nuovi paradigmi per la relazione medico/paziente. Mutua

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Sulla medicina
Stefano Beccastrini
TRA FILOSOFIA E SOCIOLOGIA DELLA MEDICINA: NUOVI
PARADIGMI PER LA RELAZIONE MEDICO/PAZIENTE
MUTUA COMPRENSIONE, MEDICINA NARRATIVA, RISCOPERTA
DELLA GENEROSITA’, SLOW MEDICINE
Il rapporto tra medico e paziente rappresenta una questione nodale, assolutamente fondamentale,
dell’assetto epistemologico ed etico della medicina. Non v’è infatti alcun dubbio sul fatto che, pur
non essendo l’unica situazione di “cura” elargita dalle istituzioni sanitarie nei confronti dei cittadini,
essa è quella più emblematica, tanto che si potrebbe addirittura affermare che è proprio quando
queste due figure – alla fin fine, due esseri umani – si incontrano per la prima volta, dando inizio a
una reciproca relazione, che la “scena medica” prende vita, senso, significato. Non a caso, il
rapporto medico-paziente si pone al centro delle disci0pline orientate a riflettere “sulla” medicina
(secondo il titolo che, a suo tempo e prendendolo in prestito da un pensiero di Giorgio Cosmacini,
scelsi per questa rubrica: Cosmacini, infatti, aveva affermato “Di medicina si scrive molto, sulla
medicina si scrive poco…Una riflessione critica sulla medicina viene a latitare dagli studi medici”).
Storia, sociologia, filosofia, antropologia della medicina sono discipline che si occupano, appunto,
di questo tipo di riflessione critica: esse mirano a guardare all’arte e alla scienza medica con una
sorta di utile “sguardo dal fuori” (anche quando – e capita sempre più frequentemente anche in
Italia - a fare storia, sociologia, antropologia, filosofia della medicina sono gli stessi medici), capace
di uscire da una concezione puramente trionfalistica degli sviluppi tecnico-scientifici della nostra
professione. In Italia, tali discipline sono state a lungo tralasciate (salvo encomiabili eccezioni:
ricordo un volume di “Sociologia della medicina” curato da Maccacaro e Martinelli nell’ormai
lontano 1977, una delle cui sezioni si occupava proprio del rapporto medico-paziente; ricordo i
meritori lavori storici del già citato Cosmacini; ricordo l’immenso lavoro di filosofiz della medicina
di un precursore come Franco Voltaggio; eccetera eccetera) in anni recenti si è assistito a una
notevole crescita di interesse, in materia, anche da parte degli studiosi, e dei medici, italiani. In altri
Paesi del mondo, e in altri ambiti culturali, su simili questioni si va riflettendo da molto più tempo.
Vorrei ricordare un solo esempio. Nel 1956 – quando nel nostro Paese di “filosofia della medicina”
non parlava ancora nessuno - due medici americani, Thomas S. Sastz e Mike H. Hollander,
scrissero e pubblicarono un saggio, intitolato “Un contributo alla filosofia della medicina. I modelli
fondamentali della relazione medico-paziente”, che fu tradotto in italiano soltanto nel 1990 (e, del
resto, passò praticamente sotto silenzio). I modelli proposti erano tre:
1) attività/passività (il più tradizionale, predominante per tutta la lunga fase storica in cui l’unico
soggetto attivo, col suo sapere unidirezionale e le sue univoche decisioni, nella reazione a due tra
medico e paziente era il medico, mentre il paziente rappresentava soltanto il passivo oggetto delle
pratiche diagnostiche e delle scelte terapeutiche dell’altro);
2) guida/cooperazione (più tipico di una concezione moderna e progressiva della medicina, che
vede il medico fare, appunto, da guida tecnicamente sapiente ma anche consapevole del proprio
ruolo pedagogico, nei confronti di un paziente chiamato comunque a cooperare attivamente alla
promozione della propria salute);
3) mutua comprensione (si tratta di un modello fondato sull’incontro umanamente paritario, seppur
necessariamente asimmetrico, tra due persone e due storie che, prima di tutto, debbono imparare a
narrarsi e comprendersi nei loro differenti saperi, linguaggi, bisogni, aspettative, soggettività, paure)
Rispetto a questo terzo, e astrattamente auspicabile, modello Sastz e Hollander scrivevano, nel
1956, che esso continuava a risultare “…sostanzialmente estraneo alla medicina…”. Tale,
probabilmente, continua a restare ancora oggi ma alcuni segnali parrebbero andare proprio in tale,
innovativa direzione. Va certamente in tale, innovativa direzione la nascita e l’affermarsi, negli
