Il modello Gestaltista

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Modello di lezione per la realizzazione del corso di
perfezionamento sui Nuovi Saperi
Nota. La presente lezione è concepita per utilizzare le nuove tecnologie
multimediali dello Streaming messe a punto da Microsoft. In una finestra uno
speaker/docente presenta gli argomenti, mentre in un’altra finestra (lavagna
multimediale) compaiono scritte, simulazioni, video , immagini.
Introduzione
Progettare l’apprendimento vuol dire tenere in considerazione una serie di fattori
che lo possono influenzare e analizzare le possibilità di realizzazione
metodologica e pratica che attualmente la ricerca psicologica sul settore offre per
poter utilizzare diversi modelli di trasmissione della conoscenza o di acquisizione
di conoscenza da parte dei soggetti.
Per espletare questo compito presentiamo una serie di modelli di apprendimento,
fra i quali o scegliere come base teorico-concettuale per il proprio insegnamento;
oppure, attraverso una serie di felici “contaminationes”, estrapolare da modelli
generali quello che più di adatta con il proprio stile di insegnamento e soprattutto
con le esigenze e gli stili di apprendimento della classe.
La lezione prevede una voce fuori campo che legge. Immagini di insegnanti
che fanno lezione e di bambini che ascoltano attentamente la lezione. Opzione
breve filmato di 30 secondi sullo stesso argomento.
Definizione di apprendimento
L'apprendimento può essere definito come un cambiamento nelle attitudini o
capacità umane, che può essere conservato e che non si può semplicemente
attribuire al processo della crescita. Questo cambiamento, secondo gli studiosi, si
manifesta come un cambiamento nelle conoscenze, negli atteggiamenti, quindi
nelle performance. Per Darwin, l'apprendimento è un processo di adattamento
dell'organismo all'ambiente.
PRIMA DELL'APPRENDIMENTO
X CONOSCENZE
+
PROCESSO DI
APPRENDIMENTO
= X, Y, Z CONOSCENZE
Inizi del modello comportamentista
Il Comportamentismo o Behaviorismo è una teoria dell’apprendimento animale e
umano che si concentra esclusivamente sul comportamento osservabile e scarta
completamente le attività mentali. Il modello comportamentista si basa infatti
sulla concezione che si possano studiare scientificamente solo i fenomeni
oggettivi, per cui trascura la mente e si concentra sul comportamento. Quindi
utilizza un modello che viene definito Stimolo- Risposta (S-R).
MODELLO
S-R
STIMOLI
DALLO
AMBIENTE
OR
GA
NI
SMO
RISPOSTE
COMPORTAMENTALI
Commento al modello: Il riflesso nervoso (condizionato ed incondizionato) è una
tipica risposta dell'organismo a stimoli ambientali.
Segue un filmato di un soggetto che si scotta un dito.
Una delle più antiche scuole di pensiero nella psicologia americana risale agli
associazionisti i cui studiosi si dedicarono sostanzialmente al problema della
formazione nella mente umana di idee complesse e sostenevano che per
l'acquisizione di una nuova idea era necessaria la contiguità delle sensazioni e la
ripetizione di questi eventi contigui.
In seguito, la psicologia americana ha cominciato ad utilizzare animali per la
ricerca sull'apprendimento. Thorndike (1898), attraverso l'osservazione di cani,
gatti e polli dai labirinti, trasse la conclusione che molte opinioni sul pensiero
degli animali erano sbagliate perché attribuivano alla loro intelligenza possibilità
maggiori di quelli effettive.
Thorndike riteneva che l'apprendimento negli animali può essere spiegato nella
relazione tra le sensazioni e gli impulsi dell'azione e credeva che associazioni di
questo genere avessero una grande importanza anche nell'apprendimento umano.
Da alcuni esperimenti, Thorndike concluse che le risposte corrette sono rafforzate
dalla soddisfazione, e chiamò questa generalizzazione "legge dell'effetto".
Inserire legge dell'associazione e legge dell'effetto
STIMOLO A
CONTIGUITA'
STIMOLO B
PRODUCE
L' ASSOCIAZIONE
Altre ricerche svolte con l'ausilio di animali sono quelle condotte da P. Pavlov
(1927), (inserire immagine di Pavlov) il quale scoprì che, suonando un
campanello mentre si mostrava del cibo a un cane affamato, e ripetendo questa
serie di eventi varie volte, si portava il cane a salivare al solo suono del
campanello. Mentre la salivazione alla vista del cibo poteva essere considerata
una risposta naturale (o non condizionata), la salivazione al suono del campanello
doveva essere acquisita come risposta condizionata. Quindi Pavlov chiamò la
risposta istintiva naturale e incondizionata riflesso incondizionato e quella
associata per apprendimento e non naturale riflesso condizionato.
I teorici del Behaviorismo definiscono l’apprendimento come l’acquisizione di
nuovi comportamenti. Gli studiosi behavioristi ritengono che il condizionamento
sia un processo universale di apprendimento. Esistono due tipi differenti di
condizionamento, ognuno dei quali si basa su differenti modelli comportamentali:
1. Condizionamento classico, avviene quando un riflesso naturale risponde ad
uno stimolo condizionato. E’ l’esempio del cane di Pavlov.
2. Il condizionamento operante avviene quando una risposta casuale ad uno
stimolo viene rinforzata. Il condizionamento operante è un semplice sistema di
feed-back: se un premio o un rinforzo segue la risposta comportamentale ad
uno stimolo, allora tale risposta diventa più probabile in futuro.
Skinner utilizzando un apparato sperimentale condizionava dei ratti assetati o
affamati a bere e/o a mangiare, premendo più volte una levetta che consentiva il
rilascio di acqua o di cibo. Gli animali inizialmente scoprivano la funzione di
questo meccanismo per caso; ma per la legge dell'effetto di Thorndike
associavano abbastanza rapidamente il rinforzo (arrivo di acqua o di cibo), come
effetto dell'azione di pressione sulla levetta, quindi si autocondizionavano
attraverso il loro operare. Pertanto tale condizionamento viene chiamato operante;
mentre in quello classico (di Pavlov ) non è l'operare dell'animale ma quello dello
sperimentatore che somministra il rinforzo. Il risultato di entrambi tali tipi di
comportamento è comunque un apprendimento.
Immagini di Pavlov e di skinner.
Gabbia di Skinner e comportamento del ratto
Gli psicologi hanno scoperto anche altre forme di apprendimento come vedremo
di seguito.
Nell'ambito del modello Comportamentista, Gagnè (1973) distingue otto varietà di
apprendimento.
a. Apprendimento di segnali. Consiste nell'apprendimento di segnali di tipo
emotivo ed è molto familiare sia negli animali domestici che negli uomini. Una
situazione di apprendimento di segnali molto studiata negli uomini è il battito
degli occhi. Se si soffia un po' d'aria sulla cornea, l'occhio batte rapidamente.
b. Apprendimento stimolo-risposta, attraverso questa modalità la risposta
acquisita dal soggetto è un comportamento non emotivo ma preciso e circoscritto
chiamato anche condizionamento operante. Questo apprendimento implica una
sola connessione tra uno stimolo e una risposta e consiste in una serie di
discriminazione tra stimoli che producono un compenso e stimoli che non lo
producono.
c. Concatenazione motoria, si tratta di sequenze si connessioni S-R che si
manifestano nella vita quotidiana. Un tipico esempio è la capacità appresa di
aprire una porta con una chiave. Ogni atto della sequenza deve essere eseguito
correttamente e nel giusto ordine. Un soggetto può essere predisposto ad
apprendere una catena di questo genere tramite istruzioni verbali, ma affinché la
catena si stabilisca è necessaria una qualche soddisfazione.
d. Concatenazione verbale, è l'apprendimento di associazioni verbali mediante cui
il soggetto apprende il nome degli oggetti. La capacità di chiamare un oggetto per
nome è costituita da una catena di almeno due anelli: il primo è una risposta di
osservazione, il secondo è uno stimolo che spinge il soggetto a dire il nome
dell'oggetto. Alcuni studi hanno dimostrato che nella maggior parte dei casi il
modo migliore per questo tipo di apprendimento è quello chiamato "partizione
progressiva", nel quale il soggetto aggiunge sempre un nuova parte man mano che
ripete quelle vecchie.
e. Apprendimento per discriminazione, è la capacità di fornire risposte diverse
agli elementi-stimolo di uno stesso gruppo, discriminando i tratti distintivi degli
oggetti. Una volta apprese, le connessioni stimolo-risposta possono essere
collegate in catene con lo scopo di generare capacità più complesse.
f. Apprendimento di concetti, è la capacità di dare una stessa risposta ad oggetti
o stimoli appartenenti a una stessa classe. L'apprendimento di concetti non è
necessariamente una questione verbale, ma è un risultato chiaro che i
suggerimenti verbali facilitano l'apprendimento nei soggetti che possiedano già
alcuni prerequisiti fondamentali. Tali elementi essenziali sono una serie di catene,
verbali o no, che devono essere state già apprese. Un ruolo importante per questo
di tipo di apprendimento è svolto dal rinforzo. Se si desidera che il concetto sia
appreso è necessario confermare la risposta del soggetto a un nuovo gruppo di
stimoli. Una volta appreso un concetto, l'individuo è in grado di generalizzarlo,
cioè di applicarlo ad altre situazioni di stimoli che non hanno avuto parte
nell'apprendimento stesso.
g. Apprendimento di concetti definiti o regole, è una modalità che si riferisce a
concetti che vengono appresi per definizione e interessano la situazione scolastica.
Questo apprendimento presuppone un principio generale che mette in grado
l'individuo di rispondere a un'intera classe di situazioni-stimolo. L'abilità
dell'uomo di rispondere alla grande varietà di situazioni nelle quali opera, porta a
credere che le regole siano il più importante fattore di organizzazione nelle
funzioni intellettuali. È essenziale distinguere tra una regola come capacità inferita
e la rappresentazione di una regola come enunciato verbale. Per verificare se una
regola è stata appresa effettivamente è necessario scoprire se il soggetto è in grado
di identificare i concetti che compongono la regola stessa e stabilire i rapporti tra
questi. È stato dimostrato che chi apprende solo gli enunciati verbali delle regole,
ne dimentica una gran parte nel giro di un mese.
h. Soluzione di problemi, per risolvere un problema bisogna applicare regole già
note per ricavare una regola di ordine superiore che entra a far parte del repertorio
individuale. L'attività di problem-solving è un'estensione naturale
dell'apprendimento di regole. Quando un individuo si trova in una situazione
problematica cerca di ricordare tutte le regole apprese in precedenza per trovare
una soluzione. Nel momento in cui trova una combinazione di regole che gli
appare giusta, non solo ha trovato la risposta al suo problema, ma ha anche
appreso qualcosa di nuovo, cioè la capacità del soggetto è cambiata in modo più o
meno permanente. Il modo migliore per risolvere problemi è quello di procedere
un passo alla volta e illustrare i cambiamenti determinati dall'uso di una regola.
Quindi il problem-solving richiede che il soggetto scopra la regola di ordine
superiore senza un aiuto specifico.
Il modello Gestaltista
L’opera più completa e sistematica sull’apprendimento della scuola della Gestalt
è quella di Koffka (1935), che prende in esame i vari contributi dei gestaltisti.
I precursori del Cognitivismo sono senza dubbio i gestaltisti che, nello stesso
periodo in cui Watson in America pubblicava il suo primo scritto, in Europa
costituivano un nuovo movimento che si occupava di fenomeni percettivi.
Entrambi i movimenti, sia quello di Watson, sia quello dei gestaltisti, si
opponevano alla stessa tradizione degli studi sulla coscienza di Wundt, anche se
Watson (1925) risolveva il problema negandone radicalmente l’esistenza, mentre
Wertheimer, fondatore del movimento della Gestalt, ne condannava
l’atomizzazione eccessiva e l’analisi meticolosa, optando per un ritorno
all’interezza dell’esperienza, ad uno studio delle forme unitarie della coscienza.
Il campo privilegiato dai gestaltisti fu lo studio della percezione, analizzando
principalmente le leggi di strutturazione e di organizzazione di tale processo. In
seguito, data la diffusione degli studi sul condizionamento, essi tentarono di dare
il loro contributo sull’apprendimento, proponendone un’interpretazione
alternativa.
In particolare, a quegli approcci che concentrano l’attenzione su questioni relative
a come uno stimolo diventa condizionato, oppure a come agisce un rinforzo in
modo da determinare l’aumento di probabilità dell’emissione di una risposta, la
Gestalt contrappose un tipo d’apprendimento concepito come un processo di
passaggio da una situazione in cui qualcosa non è chiaro, non è coerente, non è
riconoscibile, ad uno stato in cui la situazione diventa chiara, acquista senso,
coerenza, è compresa, è collegata al tutto.
L’apprendimento attraverso le leggi dell’associazione, secondo i Gestaltisti, è solo
una caricatura priva di senso dell’apprendimento reale. L’apprendimento è, a loro
avviso, caratterizzato piuttosto dalla penetrazione e dalla comprensione del cuore
di una situazione, dei suoi aspetti essenziali, della comprensione della natura e
della struttura del materiale oggetto d’apprendimento, e dall’effetto rinforzante in
quanto soddisfacente. Si può osservare nei gestaltisti un impiego delle leggi e dei
costrutti del campo percettivo, anche a proposito dell’apprendimento (cfr., ad
esempio, Wertheimer, 1945). I Gestaltisti quindi generalizzarono
all'apprendimento alcune delle leggi fondamentali che avevano scoperto studiando
il fenomeno percettivo.
La legge della prossimità o della vicinanza, riguarda il modo in cui gli elementi di
una situazione data tendono a raggrupparsi nello spazio, secondo la loro
disposizione. Kohler (1940), ad esempio, partendo da tale principio, spiega che,
per una scimmia, è più facile scoprire che si può servire di un bastone per
raggiungere il cibo, se entrambi, bastone e cibo, si trovano vicini, dalla stessa
parte della gabbia.
La legge della chiusura, secondo Wertheimer, spiega che le superfici chiuse
tendono ad essere percepite come delle unità. Nell’apprendimento, l’esperienza
dell’insight, secondo l'autore, è un indice che qualcosa si è mosso in modo da
permettere la chiusura, il completamento della situazione, mettendo un certo
numero d’elementi originariamente disgregati in relazione reciproca.
Sia per i gestaltisti sia per gli associazionisti l’apprendimento è facilitato dal
rinforzo e dalla soddisfazione che ne consegue, anche se per i primi la
soddisfazione deriva dall’apprendimento stesso, mentre per gli associazionisti
deriva da un agente esterno.
