CORSO 2001-2002 Tema: Il significato del Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels (1847-8) attraverso alcune trappe di riflessione significative del secolo XX Testi: K.Marx – F.Engels, Manifesto del Partito comunista, a cura di E.Cantimori Mezzomonti, Laterza, Bari, 1995; M.Weber, Il socialismo, in Scritti politici, tr. it. A.Cariolato e E.Fongaro, Donzelli, Roma, 1998 (testo del 1918: significativo per la fine della prima guerra mondiale, la Rivoluzione russa e per analisi di lungo periodo); C.Schmitt, Donoso Cortés interpretato in una prospettiva paneuropea, a cura di P. Del Santo, Milano, 1966, pp. 11-43 e 83-115 (testi del 1922 e del 1944-49, ripubblicati nel 1950: significativi soprattutto per gli inizi della guerra fredda e per un discorso generale su politica e filosofia della storia); AA.VV., Il Manifesto del Partito comunista 150 anni dopo, a cura di R.Rossanda, manifestolibri, Roma 2000 (2000: significativo per il crollo del socialismo e per la globalizzazione); [su questi testi sono state tenute le lezioni da parte del docente] K.Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, tr. it. G.Colli, Einaudi, Torino, 1979 [su questo testo sono state tenute esercitazioni e seminari da parte degli studenti] Sussidi relativi alle lezioni [Marx-Engels, Weber, Schmitt e Rossanda ( a cura di)] Prima di passare all’analisi dei testi previsti di Marx-Engels, Weber, Schmitt e Rossanda (a cura di), ho illustrato il Discorso sulla questione del libero scambio, tenuto da Marx il 9 gennaio 1848 all’Associazione democratica di Bruxelles, testo, dunque, contemporaneo al Manifesto del partito comunista. A conclusione del Discorso Marx dice: “Ma in generale ai nostri giorni il sistema protezionistico è conservatore, mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Esso dissolve le antiche nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo tra borghesia e proletariato. In una parola, il sistema della libertà di commercio affretta la rivoluzione sociale. E’ solamente in questo senso rivoluzionario, signori, che io voto in favore del libero scambio” (tr. it. di F.Codino e A. Scarponi ). Ovviamente, Marx contestava radicalmente la concezione secondo cui gli effetti del libero commercio sarebbero virtuosi: al contrario, essi peggiorano la situazione degli operai; solo che la soppressione della rendita fondiaria e il compiuto passaggio al libero scambio capitalistico semplifica lo scontro riducendolo alle due classi sociali fondamentali della società moderna, borghesia e proletariato, e quindi crea le condizioni per la soppressione del capitalismo. Questa osservazione contenuta nel Discorso ha fornito l’aggancio per illustrare la seguente affermazione del Manifesto, ritenuta, nell’economia del corso, gravida di implicazioni nelle letture del secolo XX, oltre che per una problematica generale di filosofia della storia: “La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue […] dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due campi nemici, in due grandi classi contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato” (tr.it. di E.Cantimori Mezzomonti). Per vie diverse, da Weber a Schmitt a Heidegger è ritornata la riflessione sulle implicazioni di questa analisi. Inoltre, in riferimento alla parte del corso dedicata a Il Manifesto del Partito comunista 150 anni dopo, ossia alla discussione su Marx nell’epoca della globalizzazione, è tornata utile una discussione, sviluppatasi sul quotidiano italiano “Il manifesto” nell’estate del 2001, nell’arco di tempo compreso tra i fatti di Genova e l’11 settembre, e suscitata da un intervento di Luigi Cavallaro, il quale, discutendo con il cosiddetto “popolo di Seattle”, poneva alcune domande che partivano proprio dal Discorso sulla questione del libero scambio. Perciò all’illustrazione del contenuto del Discorso ho fatto precedere anche la lettura dell’intervento di Cavallaro. Qui di seguito riporto questo intervento e lo schema del Discorso come sussidio didattico. Il resto della discussione sviluppatasi su “Il manifesto” è molto interessante, ma non è di stretta attinenza all’itinerario seguito durante il corso. Tuttavia, dato l’indiretto interesse ai temi più generali da me affrontati, rimando alla sezione MATERIALI BIBLIOGRAFICI di questa pagina dove quasi tutti gli interventi, tratti dalla rete, sono riportati. LUIGI CAVALLARO, PROVOCAZIONE AL POPOLO DI SEATTLE Ma Carlo Marx non sarebbe d'accordo con voi “Il Manifesto” 04 Agosto 2001 "Chiunque pensi che la risposta la risposta alla povertà del mondo sta nell'invettiva contro il commercio globale è privo di cervello o sceglie di non usarlo", ha scritto Paul Krugman sul New York Times del 22 aprile scorso per manifestare il suo dissenso nei confronti del "popolo di Seattle". L'affermazione lascia a prima vista perplessi. Krugman, pur essendo in odore di Nobel, non può certo definirsi un economista "organico" all'establishment, verso il quale non perde occasione per lanciare strali polemici irridenti quanto teoricamente fondati. Come mai, allora, una presa di posizione così dura, fino a dire che gli unici in grado di fare qualcosa per migliorare le condizioni del pianeta sono proprio i policy makers assediati, mentre i dimostranti, sarebbero "gente senza cervello innamorata del proprio idealismo"? Non credo che Krugman apprezzerebbe il paragone, ma la sua presa di posizione ha un precedente illustre in Karl Marx. Nel Discorso sul libero scambio pronunciato il 9 gennaio 1848 a Bruxelles, intervenendo nella polemica sull'abolizione delle tariffe doganali sui cereali d'importazione rivendicata dagli industriali ed esportatori di Manchester come misura in grado di determinare la riduzione del prezzo del pane (cioè dei salari), e proprio perciò fieramente contrastata dai socialisti di allora - Marx prende inaspettatamente posizione a favore dei liberoscambisti. Nel farlo, non nasconde che la "libertà" per la quale essi si battono è "la libertà del capitale", che implica l'oppressione e la schiavitù dei salariati, né ignora che il vero scopo degli industriali è quello di liberarsi dal peso della rendita fondiaria; tanto meno gli sfugge che, da una simile rivendicazione, nessun beneficio immediato può venire al proletariato industriale. Nondimeno, è convinto che la conservazione di una misura protezionistica come il dazio all'importazione sia di per sé una sconfitta, perché - e qui si anticipa una delle tesi chiave del Manifesto del partito comunista, che vedrà la luce poche settimane dopo - lo sviluppo capitalistico porta con sé la distruzione degli "ultimi residui del feudalesimo" e permette il disvelarsi, proprio in ragione della sua distruttività, dell'antagonismo irriducibile tra il capitale e il lavoro. "In generale - conclude Marx - il sistema protezionista è conservatore mentre il sistema del libero scambio agisce come fattore di distruzione e spinge al culmine l'antagonismo tra proletariato e borghesia. In una parola, il sistema della libertà di commercio accelera la rivoluzione sociale". E' possibile che in queste parole oggi si veda un che di cinico, quasi che Marx immaginasse la rivoluzione come uno Juggernaut sotto le cui ruote gettare l'esistenza concreta di milioni di donne e uomini. La cosa, però, non è così semplice. Dietro la difesa marxiana del libero scambio c'è, da un lato, la consapevolezza che molto tempo deve ancora trascorrere prima che gli individui imparino a scambiare i loro lavori in modo diverso dallo scambio delle merci che di quei lavori sono il prodotto; dall'altro, la convinzione