Appunti sui resti dell`antico popolo di Banzi

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Aperiodico on-line di attualità e cultura
reg. del tribunale di Potenza n° 363 del 3 luglio 2007
Archeologia
Appunti sui resti dell’antico popolo di Banzi
di Canio Franculli
“L’emplacement de la ville antique de Bantia se reconnait parfaitement à quelques
centaines de mètres au nord du village. On n’y voit plus audessus du sol aucune des
ruines qui existaient en grand nombre en 1522 et que mentionne une description du
territoire de l’abbaye, redigeée alors à l’occasion d’un process qu’elle avait à soutenir,
document qui se conserve aux Archives de Naples.” Questo è quello che su Banzi
scrive, tra l’altro, Francois Lenormant, riferendo del suo viaggio nelle terre della
Magna Grecia che effettuò nel XIX sec. e che riportò in:“A travers l’Apuli e la
Lucanie”, libro facilmente reperibile.
Lenormant cita il nord di Banzi come luogo da dove affioravano i resti dell’antico sito.
A Banzi si è scavato in diversi luoghi, ma mai dove indicato dallo studioso francese. In
attesa che appropriati scavi possano confermare un’ulteriore estensione dell’antica
Bantia anche in direzione nord, già, comunque, gli attuali ritrovamenti configurano una
città molto estesa e sia commercialmente che culturalmente ricca: punto certo di
aggregazione e di riferimento delle vicine popolazioni.
I più antichi insediamenti finora certi risalgono al periodo osco-sannitico e greco,
datano dall’VIII al IV sec.a.C. e si collocano in località Piano Carbone, a sud-ovest,
dove sono state riportate ufficialmente alla luce in pochi anni, negli anni Settanta ed
Ottanta del XX sec., più di settecento tombe. Di queste ve ne sono alcune il cui
corredo è pregiato e di tipo greco, appartenenti a persone di rango sociale elevato.
Oltre alle tombe si sono rinvenute tracce di capanne nonché di costruzioni con
fondamenta. In località Montelupino invece, a sud-est, è stato rinvenuto un vasto
insediamento abitativo romano, con strade e marciapiedi, e un templum auguraculum. I
nove cippi infissi in terra del templum, che sulla sommità riportano i nomi delle divinità
del pantheon osco-latino, erano collocati secondo la traiettoria del sole con il cippo di
Giove, divinità greco-romano, che indicava il suo sorgere, quello del sole, solei, indicava
lo zenith, mentre ad indicare il tramonto e la notte c’era il cippo di Flus, dea osca delle
profondità e dell’oscurità.
Di fronte al sito del templum auguraculum in terris, e risalente al periodo della Roma
repubblicana, nei primi anni del Duemila è stata portata alla luce una grande e ricca
domus con terme balneari appartenuta al sacerdote Romanius, che ha voluto
tramandare il suo nome ai posteri con una pregiata epigrafe mosaicizzata recante
scritto: “Romanius fm cam sacerdos balnea ex sua pecunia faciunda curavit” (Il
sacerdote Romano figlio di Marco della tribù Camilia curò la costruzione delle terme
con il suo denaro).
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I reperti e gli scavi in particolare testimoniano una
forte ricchezza socio-economica del sito nel
periodo delle guerre annibaliche, per la presenza in
zona degli eserciti romani impegnati nella
conquista di queste popolose e ricche terre
dell’antica
Magna
Grecia
Ma quanti abitanti aveva l’antico insediamento
urbano e quali erano gli altri siti abitati della zona,
che consistenza e che rapporti intercorrevano tra
di loro? Le antiche e grandi pietre lavorate, utilizzate in abbondanza nella fabbrica
altomedioevale dell’abbazia benedettina di Banzi, rimandano ad edifici di notevoli
proporzioni risalenti al periodo romano. Ce ne sono di ben visibili nelle mura badiali ma
soprattutto
nelle
cantine
delle
case
adiacenti.