L’apprendimento in Kohler. Il più celebre modello d’apprendimento gestaltista
è quello proposto da Kohler, che studiò durante la prima guerra mondiale
l’intelligenza negli animali, non maturando quindi le sue riflessioni in ambito
scolastico. Il problema che Kohler mise in evidenza fu la comparazione fra
intelligenza biologica ed artificiale (tema diventato in seguito di grande interesse,
cfr. Bilotta et al., 1989), utile per comprendere il costrutto di insigh, che ricorre
negli altri modelli di stampo gestaltista, quello di problem solving e di
apprendimento intelligente radicalmente diverso da quello proposto in ambito
associazionista.
Thorndike, uno dei maggiori esponenti dell’associazionismo, sosteneva che il
soggetto dinanzi al problem solving procede secondo tentativi casuali ed errori.
Kohler riteneva invece che i soggetti fossero capaci di risolvere i problemi in
modo intelligente e soprattutto creativo. L’autore osservava delle scimmie in
situazioni problematiche: del cibo era collocato fuori dalla loro portata,
appendendolo al tetto o mettendolo fuori della gabbia; alcuni “strumenti” erano
utilizzabili per raggiungere il cibo e per risolvere il problema.
Sulla base delle osservazioni Kohler concluse che le scimmie pervenivano alla
soluzione in modo improvviso, spesso addirittura dopo dei periodi trascorsi senza
compiere alcun tentativo osservabile per raggiungere il cibo. Ciò lo portò a
ritenere che si trattasse di un processo intuitivo, frutto di un insight conseguente
alla ristrutturazione cui l’animale aveva sottoposto la situazione percepita.
Inserire disegni sull'aggiramento di Koehler
L’apprendimento in Wertheimer. Il metodo seguito da Wertheimer al fine di
osservare sistematicamente i processi cognitivi implicati nel pensiero “produttivo”
consisteva nel porre il soggetto dinanzi ad un problema ed esaminare poi le fasi
dello svolgimento fino alla soluzione, con commenti verbali fatti dallo stesso
soggetto durante lo svolgimento con il metodo della riflessione parlata.
Secondo Wertheimer, a scuola era dato troppo spazio alla memorizzazione
meccanica a scapito della comprensione. In altre parole, gli studenti erano educati
a procedere secondo uno stile meccanico e riproduttivo. Egli distinse pertanto due
stili nei procedimenti usati per risolvere i problemi. Il metodo <<A>>,
caratterizzato dal rifiuto di applicare meccanicamente delle procedure note,
cercando di comprendere la situazione e dopo di escogitare un procedimento
intelligente, genuino, originale. Il secondo tipo di soluzione, <<B>>,
caratterizzato invece dalla tendenza a risolvere il problema semplicemente
applicando delle regole o delle procedure acquisite in precedenza.
Wertheimer è considerato il più acceso sostenitore dell’apprendimento intuitivo.
Per lui l’apprendimento si autoproduce all’interno di ciascuna situazione appena il
soggetto scopre la possibilità di modificare l’ordine e il rapporto delle strutture
che le regolano. Dunque l’apprendimento è un processo nuovo, euristico e
creativo che non trae utilità dalla ripetizione meccanica. Wertheimer ha il grosso
merito di aver osservato direttamente come gli allievi risolvono i problemi in
situazioni reali, stando in classe come osservatore e facendo uso del metodo della
riflessione parlata. Spesso, infatti, si limitava a descrivere il dialogo interno
prodotto da alcuni soggetti durante la risoluzione dei problemi, risalendo in tal
modo alle osservazioni ed alle operazioni da loro messe in atto.
Il contributo di Duncker. Tra gli studi sull’apprendimento scolastico da parte
degli psicologi della Gestalt, il contributo di Karl Duncker è rilevante in quanto
fornisce ulteriori specificazioni relative alla comprensione del processo d’insight,
implicito nella risoluzione dei problemi e fornisce utili osservazioni riguardo alle
condizioni che facilitano o impediscono di risolvere celermente e in modo
produttivo i problemi.
Tra gli scritti più rilevanti al riguardo è da considerare “La psicologia del pensiero
produttivo” del 1969, in cui Duncker riassumeva sua posizione
sull’apprendimento scolastico.
L’autore (Duncker, 1945), per studiare e osservare i processi del pensiero e
dell'apprendimento, analogamente al suo maestro Wertheimer, poneva i soggetti
dinanzi a situazioni di problem solving. Al fine di seguire accuratamente i processi
cognitivi, somministrato lo stimolo, faceva riferimento al comportamento
osservato durante l’esecuzione, ai commenti verbali fatti dal soggetto durante
l’esecuzione stessa, ed ai protocolli introspettivi raccolti dopo il compito.
Duncker asserisce che il processo sottostante la risoluzione di un problema
consiste in un insight che dà luogo alla ristrutturazione della situazione del campo
cognitivo. Egli precisa che un problema sorge quando un soggetto ha un obiettivo
da perseguire e non sa come fare per raggiungerlo; quando, data una situazione A,
vissuta come insoddisfacente, non è immediato il passaggio alla situazione B
desiderata, soddisfacente e risolutoria. Nel tentativo di gettare un ponte tra tali due
situazioni, il soggetto ricorre al pensiero, alle capacità superiori, costruendo il
ponte stesso con l'apprendimento, come forma di adattaemento.
Affinché un soggetto possa giungere a scoprire una soluzione, il primo passo è la
comprensione della situazione. Comprensione vuol dire cogliere la struttura di
una situazione, le varie relazioni, i rapporti che intercorrono tra le sue componenti.
Vuol dire quasi avere una visione, una percezione interiore della struttura e della
rete di relazioni. Il risultato della comprensione così intesa, è indicato come
insight che può essere totale o parziale.
L’insight è definito totale qualora la struttura o l’insieme di relazioni di una
situazione siano completamente ed adeguatamente compresi da parte di un
soggetto. Secondo Duncker, inoltre, l’insight totale può essere frutto di una lettura
sintetica o analitica. Per comprendere tale distinzione bisogna prima di tutto
affermare che qualcosa può essere contenuto costitutivamente, “come una parte
del tutto, in modo cioè che risulta sì dal tutto, ma non dalle altre parti”, oppure
non costitutivamente, “come conseguenza risultante dagli altri elementi del tutto”
(Duncker, 1969).
In altre parole, la lettura di un certo insieme di dati, di una situazione, è analitica
qualora fossero evidenziati dei rapporti già contenuti nella situazione come
elementi costitutivi. Una lettura è invece sintetica qualora l’esame di una
situazione permetta di intravedere dei rapporti nuovi, delle relazioni fino a quel
momento non viste.
Accanto all’insight totale, Duncker analizza altri casi in cui l’insight è parziale. Si
tratta di situazioni dove, dati certi eventi, soltanto alcuni aspetti relazionali sono
colti. Dagli studi condotti con studenti di scuole superiori ed universitari, Duncker
giunse alla conclusione che solo in pochi casi è possibile risolvere un problema in
un solo colpo, solo in pochi casi è possibile giungere alla “forma finale di ogni
singola proposta di soluzione”, in un solo passaggio a partire dalla impostazione
originaria del problema, a meno che non si tratti di problemi semplici. Al
contrario, invece, il processo di soluzione è caratterizzato da vari passaggi e da
varie fasi intermedie, oltre che da una successione di ristrutturazione e di
riformulazione del problema stesso.
Duncker al riguardo precisa che esistono due stili o modalità tipiche di affrontare
un problema, di ricercarne la soluzione. Il primo stile è definito dall’alto, o analisi
dell’obiettivo: il soggetto, posto dinanzi al problema, parte dall’obiettivo, analizza
prima di tutto cosa è richiesto ed è un po’ come se si chiedesse “cosa non va, cosa
devo aggiungere?”; riformula il problema determinando il “valore funzionale”
della soluzione e dopo cerca di scoprire “mediante che cosa” concretizzare tale
principio.
Il valore funzionale costituisce il senso, il principio generale da cui la soluzione
dipende, mentre il “mediante cosa” costituisce la concretizzazione specifica di tale
principio. Se ad esempio il problema è quello di dover raggiungere il cibo nella
gabbia, se la scimmia procede secondo tale stile cercherà prima di tutto di
analizzare l’obiettivo e di riformulare il problema nei seguenti termini: “occorre
qualcosa per raggiungere il cibo”. L’utilizzo del bastone o delle casse per
raggiungerlo costituisce la concretizzazione di tale principio, il “mediante che
cosa”.
Il secondo stile di risoluzione è invece detta dal basso. Contrariamente allo stile
precedente, dove il soggetto parte da ciò che è richiesto, qua il soggetto parte da
ciò che è dato. In questo caso se la scimmia procede secondo lo stile “dal basso”,
può partire dal prendere in esame quello che ha a disposizione dentro la gabbia e
così, trovando delle casse o dei bastoni chiedersi che funzione possono avere,
come si possono utilizzare. Tale processo di riferimento, esplorato soprattutto in
campo percettivo, è noto come dipendenza-indipendenza dal campo o modalità
globale-analitica. Nella modalità dipendente dal campo l’attività percettiva tende
ad essere dominata dall’organizzazione del campo e le parti sono sperimentate
come fuse. Nella modalità indipendente dal campo le parti sono percepite in modo
articolato.
Alcuni autori affermano che i soggetti che prediligono la modalità dipendente dal
campo, se la cavano meno bene nei problemi che richiedono l’isolamento degli
elementi essenziali dal contesto in cui sono presentati e l’uso in situazioni
differenti. Sono persone soggette, in altre parole, al fenomeno della fissità
funzionale di cui tratta Duncker. Quest’ultimo, infatti, studiando il processo di
soluzione dei problemi, precisa che al fine di scoprire una soluzione, occorre
ristrutturare prima di tutto la situazione per giungere poi a nuovi insight (totali o
parziali). Il processo di soluzione può iniziare “dall’alto” o “dal basso” ed è
caratterizzato da una successione di passaggi intermedi che possono essere
influenzati positivamente o negativamente da varie condizioni. Una classe
specifica di soluzioni, che ha effetto limitante, in quanto disturba il processo di
soluzione, è data dalla “fissità funzionale”. Si tratta pertanto di preferenze che vari
soggetti possono presentare nel processo di problem solving. Il successo dell’uno
o dell’altro stile, peraltro, dipende spesso dal tipo di problema. Così, ad esempio,
dinanzi a problemi e/o obiettivi, definiti con precisione, con materiale da usare
non ben definito, può essere proficuo procedere partendo “dall’alto”. Mentre nel
caso opposto, dove in altre parole sono dati con precisione gli elementi, ma non è
definito con chiarezza l’obiettivo del problema, può essere preferibile procedere
“dal basso”, analizzandolo in pratica
I due stili descritti, secondo Duncker, non sono indipendenti: un soggetto che
parte “dall’alto” deve necessariamente prendere in considerazione le proprietà
materiali e funzionali del materiale disponibile.
Un altro punto su cui Duncker insiste riguarda i fattori e le condizioni che
influiscono, facilitando o disturbando, nel processo di soluzione di un problema.
Egli dedica la terza parte della sua monografia alla discussione di tali
problematiche tentando di dare qualche risposta.
La possibilità di individuare e di cogliere ulteriori relazioni sulla base degli
elementi di una situazione data, la capacità di manipolare e di guardare la
situazione da più punti di vista, la molteplicità di prospettive, facilitano il processo
di scoperta. Altri soggetti, invece, a causa di tendenze autolimitanti, per “fissità”,
impediscono a se stessi di vedere certi aspetti, di cogliere certe relazioni.
Il fenomeno, noto come “fissità funzionale”, ha come effetto quello di precludere
al soggetto alcune direzioni lungo le quali il pensiero potrebbe proficuamente
muoversi nella ricerca di soluzioni. Tali tendenze sono dovute principalmente al
fatto che il precedente uso, l’esperienza di certi oggetti, impedisce o rende più
difficile, in situazioni future, un impiego diverso degli stessi.
L’apprendimento in Katona. Un problema su cui vari studiosi hanno focalizzato
l’attenzione riguarda l’apprendimento meccanico contrapposto a quello
intelligente o per comprensione.
Il contributo di Katona (1940) permette di comprendere meglio la distinzione tra
un “apprendimento cieco” ed uno intelligente. Egli ipotizzò due processi diversi
che conducono a risultati differenti. In particolare, nel caso dell’apprendimento
cieco, le connessioni si stabiliscono mediante le tecniche del condizionamento o
della ripetizione. L’apprendimento di tipo intelligente è, invece, caratterizzato
dalla “percezione delle relazioni” intrinseche all’oggetto di studio, “dalla
comprensione di un procedimento”, “dalla penetrazione di una situazione”.
In particolare, prendendo ad esempio un’equazione, che ricorre spesso
nell’apprendimento scolastico, si può imparare a recitarla a memoria, tramite
ripetizione continua, oppure comprenderne la struttura, gli elementi e le relazioni
intrinseche tra loro. Nel primo caso, non fa alcuna differenza, secondo Katona, se
al posto di uno dei due membri mettessimo altro.
Nell’apprendimento intelligente, invece, poiché il soggetto coglie la struttura di
relazioni intrinseche tra gli elementi, se non ricorda uno dei due membri
dell’equazione, ragionando e basandosi sul principio generale può ricostruirlo,
ricavarlo, dedurlo, in quanto i contenuti dei due membri dell’equazione sono
connessi in modo significativo. Coerentemente ai principi della teoria della
Gestalt, la significatività nasce dal tutto, dal contesto, dalla struttura e dalla rete di
relazioni che caratterizza una situazione. Egli precisa che un comportamento
significativo o un completamento significativo, si possono considerare tali nella
misura in cui sono strutturati e organizzati, in modo che il posto d’ogni unità non
sia stabilito arbitrariamente, ma derivi dalla struttura dell’insieme della situazione.
Gran parte dell’apprendimento scolastico, secondo Katona, può essere attuato sia
in modo intelligente, comprendendone il significato e le relazioni intrinseche, sia
in modo mnemonico o meccanico.
A sostegno dell’idea secondo cui esistono materiali acquisibili soltanto per
comprensione autentica, Katona propoveva esperimenti in cui bisognava
apprendere un principio. Da essi risultò che coloro i quali non comprendono il
principio sovraordinato, necessario per risolvere il problema, non riuscivano di
conseguenza ad apprendere, in quanto le informazioni ricordate subito dopo il
compito, ben presto erano dimenticate completamente.