che la genesi di questa nuova forma delle relazioni sociali presuppone comunque l'appropriazione del patrimonio di conoscenze che già ora è disponibile. In un mondo in cui il prodotto del lavoro umano assume forma di merce, il commercio internazionale rappresenta, infatti, l'unico fattore capace di favorire la mobilità internazionale del "sapere sociale generale" che nelle merci è, appunto, oggettivato. E l'acquisizione di questo sapere sociale generale, in quanto principale forza produttiva, rappresenta il presupposto decisivo perché i paesi più poveri possano ridurre lo squilibrio nell'appropriazione delle risorse a fini produttivi e di consumo che connota la loro posizione rispetto al club dei ricchi. Naturalmente, questo sviluppo procede sempre "dal lato cattivo", cioè in modo antagonistico: i lavoratori di taluni paesi sono costretti, per poter avere di che vivere, a lavorare più di quanto sarebbe necessario se si avvalessero delle conoscenze tecniche disponibili, e questo pluslavoro crea la possibilità di un "non lavoro" e di una ricchezza eccedente per altri paesi. Ma questo sviluppo antagonistico non è se non la conseguenza di un sistema economico - quello capitalistico - in cui le decisioni concernenti cosa, come e per chi produrre sono assunte su base individuale. L'altra faccia del commercio è infatti la divisione del lavoro: e se è vero che lo scambio mediato dal denaro presuppone "l'universale dipendenza reciproca dei produttori", è anche vero che questa dipendenza si manifesta come loro "mutua e generale indifferenza" (ancora parole di Marx). La società esiste come "fatto estraneo" agli individui, l'interesse generale come "generalità degli interessi egoistici". Ciò implica che in quello che von Hayek definisce il "cosmos" del mercato, i problemi economici che investono la totalità della riproduzione sociale non sono risolti da alcuna decisione "consapevole". Anzi, i produttori immediati non sono nemmeno consapevoli, se non confusamente, dell'esistenza di problemi del genere: ciascuno decide il proprio comportamento in vista del conseguimento dei propri obiettivi, basandosi sulle informazioni provenienti dal sistema dei prezzi; il funzionamento del sistema determina poi l'impersonale risposta ai problemi di ordine più generale. Queste considerazioni permettono, a mio avviso, di cogliere una patente contraddizione nelle rivendicazioni del popolo di Seattle. Nelle rappresentazioni che esso dà di se stesso (illuminanti, in questo senso, tre recenti articoli di Giuseppina Ciuffreda), la conformazione "reticolare" non è assunta come limite connesso al basso grado di sviluppo del movimento, ma come un progresso rispetto alle tradizionali forme dell'agire politico. E' esclusa in radice, quindi, l'evoluzione del "movimento di movimenti" verso forme strutturate come quelle dei partiti novecenteschi: e ciò, a ben vedere, non è che una conseguenza del modello relazionale generale di cui il movimento stesso è portatore, anch'esso reticolare e privo di nessi organizzativi che non siano di tipo orizzontale (non è un caso che molti degli appartenenti al movimento condividano un'eguale avversione per i due moloch che hanno segnato la storia del secolo breve: il capitalismo e lo Stato). Dove sta, allora, la contraddizione? Si può rinvenirla in ciò, che le forze morali che il popolo di Seattle ritiene artefici dell'ineguaglianza e della devastazione ambientale che si associano alla globalizzazione (e cioè l'egoismo, la motivazione al profitto, ecc.) sono al contempo quelle che permettono attualmente agli individui di cooperare senza che debbano per forza "conoscersi o amarsi" e possono essere rimosse dal loro ruolo di vettori della cooperazione solo istituendo un'autorità centrale che stabilisca, attraverso un piano mondiale, cosa, come e per chi produrre. Il motivo, in fondo è semplice: il mercato è, per definizione, il luogo "orizzontale" in cui s'incontrano decisioni di produrre, di scambiare e di consumare prese da individui che agiscono l'uno all'insaputa dell'altro, ciascuno preoccupato di perseguire il proprio utile. Se dunque dobbiamo evitare che la motivazione al profitto determini che cosa e in che quantità dovranno produrre gli imprenditori, dovremo istituire un'autorità unica che dia loro ordini ben precisi, relativi sia alle quantità da produrre che ai loro destinatari. E che, ovviamente, ordini a questi ultimi di consumare quei beni e in quella specifica quantità, e imponga ai lavoratori di lavorare alle dipendenze degli imprenditori proprio quel tempo che serve alla produzione di quei beni, e così via. Non vale obiettare che non s'intende sopprimere il mercato, ma fissare prezzi "equi", profitti "giusti" e così via. Sul mercato, il prezzo "equo" è quello che risulta dal gioco concorrenziale; se ricerchiamo una "giustizia" o un'"equità" diversa da quella che si afferma sul mercato, dobbiamo anche specificare cosa è giusto e cosa è ingiusto in ogni singolo caso. Correlativamente, dovremo anche istituire uffici preposti a giudicare i casi dubbi e prevedere un aggiornamento sistematico della casistica; e tutti, ovviamente, dovranno dipendere dall'autorità centrale, alla quale in ultima analisi sarà demandata l'allocazione delle risorse mondiali. La conclusione è volutamente paradossale, ma il problema è reale e non vi si sfugge esibendo le forme concrete di "commercio equo e solidale" o di "banca etica": la comunanza d'intenti che simili esperienze presuppongono è sufficiente a dar conto della loro inevitabile "particolarità". Cosa vuole, allora, il popolo di Seattle? Schema del Discorso sulla questione del libero scambio, tenuto da Marx il 9 gennaio 1848 all’Associazione democratica di Bruxelles segnalo l’edizione italiana: K. Marx, Libero scambio e economia nazionale, tr.it. di F. Codino e A. Scarponi, Roma, 1972, pp. 17-25 Abolizione delle leggi sul grano in Inghilterra come trionfo per i liberoscambisti, che ne vedono un progresso umanitario: alleviare la condizione della classe lavoratrice con pane a buon mercato Ingratitudine del popolo: non ne vuol sapere del pane a buon mercato in Inghilterra come del governo a buon mercato in Francia Argomenti dei liberoscambisti: la tassa protezionistica sul grano è un’imposta sul salario, dato il caro prezzo dei viveri di prima necessità risposta degli operai: nonostante il potente sviluppo dell’industria in Inghilterra, il salario è diminuito in proporzione maggiore di quanto sia aumentato il prezzo del grano, e gli industriali danno la colpa al fatto che gli operai fanno troppi figli risposta degli industriali: giusto, perché è la concorrenza tra l’offerta di braccia che determina il salario ma data la scarsa fertilità del suolo in Inghilterra, l’unica via è di trasformarla in una grande città manifatturiera e vincere la concorrenza con l’Europa che così abbandonerebbe le manifatture diventando una grande campagna piccolo commerciante: poiché non è detto che gli altri paesi si riforniscano nelle fabbriche inglesi una volta abolita la tassa sul grano, il piccolo commercio perde gli affari con la campagna e il commercio interno va in crisi in generale risposta degli industriali: grano più a buon mercato e abbassamento dei salari, che invece rimangono alti sul continente che si può a quel punto rifornire di grano anche dall’Inghilterra imprenditore agricolo e bracciante: la fine dell’agricoltura significa la loro scomparsa risposta degli industriali: tre premiati Hope: ci perde solo il proprietario terriero perché l’agricoltore inglese produce grano di così buone qualità da