In questa cornice di antiche pietre, templi e domus, un’antica battaglia venne
combattuta a valle della città. Poteva essere una battaglia come un’altra ma non lo fu,
semplicemente per il fortuito caso che vi morì un importante console romano:
Marcello. In una sala del Vaticano su una cartina antica della Lucania, III regione
augustea dell’impero romano, è raffigurato l’episodio. Era la primavera dell’anno 208
a.C. quando, ancora una volta, si ritrovarono di fronte a combattersi l'esercito di
Annibale e quello romano. L’evento viene riportato da Livio Tito (59 a.C.-17 d.C.) nella
sua opera "Ad urbe condita". Annibale, generale cartaginese, era sceso in Italia a
combattere i romani dieci anni prima, superando prima i Pirenei e poi le Alpi con un
esercito di 35.000 uomini e qualche decina di elefanti. Nel 216 a.C. era a Canne, oggi
Canne della Battaglia non molto lontana da Canosa (Ba), dove sconfisse in una cruenta
battaglia l’esercito romano. Per altri quattordici anni, fino a quando non ritornò in
Africa nel 202 a.C., scorrazzò per le terre meridionali tra Molise, Campania, Lucania e
Calabria, scontrandosi contro l’esercito romano e i suoi alleati. All’epoca in Italia non
c’erano territori civilizzati oltre l’Etruria: la cultura e la civiltà di quell’epoca
appartenevano ai padri fondatori del pensiero occidentale che popolavano il territorio
greco di cui faceva parte il meridione d’Italia. Della battaglia tra Annibale e i romani
si sa che nei giorni precedenti i due eserciti si erano già scontrati presso Numistrone
(1) , identificabile con molta probabilità con l’attuale Muro Lucano, senza che nessuno
dei due eserciti riuscisse a predominare sull’altro. Il combattimento ebbe fine col
sopraggiungere della notte per essere poi ripreso all’alba. Ma quando giunse l’alba i
romani non trovarono più alcuna traccia di Annibale e dei suoi uomini. Allora Marcello,
lasciato un presidio militare a difesa di Numistrone agli ordini di L.Furio Purpureone,
decise di inseguirlo. Raggiunse Annibale a Venosa (Ad Venusiam adeptus eum est) (2) e
fu tra Venosa e Banzi (inter Venusiam Bantiamque) (3) che i due eserciti, posti a tre
miglia l’uno dall’altro, si combatterono. Durante la battaglia Marcello venne colpito a
morte e il figlio, che portava il suo stesso nome, ne chiese ad Annibale il corpo per
tumulare la salma con tutti gli onori militari e politici che gli erano dovuti.
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Marcello, il cui nome completo era Marco Claudio Marcello, era nato intorno al 270 a.C.
ed era stato più volte insignito dal titolo di pro-console e console. Tre anni prima, nel
211 a.C., aveva espugnato la città di Siracusa, ribelle a Roma e difesa strenuamente
anche grazie alle macchine belliche inventate da Archimede che proprio nell’assalto a
Siracusa venne ucciso dai soldati romani. Essendo stato un personaggio di primo piano
nelle gesta politico-belliche dell’espansionismo romanodi quegli anni, del console
Marcello, e della sua morte avvenuta ad opera di Annibale nella battaglia citata, ne
parlerà anche Plutarco (46 d.C. – 127 d.C.) (4) , filosofo e scrittore greco. Altro
autore che cita Banzi è Plinio il Vecchio (23 d.C. – 79 d.C, autore che indicherà il
popolo bantino quale uno degli undici popoli che costituivano l’antica Lucania:
"Lucanorum Atinates, Bantini, Eburini, Grumentini, Valentini, Sontini, Sirini,
Turgilani,Ursentini, Volcentani quibus Numestrani junguntur " (5).
Si tratta dei popoli d’Atena, di Bantia, degli Eburini, di Grumento, di Potentia, di
Sontia, dei Sirini, dei Tergilani, degli Ursentini, dei Vulcentini e di Numistrone.
L’uomo, scienziato curioso e poliedrico, nell’anno 79 d.C., quando il Vesuvio eruttò, si
trovava in mare, quale comandante di una flotta romana. Venuto a conoscenza
dell’eruzione del vulcano volle andare ad osservare da vicino il terribile avvenimento e
recatosi a Pompei qui vi trovò la morte sotto la pioggia di ceneri che distrusse la città.