Pertanto al fine di stabilire se uno studente ha appreso in modo intelligente o in
modo cieco, secondo Katona si può far riferimento a due criteri che differenziano
i processi: il transfer e il ricordo. Nell’apprendimento di tipo meccanico il transfer
dipende dall’identità tra gli elementi della nuova situazione da apprendere e
quell’iniziale risultando pertanto molto limitato. Nell’apprendimento per
comprensione, poiché invece il risultato è l’acquisizione di un principio, la
possibilità d’applicazione, di generalizzazione, di transfer a situazioni nuove e
differenti aumenta notevolmente.
Per quanto concerne il ricordo, come criteri per differenziare i due tipi di
apprendimento, Katona asserisce che l’apprendimento significativo facilita la
ritenzione ed il ricordo in quanto è meno soggetto all’oblio dell’apprendimento
cieco che invece segue la legge di H. Ebbinghaus. Pertanto se l’insegnante
propone agli allievi dei compiti che richiedono la costruzione della soluzione,
piuttosto che la riproduzione, sarebbe meno difficile stabilire se ha appreso in
maniera intelligente oppure meccanica.
Gli studiosi della scuola gestaltista hanno in genere sostenuto la superiorità
dell’apprendimento attraverso la comprensione intelligente, sia per quanto
riguarda la ritenzione sia per quanto riguarda il transfer di conoscenza da un
dominio all’altro e gli aspetti creativi dello stesso.
La significatività dell’apprendimento è sostanzialmente intesa come comprensione
sia dei principi, delle idee organizzatrici intrinseche all’oggetto d’apprendimento,
sia della struttura di relazione.
Il pensiero degli autori presentati verte su alcuni punti essenziali:
a) l’apprendimento dipende dalla percezione della situazione;
b) l’apprendimento dipende dalla struttura del materiale appreso;
c) la comprensione facilita il transfer a situazioni nuove;
d) l'apprendimento per comprensione risulta in sé rinforzante.
Gli psicologi della Gestalt hanno di solito studiato i processi d’apprendimento
usando come stimolo il problem-solving. L’attività principalmente studiata è
l’euristica e il processo maggiormente evidenziato è l’induzione.
I processi più studiati sono fondamentalmente l’astrazione, l’organizzazione e la
riorganizzazione, la scoperta di relazioni.
Piaget e la teoria dello sviluppo
J. Piaget diede un originale impulso allo studio del pensiero e dell’intelligenza nel
bambino giungendo ad una concezione che fu detta “ degli stadi” secondo cui
dalla nascita all’adolescenza il pensiero si sviluppa attraversando stadi di
complessità crescente.
Piaget individuò i meccanismi e le tappe che portano il pensiero e l’intelligenza
dalle forme realistiche e concrete dei primi anni di vita alle capacità operatorie e
alla logica formale e astratta dell’adolescenza e dell’età adulta. Egli indicò in due
invarianti, che chiamò assimilazione e accomodamento, i principali meccanismi
del pensiero nel suo costante adattamento all’ambiente. Il pensiero tende ad
assimilare le nuove esperienze entro le strutture mentali che già possiede, quando
ciò non riesce provvede ad accomodare le strutture alle nuove necessità.
La teoria di Piaget è basata sull’idea che il bambino costruisce le sue strutture
cognitive, in altre parole le mappe mentali, gli schemi, o concetti legati tra loro
per comprendere e rispondere alle esperienze fisiche all’interno dell’ambiente che
lo circonda. Secondo Piaget, le strutture cognitive aumentano sia
quantitativamente che qualitativamente con lo sviluppo, partendo da pochi riflessi
innati come il piangere e il succhiare ad attività altamente complesse.
La teoria di Piaget identifica quattro stadi e i processi attraverso i quali i bambini
progrediscono dal punto di vista cognitivo, affettivo, della maturazione fisicocomportamentale. I quattro stadi sono:
1. Stadio senso-motorio (dalla nascita ai 2 anni di età). Il bambino attraverso
l’interazione fisica con l’ambiente in cui vive costruisce un insieme di concetti
sulla realtà e su come essa funziona.
2. Stadio pre-operatorio (dai 2 ai 7 anni di età). Il bambino non è ancora capace
di concettualizzare in modo astratto e ha bisogno di situazioni fisiche concrete.
3. Stadio delle operazioni concrete (dai 7 agli 11 anni di età). Come l’esperienza
fisica si accumula, il bambino comincia a concettualizzare, creando strutture
logiche che spiegano le sue esperienze fisiche. In questo stadio i bambini sono
anche capaci di risolvere problemi astratti.
4. Stadio delle operazioni formali (comincia dagli 11 ai 15 anni). Da questo
periodo in poi, le strutture cognitive del soggetto sono come quelle degli adulti ,
incluso il ragionamento formale.
Piaget sottolinea diversi principi per costruire strutture cognitive. Durante tutti gli
stadi di sviluppo, il bambino esperisce il suo ambiente usando qualunque mappa
mentale che ha precedentemente costruito. Se l’esperienza viene ripetuta, essa si
adatta facilmente, o viene assimilata, nella struttura cognitiva del soggetto in
modo tale che venga mantenuto un equilibrio mentale. Se l’esperienza è differente
o nuova, il bambino perde l’equilibrio precedente e viene quindi alterata la
struttura cognitiva per accomodarla alle nuove condizioni. In tal modo, il bambino
costruisce strutture cognitive sempre più adeguate alla situazione.
Piaget (1952) sostiene l’importanza che la padronanza ludica assume nei bambini;
una padronanza necessaria affinché il bambino possa costruirsi delle interne
rappresentazioni dell’ambiente nel quale vive e sul quale agisce. Ai suoi occhi,
tutta l’attività ludica assolve a una funzione di padronanza funzionale. Lo sostiene
basandosi sulle osservazioni che si riferiscono agli stadi I e IV del periodo
dell’intelligenza senso-motoria. La padronanza del gioco inteso come movimento
é per lui di particolare importanza perchè in questo gioco il bambino costruisce il
proprio adattamento nei confronti dell’ambiente circostante mediante i processi
basilari dell’assimilazione e dell’accomodamento, modificando l’ambiente in base
alle proprie nozioni e cambiando le proprie azioni per adeguarle alle esigenze
dell’ambiente.
Questa concezione del gioco é strettamente legata alla teoria da lui formulata sullo
sviluppo dell’intelligenza in quanto in essa l’intelligenza si sviluppa
dall’interiorizzazione delle azioni di adattamento nei confronti dell’ambiente
circostante.
Piaget postula due processi dell’assimilazione e dell’accomodamento, che
considera fondamentali per tutto lo sviluppo organico,. L’assimilazione é quel
processo mediante il quale il bambino assimila le cose alla propria attività poiché
egli non ha interesse alle cose in quanto tali ma solo nella misura in cui le trova
utili per un comportamento appreso in precedenza o per uno che é in via di
acquisire. L’accomodamento é l’adattamento dell’organismo al mondo esterno e
implica aggiustamento di movimenti e percezione degli oggetti, come avviene, ad
esempio, nel cambiare direzione per evitare un ostacolo, oppure nel contrarre i
muscoli oculari di fronte a una luce abbagliante.
Piaget applica i termini assimilazione e accomodamento in senso più vasto, anche
ai processi mentali. Ad ogni stadio dello sviluppo dell’intelligenza noi troviamo
insieme assimilazione e accomodamento, ma essi vanno progressivamente
differenziandosi, e conseguentemente diventano sempre più complementari.
L’assimilazione si riferisce a qualsiasi processo attraverso il quale l’organismo
modifica l’informazione che riceve nel renderla parte della conoscenza pratica
dell’organismo. L’informazione viene, per così dire, digerita. Per accomodamento
s’intende qualunque adattamento che l’organismo debba fare rispetto al mondo
esterno per assimilare informazioni. Lo sviluppo mentale é dovuto al continuo e
attivo scambio tra assimilazione e accomodamento. L’adattamento intelligente
avviene quando i due processi si equilibrano a vicenda. Quando non lo fanno,
l’accomodamento o l’adattamento all’oggetto può predominare sull’assimilazione.
Alternativamente l’assimilazione, accordando l’impressione con la precedente
esperienza e adattandola ai bisogni dell’individuo, può predominare. Per esempio,
il gioco é pura assimilazione che altera l’informazione in arrivo per adattarla alle
esigenze dell’individuo. In questo senso, il gioco costituisce il polo estremo
dell’assimilazione della realtà all’io, mentre nello stesso tempo esso ha qualcosa
dell’immaginazione creativa che sarà il motore di tutto il pensiero futuro ed anche
della ragione.
Il gioco si presenta quindi, secondo Piaget, quando l’assimilazione é dissociata
dall’accomodamento e funziona autonomamente e quest’ultimo é subordinato a
quella. Dopo aver appreso ad afferrare, dondolare, lanciare, ecc., il che implica
insieme uno sforzo di accomodamento a nuove situazioni, e uno sforzo di
ripetizione, riproduzione e generalizzazione, elementi dell’assimilazione, il
bambino prima o poi afferra per il piacere di afferrare, dondola per il gusto di
dondolare, ecc. Cioè egli ripete un comportamento non nello sforzo di apprendere
e di ricercare, ma solo per il piacere di acquistare la padronanza di esso e di
mostrare a se stesso il proprio potere di sottomettere la realtà. Da quel momento in
poi si ha il gioco di esercizio che é accompagnato dal “piacere funzionale” e dal
piacere d’esser causa: il primo deriva dall’assimilazione fine a se stessa non
richiesta da nuovi accomodamenti, e il secondo dal fatto che quando il bambino
ha superato le difficoltà inerenti a un’azione, l’assimilazione é più concentrata
sulla propria attività.
Quando ha inizio il gioco? Secondo Piaget l’origine del gioco deve essere
ricercata nello stadio degli adattamenti mediante puri riflessi cioè il I stadio
dell’intelligenza senso-motoria, poiché, ad esempio, il bambino succhia non solo
in reazione allo stimolo boccale, ma compie anche movimenti che richiamano il
succhiare a vuoto, indipendentemente dal mangiare. Tuttavia non si possono
considerare, secondo Piaget, gli esercizi riflessi come giochi reali dal momento
che essi continuano solamente il piacere del momento della nutrizione e
consolidano il funzionamento delle disposizioni ereditarie, essendo così prova di
adattamento reale.
Durante il II stadio il gioco sembra già entrare a far parte dei comportamenti
adattivi, ma la continuità tra questo e quelli é tale che sarebbe difficile dire,
secondo Piaget, dove esso comincia. Piaget sostiene allora che, i giochi con la
voce durante le prime lallazioni, i movimenti della testa e delle braccia
accompagnati da sorrisi e segni di piacere, cioè, in generale, le reazioni circolari
primarie, se pure non presentano per se stesse questo carattere ludico, si può dire
che la maggior parte di esse si prolunga in forma di giochi. Infatti, secondo Piaget,
il bambino, dopo aver mostrato con la sua serietà che sta facendo uno sforzo reale
di accomodamento, successivamente riproduce questi comportamenti per puro
piacere, accompagnandoli con sorrisi e talora con risate, e senza quella aspettativa
di risultati caratteristica delle reazioni attraverso cui il bambino apprende. Egli
giunge così alla conclusione che a questo stadio la reazione cessa di essere un atto
di adattamento completo per dare origine semplicemente al piacere della pura
assimilazione, di un’assimilazione puramente funzionale: il gusto della funzione
di K. Buhler.
Durante il terzo stadio, quello delle reazioni circolari secondarie, la
differenziazione tra gioco e assimilazione intellettuale é ancor più avanzata.
L’assimilazione non é più accompagnata dall’accomodamento e perciò non c’è
più sforzo per la comprensione, c’è solo assimilazione all’attività stessa, cioè uso
del fenomeno per il piacere dell’attività, e questo é gioco. Secondo Piaget, non
appena le reazioni circolari porteranno non più soltanto sul corpo proprio del
bambino, ma anche sugli oggetti manipolati con una intenzionalità crescente, il
“piacere di esser causa” si aggiungerà al mero “piacere funzionale” di Buhler.
L’azione sulle cose, che comincia con ogni reazione secondaria, diventerà un
gioco non appena il fenomeno é afferrato dal bambino e non offre ulteriori scopi
per l’investigazione propriamente detta.
Durante il quarto stadio, quello della coordinazione degli schemi secondari, fanno
la loro apparizione due nuovi elementi che riguardano il gioco. In primo luogo,
secondo Piaget, i comportamenti più caratteristici di questo periodo sono capaci,
come i precedenti, di continuarsi in manifestazioni ludiche, nella misura in cui
essi sono attuati per mera assimilazione, vale a dire per il piacere dell’attività e
senza alcuno sforzo di adattamento per raggiungere uno scopo definito. Una volta
che il bambino ha imparato a trovare giocattoli e altri oggetti rimuovendo ciò che
li nasconde, lo stesso togliere ciò che li copre e li nasconde si trasforma in un
gioco piacevole. In secondo luogo, la mobilità degli schemi consente la
formazione di reali combinazioni ludiche in quanto il bambino va da uno schema
all’altro, non più per provarli successivamente ma solo per padroneggiarli, senza
alcuno sforzo di adattamento. In questo periodo il gioco non é più soltanto la
ripetizione di qualcosa che ha avuto successo, ma diventa una ripetizione con
variazioni.
Gli educatori dovrebbero pianificare un curriculum appropriato dal punto di vista
dello sviluppo che migliori e sostenga la crescita logica e concettuale del soggetto.
Gli insegnanti devono sottolineare il ruolo critico dell’esperienza e del gioco o le
interazioni che il soggetto ha con l’ambiente che lo circonda, in modo tale da
creare situazioni di apprendimento simili alle situazioni ludiche. Per esempio, i
docenti devono prendere in considerazione il ruolo che concetti fondamentali,
quali la permanenza degli oggetti giocano nello stabilire strutture cognitive.
Il Costruttivismo
Dagli studi di Piaget e sull’idea della costruzione della conoscenza ad opera dei
soggetti, nasce un scuola di riflessioni detta Costruttivismo, che ha influenzato
numerosi ricercatori, alcuni tra i quali (Papert, 1984, Resnick, 1994) tanta parte
hanno avuto nello sviluppo di software educativi e nella promozione di questo
nuovo approccio alla realizzazione di ambienti efficaci per l’apprendimento.