reggere la concorrenza straniera, per cui profitto del capitale e salario restano invariati Morse: il prezzo del grano aumenterà in seguito all’abolizione della legge sui cereali, perché mai dazi protettivi hanno assicurato prezzi così remunerativi. Ma, dice Marx, l’importazione non è la causa del prezzo elevato bensì, viceversa, il prezzo elevato è la causa dell’importazione. inoltre secondo Morse l’aumento del prezzo dei cereali andrebbe a profitto dell’imprenditore agricolo e del bracciante e non del proprietario terriero Greg, industriale, linguaggio più scientifico: in presenza delle leggi sul grano aumenta la rendita nella misura in cui aumenta il prezzo del grano e aumenta il prezzo del grano nella misura in cui il capitale è costretto ad applicarsi su terreni di qualità inferiore infatti se la popolazione aumenta e quindi aumenta la richiesta di pane, se non entra nel paese grano straniero, si è costretti a utilizzare terreno di qualità inferiore essendo il prezzo del grano forzoso, ecco che si stabilirà sul terreno più fertile; la differenza tra le spese di produzione dei due terreni costituisce la rendita fondiaria se invece si abolisce la legge sul grano i terreni meno fertili finiscono di essere coltivati: precipita la rendita e però anche parte degli imprenditori agricoli i piccoli imprenditori agricoli passano all’industria i grandi imprenditori o acquistano dai proprietari, andati così in rovina, terreni a buon mercato, oppure stipulano contratti di affitto a lungo termine nel corso del quale possono con le macchine risparmiare lavoro, quindi diminuiscono i salari gli operai non prestano ascolto all’ipocrisia degli argomenti filantropici degli industriali che si sono opposti alla legge delle dieci ore, hanno una legislazione privata fatta apposta per generare contravvenzioni gli operai comprendono allora che dietro gli argomenti filantropici con cui si copre la lotta tra proprietari fondiari e capitalisti si vuole abbassare il prezzo del pane per diminuire il salario e abolire la rendita per aumentare i profitti accordo di Ricardo con gli operai infatti anche se il prezzo del pane è diminuito, il salario è diminuito rispetto al profitto e dunque la posizione sociale dell’operaio nei confronti del capitalismo è peggiorata ma anche di fatto se prima era possibile un piccolo risparmio sul pane per procurarsi altri oggetti, adesso questa economizzazione non è più possibile l’alleanza degli operai e degli industriali contro i proprietari fondiari è solo per distruggere gli ultimi avanzi di feudalesimo e avere di fronte un solo nemico; lo hanno capito i proprietari fondiari che hanno appoggiato gli operai a proposito della legge delle dieci ore per vendicarsi degli industriali questa legge è passata dopo trent’anni di vani tentativi solo dopo l’abolizione della legge sui cereali infatti: all’aumento di importazioni per il consumo si connette la crisi che butta sul lastrico gli operai delle città industriali in economia politica non bisogna calcolare un solo anno ma l’intero ciclo prosperità – sovrapproduzione – ristagno – crisi (sei-sette anni) sicuramente se il prezzo delle merci diminuisce, con un franco ci si può procurare più cose – e questo vale per l’operaio come per qualsiasi altro -, però l’operaio, prima di scambiare il franco con le altre merci, ha scambiato il suo lavoro con il capitale ora, se l’operaio ricevesse sempre lo stesso franco per lo stesso lavoro e il prezzo delle merci scendesse, non vi sarebbe difficoltà a mostrare che con i bassi prezzi delle merci si ottengono più merci con il medesimo denaro ma il punto non è lo scambio del prezzo del lavoro, del salario con altre merci bensì lo scambio del lavoro con il capitale; questo punto non è considerato dall’economia politica che parte dal fatto della proprietà privata ma non lo spiega il lavoro è esso stesso una merce e quindi subisce le stesse diminuzioni di prezzo delle altre merci; se il prezzo delle merci è dato dal costo di produzione e abbassandosi il prezzo delle merci si sono abbassati i costi di produzione, anche la macchina-lavoratore dovrà costare meno cara risposta dell’economista: ammesso che l’aumento della concorrenza tra gli operai in regime di libero scambio abbassa i salari adeguandoli all’alto prezzo delle merci: questo basso prezzo delle merci farà aumentare il consumo l’aumento del consumo provoca un aumento della produzione l’aumento della produzione provoca richiesta di lavoro, quindi attiva la domanda di conseguenza i salari aumentano ma questo ragionamento significa soltanto che il libero scambio aumenta le forze produttive: in effetti, è giusto il ragionamento per cui l’accrescimento del capitale significa migliore condizione per l’operaio infatti il capitale non può restare stazionario altrimenti l’industria declina e la prima vittima di questo declino è proprio l’operaio ma anche se il capitale si accresce, l’operaio è destinato a subire la stessa sorte, in quanto l’accrescimento del capitale produttivo porta all’accumulazione dei capitali l’accumulazione dei capitali porta a una maggiore divisione del lavoro e a un maggior impiego di macchine questo distrugge la specializzazione, l’abilità del lavoro e aumenta la concorrenza tra gli operai inoltre l’accrescimento del capitale produttivo precipita i piccoli industriali nel proletariato e siccome il tasso d’interesse del denaro diminuisce con l’accumulazione dei capitali, i piccoli rentiers precipitano parimenti nel proletariato con l’aumento del capitale produttivo aumentano i bisogni indotti, perché si allarga mercato di cui non si conoscono i bisogni, il che significa crisi di sovrapproduzione aumento del capitale produttivo aumento della concorrenza tra gli operai diminuzione del salario e aumento del carico di lavoro risposta degli economisti: gli operai privati del lavoro troveranno un altro impiego Bowring, come esempio di smentita dei liberoscambisti da se stessi: 50.000 tessitori di Londra che disoccupati non trovano altro impiego e muoiono di inedia Interesse del discorso di Bowring: esattezza dei dati ipocrisia dei sermoni liberoscambisti con cui cerca di attenuarli gli operai sono presentati come mezzi di produzione che è necessario sostituire con mezzi di produzione meno costosi però vede nel lavoro dei tessitori un lavoro del tutto eccezionale e non vede che questo è il destino di qualsiasi lavoro manuale sostituito dalle macchine come mostra Ure (19) Bowring parla di mali individuali che però mandano in rovina intere classi, parla di sofferenze passeggere che però significano la morte per fame per alcuni e il passaggio a una condizione peggiore per altri La connessione tra sventure passeggere degli operai e sviluppo dell’industria significa semplicemente che il benessere della classe borghese ha per condizione la miseria della classe lavoratrice Il senso, dunque, del sermone liberoscambista che vede nella condizione dei lavoratori una condizione passeggera per il progresso nazionale è che la decimazione di migliaia di operai non significa la rovina della classe operaia intera perché è riserva, materia da sfruttare Il problema dell’influenza del libero scambio sulla condizione della classe operaia è stato risolto: tutti gli economisti, da Ricardo a Quesnay, partono dal presupposto che non esistono più gli ostacoli che impacciano la libertà di commercio [oggi: l’ideale della globalizzazione] e queste leggi trovano conferma man mano che si realizza il libero scambio Prima legge: la concorrenza abbassa il prezzo delle merci riducendolo al minimo del costo di produzione