Educare alla vita buona del Vangelo

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Educare alla vita buona del Vangelo
Milano, 18 maggio 2011
Convegno presso l’Università Cattolica del S. Cuore di Milano
Mariano Crociata
L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, e se ascolta
i maestri lo fa perché sono anche testimoni.
In questa ormai proverbiale citazione della Esortazione apostolica Evangelii
nuntiandi di Paolo VI, non mi pare si faccia sempre attenzione all’espressione
verbale che regge l’affermazione su maestri e testimoni, là dove dice che l’uomo
contemporaneo «ascolta più volentieri». La formula consente di delineare con
maggiore precisione i confini di azione della testimonianza e dell’insegnamento e
apre uno squarcio sulla dinamica misteriosa dell’educazione, che giustamente viene
introdotta in quanto orizzonte comprensivo dell’ascolto da prestare ad un maestro.
L’educazione, come prima ancora lo stesso ascolto, è per eccellenza un evento di
libertà; anzi costituisce lo spazio in cui la libertà umana perviene a se stessa e
permette alla persona di maturare. Quel «più volentieri» segna tutta la distanza, ma
anche le condizioni favorevoli della possibile relazione, tra chi insegna e chi
ascolta, tra chi rende testimonianza e chi la riceve. La distanza e la relazione sono,
insieme, lo spazio della libertà, con le varianti, talora drammatiche, che vanno dal
“volentieri” al “meno volentieri”, fino al “non volentieri” della rottura e del non
ascolto.
Questo dice la necessità della parola di verità e della testimonianza per chi
ha bisogno di capire, conoscere, crescere; ma denota anche la loro non sorpassabile
limitazione che esclude automatismi di sorta. Questo ruolo di confine, che separa e
congiunge allo stesso tempo, fa dell’insegnamento e della testimonianza un termine
di riscontro di un confine più profondo che attraversa il cuore della persona e
contrassegna la sua libertà. Che cosa fa pendere in un senso o in un altro la libertà e
il cuore dell’uomo? È una domanda troppo vasta – questa – per una risposta
semplice; e tuttavia si può tentare una sua riconduzione all’essenziale che trova
nella “vita buona” una formula di adeguata approssimazione alla realtà.
Il sapore di una vita riuscita si può ben considerare quello per cui è fatto il
gusto dell’essere umano; questi, spinto dall’aver pregustato qualcosa di quel sapore,
è attratto verso un di più di crescita e di maturazione. C’è una corrispondenza tra
ciò che un essere umano possiede venendo al mondo e ciò che gli prospetta il
futuro, con la promessa di una pienezza. La parola dell’insegnamento e la
testimonianza sono l’intermediazione necessaria e, tuttavia, superabile che propizia
il congiungimento tra l’orientamento originario della persona e il conseguimento
della sua destinazione. Superabile perché il raggiungimento della meta è prima e
oltre ogni intermediario: prima, la persona nella sua inconfondibile configurazione
originaria; oltre, nel raggiungimento della forma compiuta sua propria. Per quanto
il processo mimetico possa essere passaggio necessario di ogni crescita umana, ciò
che si va formando non è la ripetizione di alcunché né di alcuno, poiché è un
risultato simile, ma nuovo e irripetibile. Quello educativo è il processo attraverso
cui l’umano si costituisce nella sua unicità grazie al riconoscimento e
all’apprendimento di ciò che è simile e comune agli altri esseri umani e nella
relazione con loro.
Questo mi conduce a formulare quasi a mo’ di ipotesi una sorta di
controcanto all’affermazione talora troppo sicura e perentoria dell’efficacia
invincibile, sul piano educativo e morale, della testimonianza. Vorrei
semplicemente sostenere la funzione necessaria e insieme, però, ausiliare della
testimonianza rispetto ad una pienezza di vita personale cercata oltre ogni pur
esemplare modello, in un rapporto tra un ideale di sé e un ideale in sé che nessuno
dall’esterno può surrogare ma solo contribuire a plasmare e riconoscere. Se infatti la
testimonianza rappresenta l’unica forma di accesso alla realtà, essa tuttavia serve
soltanto un incontro con la realtà che è altro dall’atto della testimonianza. La
ragione ultima di questa dinamica della formazione di una personalità la trovo
nell’unico riferimento in grado di reggere un tale processo, e cioè l’Assoluto,
qualunque forma esso possa prendere.