Seppure solitamente citata come appartenente alla Lucania, Bantia è situata nella zona
di confine con la vicina Daunia pugliese, ed insieme a Venusia, a Ferento (6) e
fors’anche alla stessa Acheruntia, sembra accusare, insieme a queste ultime città
menzionate, un’identità non fortemente lucana (7) perché senz’altro influenzata dalle
civitas dei popoli limitrofi, tra cui spicca la potente Canusia. Prima dell'avvento dei
romani le notizie sul territorio sul quale insiste il popolo lucano sono molto scarse o del
tutto inesistenti. E ancora più frammentarie e scarne sono le notizie riguardanti l’Alto
Bradano soprattutto in quanto si trova in una zona di confine, tra Daunia e Sannio e,
quindi, in una zona di influssi politico-culturali che s'intrecciano. Lo stesso Quinto
Orazio Flacco (65 a.C. – 8 d.C.) poeta latino nato a Venosa, avvalla dei dubbi sulla
collocazione politico-geografica di alcune città di confine della Lucania, citando
l’Apulia quale sua terra allevatrice (Altricis Apuliae) , e quindi il Vùlture, Acherontia,
Ferento e i saltus Bantinos quali facenti parte sempre della Puglia (8). Il poeta latino
dedicherà a Banzi una poesia, "Fons Bandusiae" (9), nella quale celebra la freschezza
delle acque di un’omonima sorgente.
In località Mancamasone, sempre nei pressi dell’attuale abitato, si è rinvenuta una villa
rurale del IV sec.a.C. che presenta molte analogie con le planimetrie di origine greca e
che comprende spazi residenziali, spazi per il ricovero degli animali e per la
conservazione dei cereali nonché una piccola fornace per la produzione della ceramica
di uso corrente e una piccola area religiosa privata, tipica delle residenze osco-lucane
appartenenti a famiglie abbienti (16). Un santuario indigeno risalente allo stesso
periodo è stato rinvenuto in località Fontana dei Monaci. Nell’area sacra sono emersi
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ex-voto caratteristici delle popolazioni sannitiche del IV-III sec.a.C. e monete che
attestano la frequenza del santuario sino all’età repubblicana (17). Sempre al IV
sec.a.C. si fa risalire l’aggere scoperto nel centro dell’attuale abitato con direzione NS, profondo quattro metri, e abbandonato un paio di secoli dopo. L’aggere era un
argine o terrapieno con funzioni difensive, costituito da un fossato rinforzato alle
pareti con massi, dalla cui dimensione ed orientamento sono deducibili informazioni
varie sull’area dell’abitato e sulla sua consistenza demografica.
Al periodo intorno al II sec.a.C. si dovrebbe
ascrivere l’esistenza di un probabile templum
dedicato a Giove e "custodito" dai tribuni della
plebe, stando al reperto che ad esso rimanda.
Trattasi dell’iscrizione osca di un’epigrafe
riportante " Zoves – tr. pl. " (18) , attualmente al
Museo Nazionale di Venosa insieme ai cippi
dell’auguraculum e al frammento più piccolo della
Tabula Bantina. " (...) la pietra non può che
essere è un terminus della proprietà di un santuario di Giove", scrive ancora M. Torelli
(19). La pietra riportante l’epigrafe è in granito grigio-scuro. Dello stesso materiale si
è rinvenuto nel 1998, durante i lavori di restauro del complesso badiale a fianco alla
chiesa denominato corpo C, tra le pietre costituenti un muro, il basamento di una
colonna dal diametro approssimativo di 50, 60 cm. per un’altezza quasi uguale. E
sempre nell’ambito degli stessi lavori di restauro badiale si è rinvenuto un tipico cippo
d’epoca romana in pietra calcarea, forse funerario o forse terminale riguardante
un’area sacra pubblica o privata, terminante a semi-luna, dall’altezza approssimativa di
mt. 1,30, largo una sessantina di centimetri e dallo spessore di una trentina, col testo
scritto su quattro linee senz’altro riportanti il nome dell’interessato, del dedicante e
dei suoi titoli. Da una lettura non scientifica risulta scritto:
AGASCIOAE
C ARMI YBICO
INAGR . P. XX
FR . P . XX
Sull’antichità di Banzi l’abate Antonio
Racioppi sotto la voce Bantia così scrisse
nel 1853: "(...) Gigantesche costruzioni di
macigni senza cementi, che accennano alla
supposta origine Pelasgica di Banzia, si
veggono sul pendio occidentale della
collina, che fu probabilmente l’Acropoli
della città..."(20). Se bisogna intendere
che l’acropoli fosse situato sulla collina
allora le "costruzioni di macigni senza