Quindi abbassa il salario al minimo Per cui il salario minimo è il prezzo naturale del lavoro Il minimo del salario è ciò che è necessario per mettere in condizione l’operaio di nutrirsi e di riprodursi in modo che la sua classe non vada in rovina Non per questo l’operaio ha solo questo minimo di salario o sempre questo minimo di salario Qualche volta avrà di più ma questo è la compensazione per quando ha avuto meno del minimo nei periodi di stasi industriale In tutto il ciclo di prosperità, sovrapproduzione, ristagno crisi, calcolando tutto, la classe operaia avrà avuto né più né meno del minimo Cioè si è conservata come classe a prezzo della miseria e della morte di molti sul campo di battaglia dell’industria: “Ma che importa? La classe sussiste sempre” Il progresso dell’industria produce mezzi di sussistenza meno costosi: infatti l’acquavite ha sostituito la birra, il cotone il lino la lana, la patata il pane [oggi:…e gli o.g.m. il grano] con la creazione di mezzi di sussistenza meno cari e più miserabili la conseguenza è l’ulteriore diminuzione del minimo del salario se allora il salario aveva cominciato facendo lavorare l’uomo per vivere, adesso gli fa vivere una vita da macchina: l’esistenza dell’operaio è dunque quella di qualsiasi forza produttiva ed è trattata di conseguenza dal capitalismo quindi man mano che si verifica in tutta la sua consequenzialità il libero scambio, cioè il presupposto degli economisti, si verifica la legge del lavoro-merce, dunque del minimo del salario allora: o si rinnegano tutte le leggi dell’economia politica, cioè si rinnega il libero scambio che è il presupposto su cui si basano queste leggi, oppure bisogna convenire che la legge del libero scambio colpisce con tutto il suo rigore gli operai conclusioni che Marx trae dall’analisi: il libero scambio come libertà del capitale e delineazione sempre più netta dell’opposizione tra le due classi ammettendo per un momento che siano scomparsi dazi, protezionismi ecc., ossia tutte le condizioni a cui l’operaio può imputare la sua condizione miserevole, cadono i veli e si vede chi è il vero nemico libero scambio = legge del lavoro-merce e del minimo di salario [oggi: questa mi sembra essere la lettura che Marx darebbe della globalizzazione] e quindi il capitale divenuto libero non è meno oppressivo e vessatorio del capitale vessato dalle dogane (quindi qui nella polemica tra libro scambio e protezionismo libertà e vessazione riguardano libertà e vessazione del capitale non degli operai che non sono meno vessati con il libero commercio, anzi qui la vessazione si delinea sempre più netta e compiuta) allora ‘libertà’ qui non significa libertà di un individuo di fronte a un altro individuo, ma libertà del capitale di schiacciare il lavoratore non si può sanzionare la libera concorrenza con la libertà perché questa è il prodotto di uno stato di cose basato sulla libera concorrenza all’interno quindi di una medesima nazione parlare di fraternità è insensato, data l’ipocrisia dell’argomento filantropico; anche la fraternità che il libero scambio stabilirebbe tra le nazioni non sarebbe molto più fraterna solo la borghesia può designare come fraternità lo sfruttamento giunto al suo stadio internazionale infatti tutti i fenomeni di distruzione che la libera concorrenza fa sorgere all’interno di una nazione si riproducono in modo gigantesco sul mercato mondiale il libero scambio farebbe nascere un divisione internazionale del lavoro per cui ogni paese produrrebbe in armonia con i suoi vantaggi naturali inoltre, poiché tutto è diventato monopolio, alcuni rami industriali dominano sugli altri e assicurano ai popoli che li sfruttano di più l’impero sul mercato mondiale (cotone che ha un valore commerciale più grande di tutte le materie prime messe insieme, impiegate per fabbricare gli abiti) se i liberoscambisti non comprendono come mai un paese possa arricchirsi a spese di un altro, è perchè non comprendono come in un paese una classe possa arricchirsi a spese di un’altra classe criticare il libero scambio non significa essere per il protezionismo, così come criticare il costituzionalismo non significa essere per l’assolutismo peraltro il sistema protezionistico a sua volta è un mezzo per mettere presso un popolo la grande industria e ciò già significa farlo dipendere dal mercato mondiale e quindi dal libero scambio il sistema protezionistico contribuisce a sviluppare la concorrenza all’interno di un paese; per questo in Germania la borghesia che comincia a farsi valere come classe, chiede dazi protettivi e così, promuovendo la concorrenza all’interno di un solo paese, con quest’arma lotta contro il feudalesimo e lo stato assoluto ma in generale oggi il sistema protezionistico è conservatore mentre il libero scambio è distruttivo, in quanto dissolve le antiche nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo tra borghesia e proletariato quindi affretta la rivoluzione sociale perciò Marx vota a favore del libero scambio in questo senso rivoluzionario SCHEMI E RIASSUNTI DA K.Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX Come previsto, durante il corso sono state tenute, da parte degli studenti, relazioni sui capitoli del testo di Karl Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, secondo il seguente calendario: 6 MARZO Introduzione: Goethe e Hegel. (dott.ssa SIMONA GIACOMETTI). 12-13 MARZO. Il compimento della storia del mondo e dello spirito e il suo significato storico finale in Hegel. (ANTONIO GARGANO, ALBA BRUNO). 19-20 MARZO. Vecchi-hegeliani, giovani-hegeliani, neohegeliani. (ROBERTO EVANGELISTA, PIERO). 25-26 MARZO. Il dissolvimento delle mediazioni hegeliane nelle posizioni radicali di Marx e Kierkegaard. (ALESSIO CALABRESE, MASSIMO DI LILLO). 9-10APRILE. Nietzsche come filosofo della nostra epoca e dell'eternità. (ELENA ROMANO, PIETRO ALAGIA, ANGELA LOBO). 16-17 APRILE Lo spirito del tempo e la ricerca dell'eternità. (RAFFAELE RUOCCO, ELEONORA TEDESCO, VALENTINA PETROSINO). 23-24 APRILE Il problema della società borghese. (NICOLA BOMBACE, ENZO SINISI). 7-8 MAGGIO Il problema del lavoro. (WALTER SILANO, DIANA CATALDO). 14-15 MAGGIO. Il problema della cultura. (LIA TRAMONTANO, CARLA MARINO). 21-22 MAGGIO. Il problema dell'umanità. (LIVIO TARALLO, FABRIZIO CARLINO) 28-29 MAGGIO Il problema del cristianesimo. (DONATELLA MANICO, EVA BRACCO) Qui di seguito si danno i riassunti o gli schemi relativi ai vari capitoli curati rispettivamente da chi ha tenuto le relazioni. Man mano che gli schemi o i riassunti perverranno, saranno aggiunti. Chi volesse commentare il testo o qualche capitolo con un proprio intervento – anche se non ha tenuto la relazione – può inviarmi per e-mail ([email protected]) il testo, che sarà inserito in questa pagina. PARTE PRIMA STUDI SULLA STORIA DELLO SPIRITO GERMANICO NEL SECOLO XIX Introduzione: Goethe e Hegel dott.ssa SIMONA GIACOMETTI Il testo di Karl Löwith, pubblicato nel 1941, costituisce un tentativo di interpretare l’intera evoluzione della riflessione filosofica del XIX secolo a partire da un preciso assunto. La ricostruzione löwithiana, infatti, strutturata in due sezioni – Studi sulla storia dello spirito germanico nel secolo XIX e Studi sulla storia del mondo borghese-cristiano -, assume come prospettiva d’analisi il dato essenziale della crisi del sistema hegeliano che, a giudizio dell’autore, sarebbe stata portata a compimento da Marx e da Kierkegaard. Fin dalle prime battute del III capitolo, Il dissolvimento delle mediazioni hegeliane nelle posizioni radicali di Marx e Kierkegaard, scrive