Il Costruttivismo è una ipotesi sui meccanismi di funzionamento del processo di
apprendimento che sta producendo profonde modifiche nella prassi educativa e
nella metodologia di ricerca sui fenomeni connessi con l’apprendimento. Tutte le
prospettive cognitiviste convergono sul comportamento mentale. Nel panorama
cognitivo dell’apprendimento, il «lavoro attivo del comportamento mentale
trasforma l’informazione nella conoscenza pratica». Il costruttivismo, come parte
del cognitivismo, si espande in diverse direzioni con una ricca storia nella
filosofia, nella psicologia, e nell’educazione.
Il concetto di costruttivismo, se confrontato col comportamentismo, evidenzia
importanti differenze di base circa la conoscenza, il conoscente, e
l’apprendimento. Per la prospettiva cognitivista/costruttivista: la conoscenza è
attiva, situata nel mondo vissuto; gli individui costruiscono la conoscenza;
l’apprendimento significativo è utile e conservato, costruito su quello che
l’apprendista già conosce, il ruolo dell’insegnante è privato, mediatore, strategico.
Per la prospettiva comportamentale: la conoscenza è inerte; gli individui sono
ricettori passivi della conoscenza; l’apprendimento si verifica con la
programmazione, le attività ripetute; il ruolo dell’insegnante è autoritario,
direttivo.
La rivoluzione cognitiva ha notevolmente ridimensionato il Comportamentismo
da paradigma predominante (che tanto fascino ed attrazione metodologica ha
esercitato sui ricercatori in quanto rilevava soltanto i comportamenti esterni e
osservabili, evitando riferimenti al significato, alla rappresentazione e al pensiero)
a semplice teoria scientifica. Il costruttivismo, invece, opera in modo diverso. La
distinzione di base, comunque, è che mentre il comportamentismo considera la
conoscenza come un qualcosa di passivo, come reazione completamente
automatica ai fattori esterni nell'ambiente e il cognitivismo considera la
conoscenza come una rappresentazione simbolica astratta nella mente
dell'individuo, la scuola costruttivista considera la conoscenza come un'entità
costruita da ciascun soggetto che apprende attraverso un processo di
manipolazione di tale conoscenza. La conoscenza, intesa in tal senso, non può
essere semplicemente trasferita o trasmessa da una persona all'altra, poiché essa
sarà costruita, o ricostruita, da ciascuna persona.
La visione della "conoscenza come data e assoluta" del comportamentismo,
differisce dal cognitivismo. Quest'ultimo, infatti, considera la conoscenza come
una rappresentazione simbolica e mentale nella mente degli individui.. Nel
costruttivismo la conoscenza è vista come relativistica (niente è assoluto, ma varia
in base al tempo e allo spazio) e fallibile (niente può essere preso per scontato).
Il costruttivismo si basa sul lavoro dei filosofi dell’educazione quali John Dewey
e degli psicologi quali Lev Vygotsky, Jean Piaget, Jerome Bruner e altri. Essi
hanno dimostrato che il fanciullo costruisce attivamente la conoscenza e questa
costruzione accade in un contesto sociale. Vigotsky sostiene che tutto
l'apprendimento avviene nella "zona dello sviluppo immediato". Questa è la
differenza tra quello che un bambino può fare da solo e quello che può fare con
l'aiuto e l'assistenza degli altri.
Il metodo del costruttivismo mette in evidenza le abilità dello studente nella
risoluzione di problemi pratici e in tempo reale. Gli studenti solitamente
dovrebbero lavorare in gruppi cooperativi piuttosto che individualmente. Il
compito dell'insegnante nel modello costruttivista è agire come una guida per gli
studenti mentre essi sviluppano i propri obiettivi e "insegnano a se stessi"
Esistono alcune strategie che suggeriscono agli insegnanti il modo per adottare
l’ottica del costruttivismo: incoraggiare ed accettare lo studente autonomo; usare
dati grezzi e risorse primarie, con materiale manipolativo, interattivo e fisico;
usare attività come "classificare", "analizzare", "predire", "creare"; concedere allo
studente risposte per svolgere i compiti, usare strategie educative di cambiamento,
e cambiare il contenuto della conoscenza; indagare sulla comprensione dello
studente riguardo l’acquisizione dei concetti, prima di condividere la
comprensione di questi; incoraggiare gli studenti ad impegnarsi nel dialogo;
incoraggiare gli studenti nelle esperienze che potrebbero produrre contraddizioni
alle loro ipotesi iniziali; favorire la discussione; fornire il tempo agli studenti per
costruire relazioni e creare metafore. Naturalmente ciò impegna maggiormente gli
insegnanti, molti dei quali invece tendono ad essere ripetitivi. Fra l’altro, le nuove
tecnologie potrebbero aiutare anche costore, se venissero motivati.
Lo studioso Merril (1991) ha evidenziato alcuni importanti aspetti del
costruttivismo, quali:
a) il sapere viene inteso come costruzione personale, frutto di un’interpretazione
della propria esperienza;
b) l’apprendimento attivo, secondo cui l’insegnamento dovrebbe dire meno e
supportare e guidare gli studenti;
c) l’apprendimento collaborativo, che sottolinea l’importanza dell’interazione
con gli altri e con gli aspetti culturali e sociali per favorire lo sviluppo cognitivo;
d) l’importanza del contesto, nel senso che l’apprendimento dovrebbe realizzarsi
in un contesto realistico o per lo meno ricco;
e) valorizzazione della valutazione intrinseca, secondo cui la valutazione non
dovrebbe essere un’attività separata, ma dovrebbe essere integrata con il processo
di costruzione della propria conoscenza.
Il primo difensore di una versione radicale del costruttivismo come una teoria
della conoscenza e come una guida per la scienza dell'educazione fu Von
Glasersfeld. Il movimento del costruttivismo radicale, abbandona la tradizionale
posizione filosofica del realismo secondo la quale la conoscenza è una
rappresentazione della realtà essenziale. Egli adotta la posizione relativista
secondo la quale la conoscenza è costruita personalmente dagli individui in modo
attivo.
Secondo il costruttivismo radicale, l'unico modo per gli studenti di apprendere, è
quello di trovarsi all'interno dell'ambiente conoscitivo e costruirsi il proprio
modello mentale con un supporto limitato dell'insegnante. Mentre i costruttivisti
più moderati sostengono che l'istruzione formale è ancora appropriata, ma gli
apprendisti dovrebbero applicarsi in attività orientate alla riflessione, per
consentire loro di applicare e generalizzare l'informazione e i concetti che sono
stati forniti, così da poter costruirsi il proprio modello della conoscenza. Si
aggiunge una terza dimensione a questa controversia, se consideriamo che questa
costruzione della conoscenza, avviene meglio all'interno di un ambiente che
consenta la collaborazione tra gli apprendisti, i loro pari, gli esperti nel campo e
gli insegnanti.
Esistono alcune caratteristiche che, insieme, definiscono l'apprendimento
costruttivista: ogni persona costruisce la sua conoscenza attraverso la propria
esperienza. Questa teoria è stata articolata da Kant nella Critica della Ragion Pura
e più tardi adottata da Dewey. Nelle opere di Piaget è implicita. Le persone
apprendono attraverso la ricerca attiva e l'apprendimento avviene quando la
ricerca dell'apprendista scopre l'inconsistenza tra la conoscenza e l'esperienza. Le
persone apprendono quando mettono in pratica le loro conoscenze, dunque,
l'apprendimento avviene in un contesto sociale.
Ci sono differenti interpretazioni del costruttivismo che è stato classificato come
endogeno, esogeno e dialettico.
1. Il costruttivismo endogeno evidenzia la natura individuale dei processi di
costruzione della conoscenza, e considera il ruolo dell'insegnante come
volto a facilitare il disequilibrio scaturito dall'esperienza appropriata.
2. Il costruttivismo esogeno sostiene che l'istruzione formale può aiutare gli
studenti a costruire la rappresentazione della conoscenza, che essi poi
possono adattare alle loro successive esperienze. La visione esogena del
costruttivismo
riconosce il valore dell'istruzione diretta, ma non
l'insegnante concentrato sulla singola sequenza dell'istruzione del
comportamentismo. In accordo con la visione esogena, l'apprendista
dovrebbe avere l'opportunità di costruire attivamente la rappresentazione
della propria conoscenza e articolare queste rappresentazioni a tutti i gradi,
e dopo l'istruzione dovrebbe avere l'opportunità di applicare la propria
conoscenza ai compiti reali. La visione esogena include il materiale
costruito attraverso sistemi Computer Aided Learning del costruttivismo,
costituito da un tutorato che, a sua volta, incorpora il controllo
dell'apprendista. L'uso degli strumenti cognitivi, (per la manipolazione
simbolica della rappresentazione dei concetti e per l'articolazione costruita
della conoscenza, che include il concetto di strumento per disegnare,
strumento per modellare, e strumento per editare testo e ipertesto), è
correlato al costruttivismo esogeno che si basa sulla costruzione della
conoscenza individuale. Il sistema di tutoraggio, che è concorde con le
teorie costruttiviste, fornisce una struttura che incoraggia l'apprendista a
seguire sicure sequenze educative, e permette di scegliere sequenze
alternative, o usare il materiale come una risorsa di scoperta di
apprendimento.
3. Il costruttivismo dialettico sostiene che l'apprendimento avviene attraverso
l'esperienza realistica e l'apprendista esige un'impalcatura provvista
dall'insegnante o da altri esperti.
Tutte e tre le visioni del costruttivismo evidenziano l'importanza della costruzione
individuale della conoscenza. Una conseguenza di questo è l'uso della strategia
metacognitiva adoperata dall'apprendista per migliorare la comprensione,
ritenzione, e costruzione individuale della conoscenza. Queste strategie sono
considerate particolarmente importanti dal costruttivismo esogeno, secondo il
quale queste strategie sono direttamente insegnate allo studente. E' stato proposto
che l'uso del computer, basato sugli strumenti cognitivi unito a queste strategie,
può fungere da assistente.
Un importante elemento del costruttivismo è l'idea che agli apprendisti dovrebbe
essere data l'opportunità di attuare compiti realistici, con l'assistenza degli
insegnanti, al fine di dare la possibilità di completare compiti più complessi, senza
il bisogno di imparare compiti ridotti. Questa struttura può essere provvista in
parte dal computer, attraverso il supporto del software e sarà trattata nei capitoli
successivi.
Lo Human Information Processing o HIP
Nel 1943 Kenneth Craik scriveva: “La mia ipotesi è che il pensiero costituisca un
modello o un parallelo della realtà”. Esso non ha bisogno di riprodurre
esattamente la realtà, ma si limita a tradurla in termini simbolici e ad operare su di
essi. Quando un uomo pensa qualcosa opera con i simboli del proprio modello
mentale e ritraduce i risultati di questa operazione nei termini della realtà, in
azioni o previsioni di azioni, proprie e altrui.
Craik, durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale, collaborava nel
laboratorio di psicologia sperimentale di Cambridge a progetti della marina o
dell’aeronautica, conducendo ricerche sul tracking. Craik si rese conto che i
soggetti non erano in grado di effettuare piu’ di una correzione dei propri comandi
ogni mezzo secondo, e ipotizzò che esistesse un meccanismo decisionale cui
occorreva mezzo secondo per elaborare le informazioni in arrivo.
Questo meccanismo non pareva in grado di elaborare più di una informazione alla
volta. Dalle ricerche di Craik sorsero dunque nuovi interrogativi: l’organismo
umano può essere concepito come un meccanismo elaboratore di informazioni?
Può lo studio di qualsiasi meccanismo dello stesso tipo, reale e ben noto,
sostituire lo studio della mente umana? L’entusiasmo che, in quegli anni,
suscitavano le ricerche di cibernetica e di elettronica suggerì l’assunzione di
modelli tratti da quelle scienze.
Questa fu la scommessa su cui puntò la prima generazione di cognitivisti, la quale
riteneva non solo che la costruzione di una macchina capace di imitare il
funzionamento della mente potesse fornire una notevole spinta alla ricerca
psicologica, ma che se si fosse provato che un uomo e una macchina, ricevendo le
stesse informazioni (input), davano risposte identiche (output), si sarebbe
dimostrata l’uniformità di funzionamento tra macchina e mente.
Nacque su questi presupposti, la Teoria dell’Uomo Elaboratore di Informazioni, o
Human Information Processing (HIP). Basandosi sul presupposto che la mente sia
un elaboratore di segni, lo HIP è andato alla ricerca di un apparato elaboratore di
segni in grado di eseguire compiti e le funzioni che la mente effettua.
Alle ricerche di Craik (1943) fecero seguito quelle di Donald Broadbent (1958),
un ex-pilota dell’aeronautica passato al Dipartimento di Psicologia di Cambridge,
ove conduceva ricerche sull’attenzione selettiva e sulla limitazione del canale di
ingresso delle informazioni. Il modello di filtro meccanico proposto da Broadbent
deriva dalla constatazione che non è possibile seguire più di un messaggio uditivo
alla volta. Ciò convinse B. che il meccanismo d’ingresso funzionasse come un
filtro che egli immagino’ a forma di imbuto, con due canali che si uniscono al
centro e al cui punto di unione c’è una cerniera che chiude uno dei due canali
quando l’altro è attivato.
Triesman (1960) utilizzando la tecnica dell’ascolto dicotico e ricorrendo allo
shadowing, che impone a chi ascolta il messaggio di ripetere verbalmente ogni
singola parola nello stesso momento in cui la percepisce, poté dimostrare che:
1) se uno dei due messaggi è incongruente, l’attenzione si concentra sull’altro;
2) se due messaggi, uno congruo e l’altro incongruo, presentati
contemporaneamente vengono scambiati, chi ascolta non segue l’orecchio ma il
messaggio congruo.
Il risultato di questi e di altri esperimenti venne interpretato come riprova che il
filtro d’ingresso delle informazioni non è periferico, ma controllato centralmente.
George Miller (1956), constatando una significativa coincidenza tra l’arco di
appercezione, i giudizi assoluti e il mantenimento di informazioni senza
reiterazione, notò come tutti questi processi subissero limitazioni dalle capacita’
della memoria, che ipotizzo’ come un contenitore a capacita’ limitata, con
alloggiamenti discreti entro i quali possono trovar posto non più di sette unità
significative denominate chunk: ogni nuovo chunk introdotto, oltre il settimo
provoca la fuoriuscita dal contenitore di qualcuno di quelli gia’ introdotti.
Brown (1958) propose la distinzione tra due contesti di memoria, uno a breve
termine (MBT), concepito come un contenitore a capacità limitata, l’altro a lungo
termine (MLT), concepito come un contenitore a capacità indefinita. Le due
memorie apparivano distinte sia nei meccanismi con cui conservavano il
materiale, sia in quelli con cui lo dimenticavano. Nel libro “Piani e strutture del
Comportamento” Miller, Galanter e Pribam (1960) sostenevano il principio che
tutti i comportamenti sono programmati e proponevano che d’ora in avanti ci si
occupasse dei piani e dei programmi più che dei comportamenti.
