, tali da costituire una grossa aliquota del suo commercio internazionale relativamente ai settori dell’industria militare, del settore energetico e dell’elettronica. Così come la Russia intesse rapporti con i soggetti economici piccoli e grandi dell’Asia, questi rivelano interesse comune per le ex-Repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale. Queste Repubbliche (serbatoi petroliferi e di materie prime) sotto attualmente oggetto di interesse di molteplici soggetti geopolitici, come la Turchia (e attraverso questa gli USA), l’Iran, l’UE e la Russia, naturalmente, ma anche della regione sudestasiaticapacifica, che cerca di attrarle sulla Rimland pacifica. L’ASEAN, lungi dall’essere una organizzazione su base regionale costituita da un gruppo di paesi omogenei, è in realtà segnata da numerose differenze, economiche, politiche e socio-culturali, e pare riuscire a funzionare proprio in virtù di queste 37 differenze assunte consapevolmente in una riformulazione integrata. Le regionalizzazione in Asia orientale si presenta come un fenomeno volto a sfruttare la complemetarità fra le varie economie in termini di risorse naturali, capacità tecnologiche, salari e livelli di reddito. Le differenze insite nell’ASEAN, per certi versi enfatizzate, si ritrovano nell’APEC. L’APEC (Asia Pacific Economic Cooperation) è stata istituita con l’accordo di Canberra nel 1989, si caratterizza come una organizzazione intergovernativa, procede nel suo sviluppo attraverso meeting annuali. Come l’ASEAN ha avuto uno sviluppo notevole in virtù della fine del sistema bipolare, così l’APEC prende avvio proprio dalla fine di questo sistema. Oggi è costituita da 21 membri: Australia, Brunei, Canada, Cile, RPC, Hong Kong (dal 1998 parte della RPC), Indonesia, Giappone, Corea del Sud, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Perù, Filippine, Russia, Singapore, Taiwan, Thailandia, USA e Viet Nam. L’Asia-Pacific Economic Cooperation si pone lo scopo di perseguire i tre obiettivi di Bogor (1994) l’instaurazione di un’area di libero mercato entro il 2010 per le economie sviluppate ed entro il 2020 per le economie in via di sviluppo. L’APEC poggia su tre pilastri: 1. Il mercato e la liberalizzazione degli investimenti (abbattimento delle barriere tariffarie e l’incremento delle politiche per la liberalizzazione dell’economia) 2. Le facilitazioni all’impresa (riduzione dei costi delle transazioni scambio di informazioni, allineamento delle politiche e delle strategie di impresa per la crescita e il libero mercato). 3. ECOTECH provvede alla formazione e alla costruzione di capacità per la cooperazione, per sviluppare i potenziali economici dei singoli paesi della futura regione. Il coordinamento ASEAN e APEC lascia pensare al delinearsi di quello che il geografo economico californiano (della Scuola di Los Angeles) Allen J. Scott22 chiama Direttorio Regionale, con cui non intende una istituzione ma una dimensione di collaborazione e sinergia transfrontaliera e transnazionale tra paesi. Ecco le caratteristiche di un Direttorio Regionale che fanno pensare al delinearsi di un direttorio regionale nella regione del Pacifico (Carta n. 8):1. Coerenza organizzativa 2. Legittimazione e autorità (accordi) 3. Capacità politica e gestione delle risorse finanziarie oltre le realtà locale 4.Capacità organizzativa finalizzata: guida temporale strategica dell’intera economia regionale 5.Incontri significativi con altri direttori regionali 22 Scott A. J., (2001) Le regioni nell’economia mondiale, Bologna, Il Mulino. 38 Carta n. 8: Fonte: www.lib.utexas.edu/maps, sito dell’Università del Texas, sezione cartografica “Perry Castaneda” 39 4.3 Convergenza della regione Pacifico di India e Iran L’importanza di questo direttorio del Pacifico è confermata dalle scelte di politica economica internazionale di India e Iran. India: Cindia L’India mostra una volontà di integrazione sempre maggiore con le economie dei paesi dell’Est asiatico, all’interno di un processo di sviluppo e integrazione di una grande regione in questo quadrante continentale. Molto serrata è la collaborazione con Cina, Corea e Taiwan. Interessante è soprattutto il rapporto tra Cina e India, che appaiono complementari. Le stime demografiche per la metà del secolo vedono una Cina più ricca ma con una popolazione più vecchia a fronte di una India in rapida e forte crescita economica e con una popolazione giovane, con particolare riguardo a quella attiva nel settore lavorativa: dunque l’India costituirà il serbatoio di forza lavoro, sempre più specializzata, della Asia rampante, ovvero il nucleo di Cindia23. Interessante da rilevare anche gli