Löwith: “La critica di Marx e Kierkegaard separa proprio ciò che Hegel aveva unificato; entrambi rovesciano la sua conciliazione della ragione con la realtà. [………] In tal modo avviene non soltanto un dissolvimento del sistema di Hegel, ma in pari tempo una decomposizione di tutto quanto il sistema del mondo borghese cristiano” 1. Nella comune critica al concetto hegeliano di realtà, intesa come unità di essenza ed esistenza, Marx rivendica la priorità della dimensione dell’esistenza economica della massa, Kierkegaard quella etico-religiosa dell’individuo. Nella prefazione all’opera, d’altra parte, Löwith ribadisce ulteriormente la sua posizione rispetto alla tradizione filosofica del diciannovesimo secolo quando chiarisce che il suo stesso testo non offre contributi alla storia dello Spirito, né potrebbe essere altrimenti, posto che “i fondamenti della storia dello Spirito i quali derivano dalla metafisica dello Spirito hegeliana, si sono ormai dissolti 1 K. LÖWITH, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, Torino, 2000, p. 212. nel nulla. Lo Spirito come soggetto e sostanza della storia non è più un fondamento, ma, nella migliore delle ipotesi, solo un problema” 2. Data precisa indicazione di ciò che costituisce la questione di fondo sottesa alla sua ricostruzione 3, l’analisi di Löwith si apre con alcune pagine di tono introduttivo dedicate ad un confronto tra Goethe ed Hegel. Brani della corrispondenza tra i due testimoniano della loro reciproca stima 4, oltre la quale il presupposto di un confronto dei loro contributi alla letteratura e alla filosofia tedesche è riconosciuto in una “comunanza del principio” 5 e più precisamente, con le parole di Löwith, “la medietà di cui visse la natura di Goethe e la mediazione in cui si mosse lo spirito di Hegel” 6, sebbene il luogo di questa conciliazione non fosse per entrambi lo stesso. Punto di partenza comune ai due percorsi è individuato da Löwith in una condanna della vuota soggettività romantica; in Goethe questo elemento emerge dalla lettura di un passo tratto da Un importante risultato conseguito con una sola espressione geniale in cui egli ribadisce con vigore la necessità per l’uomo di conoscere il mondo evitando tutti i rischi connessi ad una vana contemplazione di sé 7. In Hegel la stessa critica, peraltro esposta in termini pressappoco equivalenti, compare al paragrafo 377 dell’Enciclopedia 8. In realtà, la questione per entrambi è posta dal problema dell’accordo tra Io e mondo, che conduce sia Hegel che Goethe ad un confronto con Kant autore della Critica del Giudizio 9, attraverso la quale il filosofo di Königsberg tenta di superare gli esiti meccanicistico e finalistico delle due Critiche precedenti attribuendo finalità alla natura. Goethe, a giudizio di Löwith, in direzione di Kant andò oltre Kant nella misura in cui attribuì alla natura umana, in luogo dell’intelletto discorsivo, l’intelletto intuitivo o archetipo. Posta la comunanza del principio di mediazione, l’autore procede nelle sue argomentazioni sottolineando gli elementi di diversità, primo tra i quali il luogo di questa conciliazione, l’Assoluto 2 Ibid., p. 12. In Significato e fine della storia (1949) Löwith sostiene ancora la tesi per cui fino ad Hegel in ogni formulazione di filosofia della storia va individuata un’originaria matrice teologica connessa alla persistenza di una concezione giudaico-cristiana del mondo. Nell’analisi svolta da Löwith, anche in Marx domina una prospettiva escatologica dell’avvento di una società senza classi. 3 Nella prefazione alla nuova edizione, datata, 1949, leggiamo: “Il tema effettivo: la trasformazione e il rovesciamento della filosofia dello spirito assoluto attraverso Marx e Kierkegaard in marxismo ed esistenzialismo” in LÖWITH, op. cit., p. 15. 4 In particolare, in una lettera di Hegel a Goethe leggiamo: “Poiché, se volgo lo sguardo al processo del mio sviluppo spirituale, vedo che Ella è presente dappertutto ed io posso dichiararmi figlio suo [….]”, in LÖWITH, op. cit., p.23. 5 Ibid., p. 25. 6 Ibid., p. 57. 7 Löwith riporta il brano in esame: “A questo proposito confesso che il tanto celebrato apoftegma Conosci te stesso mi sembrò sempre sospetto, come un’astuzia di sacerdoti segretamente stretti in un’intesa, i quali volessero confondere l’uomo con una pretesa impossibile e stornarlo dall’attività rivolta al mondo esterno per impegnarlo in una falsa contemplazione interiore. L’uomo conosce se stesso solo in quanto conosce il mondo”, Ibid., p.31. 8 Scrive Hegel: “La conoscenza dello spirito è la più concreta delle conoscenze, e perciò la più alta e la più difficile. Conosci te stesso, questo precetto assoluto, non ha, - né preso per sé né dove lo si incontra storicamente espresso -, il significato di una conoscenza di sé medesimo come delle proprie capacità particolari (carattere, inclinazioni e debolezze dell'individuo), ma significa invece la conoscenza di ciò che è la verità dell'uomo, della verità in sé e per sé, dell’essenza stessa in quanto spirito [……]”. 9 Löwith discute il giudizio hegeliano sul dualismo cartesiano nelle pagine di Dio uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche dedicate a Hegel in cui riprende un passo da Vorlesungen über das Wesen des Akademischen Studiums del 1803: “Contro la filosofia cartesiana…., che ha dato espressione filosofica al dualismo che guadagnava universalmente terreno nella civiltà della storia moderna del nostro mondo nord occidentale, - un dualismo del quale, in quanto tramonto di tutta la vita antica, tanto il più tacito mutamento della vita pubblica degli uomini, quanto le più rumorose rivoluzioni politiche e religiose, non sono altro che aspetti esterni di colore diverso – orbene contro la filosofia cartesiana come contro la civiltà generale da essa portata ad espressione, ogni aspetto della natura vivente, e quindi anche della filosofia, doveva cercare una via di salvezza”, in Id., Dio uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, Napoli, 1966, pp. 71-72. Rispetto alla recezione goethiana della Critica del Giudizio, Löwith ricorda quanto Goethe si sentisse debitore nei confronti di Kant “poiché gli insegnò, esattamente nel senso della di lui azione e del di lui pensiero, ad intendere da un punto di vista unitario le produzioni della natura e quelle dello spirito”, Id., Da Hegel a Nietzsche, cit., p.28. di Hegel, lo Spirito della storia e i fenomeni primordiali di Goethe. Il confronto tra ciò che per Löwith è semplicemente una diversa modalità di interpretazione dello stesso principio è condotto attraverso i giudizi che ognuno ha della nozione dell’altro. La critica hegeliana al “fenomeno primordiale” di Goethe è fondata su una ferma accusa di astrattismo, evidente nella deduzione di un principio semplice dalla complessità empirica 10; d’altra parte Goethe, in una lettera del novembre 1812 a Seebeck, in relazione ad un passo della Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito accusa Hegel di negare dignità al processo naturale in questi termini: “Voler distruggere l’eterna realtà della natura mediante uno scherzo sofistico di cattivo genere mi sembra assolutamente indegno di un uomo ragionevole.