Proponevano di assumere la costruzione di modelli che fossero capaci di spiegare
i piani e i programmi comportamentali e le strutture in essi coinvolti.
Il modello di programma proposto in questo libro, chiamato <<T>> (test) <<O>>
(operating) <<T>> (test) <<E>> (exit), divenne il prototipo di ogni successivo
modello operativo.
Un modello molto semplificato di programma comportamentale potrebbe
assumere la forma di un programma di flusso a quattro stadi di elaborazione :
1) l’ingresso nel programma del segnale tramite i registri sensoriali.
2) Il riconoscimento del segnale, che richiede il confronto tra il segnale in
ingresso e le esperienze depositate in memoria.
3) Effettuato il confronto, l’operazione di riconoscimento può dar luogo alla
risposta di accettazione o di disconoscimento.
4) Viene quindi avviato un programma di ricerca nella MLT che può terminare
con il definitivo rifiuto del segnale o con la sua marcatura e archiviazione in
memoria.
Il grande sviluppo della tecnologia, la diffusione del Personal Computer e i
successi che ottenevano gli studiosi di intelligenza artificiale sembravano aprire la
via alla scoperta del funzionamento della mente.
Uno dei problemi che fu necessario affrontare fu proprio quello della coscienza.
Ammesso che il funzionamento di un calcolatore imiti in maniera soddisfacente il
funzionamento della mente umana, resta il fatto che uno dei due ha coscienza
delle proprie esperienze, l’altro no.
L’uomo però non ha coscienza dei processi o dei meccanismi tramite i quali
percepisce o ricorda, ma solo del loro effetto. Per quel che riguarda meccanismi e
processi mentali, l’organismo, o l’individuo, non ne ha maggior coscienza di
quanto il calcolatore elettronico possa averne dei meccanismi che lo fanno
funzionare. Da questo punto di vista, organico (l’uomo) e inorganico (il
calcolatore) sono esattamente nella stessa situazione, ed è su questo piano che può
avere validità l’analogia mente-macchina e utilità il modello analogico.
Chiedersi chi, o che cosa, abbia coscienza di questi effetti induce una risposta che
porta ad affermare l’esistenza di un homunculus celato nella nostra mente,
responsabile delle nostre conoscenze e decisioni.
Il problema dell’homunculus può essere evitato in due modi: come hanno fatto i
teorici della HIP quando hanno asserito che non c’è bisogno di alcun homunculus
dietro gli occhi, se si ammette che siano gli stessi occhi a vedere; oppure
precisando che la psicologia cognitiva si limita a studiare come siano possibili
meccanismi e processi mentali e non anche come sia possibile averne coscienza.
Riassumendo la teoria dell’apprendimento secondo il modello del Processamento
umano dell’informazione, valgono le seguenti analogie e presupposti:
a) La mente è come un computer.
b) La conoscenza è come un oggetto.
c) La memoria è il posto che contiene gli oggetti.
d) L’esecuzione (Performance) esperta che il soggetto deve compiere sono regole
da seguire.
e) L’apprendimento è un caso speciale di esecuzione (performance) che il
soggetto compie.
f) L’apprendimento è il processo di acquisizione di regole, di concetti e di
procedure.
g) L’insegnamento è la rilevazione della mappa cognitiva dell’esperto nel
discente.
Intelligenza artificiale e connessionismo
L’Intelligenza Artificiale studia i problemi connessi alla progettazione di sistemi
che presentano caratteristiche tali da evocare comportamenti detti intelligenti,
come i processi di soluzione dei problemi, di ragionamento, di comprensione del
linguaggio. “ Si potrebbe allora dire che l’intelligenza artificiale consiste,
fondamentalmente, nell’imitazione (...) dei comportamenti intelligenti ritenuti,
entro limiti elastici, come specifici dell’uomo”. L’Intelligenza Artificiale prende
in considerazione uno dei più grandi misteri: come sia “possibile che un cervello
lento e piccolo, biologico o elettronico, possa percepire, capire, predire e
manipolare un mondo molto più grande e complicato di se stesso.”
Scopo dell'IA è l'imitazione dei comportamenti intelligenti attraverso l'utilizzo di
specifici programmi. All’inizio, per la formulazione di programmi di IA, venivano
utilizzati linguaggi di programmazione sviluppati in modo speciale, come LISP e
PROLOG.
Un altro linguaggio, anch’esso originato negli ambienti dell’Intelligenza
Artificiale, ma assai semplice e molto diffuso nell’ambiente scolastico è il LOGO.
Il Logo consente di trattare facilmente sia liste di simboli, sia procedure grafiche.
Esso, di conseguenza, presenta la duplice caratteristica di adattarsi ad alcune
esigenze fondamentali dell’IA, come la modularità e la ricorsività, e di essere
sensibile alle richieste dei vari livelli di scolarità. A partire da alcune istruzioni
base è così possibile costruire un vocabolario sempre più esteso, al quale
corrispondono procedure e sottoprocedure sempre più complesse.
Le origini dell’IA possono essere fatte risalire tra gli anni ‘30 e ‘40, quando
furono affrontate da parte di alcuni studiosi, come A. Turing e A. Church,
questioni fondamentali dal punto di vista della compatibilità o calcolabilità. Lo
stesso Turing non solo immaginò la sua macchina ideale, ma allo stesso tempo,
discusse anche i problemi relativi ai rapporti tra computazione e intelligenza. Egli
propose nel 1950 una prova di verifica circa le possibilità di una macchina di
mostrare comportamenti definibili intelligenti.
Si tratta del cosiddetto Test di Turing, spesso usato come criterio per valutare se
un'applicazione IA è stata sviluppata con successo. Esso richiede la presenza di
due persone e di un calcolatore: una persona gioca il ruolo dell’interrogante e
colloquia, tramite una linea di dati (tastiera remota), con diversi partner a lei
invisibili. Uno di questi è una macchina, il cui compito consiste nell’ingannare la
persona interrogante, facendogli credere di essere un'altra persona. Se la persona
non è in grado di distinguere quale dei partner è la macchina, significa che questa
possiede intelligenza artificiale. Il test include, anche, un segnale video che
permette all’interrogatore di verificare la capacità di percezione del soggetto in
questione, fornendo all’interrogatore l’opportunità di far passare oggetti fisici
attraverso il portello. Per il superamento del test di Turing, il computer necessita
di una visione artificiale volta alla percezione degli oggetti e di una robotica per
spostarli. Finora, però, nessun calcolatore ha superato il test di Turing. Alcuni
esami sembrano contraddirlo, ma si tratta sempre di dialoghi più o meno “vuoti”
tra persona e programmi speciali di conversazione.
Il comportamento intelligente è stato definito da Turing come un’abilità nel
raggiungere prestazioni a livello umano nei differenti compiti cognitivi, sufficienti
a ingannare un interrogatore.
Un tipo particolare di macchina di Turing è costituito da un automa a stati finiti.
Si tratta di “un modello formale utilizzabile in molte circostanze concrete in cui ci
troviamo di fronte a un sistema che può avere un numero finito di configurazioni e
che, a seconda dello stimolo che riceve dall’esterno, passa da una configurazione
ad un’altra.”
Un automa a stati finiti può essere applicato per riconoscere linguaggi
particolarmente semplici: data una stringa l’automa passa da uno stato ad un altro,
in base al carattere da lui letto sul nastro di ingresso, fino a quando, terminata la
scansione della stringa, si trova in uno stato finale.
Negli anni ‘60 la ricerca si concentrò sul ritrovamento degli algoritmi utilizzati
dalla mente umana per la soluzione dei problemi allo scopo di potere
implementare gli algoritmi in un sistema di intelligenza artificiale.
Alcuni dei primi problemi studiati dall’IA sono stati i giochi e la dimostrazione
dei teoremi, entrambi avevano in comune una proprietà: “benché la gente per farli
bene dovesse mostrare intelligenza, i calcolatori potevano fornire buone
prestazioni semplicemente grazie alla velocità con cui potevano esplorare un gran
numero di cammini risolutivi e quindi selezionare il migliore.”
Nello studiare questo tipo di processi di ragionamento, Newell, Shaw e Simon
costruirono il GPS (General Problem Solver), che applicarono ad una serie di
differenti compiti fra cui la manipolazione simbolica di espressioni logiche.
La lista seguente contiene un sommario di alcuni dei problemi che rientrano
nell’ambito dell’Intelligenza Artificiale:
Giochi;
Dimostrazione di teoremi;
Risoluzione di problemi generalizzata;
Percezione;
Visione;
Comprensione del linguaggio naturale;
Discorso;
Risoluzione di problemi da parte di esperti;
Matematica simbolica;
Diagnosi medica;
Analisi chimica;
Progettazione in Ingegneria.
Alla base della ricerca di Intelligenza Artificiale sta quella che Newell e Simon
(Newell e Simon, 1972) chiamano l’ipotesi del sistema di simboli fisico.
Quest’ultimo viene definito dagli autori nel modo seguente:
"Un sistema di simboli fisico è costituito da un insieme di entità, chiamate
simboli, che sono schemi fisici che possono presentarsi come componenti di un
altro tipo di entità dette espressioni (o strutture di simboli). Quindi una struttura di
simboli è composta da un numero di esemplari (o occorrenze) di simboli correlati
in modo fisico (...). In ogni istante di tempo il sistema conterrà una collezione di
queste strutture di simboli” (Newell, op. cit.).
Dunque, un sistema di simboli fisico rappresenta una macchina, che evolve nel
tempo e che è capace di collezionare strutture di simboli.
Come già detto, Alan Turing, nel suo scritto del 1950 dal titolo Computer e
Intelligenza, propose il tema dell’intelligenza artificiale della macchina. In
seguito, altri pionieri, fra i quali Marvin Minsky, ripresero i concetti di base
dell’IA, ponendosi interrogativi su come riconoscere situazioni, capire gli stati
d’animo, apprezzare l’umorismo e passare da una metafora all’altra.
Negroponte ritiene che l’IA abbia avuto una svolta negativa attorno al 1975,
quando i computer presentavano la potenza di elaborazione necessaria per
risolvere problemi legati all’intuizione e per manifestare comportamenti
intelligenti. Gli scienziati, così, si orientarono verso applicazioni più facili da
realizzare e da vendere come la robotica e i sistemi esperti.
Allo stato attuale l’IA presenta tutta una serie di sottocampi che spaziano da aree
generali quali la percezione e il ragionamento logico, a compiti specifici come la
dimostrazione di teoremi matematici, il gioco degli scacchi, ecc..
In più "lo sviluppo dell’IA si concentra su ambiti concreti e formalizzabili, che
sembrano poco legati all’intelligenza: sistemi esperti, reti neurali, scacchi
computerizzati, ecc...”
.
Sistemi esperti. Il sistema esperto è uno strumento in grado di aiutare gli utenti in
attività che richiedono la capacità di giudizio e l’esperienza di uno specialista di
un dominio ben preciso.
Il sistema esperto colloquia con l’utente attraverso un’interfaccia con un
linguaggio naturale o in una forma simile ad esso eseguendo deduzioni relative al
caso in esame in base alla conoscenza precedentemente memorizzata del
fenomeno.
La caratteristica più interessante dei sistemi esperti è la loro capacità di
raggiungere una soluzione in ogni caso. Propongono, infatti, una serie di consigli
o soluzioni che l’utente potrà valutare autonomamente in relazione ad altri pareri
ottenuti con altri mezzi.
Un sistema esperto, per essere in grado di risolvere un determinato problema,
necessita di alcune particolari informazioni e precisamente: informazioni relative
al dominio di applicazione e all'acquisizione delle informazioni, informazioni
essenziali per la soluzione dei casi e per il loro utilizzo, informazioni relative al
caso preso in esame. I sistemi esperti risultano essere costituiti da tre componenti:
1. Memoria a lungo termine (MLT) che contiene le regole di produzione;
2. Memoria a breve termine (MBT) che contiene le informazioni relative al
singolo caso che mantengono la propria validità durante l'intero periodo di esame
del caso;
1. Motore inferenziale, che interpreta le regole contenute nella MLT e le applica
ai fatti contenuti nella MBT.
Figura 1. Architettura di un sistema esperto
In un sistema esperto il motore inferenziale parte da ipotesi o da fatti iniziali e,
attraverso la manipolazione di concetti e frammenti di conoscenza (base di
conoscenza a lungo termine), decide l’acquisizione dei nuovi fatti per mezzo di un
colloquio con l’utente o tramite deduzione. In seguito valuta la credibilità delle
singole ipotesi. Nella base di conoscenza a lungo termine vengono rappresentati i
concetti e le regole inerenti il campo di applicazione.
Le conoscenze vengono espresse in forma dichiarativa e sono estensibili,
manipolabili e utilizzabili in occasioni non definite a priori.
Il controllo, cioè la decisione di quale frammento di conoscenza si vuole utilizzare
in un determinato momento del processo di analisi del caso, è un compito svolto
dal motore inferenziale.
Il linguaggio usato per il motore inferenziale è uno dei linguaggi specializzati nati
per l’IA, tra i quali i principali sono il Lisp e il Prolog.
Un ulteriore elemento del sistema esperto è l’interfaccia con l’utente, che realizza
la capacità di dialogare con l’utilizzatore. Questa capacità rispecchia l’esigenza di
flessibilità e collaborazione tra l’elaboratore e l’utente. Quest'ultimo si avvale
dell’ausilio del sistema esperto, esamina le conoscenze a disposizione e il modo in
cui esse vengono utilizzate.
Affinché si verifichi ciò è necessario che il sistema sia provvisto di una capacità di
interazione linguistica con l’utente.
Un sistema esperto privato della sua conoscenza viene definito guscio o shell e ha
il compito di facilitare l’implementazione di un altro sistema esperto, designato
per la risoluzione di un preciso problema. Un guscio è costituito da meccanismi
linguistici volti alla rappresentazione della conoscenza e da procedure costituenti
il motore inferenziale.
Partendo da questi gusci è possibile progettare un sistema esperto, senza creare il
motore inferenziale e le strutture di memorizzazione della base di conoscenza a
lungo termine.
Gli shell presentano numerose limitazioni quanto a formalismi supportati. Sono
stati perciò ideati insiemi di strumenti, più modulari e flessibili, detti toolkit.
Questi risultano essere, non solo più costosi, ma anche superiori ai gusci, in
relazione alla varietà dei formalismi di rappresentazione e dei meccanismi di
inferenza tra i quali compiere delle scelte.