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USA ma poi – seppur con maggiori timidezze – anche in Italia, della cosiddetta “medicina
narrativa” (o, più precisamente e in assonanza con il concetto di Evidence Based Medicine,
Narrative Based Medicine). In Usa ne è stata la maggiore promotrice la dottoressa Rita Charon,
docente di clinica medica e direttrice del programma di medicina narrativa della Columbia
University nonché autrice di un volume intitolato, appunto, “Narrative medicine”. In un’intervista
pubblicata sul settimanale italiano L’Espresso nel giugno scorso, la Charon ha affermato che “La
medicina moderna agisce sotto la spinta perenne della velocità da un lato e degli aspetti tecnici
dall’altro, concentrandosi sulla patologia a scapito della malattia, dell’affezione nel senso più ampio
del termine. La capacità di ascoltare e rispettare i malati nel momento della loro sofferenza è assai
difficile da insegnare e imparare e richiede più tempo e denaro rispetto all’insegnamento e
all’apprendimento di un atto medico o strumentale…In altre parole, il mestiere del medico oggi è
condizionato, deformato dall’avidità e in questo contesto non c’è molto interesse a promuovere un
approccio culturale che rende poco e che richiede investimenti…”.
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E, tuttavia, le idee della Charon si sono diffuse, affermate anche fuori dall’ambiente medico
americano, trovato estimatori e cultori anche in Europa e in Italia (basti ricordare le opere di
Giorgio Bert e Silvana Quadrino o di Vincenzo Masini), dando così l’avvio a un modo di praticare
la medicina più umanistico, più attento al bisogno del malato di raccontare e dare un senso alla
propria esperienza di disagio e sofferenza, più capace di creare – come dicevano oltre mezzo secolo
fa Sastz e Hollander – momenti di “mutua comprensione” tra il medico e il suo paziente. E’ una
profonda rivoluzione, insomma, quella che va emergendo, così epistemologica come etica, così
scientifica come morale.
Qualcuno, e precisamente il dottor Arthur Frank, sociologo (anche della medicina e in particolare
della relazione medico-paziente, oltre che studioso di Marx, Althusser, Habermas) presso la Calgary
University, in un suo libro di pochi anni fa. ha parlato di “rinnovamento (o riscoperta) della
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generosità” (il titolo esatto è “The Renewal of Generosity. Illness, Medicine and How to Live”).
Siamo probabilmente di fronte, insomma, all’emergere di un paradigma nuovo, più mite e
rispettoso, più attento ai bisogni dell’essere umano che sta dietro il paziente (ma anche dietro al
medico). Va in tale direzione anche il movimento nato a Ferrara, il 29 giugno scorso, e denominato
Slow Medicine (il riferimento/omaggio è a quello, fondato da Carlo Petrini e ormai diffuso in tutto
il mondo, di Slow Food e il simbolo sono due chioccioline che parlano tra loro, probabilmente un
paziente e un medico). Ne sono fondatori sedici medici italiani (tra i quali anche il sottoscritto) che
intendono costruire una rete – speriamo assai vasta – di professionisti desiderosi di dar vita a una
medicina a misura d’uomo, non più schiava della fretta, della tecnologia, dell’innovazione a tutti i
costi. La medicina auspicata da Slow Medicine vuole andare verso una nuova qualità della cura,
fatta di efficacia e umanità, di assistenza e di ascolto, di competenza clinica e abilità sociale,
convinta insomma che fare di più non significa necessariamente fare meglio, che i valori e le
aspettative delle persone sono – anche quando diventano “pazienti” – diversi ed inviolabili, che gli
interventi diagnostici e terapeutici debbono essere appropriati, tagliati su misura per il soggetto
sofferente, egualitari ossia accessibili a tutti i cittadini, qualunque sia la loro provenienza geografica
o sociale. I tre aggettivi che più ricorrono, per caratterizzare il movimento, nel Manifesto di Ferrara
sono, in riferimento alla medicina, “sobria, rispettosa, giusta”. A me, a Ferrara, veniva in mente di
continuo il modello filosofico della “mutua comprensione”, elaborato e proposto mezzo secolo fa da
Sastz e Hollander. Forse si può fare in modo che esso cessi di essere, per la medicina del nostro
tempo, “sostanzialmente estraneo”.
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