[……] Quando, invece, un eminente pensatore – il quale penetra un’idea e ben sa cosa valga in sé e per sé e quale maggior valore essa acquisti allorché esprime un prodigioso processo naturale – è proprio colui che si trastulla a travisarla in maniera sofistica, a negarla ed a distruggerla mediante parole e frasi che artificiosamente si negano a vicenda, non si sa che cosa dire” 11. Scrive Löwith, ancora in merito agli elementi di differenza tra Hegel e Goethe: “Il dissenso tra Hegel e Goethe potrà quindi essere colto nella loro posizione di fronte al cristianesimo e alla storia” 12 . Nella prefazione ai Lineamenti di Filosofia del diritto Hegel, nella figura della rosa e della croce, opera un congiungimento tra la ragione filosofica e la teologia della croce: il loro comune oggetto, Dio, è espresso dall’una nella forma del pensiero speculativo, dall’altra in quella della rappresentazione. In opposizione all’essenza del giudaismo, la nozione universalizzante dell’amore nella figura di Cristo storicizza ed umanizza la rigida prescrittività giuridica e morale in una ferma rivendicazione dei bisogni della libertà soggettiva. In un colloquio con Eckermann (febbraio 1829), riferendosi ad un altro filosofo, Schubarth, Goethe esprime il suo rifiuto radicale verso l’identificazione portata a termine da Hegel in nome di un congiungimento dell’umanità con la croce: “Allo stesso modo di Hegel, egli introduce la religione cristiana nella filosofia: In un ambito cioè con cui quella non ha niente a che vedere. La religione cristiana [….] si trova al di sopra di ogni filosofia e non ha bisogno da questa di alcun appoggio. Similmente il filosofo non ha bisogno della religione per dimostrare certe dottrine come per esempio quella dell’eterna durata” 13. L’origine del divenire spirituale del tempo nella filosofia hegeliana della storia dello spirito I. Il compimento della storia del mondo e dello spirito e il suo significato storico finale in Hegel In una lettera del 20 Luglio 1817 scrive Hegel: “Io credo di poter indulgere alla mia facoltà tanto da riconoscere ed ammirare in ciò l’astrazione seguendo la quale Ella si è attenuta alla semplice verità fondamentale e ha… ora ricercato soltanto le condizioni, scoprendole presto e ricavandole in maniera semplice”. Il testo è riportato da LÖWITH, op. cit., p.33. 11 Ibid., p. 36. 12 Ibid., p. 37. 13 Ibid., p. 39. Conferme in questo senso sono ricavabili anche dalla lettura di un commento alle lettere di Lavater ricevute nel 1781. 10 ALBA BRUNO 1. La costruzione finale nella storia del mondo Tutto il sistema hegeliano è pensato fondamentalmente sotto una prospettiva STORICA quanto nessun altra filosofia anteriore. In particolare nella Fenomenologia vi è la storia delle manifestazioni dello Spirito e dei gradi di formazione del sapere, in cui le fasi sistematiche del pensiero e i riferimenti storici si compenetrano a vicenda. Lo scopo di questa costruzione è il SAPERE ASSOLUTO, scopo raggiunto dialetticalmente attraverso il RICORDO di tutti gli spiriti già esistiti. Quando lo Spirito raggiunge il suo pieno essere e sapere, ossia la sua AUTOCOSCIENZA, la storia dello Spirito può dirsi compiuta, e poiché l’essenza dello Spirito è la libertà dell’essere presso di sé, con il compimento della sua storia è raggiunto anche quello della LIBERTA’. Partendo dal principio di libertà dello Spirito, Hegel costruisce anche la storia del mondo. I passi più importanti dell’autoliberazione dello Spirito sono costituiti attraverso un processo che ha il suo inizio in Oriente e la sua fine in Occidente. Attraverso tale processo lo Spirito è educato per mezzo di dure lotte alla libertà. “L’Oriente sapeva e sa soltanto che uno solo è libero, il mondo greco e romano che alcuni sono liberi, il mondo germanico sa che tutti sono liberi” (pag.63). La libertà definitiva dello Spirito si verifica, quindi, con l’irruzione nel mondo pagano del Cristianesimo. Soltanto il Dio cristiano è veramente SPIRITO e in pari tempo UOMO, mentre la sostanza spirituale si soggettiva in un’individualità storica “Questo principio costituisce il cardine del mondo, poiché quest’ultimo vi gira attorno. Sin qui e di qui procede la storia” (pag.65) La diffusione della fede nel Cristo ha necessariamente anche delle conseguenze politiche; infatti, con lui fa la sua comparsa il principio della LIBERTA’ ASSOLUTA in cui l’uomo sa di essere identico alla potenza con la quale sta in rapporto. La storia del CONCETTO giunge in realtà alla sua conclusione con Hegel quando questi concepisce tutta quanta la Storia, ricordando “in qui e di qui” come un compimento di tutti i tempi 2. La costruzione storica finale nelle forme assolute dello Spirito. a) Arte e religione Il principio del compimento domina la costruzione delle tre forme assolute dello Spirito: Arte, Religione e Filosofia. Alle tre epoche della storia mondiale corrispondono nell’arte: la forma simbolica, la classica e la cristiano-romantica. Poiché ogni modo di guardare il mondo è “Figlio del suo tempo” la vera serietà dell’arte greca e di quella cristiana è ormai passata; L’arte può dirsi compiuta dal suo tempo; quando tutto è estrinsecato e non rimane più nulla di intimo e di oscuro che tende a prender figura, svanisce l’interesse assoluto nell’arte. “Se l’arte ha rivelato le visioni del mondo essenziali … essa si è liberata del contenuto apparente determinato ogni volta per un particolare popolo e per una particolare epoca, ed il vero bisogno di accoglierlo si risveglia soltanto con il bisogno di rivolgersi contro con il contenuto sino allora valido..” (pag.68) Nella nostra epoca la cultura della riflessione ha fatto tabula rasa delle forme sostanziali dell’arte: “ Ciò che è stato cantato in modo così grande, ciò che è stato espresso in modo così libero, è ormai detto per sempre; si tratta di contenuti, di maniere di intuirli e di concepirli, che sono ormai stati cantati. Soltanto il presente è fresco e vivo, il resto e scipito e scialbo” (pag.68) La stessa forma dell’arte ha cessato di essere il supremo bisogno dello Spirito. Essa non è più il modo supremo in cui la verità esiste. “L’anima dell’artista grande e libera deve […] sapere e possedere il proprio scopo sin dall’inizio ed essere sicura di sé e fiduciosa.”(pag.69) L’artista odierno ha bisogno di una libera formazione dello spirito senza superstizioni. In questo andare oltre se stessa l’arte riesce a significare il ritratto dell’uomo su di sé, e a perdere ogni legame con i contenuti e le forme determinati e a raggiungere la sua piena compiutezza. Tutto ciò che è familiare all’uomo è un possibile oggetto di quest’arte divenuta pienamente libera. Anche la forma della religione volge verso la sua fine; La forma della sua coscienza interiore oltrepassa la coscienza sensibile dell’arte, ma nemmeno essa è la maniera suprema in cui lo Spirito si trova a suo agio. Alla fine delle Lezioni sulla filosofia della religione Hegel ha formulato il problema della situazione empirica della religione cristiana nell’epoca presente. Hegel paragona la sua epoca alla fine del mondo romano in cui: La razionalità si rifugiava nella forma del bene privato e del diritto privato dal momento che non esisteva più l’universalità religiosa e politica. L’individuo abbandona l’universale così quale è e non si prende più cura che di se stesso: gli rimane allora solo la visione morale del mondo, la volontà e le peculiari opinioni di ciascuno prive del contenuto oggettivo. Lo stesso Hegel vede che la classe stessa degli ecclesiastici, il cui compito è conservare la religione, è decaduta, perché vuole spiegare e ragionare la dottrina cristiana con motivi morali e con la storia esterna. “Il sale è diventato scipito”, non resta che la presuntuosità sterile dei dotti, il Cristianesimo sembrerebbe esser prossimo alla fine; ma ciò significherebbe concludere con una dissonanza. Hegel considera tale decadenza un avvenimento casuale che concerne solo il lato esterno del