I sistemi esperti raccolgono, ordinano ed elaborano dati da ambiti di conoscenza
strettamente definiti per mezzo di algoritmi formulati in modo preciso; combinano
dichiarazioni e ne traggono risultati. Molto spesso vengono utilizzate formulazioni
del tipo “se...allora...”, ma la conclusione del sistema esperto non deve
necessariamente coincidere con conclusioni logiche conosciute all’uomo. È
importante che l’utente conosca i limiti di applicazione, le regole e i criteri di
valutazione secondo i quali il sistema esperto prepara i dati memorizzati e li rende
accessibili. Di solito, il sistema esperto è un software, corredato di componenti
hardware sviluppati appositamente. I sistemi esperti sono in uso da molto tempo,
ma non sono ancora in grado di sostituire le abilità umane. Svolgono lavori di
routine e forniscono aiuti nelle decisioni: ricerca di errori nei programmi dei
calcolatori, analisi chimiche, valutazioni di crediti, ecc…Esistono anche sistemi
esperti che sono in grado di apprendere e trarre conclusioni in base al dialogo con
l’utente. I sistemi esperti più efficaci sono amministratori ed elaboratori
relativamente semplici di banche di dati.
Nella risoluzione di particolari problemi, attraverso il ricorso ai sistemi esperti,
sono state distinte tre categorie principali:
1. Classificazione. “Rientrano in questa classe i sistemi esperti per effettuare
analisi chimiche, analisi cliniche e diagnosi di malattie, per fare classificazioni
geologiche sulla base di campioni minerali, ecc..”
2. Progetto. Si tratta di sistemi basati su specifiche relative agli obiettivi che un
progetto deve soddisfare e ai vincoli che devono essere rispettati; dunque,
“cercano combinazioni di elementi componenti e di strutture che soddisfino
l’obiettivo.”
3. Supporto all’assunzione di decisioni. A questa classe fanno parte i sistemi del
tipo “che cosa succederebbe se..”.
Qui di seguito sono elencate le funzioni tipiche di un sistema esperto:
- interpretazione dei dati, al fine di dedurne il significato. I sistemi esperti
forniscono descrizioni di situazioni in base ai dati cui vengono assegnati
significati simbolici;
- diagnosi, ovvero classificazione di un oggetto, un evento o una situazione in
base alle sue caratteristiche. I sistemi diagnostici identificano le cause del
malfunzionamento di un sistema sulla base di osservazioni empiriche, correlando
le irregolarità di funzionamento osservate con le relative cause;
- ricerca, nel senso di problemi caratterizzati dall’esistenza di metodi di tipo
sistemico, allo scopo di generare soluzioni possibili e verificarne l’accettabilità;
- pianificazione, ossia suddivisione di un problema in una serie di sottoprogetti
più semplici, al fine di individuare la soluzione finale. Viene, così, definita una
sequenza di azioni per il raggiungimento degli obiettivi.
La capacità di un sistema esperto di svolgere compiti di pianificazione dipende
dalla conoscenza di particolari condizioni, fra le quali i costi degli elementi da
utilizzare. In aggiunta un sistema esperto deve essere in grado di risolvere aspetti
conflittuali che si presentano durante il conseguimento di più obiettivi: la
realizzazione di uno può impedire il conseguimento dell’altro, oppure, nel caso in
cui più elementi partecipano all’esecuzione di un progetto, il sistema deve essere
in grado di coordinare e, se è il caso, ottimizzare la collaborazione tra gli
elementi;
- system building. Un settore interessante è quello che comprende gli strumenti per
la realizzazione dei sistemi esperti. Infatti, molti sono i sistemi costituiti da
strutture similari (es: sistemi basati su regole che presentano un interprete, un
insieme di regole, una base di dati).
Affinché un sistema esperto sia uno strumento efficace è necessario che l’utente
sia in grado di interagire facilmente con esso. E per facilitare questa interazione è
importante che un sistema esperto presenti, oltre all’abilità di attuare il compito
per cui è stato costruito, anche alcune capacità come: la capacità di spiegare il
proprio ragionamento e la capacità di acquisire nuova conoscenza e di modificare
quella acquisita in precedenza.
La costruzione di un sistema esperto necessita della collaborazione di due
persone: uno è l’esperto della materia, la cui competenza viene tradotta in un
programma, l’altro (ingegnere della conoscenza) è la persona che compie questa
traduzione.
Robotica
La robotica utilizza l’IA per organizzare in modo flessibile sequenze rigide di
azioni. Alcuni sensori percepiscono gli aspetti rilevanti dell’ambiente ed inviano
ad un processore i segnali corrispondenti. Tale processore adatta il piano di lavoro
e l’obiettivo alle condizioni esterne, istruendo in modo adeguato le
apparecchiature esecutive del robot..
La robotica ha radici storiche assai profonde. Fin dai miti omerici l’uomo ha
sognato la costruzione di strumenti fisici in grado di sostituirlo nei lavori più
faticosi e ripetitivi. Sono state attuate una serie di ricerche sui robot nel campo
dell’Intelligenza Artificiale, che si muovono con prospettive analoghe a quelle dei
sistemi esperti, costruendo strumenti per assolvere a specifici compiti operativi.
Vengono anche presi in considerazione problemi connessi con la visione e il
riconoscimento di forme piane e di oggetti tridimensionali, il movimento, la
percezione tattile e sonora, la manipolazione di oggetti di vario tipo.
Un robot è definito “un agente artificiale attivo il cui ambiente è il mondo
reale”(Russel e Norvig, 1995). I robot vengono distinti tra di loro in base ai
sensori e agli attuatori di cui sono forniti. Un attuatore è un dispositivo,
controllato dal robot, in grado di modificare l’ambiente. Il suo uso consiste nel
cambiare la posizione del robot in un ambiente (locomozione) e nello spostare gli
oggetti presenti in un dato ambiente (manipolazione). I sensori, nel significato più
generale, sono qualsiasi cosa possa “mutare lo stato della computazione
dell’agente in risposta ad un cambiamento dello stato del mondo” (Russel e
Norvig, op. cit.).
Interessante è lo studio condotto da Rodney Brooks (1986) in difesa di un
approccio alla progettazione di robot, da lui stesso definito “robotica basata sul
comportamento”. Secondo lo studioso “l’intera progettazione dell’agente può
essere decomposta, non in componenti funzionali come la percezione,
l’apprendimento e la pianificazione, ma in comportamenti come l’evitare gli
ostacoli, il seguire i muri e l’esplorazione.” Ciascun modulo comportamentale ha
accesso agli ingressi dei sensori, allo scopo di estrarre l’informazione
necessitante, per poi mandare il proprio segnale di controllo agli attuatori. A loro
volta, i comportamenti sono organizzati in gerarchie di priorità in base alle quali i
comportamenti di alto livello possono accedere allo stato interno dei
comportamenti di basso livello, modificando o sovrascrivendo le proprie uscite.
Le ricerche sui robot e sulla robotica hanno portato un ulteriore contributo allo
studio sull’IA. Tali ricerche hanno portato a differenti tecniche per la
modellazione dello stato del mondo e per la descrizione del processo di
cambiamento da uno stato del mondo ad un altro; ad una maggiore comprensione
di come generare progetti per le sequenze di azioni e come controllare
l’esecuzione di questi progetti (Nilsson, 1980).
Reti Neurali
“Una rete neurale è uno strumento di processazione di informazioni, e può
concretizzarsi sia in un software (un algoritmo) sia in uno strumento hardware, la
cui progettazione emula in qualche modo la progettazione e il funzionamento del
cervello umano e dei suoi componenti” (Bilotta, 1996). Si tratta di architetture di
computer che, per struttura e modalità di lavoro, sono simili ai sistemi nervosi più
semplici. Sono composte da un insieme di punti di smistamento e di regolazione, i
cosiddetti nodi, in condizione attiva o passiva (analogamente ai neuroni),
accoppiati da una rete di collegamenti (corrispondenti alle fibre nervose). La rete
viene “programmata” attraverso l’acquisizione di una serie di programmi, affini
tra di loro, e delle loro soluzioni. Se la topologia prescelta per la rete è ottimale e
se gli algoritmi per il calcolo delle singole condizioni dei nodi sono adatti, la rete
neurale sarà in grado di risolvere compiti simili, cioè la rete neurale “impara”
meglio quello che “le viene insegnato”. Le reti neurali si adattano, per esempio, al
riconoscimento di forme, problema che per i calcolatori programmati
convenzionalmente richiederebbe uno sforzo enorme e quindi sarebbe poco
economico. L’unico svantaggio delle reti neurali consiste nel fatto che, la
soluzione trovata non viene spiegata nei singoli passaggi; dunque, l’utente della
rete non può seguirla e quindi esaminarla
Le ricerche sulle reti neurali sono cominciate quaranta anni fa, ma sono state
ostacolate e paralizzate dalle difficoltà di sviluppo delle regole di base
dell’Intelligenza Artificiale.
Più recentemente, grazie ai progressi delle ricerche in campo biologico e delle
Tecnologie dell’Informazione, le reti neurali stanno guadagnando un nuovo ruolo
e hanno coinvolto in tutto il mondo ricercatori di diverse discipline: biologia,
psicologia, informatica, telematica, fisica, matematica.
Le attuali reti neurali artificiali sono tuttora sistemi costruiti ad hoc per indagare e
studiare specifici problemi, simulando il fenomeno delle connessioni intrinseche
del dominio di conoscenza oggetto di studio.
Adottando una metafora, si può affermare che gli esseri umani ogni giorno
eseguono calcoli: per esempio, quando riconoscono un volto o quando ricordano il
gusto particolare di una caramella. Tuttavia risulta estremamente complicato far
eseguire questo genere di operazioni ai computer tradizionali, ma proprio da
queste difficoltà è nato il nuovo approccio basato sulle reti neurali e sulle teorie
connessionistiche.
Il motivo di questo nuovo orientamento risiede principalmente nel fatto che le reti
neurali non devono essere programmate in modo deterministico (software
classico), bensì predisposte tecnologicamente e poi addestrate a evolversi
autonomamente.
Con le reti neurali non vi è alcuna necessità di scrivere lunghe sequenze di codici
con un linguaggio di programmazione procedurale. La prassi applicativa oggi
mira a far sì che la rete stessa trovi le relazioni esistenti tra i dati disponibili sulle
basi di dati. Le relazioni tra i dati non vengono quindi stabilite a priori, né sotto
forma di algoritmi come nell’informatica tradizionale/procedurale né di regole di
inferenza come nel caso dei Sistemi Esperti. Per questa peculiarità, nel caso delle
reti neurali, si è fatto ricorso ad un neologismo introducendo la dizione
“programmazione intenzionale”.
Questa capacità di “imparare”, trovando autonomamente le associazioni tra i
contenuti informativi dei dati, è la caratteristica più importante delle reti neurali
che dovrebbero, in futuro, riuscire ad operare anche quando vengano date loro
informazioni sbagliate o mancanti.
Un’altra peculiarità delle reti neurali è l’auspicata potenzialità di operare con
diversi tipi di segnali generandone altri di natura diversa, ma logicamente
collegati tra loro. Questa abilità fino a qualche tempo fa, era di esclusiva
pertinenza umana.
Infatti con le reti neurali non si è legati alla necessità di trasformare i segnali
provenienti dal mondo esterno in lunghe e noiose sequenze di simboli binari (bit)
tipici di tutte le Tecnologie dell’Informazione.
Le reti neurali si propongono oggi come una tecnologia capace di interagire
direttamente con il mondo circostante prelevando i dati senza dovere eseguire
delle trasformazioni per poterli elaborare. Altre possibili applicazioni candidate ad
essere implementate da una rete neurale sono tutte quelle che non necessitano di
risposte precise, ma si accontentano di avere come risultato solo una tendenza
basata sull’analisi di esperienze passate.
Le reti neurali, infine, sono sperimentate per ora su problemi di ricostruzione di
immagini quali il riconoscimento di oggetti parzialmente nascosti in
un’immagine, sistemi di supporto alle decisioni in condizioni di incertezza con
variabili qualitative.
Le reti neurali sono quindi, allo stato attuale, uno strumento valido, anche se
imperfetto, solo per quei problemi che necessitano risposte in tempi brevi e che
non si pongono l’obiettivo di ottenere risultati precisi.
Quindi si può dire che il Connessionismo rifletta la ricerca nelle Scienze
Cognitive, nell’Intelligenza Artificiale, nella Robotica, nella Computer Science,
discipline che hanno lo scopo di modellare i processi neurali e cognitivi. La mente
è vista come una rete neurale, nella quale la conoscenza risiede interamente nei
modelli e nelle relazioni tra neuroni. Gli stessi neuroni non hanno contenuto; ad
ogni momento essi sono in uno o due stati: eccitatorio ed inibitorio, on o off. In tal
modo, invece di una rete semantica di regole significative e di concetti,
l’intelligenza emerge da modelli di neuroni cieci attraverso la forza di associazioni
basati sull’esperienza. Le reti neurali sono unità significative sub-simboliche che
possono essere costruite adeguatamete sui modelli di funzionamento delle reti
biologiche ma non rendono conto dei processi di base dell’apprendimento. I
soggetti che apprendono possono costruire una rappresentazione o una immagine
conscia di qualcosa che essi credono sia fuori in qualche posto dell’ambiente che
li circonda. La rete neurale non riflette la realtà esterna. I connessionisti si sono
allineati con il movimento della “cognizione situata” (situated cognition) (Brown,
Collins e Duguid, 1989), ritenendo che poiché la cognizione dipende dalla nostra
base di esperienza, l’apprendistato cognitivo e altri metodi di apprendimento
autentico sono raccomandati (Clancey, 1992).
Riassumendo. Per il connessionismo l’apprendimento si basa sui seguenti
presupposti:
a) La mente è come il cervello (eliminazione del dualismo mente/corpo).
b) La mente è una macchina materiale (intelligenza artificiale o intelligenza
naturale).
c) La conoscenza è pre-simbolica e pre-rappresentazionale.
d) La rappresentazione è un caso speciale di conoscenza.
e) La conoscenza è socialmente veicolata e distribuita nell’ambiente.
f) Il pensiero è una continua ricostruzione della conoscenza.
g) L’esecuzione esperta è un processo di riconoscimento di modelli e non il
seguire regole.
h) L’apprendimento e l’esecuzione sono inseparabili.
La Scienza Cognitiva
La Scienza Cognitiva è lo studio dell’intelligenza e dei sistemi intelligenti, con
particolare riferimento al comportamento intelligente inteso come computazione.