Scorrendo gli Orientamenti pastorali dei Vescovi italiani per questo decennio
vorrei provare a raccogliere in questa ottica alcuni spunti. La prima fondamentale
affermazione la pone il Santo Padre Benedetto XVI, quando dice in un passaggio
del suo discorso ai Vescovi italiani nel maggio 2010 riportato negli degli
Orientamenti pastorali:
In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo
dall’altro, l’‘io’ diventa se stesso solo dal ‘tu’ e dal ‘noi’, è creato per il dialogo, per la
comunione sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il ‘tu’ e con il ‘noi’ apre l’‘io’ a se
stesso. Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma rinuncia
all’educazione: così non viene dato quanto noi siamo debitori di dare agli altri, cioè questo
‘tu’ e ‘noi’ nel quale si apre l’‘io’ a se stesso 1.
In questa apertura dell’io a se stesso viene indicato il momento sorgivo della
personalità, di una persona nel suo divenire soggetto. Proprio mentre afferma la
necessità della relazione dell’io con il tu e con il noi, contro ogni preteso
autosviluppo privo di educatori autorevoli, il Papa riconduce tutta la questione
educativa al suo nucleo decisivo, che consiste nel sorgere della persona in quel
punto in cui l’io si apre a se stesso, prende coscienza, diventa capace di ascolto di
sé, di riflessione, di comprensione e governo del proprio mondo interiore come
centro del suo mondo personale fatto di sensazioni, di emozioni, di sentimenti, di
desideri, di pensieri, intenzioni, volizioni, esperienze. Questo sgorgare dell’io,
1
Conferenza Episcopale Italiana, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali per il
decennio 2010-2020, n. 9.
2
questo suo pervenire a se stesso è semplicemente impossibile al di fuori di una rete
di relazioni interpersonali; e tuttavia l’apertura dell’io a se stesso non è il semplice
prodotto di tali relazioni. Richiede infatti un movimento autonomo della persona
nella libertà, il cui attivarsi non è automatico, ma appartiene al mistero
imperscrutabile della persona 2, al punto da stare «al centro della relazione con Dio»
3
, ma anche delle relazioni interpersonali:
Educare richiede un impegno nel tempo, che non può ridursi a interventi
puramente funzionali e frammentari; esige un rapporto personale di fedeltà tra soggetti
attivi, che sono protagonisti della relazione educativa, prendono posizione e mettono in
gioco la propria libertà. Essa si forma, cresce e matura solo nell’incontro con un’altra
libertà; si verifica solo nelle relazioni personali e trova il suo fine adeguato nella loro
maturazione 4.
Gli Orientamenti pastorali manifestano una grande considerazione del ruolo
delle relazioni nel processo educativo, che il titolo del capitolo terzo definisce come
«cammino di relazione e di fiducia». Ma la relazione personale è intesa come
condizione per lo sviluppo della persona. Commentando Gv 1,39 e ripercorrendo
un ideale itinerario educativo modellato su Gesù e sulla sua relazione con i
discepoli, il documento fa notare che
per stabilire un rapporto educativo occorre un incontro che susciti una relazione
personale: non si tratta di trasmettere nozioni astratte, ma di offrire un’esperienza da
condividere. I due discepoli si rivolgono a Gesù chiamandolo Rabbì, cioè maestro: è un
chiaro segnale della loro intenzione di entrare in relazione con qualcuno che possa guidarli
e faccia fiorire la vita.
E poi ancora:
L’amore è il compimento della relazione, il fine di tutto il cammino. Il rapporto tra
maestro e discepolo non ha niente a che vedere con la dipendenza servile: si esprime nella
libertà del dono 5.
La vita che fiorisce nella persona ha bisogno del terreno su cui sono piantate
tutte le vite, ma ognuna conserva la sua imponderabilità. Perfino la relazione più
originaria, quella con i genitori, è connotata da alterità e irriducibile libertà.
Cf. G. Mari, Umanità, educabilità ed educazione: la sfida della libertà, in G. Vico (a cura di), L’esigenza di
educare, Vita e Pensiero, Milano 2011, 15-24.
3
Educare alla vita buona del Vangelo, n. 10.
4
Ib., n. 26. A questo corrisponde l’intendimento dei Vescovi in ordine alla finalità pastorale che
presiede alla scelta del tema educativo e alla stesura del documento: «A noi sta a cuore la
proposta esplicita e integrale della fede, posta al centro della missione che la Chiesa ha ricevuto
dal Signore. Questa fede vogliamo annunciare, senza alcuna imposizione, testimoniando con
gioia la bellezza del dono ricevuto, consapevoli che porta frutto solo quando è accolto nella
libertà» (Ib., n. 4).