aspetti di politica internazionale: l’integrazione Cina-India porterà al miglioramento delle relazioni tra quest’ultima e gli USA, che negli ultimi anni dopo l’11 settembre ha puntato sul suo rivale storico, il Pakistan. Tuttavia, gli USA sono la meta privilegiata di studio e lavoro della giovane elite indiana, la relazione tra i due paesi nel settore economico appare molto vitale e curata da entrambi. Al crescente interesse degli USA per l’India, si contrappone il progressivo declino dell’UE. Ma c’è un altro quadrante su cui l’India punta per costruire il suo futuro, quello dei paesi limitrofi con cui le relazioni sono difficili ma migliorabili. L’India sta elaborando per sé il ruolo di leader di una gruppo di paesi, che ancorandosi all’India beneficerebbe del traino Cina-India-Sudest asiatico. Sto parlando di Pakistan, Bangladesh, Bhutan, Maldive, Nepal e Sri lanka uniti all’India nella South Asian Association for Regional Cooperation (SAARC) voluta da Rajiv Gandhi nel 1985. Oggi la SAARC ha dato vita a una zona di libero scambio, SAPTA, che dovrebbe funzionare a pieno regime nel 2016. La possibilità di un mercato ampio e libero con questi Stati e la crescente integrazione delle loro risorse, gli approviggionamenti energetici forniti dal Pakistan, i cui oleodotti apportano il petrolio iraniano e dei paesi dell’Asia centrale, le riserve di gas del Bangladesh e del Myanmar, che l’India comincia corteggiare, nonché le forniture agricole e dell’industria di base di questi paesi costituirebbero la base per un ulteriore potenziamento dell’economia indiana, lanciata verso la conquista di nuovi spazi regionali: il Medio Oriente, l’Africa e la regione del Pacifico, dato il crescente miglioramento delle relazioni con gli USA.24 La Carta n. 9 riporta in verde l’indicazione degli Stati poveri, mentre in rosso evidenzia gli Stati con un’economia più dinamica: molti si trovano sul versante orientale che guarda a est (Cina, Giappone e Pacifico). In particolar modo si segnalano le aree più dinamiche la punta estrema della penisola indiana (Tamil Nadu e Karnata) con il corridoio Bangalore-Madras. Su versante occidentale si segnala il triangolo delle città di Bombay-Pune-Goa, specializzato nelle relazioni con il Medio Oriente, ovvero i ricchi 23 Questo termine è stato coniato nella letteratura geo-economica anglo-americana, in Italia è stato introdotto dalla pubblicistica internazionale e nello specifico la sua diffusione si deve a Federico Rampini, si veda a proposito il suo saggio L’impero di Cindia, Milano, Mondadori, 2006. 24 Boillot J.J., L’economia dell’India, Bologna, Il Mulino, 2006. 40 paesi del Golfo arabico-persico in particolare. Assi produttivi di ricchezza sono il corridoio di Ahmadabad-Hyderabad e la regione della capitale federale New Dehli. Carta n. 9: Fonte: rielaborazione da Boillot J.J., L’economia dell’India, Bologna, Il Mulino, 2006. Lo scacchiere stragegico dell’Iran contemporaneo 41 La Carta n. 10 mostra il sistema geo-strategico dell’Iran contemporaneo, quello presieduto da Ahmadinejad, strenuo oppositore di Israele e USA. Le relazioni politiche internazionali dell’Iran sono compromesse da un articolo della costituzione repubblicana che sancisce la sua avversità a Israele, alla base di ogni possibile relazione pacifica e distesa con gli USA. La carta mostra in verde scuro i due paesi che l’Iran considera strategici nel suo sistema: la Turchia potenza regionale alleata degli Stati Uniti e amica di Israele che indirettamente potrebbe normalizzare le relazioni con questi due paesi, importanti soggetti regionali e globali; e l’India porta di accesso alle economie dinamiche dell’Asia Orientale e del Pacifico, inserimento che necessita la costruzione di buone relazioni politiche e commerciali con la Cina e ancora la normalizzazione dei rapporti con gli USA. La vicenda iraniana mostra che le strategie economiche costituiscono una tattica per superare gli stalli delle dichiarazioni di principio della politica. Il rafforzamento della regione del Pacifico avrebbe notevoli risvolti di politica internazionale. Carta n. 10: La geografia politica ed economica dell’Iran contemporaneo Fonte: Limes, n 5, 2006 42 4.4 Il Monte Libano nell’impero ottomano: l’emergere dell’entità libanese Il termine postcoloniale non si intende solo come connotazione cronologica (seconda metà del XX secolo) ma è piuttosto un modo di pensare, un atteggiamento intellettuale teso a evidenziare una prospettiva sul mondo che non abbia un orientamento dall’alto verso il basso, la visione delle grandi potenze, ma piuttosto quella della comunità locali, dei soggetti deboli, esclusi dalla narrazione