Sebbene nessuna definizione soddisfacente sia stata proposta ancora oggi, tutti gli
esseri umani sono capaci di giudicare quando un determinato comportamento
possa essere definito intelligente. Il range di comportamenti intelligenti è molto
vasto ed articolato, e va dalla risoluzione di problemi, alla risposta adeguata ad
una domanda, alla creazione di manufatti interessanti, belli o nuovi. Solitamente il
termine intelligenza viene applicato a questo insieme diverso di comportamenti in
quanto si presuppone che soggiaggiano a tali processi un insieme comune di
caratteristiche e di unità funzionali che svolgono le attività.
I test di intelligenza, organizzati su tali attività differenti ci permettono di
comparare persone differenti attraverso una valutazione utilizzata come scala di
valori di riferimento. Ci sono batterie di test che permettono la valutazione di
compiti veramente diversificati, dalle prove di vocabolario a quelle di logica a
quelle della risoluzione di problemi. Per rispondere ad alcune di queste prove i
soggetti devono possedere una specifica conoscenza dell’argomento, per altre
nessuna conoscenza specifica è richiesta, in quanto si presuppone che i contenuti
siano familiari alla maggior parte degli esaminati.
Oggi noi attribuiamo intelligenza sia agli umani che ai sistemi non umani, in
particolare ai computer. Non tutti accettano questo punto di vista, ma è possibile
definire quest’ultimi come intelligenti se esibiscono comportamenti analoghi a
quelli umani. L’intelligenza deve essere interpretata giudicando l’abilità dei
sistemi di eseguire compiti intellettuali, indipendentemente dalla natura del
sistema fisico che esibisce questa abilità.
La Scienza Cognitiva, definita come lo studio dell’intelligenza e dei suoi processi
computazionali, può essere interpretata in numerosi modi. E’ possibile costruire
una teoria dei processi intelligenti, completamente divisa dallo specifico sistema
fisiologico o biologico in cui viene ravvisata o implementata. E’ possibile studiare
l’intelligenza umana o animale, cercando di estrarre una teoria dei processi
intelligenti attraverso lo studio del comportamento degli organismi intelligenti.
Oppure è possibile studiare l’intelligenza dei computer, cercando di capire i
principi computazionali che soggiacciono all’organizzazione e al comportamento
dei programmi intelligenti.
La Scienza Cognitiva segue queste tre strade. Un esempio di teoria astratta
dell’intelligenza è la logica formale. Per oltre un secolo, la psicologia
sperimentale ha studiato l’intelligenza di soggetti umani e animali nei laboratori.
Mentre dal 1950 con la pubblicazione del saggio Computing Machinery and
Intelligence di Turing, è sorta quella parte della scienze dei computer detta
intelligenza artificiale che studia l’intelligenza esibita dalla macchine.
Quindi è possibile definire la Scienza Cognitiva come lo studio dell’intelligenza e
dei suoi processi computazionali negli umani e negli animali, nei computer e
come è possibile che si realizzi attraverso teorie formali o astratte. Potrebbe essere
interessante, dal punto di vista didattico, analizzare le parti comuni a questi tre
differenti tipi di approcci allo studio dell’intelligenza per vedere come queste
strade si siano diversificate o unite dando avvio alla nascita alla Scienza
Cognitiva.
Situated Cognition
I tradizionali libri di testo chiedono agli studenti di risolvere problemi supposti
reali su come la gente fa cose veramente improbabili (Brown, Collins e Duguid,
1989). Numerosi sono gli esempi che nel mondo reale non esistono, quali per
esempio i problemi presentati nei corsi di fisica o di matematica delle scuole
superiori. Fornire ai soggetti tali problemi vuol dire coinvolgerli in attività che
non sono rilevanti per la risoluzione dello stesso problema al di fuori delle
situazione scolastica. E pensare che la scuola attualmente dovrebbe preparare i
soggetti a fronteggiare la complessità crescente che il mondo attualmente ci
propone.
Situated cognition (la “cognizione situata”, tradotta in un italiano che poco rende
il concetto; meglio potrebbe intendersi con una parafrasi del concetto inteso come
“radicare concetti in contesti reali”) è un metodo di acquisire conoscenza e abilità
in contesti che riflettono il modo in cui la conoscenza sarà utile nella vita reale
(Lave e Wenger, 1991). La struttura della situated cognition ritiene che la
cognizione non è confinata all’individuo, ma è codificata da e connessa all’attività
e all’ambiente in cui è stata prodotta (Brown, Collins e Duguid, 1989). In tal
modo, una componente di base dell’apprendimento situato è che l’attività debba
naturalmente essere autentica, e cioè significativa e con uno scopo preciso
(Chaiklin e Lave, 1993). Le attività di un dominio sono strutturate dalla cultura
stessa del dominio (Lave, 1988; Wertsch, 1991). Il loro significato e il loro scopo
sono socialmente costruiti attraverso negoziazioni tra membri presenti e
tramandate da generazione in generazione in modo codificato (Brown, Collins e
Duguid, 1989; Wertsch, 1997 ). Molte delle attività che gli studenti eseguono in
classe non sarebbero riconosciute da specialisti del settore o da praticanti della
cultura che rappresentano, ovvero le attività scolastiche sono poco autentiche.
Nella loro presentazione dell’apprendistato cognitivo come una alternativa alla
scuola convenzionale, Collins, Brown e Newman (1989) propongono
l’integrazione di produzione di compiti realistici nell’istruzione. Studiando il
modo attraverso il quale gli esseri umani imparano naturalmente, essi adeguano
l’apprendimento attraverso processi di acquisizione di cultura e conoscenza,
l’imitazione del comportamento di un gruppo sociale in accordo con un insieme di
norme. Queste situazioni dovrebbero creare scolari esperti.
Alcuni autori hanno coniato il termine conoscenza inerte per descrivere il
materiale appreso in tal modo. La conoscenza inerte può essere richiamata quando
viene chiesto ai soggetti di farlo, ma non viene usata spontaneamente nei problemsolving, anche se è rilevante per la risoluzione. Tale mancanza di trasferimento sta
mettendo in crisi gli educatori. Molti insegnanti sono frustrati dalla natura inerte
di gran parte della conoscenza scolastica.
Scuola e creatività
Le capacità creative sono d’importanza vitale ai nostri giorni ed è importante che
gli insegnanti ne incoraggino, per quanto è loro possibile, lo sviluppo. Uno dei
compiti più difficili per un insegnante è quello di fornire al bambino gli strumenti
socialmente accettabili con i quali possa usare od essere incoraggiato ad usare le
proprie capacità creative.
Il momento cruciale nella stimolazione del pensiero creativo si ha quando il
bambino è all’inizio del suo processo di scolarizzazione. E’ qui che si stabilizzano
le prime attitudini, in un’epoca in cui, molto raramente la scuola riesce a proporsi
come un luogo divertente dove il contributo individuale sia il benvenuto e dove i
cambiamenti siano desiderati ed avviati.
I bambini imparano a camminare senza una comprensione intellettuale del
controllo motorio messo in gioco. Ciò che uno sa o non sa può non aver alcun
rapporto con l’azione creativa. I bambini creano con qualsiasi conoscenza capiti
loro di avere nel momento dato. L’atto stesso di creare può fornire intuizioni e
conoscenze nuove per l’azione successiva. Probabilmente la migliore
preparazione alle attività creative sono gli atti creativi stessi. Aspettare di agire
fino a che non ci sia una buona preparazione, o arrestare i bambini nelle loro
attività creative fino a che non sappiamo come si agisce intelligentemente,
inibisce l’azione anziché promuoverla. Dare al bambino la possibilità di creare
costantemente con le conoscenze di cui dispone è la migliore preparazione al
pensiero e alle attività creative future.
Un tempo si era soliti distinguere in varie fasi lo sviluppo del pensiero creativo.
Essi iniziavano con uno stato definito di preparazione, seguito da un periodo più
riflessivo detto di incubazione, il quale a sua volta faceva da sottofondo al
successivo stadio dell’illuminazione; il periodo della verifica era quello che
chiudeva la serie. Questi stadi erano concepiti come una sequenza ordinata, ed il
ruolo della scuola sembrava doversi limitare al solo stadio iniziale della
“preparazione”. Al giorno d’oggi, il concepire la creatività in uno schema così
limitato è divenuto anacronistico, poiché la creatività risulta sempre più
strettamente collegata alle capacità intellettuali e alle attitudini sviluppatesi.
Negli ultimi anni la cultura è aumentata sempre più velocemente tanto che gli
insegnanti e studenti si sono trovati di fronte a una grandissima e disordinata
massa di materiale da assimilare. I vari campi si sono sempre più specializzati, le
conoscenze fondamentali sono divenute sempre più numerose ed il contenuto,
anche di una semplice “educazione di base”, è sempre più esteso. Di fronte a
questa crescita in progressione geometrica è essenziale non trascurare nessun
meccanismo che possa facilitare l’apprendimento dei bambini. I vecchi metodi di
tipo meccanico non sono più adeguati al compito di un’educazione efficace. Sono
ora necessari nuovi metodi per promuovere un effettivo apprendimento ed è
chiaro che le capacità del pensiero creativo, se bene utilizzate, possono contribuire
notevolmente all’acquisizione del sapere. In un mondo che cambia, tutto il
potenziale mentale del bambino, e non un solo aspetto, deve essere disponibile per
un processo di interazione con l’ambiente. Questa tesi è stata proposta da Getzels
e Jackson (1962) e da Torrance (1964), che ha inoltre affermato che la conoscenza
del fatto che l’essere umano impara meglio quando impara in modo creativo è
senza dubbio cosa nuova, ma che per gli insegnanti è stato finora più conveniente
usare dei metodi autoritari, certamente più facili perché richiedono una minore
preparazione e liberano il docente dalla necessità di dare sempre il massimo delle
sue possibilità.
Insegnare la creatività significa mettere in evidenza la scoperta di soluzioni a
problemi nuovi attraverso una nuova valutazione del già noto, l’estensione del
pensiero a campi “illogici” e divergenti, la deduzione di relazioni mai viste tra
campi di esperienza in apparenza distinti fra loro e cose simili, piutosto che la
trasmissione di un insieme già noto di nozioni sulla creatività o l’insegnamento di
una abilità creativa ben definita.
Lo sviluppo creativo sembra operare mediante una serie di modelli che sono
diversi rispetto a quelli di altre aree comportamentali. Conosciamo tutti quei
bambini di quattro anni che mostrano una vivida immaginazione ed un’enorme
curiosità per tutto ciò che li circonda. Tuttavia alcuni studiosi hanno rilevato che,
col passare del tempo, intorno all’età di otto anni, il bambino appare molto meno
creativo; vi è quindi una reimmersione nel processo di sviluppo creativo verso i
tredici-quattordici anni (Torrance, 1962).
E’ stato detto, talora, che la scuola pubblica scoraggia il pensiero creativo; tuttavia
la scuola deve assolvere a molte funzioni e saremmo pertanto più nel giusto se
specificassimo che il pensiero creativo non ha una posizione particolarmente
dignitosa nell’elenco degli obiettivi della maggior parte degli insegnanti.
La creatività ha bisogno di essere alimentata in un ambiente di tipo particolare.
Risulta evidente quanto la natura dell’interazione studente insegnante è
importante. In una ricerca concernente tredici classi di scuola materna, risultava
che ad alti livelli di direzione dell’adulto corrispondeva un alto conformismo in
presenza degli adulti. In classi meno strutturate, trovavano comportamenti più
altruistici e maggiore immaginazione nel gioco, necessari alla promozione
complessiva dello sviluppo cognitivo ed emozionale dei bambini.
L’apprendimento può farsi strada solo attraverso i sensi e affinché un
apprendimento possa dirsi effettivo, dobbiamo essere capaci di usare i nostri sensi
liberamente e creativamente e sviluppare un atteggiamento positivo verso noi
stessi e i nostri vicini.
L’uomo sembra fare un affidamento sempre minore su un effettivo contatto
sensoriale con il proprio ambiente. Lentamente, egli sta diventando un osservatore
passivo della sua cultura anziché un attivo produttore di essa.
La scuola ha fatto ben poco per educare questi sensi che, soli, ci avviano
all’apprendimento. Sebbene a livello di scuola materna sia compreso un certo
numero di attività che comportano manipolazioni e movimento, esse vengono
svolte in gran parte come fini a se stesse. Sembra quasi che lo scopo sia quello di
sviluppare certe capacità per poter poi dimostrare che esse sono state oggetto di
insegnamento, piuttosto che di servirsene quali modalità espressive. L’insegnante
delle classi minori appare soddisfatto quando il bambino impara a servirsi delle
forbici, ma l’opportunità di usare creativamente le forbici vengono limitate. E
quanto più si procede nella scala educativa, tanto più notiamo l’allontanamento
del bambino dai propri sensi, di modo che una parte notevole dell’apprendimento
non solo sostituisce ma addirittura diventa un’astrazione dell’esperienza naturale.
L’educazione deve mirare a sviluppare nel bambino, oltre al gusto per il sapere, la
disponibilità al cambiamento e l’atteggiamento creativo. Deve portarlo a maturare
una ferma personalità, consentirgli di superare i condizionamenti per poter vivere
degli scopi culturalmente autonomi e infine incoraggiarli a comunicare e
dialogare. Per rispondere alle nuove finalità della scuola l’insegnamento deve
essere visto come un avviamento all’iniziativa che realizzi la realtà nella sua
globalità e sviluppi la creatività, la capacità di porsi dei problemi nuovi e dar loro
soluzioni originali. Mantenere il bambino in uno stato di creatività vuol dire far
esplodere le strutture della scuola.
Gli insegnanti sono coscienti del fatto che sviluppare l’iniziativa e la creatività
degli allievi vuol dire raggiungere uno dei fini se non il fine più importante
dell’educazione. Tutti i punti di vista, le opinioni i suggerimenti dimostrano come
gli insegnanti siano sensibili al problema della creatività.
Al binomio conoscenza-esperienza va sostituito il binomio conoscenza-creatività.
Stein (1963) afferma: “La creatività è quel processo che ha come risultato un
prodotto personale , accettato come utile o soddisfacente da un gruppo sociale in
un periodo storico qualsiasi”.
Nel vocabolario di psicologia di Piéron leggiamo; creatività è: “Funzione
inventiva di immaginazione creativa”.
Nel Dizionario di psicologia di Sillamy: “La creatività è la disposizione a creare,
presente allo stato potenziale in ogni individuo e a qualunque età, strettamente
connessa all’ambiente socio-culturale.