cemento" si troverebbero sul pendio
occidentale di questa collina. E’ comunque difficile apprezzare l’attendibilità o meno di
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tali riferimenti geografici anche alla luce dei ritrovamenti finora effettuati sulla
vasta area di alcuni chilometri quadrati che circonda l’acropoli e che va dall’area sacra
in località Fontana dei Monaci alla necropoli di Piano Carbone, dal templum augurale e
dalla rete viaria con costruzioni romane situati in località Montelupino fino alla villa
rustica di Mancamasone a ridosso di Fontana dei Monaci. Nel 1980 si scrive che
"Un’analisi anche sommaria delle strutture murarie medievali conferma infatti
l’effettivo impiego di materiali di spoglio, in particolare blocchi di grandi dimensioni
certo pertinenti ad edifici di notevoli proporzioni, forse pubblici (...)" (21). Il Racioppi
fa poi riferimento ad un’epigrafe che attribuisce al popolo bantino seppure riposta in
località molto lontana dall’Alto Bradano e dal Vulture. Così egli scrive: "(...) Ed in fine
anche chiara menzione della Repubblica dei Bantini rilevasi dal seguente titolo
sepolcrale esistente in Atena fabbricato nel sinistro lato del portone della casa
Pandolfi, secondo le assicurazioni del nostro stimabile amico Antonio Jannelli da
Brienza" (22).
M. TRAESIO. M. F.
POM. FAVSTO. SE IV
IIIIVIR QQ. POTENT
CVR. RP.
BANTINORCVR. RP. ATINATIUM OB. MERITA EIUS
DEC. AVG. ET PLEBS
CVR. L. PORC. RVFOS EX AC.
L’epigrafe è del periodo imperiale ed è dedicata a Marco Tresio Fausto che tra
l’altro ricoprì l’incarico di "curatore" sia della Repubblica dei Bantini che degli Atinati.
Si riporta la traduzione di Giovan Battista Curto:
A Marco Tresio Fausto Seniore figlio di Marco della Tribù Pontina Quatuorviro
quinquennale dei Potentini,
Curatore della Repubblica dei Bantini
Curatore della
Repubblica degli Atinati e per i suoi meriti i Decurioni, gli Augustali e la Plebe a
cura di Lucio Porcio Rufo volontariamente la tomba col denaro della colletta. E’
un’iscrizione onoraria e mortuaria insieme con la quale l’antica popolazione di Atena
Lucana volle onorare un uomo famoso dell’epoca che aveva ricoperto la carica di
Quatorviro quinquennale di Potenza e di Curatore della Repubblica di Banzi e di Atena
(22). I Curatori erano funzionari preposti alla cura e alla sorveglianza di funzioni
pubbliche. Subentrarono in età imperiale ai Censori repubblicani i quali, come è
attestato dalla Tabula Bantina, erano presenti nella magistratura di Bantia. Se ne
deduce che la Repubblica Bantina non decadde subito dopo essere nata per opera della
costituzione in municipium di Bantia, verso l’80 a.C., ma continuò ad essere tale anche
quando ai Censori subentrarono i Curatori.
I Censori, oltre alla revisione dei ruoli dei cittadini e dei loro beni nonché all’esercizio
di mansioni che riguardavano l’edile, avevano il diritto di sindacare sulla condotta
morale dei cittadini e tramite l’applicazione di note censorie potevano determinare il
loro passaggio ad una classe sociale inferiore. Erano, dunque, funzionari potenti e
temuti. L’attestazione della presenza di Curatori per Bantia, che l’epigrafe di Atena
Lucana testimonia, ci fornisce un’ulteriore data di riferimento. I Censori furono
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soppressi da Domiziano che fu imperatore dall’81 al 96 d.C. . Poiché fu lui a sopprimere
i Censori se ne deduce che Bantia continuò a godere di un senato e di uno statuto
municipale, e quindi ad essere una centro attivo, anche per tutto il I secolo dopo
Cristo. Per almeno due secoli interi è dunque ufficialmente attestata una vita
municipale continuativa e significativa. Secondo alcuni autori la fase romana si spinge
anche oltre, fino al IV sec.d.C. (23). Ed è la piana di Montelupino, già parzialmente
zona di ritrovamento dell’antico abitato romano, il sito dove il sottosuolo continua a
conservare la memoria di questo passato ancora abbondantemente sepolto. Su
ulteriori ed antiche vestigia, che dovevano essere in parte ancora visibili nel XIX sec.
vi sono altre testimonianze. "Nè ultimi ricordi sono gli avanzi di antichità che sono
rinvenuti e si rinvengono tutto giorno. Fontane di antica costruzione; reliquie di
acquedotti di canali, di pietre riquadrate, lavorate, sepolcri ed oggetti preziosi.