della storia, scritta dai potenti e spesso dagli Occidentali. Anche l’Impero Ottomano un tempo è stato potente e ha gestito una moltitudine di territori diversi per espressione culturale, lingua, religione, visione del mondo e della propria storia. Tanti sono stati i movimenti di opposizione al potere politico ottomano, quello di cui ci siamo occupati durante il corso è quello del Monte Libano, ovvero la prima espressione territoriale dell’identità libanese, termine che attraversi il riferimento al territorio trasforma popoli diversi, per connotati culturali e religiosi, in una nazione. Il Monte Libano, sistema di territorio-popolo-nazione, può essere letto attraverso la lente postcoloniale come processo di regionalizzazione spontanea, costitutiva nello specifico di un embrione stato-nazionale, in Medio Oriente. Il Monte Libano, il complesso montuoso situato all’interno del paese, è la sede territoriale delle comunità druse e maronite; costituirà ben presto una espressione sociopolitico-culturale in cui un gruppo umano eterogeneo riconosce una identità comune su una base territoriale. Il Monte Libano è un emirato; all’inizio del XVI secolo con il dominio della dinastia drusa dei Maan sorge un soggetto politico dotato di stabilità e forza coesiva sulle delle diverse comunità stanziate sul Monte Libano e capace di interagire con gli sciiti del territorio circostante, le pianure orientali e meridionali. Esso vive il periodo di massima fortuna sotto il governo di Fakhreddin II (1591-1635), dissolvendosi di lì a poco. Il successo dell’emirato si deve alla forza pervasiva della dinastia maanide, che fa da collante tra le comunità, in consonanza con la capacità modernizzatrice dei maroniti. L’emirato è orientato culturalmente e politicamente verso l’Europa (Francia e Italia) in virtù dei legami religiosi dei Maroniti. Drusi e Maroniti alla ricerca di autonomia nell’ambito dell’impero ottomano, prendono contatto con gli europei, segnatamente Francesi e Stato Pontificio, instaurando una relazione che non si configura come quelle di “tipo coloniale”: essi chiedono il sostegno delle potenze europee in funzione anti-ottomana dopo averne esplorato con piena autonomia e soggettività politica le caratteristiche culturali, simili alle proprie. L’esperienza del Monte Libano sembra ispirare il Patto Nazionale del 1943, atto che segna l’indipendenza del Libano dalla colonizzazione francese. Anche il Patto Nazionale ha una connotazione territoriale, risultante dall’unione delle città della costa e del Monte Libano. Ad animarlo sono i Sunniti, componente storica della società mercantile costiera, dunque detentrice del potere economico e inserita in una geografia culturale ed economica che arriva fino al Golfo arabico-persico, e i Maroniti, detentori del potere intellettuale, gestori dei rapporti politici e culturali con l’Occidente e la Francia. Il Patto Nazionale e la sua geografia, che unifica tutto il territorio libanese, sono gli strumento con cui le soggettività locali intendono inserire il Libano nella geografia mondiale delle relazioni internazionali da soggetto sovrano e autonomo dal potere coloniale. Ma il progetto nasce viziato da comunitarismo, come afferma Corm, che lo porterà al fallimento, facendo ricadere il paese nelle dimaniche coloniali. A nulla servirà il progetto del presidente Fuad Chehab. Nel corso degli anni Sessanta egli tenterà un processo di riforme politiche ed economiche tese a costruire uno Stato 43 forte e moderno, che non fosse ostaggio del potere comunitario (oligarchico e plutocratico25), per avviare un processo di sviluppo socio-economico e realizzare le possibilità per le pari opportunità degli individui libanesi, indipendentemente dalla loro affiliazione comunitaria o appartenenza a una grande famiglia. É proprio nel sistema comunitaristico della gestione del potere politico, concepita dai Francesi per gestire il Libano e le sue ricchezze sotto il mandato coloniale, che il politologo Geoges Corm individua le ragioni del suo permanere in un costante stato di crisi, eredità coloniale, che ne fa terra di conquista e terreno di guerra tra le potenze regionali, riaffermando la dimensione neo-coloniale del Medio Oriente. 25 La gestione del potere nel Libano comunitario risponde alla categoria dell’oligarchia e della plutocrazia. Oligarchia significa potere dei pochi. Plutocrazia significa potere dei ricchi. Nel caso libanese al di là della gestione comunitaristica del potere si rileva una situazione che consiste nella concentrazione di potere politico in un piccolo gruppo di famiglie ricche, che ordiscono trame di alleanze o competizioni tra le comunità. 44