5
Ib., n. 25.
2
3
Esiste un nesso stretto tra educare e generare: la relazione educativa s’innesta
nell’atto generativo e nell’esperienza di essere figli. L’uomo non si dà la vita, ma la riceve.
Allo stesso modo, il bambino impara a vivere guardando ai genitori e agli adulti. Si inizia da
una relazione accogliente, in cui si è generati alla vita affettiva, relazionale e intellettuale 6.
Dentro le relazioni si viene generati; ciò che nasce e cresce, però, non ha
solo una propria consistenza, che potrebbe ben riconoscersi in qualsiasi processo
produttivo, ma una capacità autonoma di attività che non è mai cancellata dalla
dipendenza di origine e di relazione.
Il processo educativo è efficace quando due persone si incontrano e si coinvolgono
profondamente, quando il rapporto è instaurato e mantenuto in un clima di gratuità oltre la
logica della funzionalità, rifuggendo dall’autoritarismo che soffoca la libertà e dal
permissivismo che rende insignificante la relazione. È importante sottolineare che ogni
itinerario educativo richiede che sia sempre condivisa la meta verso cui procedere 7.
Lo spazio del ruolo della persona si coglie nella crescente soggettualità del
ragazzo e del giovane, che attende di condividere il cammino educativo.
L’alterità dialettica tra educatore necessario e chi si sta aprendo alla vita e
alla definizione della propria personalità la si coglie anche nel percorso tematico
della testimonianza all’interno del documento, là dove per esempio l’educatore
viene chiamato a «testimoniare ragioni di vita che suscitino amore e dedizione» 8.
L’identificazione poi è resa esplicita, là dove nel documento si dice:
L’educatore è un testimone della verità, della bellezza e del bene, cosciente che la
propria umanità è insieme ricchezza e limite. Ciò lo rende umile e in continua ricerca.
Educa chi è capace di dare ragione della speranza che lo anima ed è sospinto dal desiderio
di trasmetterla. La passione educativa è una vocazione, che si manifesta come un’arte
sapienziale acquisita nel tempo attraverso un’esperienza maturata alla scuola di altri maestri
9
.
In ultimo, l’affermazione della gratuità come qualità caratteristica
dell’educatore testimone porta i Vescovi a scrivere:
Nessuno è padrone di ciò che ha ricevuto, ma ne è custode e amministratore,
chiamato a edificare un mondo migliore, più umano e più ospitale. Ciò vale pure per i
genitori, chiamati non soltanto a dare la vita, ma anche ad aiutare i figli a intraprendere la
loro personale avventura 10.
È significativo un elenco delle caratteristiche dell’educatore che completano
la delineazione della sua figura nel confronto con i modelli di santi educatori,
Ib., n. 27.
Ib., n. 28.
8
Ib., n. 12.
9
Ib., n. 29.
10
Ib.
6
7
4
testimoni per eccellenza della missione educativa assunta come vocazione, con
passione e dedizione.
Nell’opera dei grandi testimoni dell’educazione cristiana, secondo la genialità e la
creatività di ciascuno, troviamo i tratti fondamentali della azione educativa: l’autorevolezza
dell’educatore, la centralità della relazione personale, l’educazione come atto di amore, una
visione di fede che dà fondamento e orizzonte alla ricerca di senso dei giovani, la
formazione integrale della persona, la corresponsabilità per la costruzione del bene comune
11
.
Alla luce di questa scorsa all’interno del documento dei Vescovi, possiamo
ricavare l’indicazione fondamentale circa la necessità che si formi in chi sta
crescendo, in presenza e con l’accompagnamento di educatori-testimoni,
l’immagine ideale di una vita buona, una vita giusta, bella, felice considerata
desiderabile e accessibile per sé insieme agli altri. In questo senso raccogliamo
anche un’altra indicazione di Benedetto XVI:
il primo contributo che possiamo offrire è quello di testimoniare la nostra fiducia
nella vita e nell’uomo, nella sua ragione e nella sua capacità di amare. Essa non è frutto di
un ingenuo ottimismo, ma ci proviene da quella ‘speranza affidabile’ (Spe salvi, 1) che ci è
donata mediante la fede nella redenzione operata da Gesù Cristo 12.