mondo, e da cui egli ricava la conciliazione essenziale. Lo Spirito Santo continua a vivere nella comunità della filosofia che amministra la verità al posto dei sacerdoti. Anche nella religione è penetrata la riflessione critica. Il pensiero non può essere represso e va spinto fino in fondo costituendo il giudice assoluto di fronte al quale la verità della religione deve provare se stessa. Come l’arte diventa scienza dell’arte, così la religione diventa filosofia della religione. Questo rifugiarsi della religione nella filosofia, dà un’esistenza concettuale ai sentimenti ed alle rappresentazioni religiose. La scienza del sapere assoluto è divenuta il vero culto spirituale. “In tal modo, nella filosofia si trovano riuniti i due aspetti dell’arte e della religione: L’oggettività dell’arte … e la soggettività della religione, che si è purificata nella soggettività del pensare.Il pensare, infatti, è da un lato, la più intima e particolare soggettività, … e al tempo stesso la più reale e oggettiva universalità che soltanto nel pensiero può cogliere se stessa nella sua propria forma.” (pag.71) b) Filosofia Nelle Lezioni sulla storia della filosofia Hegel ha portato anche la storia della filosofia al suo compimento. Secondo la sua divisione della storia della filosofia il suo sistema sta alla fine della terza epoca. La prima epoca va da Talete a Proclo, inizio e caduta del mondo antico. In Proclo avviene la conciliazione antica tra il finito e l’infinito, mondo terreno e quello divino. La seconda epoca va dall’inizio dell’era cristiana alla Riforma, dove si realizza in un piano più alto la stessa conciliazione tra il Terreno ed il Divino. Nella Terza epoca quella della filosofia cristiana, da Descartes a Hegel, la conciliazione tra terreno e divino sarà portata a compimento da Hegel stesso. I sistemi filosofici di quest’ultima epoca realizzano concettualmente nel pensiero la conciliazione che un tempo era avvenuta soltanto nella fede. Il sistema assoluto di Hegel ne è la conclusione. Lo Spirito assoluto cristiano comprende se stesso nel suo elemento, nella realtà poiché è divenuta sua. Il mondo reale è divenuto spirituale nel senso cristiano. La storia hegeliana dello Spirito è definitivamente e coscientemente condotta a termine in una concatenazione sillogistica di principio e di fine. Similarmente a Proclo, Hegel ha conchiuso il mondo del Logos cristiano nella totalità assoluta dell’idea organizzata concretamente, ed ha portato a termine la totalità delle tre epoche. Tutti i sistemi sono unificati in un unico sistema comprensivo e totale, in una più profonda coscienza dell’idea. Il Cristianesimo si è affermato all’inizio di una decadenza, in un’epoca in cui “Tutto si trova in dissoluzione ed aspira a qualcosa di nuovo” e il compimento hegeliano della filosofia cristiana costituisce un ultimo passo prima di un grande rivolgimento e di una rottura con il Cristianesimo. Il suo supremo affermarsi è contemporaneo all’inizio di una decadenza, in un epoca in cui tutto si trova in dissoluzione ed aspira a qualcosa di nuovo. “ La filosofia incomincia con la decadenza di un mondo reale[…]e la conciliazione non avviene nella realtà ma nel mondo ideale[…]. I filosofi in Grecia si sono ritirati dagli affari dello Stato […] e si sono rifugiati nel mondo dei pensieri. E’ questa una vocazione essenziale che è confermata nella storia della filosofia” (pag.74) La filosofia di Hegel non vuole ringiovanire il mondo, ma soltanto conoscerlo perché in tale conoscenza avviene la conciliazione “ con ciò che è”. Il pensiero è presso di sé e nello stesso tempo abbraccia l’intero universo, il mondo divenuto intelligente, comprensivo e trasparente. L’oggettività sussistente è divenuta una cosa sola con la sua “generazione di se”. Lo Spirito del mondo si è sbarazzato da ogni essenza estranea ed oggettiva, riesce a cogliersi come Spirito Assoluto generando da sé ciò che gli diviene oggettivo. In questa unità d’oggettività ed attività spontanea si conclude il senso compiuto dell’epoca moderna “Sin qui è giunto lo spirito del mondo. L’ultima filosofia è il risultato di tutte le precedenti; nulla è perduto, tutti i principi sono conservati. Questa idea concreta è il risultato degli sforzi dello spirito attraverso quasi 2500 anni (Talete 640 AC) nel suo più serio lavoro per diventare oggettivo a se stesso e per conoscersi: Tantae molis erat se ipsam cognoscere mentem” (pag.75). Mentre Hegel conduce a termine con il coraggio della conoscenza, un’epoca di 2500 anni e ne apre un’altra nuova, egli ha in realtà concluso la storia del Logos cristiano; quanto egli stesso dice dell’arte vale ora allo stesso modo, in seguito al suo compimento, per la filosofia in lui conclusasi: tutto un mondo di lingua, concetti e cultura è giunto alla sua fine con la storia dello Spirito di Hegel. Hegel non ha dato al significato finale del compimento da lui realizzato nessuna espressione diretta. Scarsi accenni all’America, che dall’inizio del secolo era considerata la terra futura della libertà, prendono in considerazione che lo Spirito del mondo possa abbandonare l’Europa. “L’America è quindi la terra dell’avvenire, in cui deve manifestarsi nelle epoche future qualcosa d’importante per la storia del mondo… in quanto terra dell’avvenire, essa non può ora interessarci affatto” (pag.76). Dieci anni più tardi la sua conciliazione con “ciò che è” fu intaccata da nuove scissioni per opera della Rivoluzione di Luglio e messa in discussione da una “brama di novità senza scopo”: contro di ciò egli si sentì impotente. La possibilità del processo verso una nuova scissione però è già contenuta e prevista nella stessa coscienza storica di Hegel. Nella differenza tra “il sapere” e “quel che è” risultano la possibilità e la necessità di un processo verso nuove scissioni, tanto nella filosofia, tanto nella realtà. Questo sapere è ciò che produce una nuova forma di sviluppo che rivoluziona anche il contenuto sostanziale. La filosofia che va compiendosi genera lo Spirito che tenderà ad una nuova configurazione del reale. In realtà la conclusione hegeliana della storia del sapere è risultata luogo di origine del divenire spirituale e politico del secolo diciannovesimo Un decennio dopo la sua morte, divenne manifesto, per opera di discepoli avversari di Hegel, che la sua teologia filosofica costituiva realmente un termine ed una svolta nella storia dello Spirito e della cultura della vecchia Europa. Invece della mediazione di Hegel si manifestò la volontà di venire ad una decisione, che separò nuovamente ciò che la sua costruzione compiuta aveva riunito: Antichità e Cristianesimo, Dio e Mondo, interiorità ed esteriorità, essenza ed esistenza. 