Rottami di pavimento e statuette di leoni, colonne di marmo Greco, medaglie e monete
di rame, di oro e di argento (...) e molte pietre specialmente travertine intagliate,
smosse dalle antiche costruzioni, si veggono adoprate nell’edificio del Monastero"
(24).
E a proposito "d’ogni specie di reperti" non è mancata la scoperta di un un tesoretto di
monete, costituito da 134 monete d’argento repubblicane, risalenti al II sec. a.C. (25),
originariamente rinvenuto in località Montelupino "(…) in occasione della scoperta di un
gruppo di sepolcri costruttivi riferibili all’epoca ellenistica, di cui, per il diretto e
tempestivo intervento della Soprintendenza, fu possibile recuperare la copiosa
suppellettile vascolare mentre si procedeva ai lavori di escavazione delle fondamenta
di un nuovo fabbricato scolastico in Banzi, nella provincia di Matera, nei primi di
maggio del 1929, fu anche possibile recuperare 129 denari della Repubblica romana,
rinvenuti otto anni prima nelle vicinanze del paese e tenuti finora nascosti" (26). Nel
prosieguo dell’articolo l’Autore riporta inoltre un paio di considerazioni che hanno a
lungo costituito dei falsi luoghi comuni sia sulla collocazione dell’antica Bantia che
dell’Abbazia benedettina. Così infatti egli scrive: " Tali denari e la suppellettile
vascolare predetta, che si riferiscono alla stessa epoca (IV – II sec.a.C.) confermano
presso Banzi di un notevole centro abitato in relazioni commerciali e culturali non solo
con altre stazioni ben note dell’alta Lucania, specie con l’omonima famosa città di
Banzia,che era ubicata a cinque miglia da Acheruntia ed a tredici da Venusia,presso gli
avanzi della Badia di S. Maria in agro di Palmira, ma bensì con città fiorenti alla vicina
Apulia, come rilevasi chiaramente dalla vernice nera e dalle figurazioni dei vasi nello
stile di Egnathia”.
Ma senz’altro il più suggestivo dei tesori che Banzi riserva non è però costituito da
suppellettili e reperti materiali, da pietre epigrafate, da preziosi prodotti orafi o da
scudi intarsiati, che pure non mancano, ma dalla suggestione di aver contribuito con la
sua orografia e la sua ancestrale esistenza di sito abitato e, quindi, leggendario, alla
nascita di uno dei miti ai quali si deve la grandezza dell’antichità classica grecoromana e dalla quale ha tratto origine il pensiero e la civiltà dell’Occidente così come
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oggi la viviamo e la conosciamo. Nella Magna Grecia, naturale estensione geografica
della Grecia e della sua civiltà, esisteva una città che aveva per nome Pandosia e ai cui
piedi scorreva il numinoso e tenebroso fiume Acheronte, da dove il traghettatore
Caronte trasmigrava le anime dei morti. E’un mito, il mito di Caronte e della
trasmigrazione delle anime. Passano gli anni e i secoli ed arriva il tempo in cui la
grandezza della civiltà greca si oscura, dovendo cedere il passo all'avanzare di Roma e
del mondo latino. Le terre, una volta della Magna Grecia, saranno ora conquistate dal
potente esercito romano che qui, nel meridione peninsulare d’Italia, vi costruirà tra
l'altro strategici presidi militari fondando nuove città. E' il caso di Maleventum, poi
Benevento, o di Venosa. Con gli anni che passano la potenza di Roma cresce penetrando
in ogni terra del mondo allora conosciuto. Il tempo trascorre anche tra l'antica gente
della Lucania, e dappertutto il corso del tempo che è avanzato ha cancellato le antiche
leggende, i miti e gli archetipi di cui si nutriva la civiltà della gente di quel tempo
remoto. Ma non tutto è scomparso perché nulla scompare. Perché dovunque c’è stato
qualcosa, questo qualcosa è stato naturalmente causa di un effetto la cui traccia, per
quanto labile e sottile, e per quanto il tempo possa aver ridotto, diluito, assottigliato o
burlonescamente camuffato, è stato e sarà sempre comunque inseguibile e
rintracciabile. D’altronde l’uomo, il grande cacciatore, cos’altro fa se non inseguire i
sogni che la materia, di cui è fatto e che lo circonda, porta con sé?