L’incontro con Cristo rappresenta non solo, o non tanto, l’incontro con il
modello di educatore e di ogni possibile educazione, bensì l’incontro con l’ideale di
umanità decifrabile nel cuore di ogni essere umano che cresce verso il compimento
della sua umanità. Egli in persona è la vita buona che il Vangelo annuncia: egli è la
vita, ed è la via per raggiungerla; egli è la verità (cf. Gv 14,6), colui nel quale la vita
buona si è tradotta in esistenza umana riconoscibile, apprezzabile, desiderabile. In
lui l’ideale di sé può evolvere verso la sua realizzazione perché si incontra con
l’ideale per sé, verso cui si può tendere rimanendo se stessi, senza alienarsi, ma anzi
ritrovando se stessi. La condizione di tale perfetta attuazione personale in Cristo è il
dono e l’azione dello Spirito, nel quale ogni educazione trova il protagonista ideale.
Lo Spirito Santo, infatti, non interviene da estraneo e nello stesso tempo non riduce
a sé né spodesta dal suo io colui nel quale inerisce con la sua presenza animante ed
elevante, che abilita senza sostituirsi e sollecita e spinge senza limitare o forzare la
libertà, ma anzi soltanto elevandola e rendendola sempre più se stessa. Dovrebbe
così apparire che un vero educatore è chiamato ad assimilare la propria presenza e
la propria opera a quella di Cristo e del suo Spirito; o, forse più semplicemente,
dovrebbe delicatamente condurre all’incontro con Cristo nel suo Spirito. È questo il
compito della Chiesa, vera prima educatrice, madre e maestra, perché innanzitutto
discepola.
11
12
Ib., n. 34.
Benedetto XVI, Discorso alla 59a Assemblea Generale della CEI, 28 maggio 2009, cit. in Educare alla
vita buona del Vangelo, n. 15.
5
La conclusione provvisoria che sarei portato a trarre dice che il servizio del
testimone educatore dovrebbe essere quello di avviare, aiutare, accompagnare chi
sta crescendo a riconoscere e ad abbracciare il proprio ideale di vita buona. Esso
viene a formarsi attraverso le fattezze variamente assemblate dai molteplici
educatori testimoni incontrati sulla propria strada. La nostra fede ci fa asserire che
tale ideale di vita buona ha un volto umano, ha un carattere personale,
precisamente quello di Gesù di Nazaret.
Tale volto può essere disegnato anche dalle linee di alcune convinzioni in
grado di legittimare razionalmente l’ideale di vita buona, non certo come stimolo e
incentivo, che ha bisogno della mozione degli affetti e degli esempi, ma di sicuro
come coronamento di una considerazione riflessa di un progetto di vita in grado di
riassumere un percorso educativo.
Ad un primo livello, la concezione della vita è caratterizzata, soprattutto a
partire dalla modernità, da volontà assoluta ed egocentrica di essere soggetto; una
concezione che si contenta di questo mondo e della vita terrena. Ciò genera, alla
fine, una angoscia, che solo l’accoglienza fiduciosa della rivelazione di Dio in
Cristo può far superare, perché con essa la realtà viene percepita come dono. Da ciò
scaturisce un senso altissimo della dignità della persona umana e di tutta la realtà.
Una seconda concezione anche oggi dominante osserva che l’essere con
l’altro, l’essere prossimo, genera tensione tra individui e comunità. Sorge il
problema se l’uomo possa riuscire con la ragione e la libertà a costruire una società
autenticamente umana. Dalla rivelazione sappiamo che solo l’amore perdonante di
Dio permette all’uomo vera libertà e la capacità di stabilire rapporti solidali.
L’uomo riconciliato da Dio ha trovato risposta al bisogno di riconoscimento, e
dunque ha già vinto alla radice ogni rivalità. Dio fonda nuovi rapporti umani
(l’amore dei nemici significa che a nessuno si può rifiutare riconoscimento). Così
nasce una nuova società, di cui è segno la comunità dei credenti.
La fede, in terzo luogo, vede nella rivelazione di Dio in Cristo il principio
del perfezionamento di tutto. Essa offre un fine e un senso alla storia dell’umanità,
così che diventano possibili impegno e dedizione disinteressati, aperti al bene di
tutti 13.
Anche un tempo di debolezza è chiamato a diventare tempo di interiorità
forti, convocate da alti ideali riconoscibili in Cristo, motivati e praticabili da
chiunque si lasci attirare dalla speranza affidabile di una vita buona.
13
Cf. J. Schmitz, La rivelazione, Queriniana, Brescia 1991, 232-255.
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