Nell’aprile del 1951, il Laboratorio di Psicologia dell’Università della California
del Sud presenta una relazione relativa ad un’analisi fattoriale del pensiero
creativo. Prima di questa data , pochi esperimenti erano stati condotti nel campo
del pensiero creativo.
Esistono due grandi categorie di psicologi: quelli che fondano la loro analisi dei
processi psicologici sull’associazione fra stimolo e risposta (lo schema S-R), e
quelli che si interessano alle diverse modalità con cui gli individui percepiscono,
reagiscono, organizzano e immagazzinano le informazioni. I primi si sono
occupati di teorie dell’apprendimento senza per ciò lasciare da parte la
personalità, la memoria. Gli altri hanno accentrato i loro interessi soprattutto sui
problemi cognitivi.
Nel loro saggio dal titolo Tipi di pensiero nei bambini, Wallach e Kogan (1965),
dopo aver individuato e formato dei gruppi di soggetti creativi non intelligenti,
mediante tests dedicano gran parte delle loro ricerche alla categorizzazione ed alla
concettualizzazione in rapporto alla creatività. Sulla base delle conclusioni
raggiunte, si può dire che gli autori definiscano la categorizzazione come un
problema di preferenza fra categorie larghe o strette e la concettualizzazione come
l’insieme delle caratteristiche sia di struttura che di contenuto dei concetti
impiegati da soggetti, quando si chiede loro di raggruppare o di integrare diversi
insiemi di stimolazioni.
Sulla base dei risultati ottenuti coi tests di creatività, Cropley (1966) forma due
categorie di individui: il 10% dei soggetti più creativi e il 10% di quelli meno
creativi. I soggetti più creativi sono quelli che ottengono i punteggi più elevati nel
test di categorizzazione.
Una delle condizioni del pensiero divergente è costituita dall’ampiezza di
categorizzazione, vale a dire dalla capacità di organizzare le informazioni.
In primo luogo, la disposizione dell’informazione in categorie larghe ha come
corollario la possibilità di manipolazione e di intervento su una grande quantità di
informazioni. Il soggetto creativo è più ricettivo di quello non creativo. Questa
tendenza comporta quella che potremmo definire l’accettazione del rischio:
rischio di sbagliare, rischio di compiere errori, rischio di venire corretti.
La seconda conseguenza riguarda il fatto che il soggetto divergente è sempre
pronto a lasciarsi andare, a provare.
Barron (1968) nelle sue ricerche sulla personalità s’è particolarmente interessato
alla descrizione degli individui creativi.
I più creativi sono molto ben documentati, si dimostrano interessati dai problemi
di fondo, hanno una certa facilità di parola, sono intraprendenti, energici,
coraggiosi. I meno creativi sono conformisti, apatici, piatti, hanno delle idee
scarsamente fluide e innovative; si trovano a loro agio nella banalità. Anche
Taylor (1964) enumera dei tratti caratteristici della personalità degli individui
creativi: humour, fantasia, curiosità, fare domande, abilità nel ristrutturare le idee,
autonomia, indipendenza, sicurezza nel proprio io, accettazione di se stessi,
ingegnosità e, nell’insieme, una personalità molto complessa.
Questi opposti ritratti di soggetti creativi e non-creativi ci dicono qualcosa anche
circa i rapporti esistenti fra l’ambiente familiare e la creatività e lasciano trasparire
come l’ambiente familiare e la creatività dell’individuo creativo differisca da
quello del non-creativo.
La scuola di domani deve quindi sviluppare al massimo il senso dell’originalità,
una sicura personalità, un buon spirito critico, non solo nell’interesse del singolo,
ma anche a vantaggio della collettività.
A questo punto, viene spontaneo chiedersi perché si continua a soffocare la
creatività. Le ragioni sono parecchie, ma una prevale certamente sulle altre e
riguarda l’atteggiamento dell’insegnante nei confronti degli allievi creativi.
Getzels e Jackson (1962) hanno studiato il problema dal punto di vista
sperimentale. Essi hanno chiesto agli insegnanti degli allievi presi come campione
di studio di graduare gli stessi secondo una scala composta di cinque punti e sulla
base del seguente criterio: “quest’allievo è quello col quale preferisco avere a che
fare in classe”.
I risultati raggiunti sono sorprendenti: gli allievi con un alto Q.I. sono quelli
preferiti, quelli più ricercati dagli insegnanti rispetto alla media degli studenti del
campione , mentre gli allievi più creativi equivalgono alla media dei compagni in
fatto di preferenze.
E’ interessante poter rileggere l’elenco dei principi che secondo Torrance (1964)
devono essere tenuti presenti perché la creatività non sia soffocata; si possiamo
rintracciare alcune idee importanti che stanno alla base di alcune metodologie
pedagogiche oggi in uso:
a) rispettare le domande dei ragazzi e guidarli perché trovino da soli la risposta;
b) rispettare le idee originali inconsuete e far scoprire ai ragazzi qual è il loro
significato;
c) mostrare ai ragazzi che le loro idee hanno un valore; adottare quelle che è
possibile usare in una classe;
d) dare ai ragazzi un lavoro libero, senza l’assillo di voti o di giudizi di valore o
di critica;
e) non formulare mai un giudizio circa il comportamento dei ragazzi, senza
prima aver sempre spiegato loro le cause e le conseguenze.
Tutti gli insegnanti dovrebbero mettere in pratica questi principi; ma ciò che più
importa è che quest’applicazione non sia occasionale e saltuaria, ma continuativa,
sistematica e ben impostata.
E’ possibile sviluppare la creatività? Torrance ha condotto un esperimento che
sceglieva come base di partenza proprio quest’ipotesi ed è giunto all’affermazione
che è possibile sviluppare la creatività usando la tecnica del brainstorming. Si
tratta innanzi tutto di operare una separazione fra due funzioni dell’intelligenza, la
produzione divergente e il giudizio. Esiste un tempo per la produzione delle idee e
un tempo per una considerazione critica delle stesse. Da questa considerazione di
fondo deriva come naturale conseguenza che:
la quantità delle idee prodotte è essenziale;
le idee più inconsuete sono più accette;
la combinazione di idee aumenta il numero delle idee.
In un insegnamento di tipo moderno non sarebbe fuori luogo avere delle sedute di
brainstorming, anche se questa tecnica applicabile alla classe è una tecnica di
gruppo; in questo senso la creatività si manifesterebbe alla presenza degli altri
partecipanti. I lavori di Parnes (1972) e Osborn (1955) sulla tecnica del
brainstorming lasciano intuire che la creatività di gruppo è in qualche modo
superiore alla creatività di ognuno dei suoi membri. Una conseguenza di questa
tecnica di gruppo è che non tutti i soggetti timidi, gli inibiti, gli introversi
producono secondo quelle che sono veramente le loro migliori capacità” la
timidezza, la paura di rendersi ridicoli, dice Osborn, sono le cause principali del
tramonto di molte idee ancor prima che vengono alla luce”.
Si può concepire il brainstorming come intervento di tipo terapeutico contro la
timidezza.
L’educatore ha un punto sicuro a suo favore, nel senso che la sua opera si rivolge
a bambini e i bambini hanno conservato una forza creativa ben più dinamica di
quella degli adulti. A lui quindi, tocca il compito di sollecitare al massimo la
creatività, proponendo semplicemente dei lavori che esigano l’impiego della
creatività: qualcuno reagisce positivamente fin dall’inizio, e comunque si attua un
certo cambiamento che modifica l’atmosfera dell’insegnamento e spinge i meno
creativi a produrre secondo le capacità di cui dispongono.
Le ricerche di Torrance (1965a e1965b) hanno dimostrato che in un gruppo
eterogeneo, gli individui creativi vengono respinti. Sarebbe perciò interessante
conoscere qual è il posto occupato dai creativi in un simile modello: essi vengono
rifiutati o accettati dagli altri?
Questo discorso ci riporta immediatamente a quello relativo al ruolo e
all’influenza preponderante del docente infatti, dipende molto da lui se i soggetti
creativi vengono accettati. L’insegnante può rappresentare o non rappresentare
una fonte di sicurezza, mediante il consenso che dimostra verso i creativi ed il
grado di accettazione delle loro idee originali.
Il rapporto docente allievo è certamente uno dei più difficili. Alcuni autori
sostengono che è un rapporto asimmetrico; l’insegnante sa tutto, è il depositario
del sapere, mentre di fronte a lui l’allievo non sa nulla. Imparare vuol dire passare
dall’ignoranza al sapere e il vero operatore di questo passaggio è chi insegna.
Questo rapporto asimmetrico si trasforma ben presto in un rapporto di autorità e di
dominio, e ciò avviene tanto più facilmente quanto più questo rapporto di autorità
soddisfa la vanità e il bisogno intellettuale di chi insegna.
Il rapporto di insegnamento è “un duello”; esiste obbligatoriamente un confronto
nell’atto comune di chi insegna e di chi impara. Il duello in questo caso è il
dialogo, il confronto è di tipo verbale; esso attesta anche da parte di chi insegna la
volontà di accettare tutto ciò che è messo a disposizione di chi impara, e cioè le
sue attitudini, i suoi gusti, le sue conoscenze precedenti e quelle parallele, la sua
personalità di cui la creatività è una componente essenziale.
L’introduzione dei sussidi audiovisivi contribuisce a modificare il rapporto
docente allievo. Chi insegna, infatti, non ha più il controllo e il completo
monopolio del sapere: le informazioni vengono date a chi impara dalla radio, dal
cinema , dalle registrazioni su nastro, dalla televisione.
L’insegnante si trasforma in colui che deve, da un lato, facilitare la ricezione
dell’informazione e, dall’altro, colui che cerca di utilizzare con gli allievi questa
informazione. Certo i mezzi audiovisivi non mutano automaticamente il tipo di
ruolo dell’insegnante; facilitano però il cambiamento se l’insegnante è d’accordo
e collabora.
Da artefice principale del rapporto tradizionale docente-allievo, egli diventa
l’intermediario fra l’insieme latore di informazione (registratore e proiettore) e gli
allievi. Da docente tradizionale qual era si trasforma in pedagogo che guida gli
allievi alla conquista del sapere. La funzione dell’insegnante è allora quella di
mettere a frutto tutta la sua capacità pedagogica e la sua intuizione psicologica.
Il postmodernismo
Una importante teoria ed un insieme di metodologie che riguardano
l’apprendimento sono emersi dalla filosofia europea e dall’analisi critica
all’interno della tradizione umanistica. L’Ermeneutica, la Semiotica e la
Fenomenologia sono termini associati con tale approccio. Queste discipline
condividono un comune interesse e sostengono che il pensiero è
fondamentalmente una attività interpretativa. I teorici del Postmodernismo
rifiutano la teoria della corrispondenza della verità che definisce la verità come
una riflessione interna ed accurata del mondo esterno. Il pensiero non è un una
rappresentazione creata internamente di cose reali che si trovano fuori nel mondo
esterno. Il problema non è come rappresentare un mondo esterno in modo
veritiero ma piuttosto come interpretare queste interazioni in un modo che è loro
fedele? Invece di assumere che le menti degli individui siano un punto di partenza
per la comprensione della condizione umana, i teorici postmoderni stabiliscono
che il dato non interrogabile nella vita è che noi siamo già nel mondo,
interagiamo con altra gente e ci troviamo immersi in situazioni differenti, sempre
coinvolti in situationi e in impegni (Faulconer e Williams, 1990). La cognizione è
vista da alcuni come una interiorizzazione delle interazioni sociali (Vygotsky,
1978; Wertsch, 1985, 1991). Vygotsky
si interesso di apprendimento
culturalmente situato, ritenendo che le interazioni educative riflettessero la cultura
che circonda i soggetti. Egli dimostrò, inoltre, che gli studenti possono pensare
astrattamente quando operano al più alto livello concettuale, tale come la
comprensione di concetti scientifici.
I modelli della mente del Postmodernismo concordano per molti aspetti con i
modelli del connessionismo. Entrambi gli approcci sono non rappresentazionali,
entrambi concordano che il tradizionale dualismo cartesiano sia inadeguato.
Entrambi sono d’accorco sull’importanza della conoscenza tacita e sull’influenza
delle variabili culturali/ambientali sul processo di apprendimento. Entrambi gli
approcci suggeriscono simili implicazioni per l’istruzione, come gli ambienti per
l’apprendimento e l’apprendistato cognitivo. Essi differiscono nella loro
concezione della natura dell’attività dell’intelligenza. I connessionisti lavorano
attivamente per sviluppare modelli di reti neurali computerizzati che incorporino
intelligenza (Rumelhart, McClelland, and the PDP Research Group, 1986); i
teorici postmoderni ritengono che i computers non potranno mai catturare la vera
natura dell’intelligenza umana (Dreyfus, 1979; Winograd e Flores, 1986).
E’ chiaro che i recenti modelli della cognizione stanno sfidando la tradizionale
nozione dell’apprendimento e dell’insegnamento. Comunque, per quelli che
credono sull’oggetività, sui modelli rappresentazionali della mente, i vecchi abiti
stentano a morire. Sembra un controsenso non pensare ad un mondo reale e vero
che la nostra mente cerca di catturare. Molta gente si sente sicura quando le loro
discipline sono chiaramente ed esplicitamente definite da un insieme di regole e di
principi semantici. Alla gente piacciono le ricette che guidano le loro azioni
(Putnam,1995).
Le implicazioni per l’istruzione del connessionismo e gli approcci interpretativi
non sono stati ancora messi a punto. Per il momento, questo ripensamento sulla
natura della cognizione fa ripensare anche su quali siano le strategie che
comprendano la progettazione ottimale dell’istruzione per ogni argomento della
conoscenza. La nostra conoscenza di base della cognizione e della progettazione
dell’istruzione è realmente fragile, dipendente da fondamenti in continuo
cambiamento e che continueranno a cambiare nel corso degli anni.
Riassumendo la teoria dell’apprendimento del Post-modernismo si possono
rilevare i seguenti presupposti:
a) La mente è inserita nel mondo.
b) La vita è come un testo; pensare/vivere è come una interpretazione.
c) La realtà è inerentemente multiprospettica.
d) L’individuo è come un caso speciale di gruppo.
e) La vita di ogni giorno è primaria.
f) L’individuo è definito dalle relazioni sociali.
Da tutto ciò che si è detto in questo capitolo certamente una cosa risulta chiara:
fare scuola o educare o semplicemente insegnare è un compito molto complesso,
che richiede una preparazione forte e più consistente ed articolata di quella
attualmente posseduta mediamente dalla classe docente.
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