Un recente saggio critico (27), che si è avventurato durante uno di questi
inseguimenti lungo i percorsi di antichi sentieri tra filologia ed etimologia, rileva che è
più probabile che è dal nome Bandusia che derivi il nome di Pandosia, e non viceversa.
Se così fosse si deve riscrivere qualche pagina della storia mitologica che conosciamo
ed attribuire a Bantia-Bandusia l’importanza e la specificità che solitamente, invece,
lega il nome di Pandosia al mito di Caronte. Oggi il fiume che scorre nella vallata
dell'antica Bantia ha un altro nome, ma l'antico e pauroso nome di Acheronte, il fiume
di Caronte e della trasmigrazione delle anime, non è scomparso da questi luoghi, si è
solo camuffato spostandosi, quasi a volersi allontanare per essere dimenticato.
Questo nome oggi appartiene alla vicina Acerenza, l'Acherontia latina. Nel corso del
tempo le vicende degli uomini solitamente portano a cambiare la connessione dei nomi
e degli eventi che furono, ma non riescono mai a cancellare, definitivamente, la loro
memoria. Il mito di Acheronte: la vita che continua sull'altra riva del fiume. Il fiume,
l'acqua. Dalle pagine antiche della storia emerge un nome pauroso che richiama l'oltretomba e, simbolicamente, la vita che trasformandosi continua. Questi nomi e
significati ancestrali rimandano all'elemento dell'acqua e alla geografia di questa
parte dell’antica Grecia dove forti furono e rimangono le tracce e la sacralità di quegli
antichi luoghi. La vita che viene dall'acqua, e che l'acqua trasformando permette, la
ritroviamo ancora pregna dei suoi valori simbolici in un'ode che Orazio Flacco dedica
ad una sorgente bantina.
Tra Bandusia e Venusia non esistevano all'epoca altri centri. Quando nell'anno 65 a.C.
a Venosa nascerà Quinto Orazio Flacco, il poeta del carpe diem, è anche tra le terre
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collinari e i fitti boschi di Bandusia che il poeta trascorrerà i suoi anni dell'infanzia,
lasciandocene memoria. Si tratta di quando visse l'esperienza di addormentarsi nel
bosco del Vulture. Ricorderà che né l'orso e né la vipera disturbarono il suo sonno. A
raccontarlo avrebbe scommesso che la gente di Bantia, di Ferentum o di Acherontia a
malapena gli avrebbero creduto. Nulla potettero le insidie del bosco perché magiche
colombe, inviate dagli Dei, lo vegliarono. Bandusia, che era il luogo mitico delle acque
eterne che uniscono la vita e la morte tra le due rive dell'Acheronte, con Orazio
Flacco ridiventa ancora luogo di acque nell'ode che il poeta dedica ad una sua
sorgente. E' la sorgente, canta Orazio, che domani avrà in dono un capretto sulla cui
fronte stanno iniziando a spuntare le corna, promesse di battaglie amorose. Ma è
tutto invano. Le gelide acque della fonte si coloreranno del sangue che sarà versato
quando il capretto in quelle acque verrà immolato. Ma se pure il capretto morirà non
così sarà per il valore simbolico che quel sacrificio, proprio perché avvenuto nell’acqua,
porta in sé, e che i versi del poeta consegneranno all’eternità del tempo a venire quale
segno della vita che continua oltre ogni apparente fine che ha luogo nei ristretti
orizzonti della cronaca.
Quinti Horati Flacci, (Carm. III 13 )
O fons Bandusiae splendidior vitro
dulci digne mero non sine floribus,
cras donaberis haedo,
cui-frons-turgida-cornibus
primis et venerem et proelia destinat;
frustra: nam gelidos inficiet tibi
rubro sanguine rivos
lascivi suboles gregis.
Te flagrantis atrox hora Caniculae
nescit tangere, tu frigus amabile
fessis vomere tauris
praebes et pecori vago.
Fies nobilium tu quoque fontium,
me dicente cavis impositam ilicem
saxis, unde loquaces
lymphae desiliunt tuae.
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1. – Tito Livio, Lib.XXVII, Cap. I;
2. – Ibidem;
3. – Ibidem;
4. - Plutarco, in "Vite parallele”;
5. - Lib. III, 15;
6. – Trattasi dell’attuale Lavello, sempre in provincia di Potenza, e non già di Forenza.
Si veda: A.Bottini – M.Tagliente, "Forentum ritrovato", Bollettino Storico della
Basilicata, 2, 1986, p. 65 ss. ;
7. – Molte fonti classiche in effetti situano Bantia ora in Puglia, ora in Lucania. Si veda
anche:A.Bottini, in BCTGI, vol.III, 1984, pp. 391-392;
8.- Lib.III, IV ode, vers.9 segg.;
9.- Ode XIII, Libro III;
10. - C.K. Andreau in "Civiltà antiche del Medio Ofanto"- Soprintenza all’Archeologia
della basilicata , Napoli, 1976;
11. – si veda, per es., Emilio Gabba in "Roma e l’Italia", Ed. Libri Scheiwiller, Milano,
1990, pag.81;
12. – M.Torelli, "Un templum augurale d’età repubblicana a Bantia", RAL, XXI, 1966;
13. – Aldo L. Prosdocimi in "Popoli e civiltà dell’Italia antica", vol.VI, Biblioteca di
storia patria, 1982, p. 891;
Per uteriori ricerche, essendo la bibliografia sulla Tabula Bantina Osca molto vasta, ci
si limita a citare:
- A.Kirchhoff, "Das Stadtrecht von Bantia", Berlin 1853;
- A.Esmein, "La Table de Bantia, Mèlanges d’histoire du droit e de critique",Paris
1886, pp. 323-338;
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- D. Adamesteanu -M.Torelli, " Il nuovo frammento della Tabula Bantina", in Riv. Arch.
Class., XXI, 1969, pp.1-17;
- M.L.Porzio Gernia, "Contributo all’interpretazione del nuovo frammento della Tavola
Bantina scoperto
dall’ Adamesteanu", in Rendic.Lincei, XXIV, 1970, pp.319–339;
- H.Galsterer, "Die lex osc Tabulae Bantinae", Chiron, I, 1971, pp. 191–214;
14. – ibidem n. 22, p.828;
15. - Filippo Ambrosini e cav. Gennaro Ricotti, in "Per la insigne città di Banzi contro il
Pubblico Demanio nella sezione della Corte di Appello in Potenza" 11 luglio 1866 Stab.to Tipografico V. Santanello, Potenza, 1866;
16. – Gualtieri 1990, p.101 segg.;
17. – A.Bottini, "Atti Ta", 1982 (1983), pp.462-465;
18.- M.Torelli,"Una nuova epigrafe di Bantia e la cronologia dello statuto municipale
bantino"in "Athenaeum"32 –LXI
1983;
19. – Ibidem;
20. - Antonio Racioppi- Il Regno delle due Sicilie descritto ed illustrato- Napoli,
Stabilimento Tipogafico di Gaetano Nobile, 1853, I vol., pag. 284;
21. – A. Bottini in “Osservazioni sulla topografia di Bastia pre-romana”. A.I.O.N., II,
1980;
22. – Giovan Battista Curto, "Notizie storiche sulla distrutta città di Atinum lucana" ,
1901; altre notizie sull’epigrafe in CIL, X, 1, 344 così come riportato in "Bibliografia
Topografica …" di nota 33;
23. – M.Tagliente in "Banzi", Atti del convegno Basilicata, l’espansionismo romano nel
sud-est d’Italia– Venosa 1987- Ediz.Osanna 1990;
24. – Ibidem nota n. 20;
25. - Bibliografia topografica della colonizzazione greca in Italia e nelle isole
tirreniche, 3° vol., Pisa-Roma 1984, p.390;
26. - N.Catanuto, in Atti della Reale Accademia Nazionale dei Lincei- Notizie degli
scavi in antichità, vol.VIII, Roma 1933;
Aperiodico on-line di attualità e cultura
reg. del tribunale di Potenza n° 363 del 3 luglio 2007
27. – Michele Feo, docente del Dipartimento di Italianistica dell’Università di Firenze,
in “Sotto i lecci di Banzi”, Tipografia Bandecchi e Vivaldi, Pontedera 2000.
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