3. La conciliazione hegeliana della filosofia con lo Stato e con la religione cristiana La filosofia del diritto di Hegel è la realizzazione concreta della tendenza a conciliare la filosofia con la realtà in genere: come filosofia dello Stato con la realtà politica e come filosofia della religione con quella cristiana. In entrambi i campi Hegel si concilia con la realtà nel “comprendere” il mondo reale come “conforme” allo Spirito. La vera filosofia è la comprensione dell’attuale e del reale, non già un postulare qualcosa di trascendente, uno Stato ideale, che debba soltanto essere, ma che non esista mai. La ragione cosciente di sé - cioè la filosofia dello Stato - e la ragione in quanto realtà sussistente cioè in quanto Stato reale - sono unite l’una con l’altra e “nella profondità” dello spirito sostanziale del tempo sono la stessa cosa. La filosofia della religione in Hegel è ancora più importante della filosofia dello Stato in quanto baricentro Spirituale di tutto il suo sistema. La filosofia di Hegel è allo stesso tempo “saggezza del mondo” e “conoscenza di Dio”, poiché il suo sapere giustifica la sua fede. La lettura dei giornali gli sembrava avere la stessa giustificazione della Bibbia: “ La lettura dei giornali di primo mattino è una specie di realistica benedizione del mattino. Si orienta la propria condotta nei confronti del mondo a Dio o a ciò che è il mondo. Nei due casi si ha la stessa sicurezza, in quanto si è ben certi a quale partito attenersi.” (Pag.83) La verità filosofica del Cristianesimo consisteva per Hegel nella unità di umano e divino nella figura di Cristo. Unità nuovamente dissolta: da Marx che considerava il cristianesimo un “mondo falso”; e da Kierkegaard la cui fede paradossale ha come presupposto la differenza tra uomo e Dio. Per mezzo di questa conciliazione della filosofia con la religione a Hegel sembrava istaurata in modo razionale la “pace di Dio” Hegel comprende ontologicamente sia lo Stato che la religione. Egli discute il loro rapporto badando alla loro differenza e mirando alla loro unità. L’unità si trova nel contenuto, la differenza nella forma diversa di un medesimo contenuto. Secondo Hegel la vera religione non ha nessuna tendenza negativa verso lo Stato esistente ma lo conosce e lo conferma, come d’altro canto lo Stato riconosce il “controllo ecclesiastico”. La comprensione filosofica, quindi, riconosce che Chiesa e Stato sono identici come contenuto di verità, se stanno entrambi sul terreno dello Spirito. La filosofia hegeliana dello Spirito si chiude con l’affermazione: “L’eticità dello Stato e della spiritualità religiosa dello Stato si garantiscono così reciprocamente” (pag. 86) La conciliazione di Hegel, sulla base della filosofia, della ragione con la fede e del cristianesimo con lo Stato fu spezzata intorno al 1840. La storica rottura avvenne in campi diversi: per Marx una rottura con la filosofia dello Stato, per Kierkegaard una rottura con la filosofia della religione; in entrambi i casi una rottura con l’unificazione di Stato, cristianesimo e filosofia. Con decisione pari a quella di Marx e Kierkegaard questa rottura fu compiuta, per quanto in modi differenti da Feuerbach e Bruno Bauer. Comunque divergano le loro soluzioni particolari, tutti insieme essi distruggono il mondo borghesecristiano, e con ciò anche la teologia filosofica della conciliazione di Hegel. La realtà non appariva loro più nella luce della libertà dell’essere presso di sé, ma nell’ombra dell’estraniarsi dell’uomo da sé. II. Vecchi hegeliani, giovani hegeliani, neo hegeliani. ROBERTO EVANGELISTA 1. La conservazione delle filosofia hegeliana per opera dei vecchi hegeliani. I temi che accompagnano la divisione fra giovani e vecchi hegeliani sono di natura politica e religiosa: - Stato - Religione - Singolo Tali tematiche accompagneranno la maturazione dell’hegelismo, attraverso il marxismo e l’esistenzialismo, in un processo di decostruzione che confluirà in Nietzsche (non è un caso che questi centri la sua filosofia proprio intorno a questi concetti) La prima distinzione fra destra e sinistra hegeliana si giocò sulla religione. Destra – (più fedelmente al pensiero del maestro) critica la forma della religione, ma ne salva il contenuto concependolo positivamente. Sinistra – Critica entrambi: partendo dall’Idea non potevano mantenersi le notizie storiche dei Vangeli. I vecchi hegeliani non mostrarono una tendenza a rinnovare radicalmente il pensiero di Hegel. Veri e propri conservatori furono Rosenkranz, Haym, Erdmann e Fischer. ROSENKRANZ. La filosofia hegeliana ha ampliato i suoi rapporti con la realtà e, nell’identificazione del concetto con il reale, ha trovato la vera unità fra teoria e prassi. Feuerbach viene visto come “alleato” di Schelling “nell’evitare lo sviluppo della scienza a sistema” cioè nel rimanere legato ad una prassi astratta senza addentrarsi nella natura né nello stato. Il problema della prassi in Rosenkranz è molto forte ma viene rimandato, coerentemente col pensiero di Hegel, all’idea di assoluto e alla natura intesa come essere, invece che alla natura umana. Rosenkranz osserva che la crisi della filosofia tedesca investiva solo la ricaduta dell’ontologia hegeliana in una logica e in una metafisica e di quest’ultima in una filosofia della natura e dello spirito. Da qui derivano la limitazione della logica e della metafisica al concetto di esistenza. La sinistra hegeliana, insomma, trasporta nell’etica un bisogno metafisico che non può più essere ritrovato nel concetto: questa è un’operazione “comoda”. Il sistema di Hegel è l’unico fulcro di ogni polemica filosofica ed è l’unico ad avere “una tale prontezza e una tale possibilità ad accogliere tutti i veri progressi della scienza”. A questo punto Löwith dice che “è intervenuto un processo di dissolvimento (…) né infatti risorgerà ancora uno dei vecchi sistemi e neppure se ne presenterà uno del tutto nuovo sintanto che non si sia compiuto il processo di dissolvimento” (pp. 96-97) Rosnkranz vede tutti i cambiamenti tecnici come un “progresso della nostra civiltà verso l’uniformità” e li assimila al concetto di progresso dell’umanità, con cui ora traduce lo Spirito hegeliano, che porta ad una “coscienza della libertà”. Lo Spirito è inteso ormai in senso umanitario e la riduzione delle particolarità al piano generale di questo spirito è detta livellamento. Conquiste tecnologiche – umanizzazione dell’umanità. Bisogna tenere presente che entrambi i movimenti post-hegeliani si muovono “in odore di positivismo”, positivismo che qui va considerato più come atteggiamento che come sistema filosofico. HAYM. Non riforma la filosofia di Hegel, ma si accontenta di spiegarla storicamente con risultati e strumenti diversi da quelli di Rosenkranz. Haym è molto sensibile al cambiamento dei tempi: “Questo non è più tempo per i sistemi, per la poesia o per la filosofia. Ora siamo invece in un’epoca in cui la materia, grazie alle grandi scoperte tecniche del secolo, diventa sempre più viva. (…) L’esistenza degli individui e dei popoli è fondata su nuove basi e ricondotta a nuovi rapporti”. La filosofia hegeliana non ha superato i tempi. Gli interessi e i bisogni sono stati più forti di lei. La verità filosofica è ricondotta alla capacità umana. La scienza storica è l’unica vera erede della filosofia hegeliana. ERDAMANN. Raccoglie l’istanza di Haym, ma si chiede se il prevalere del punto di vista storico su quello sistematico non indichi un sintomo di esaurimento per la filosofia in generale. Erdmann può mantenere solo un atteggiamento da storico della filosofia. Rosenkranz aveva un fondamento sistematico che gli permetteva di superare le critiche dei “giovani hegeliani”, mentre Erdmann doveva accontentarsi di storicizzare il processo di dissolvimento dell’hegelismo. FISCHER. Fu il vero e proprio rinnovatore dell’hegelismo. Infatti Hegel diventa il filosofo dell’evoluzione. Per Fischer l’importanza di Hegel sta nell’aver concepito la storia come progresso infinito, ovvero (secondo la reinterpretazione di Fischer) “deteriore infinità di un progresso senza fine”. Questi filosofi (per i quali si parla di scuola storica)cercano di riportare le tendenze disgregatrici e particolaristiche dei giovani hegeliani ad un tutto organico, ad un “assoluto”. Riprendono il concetto di “Storia dello Spirito” che, però, ha in comune col concetto hegeliano solo ed esclusivamente l’espressione verbale. Hegel era riuscito a connettere lo spirito dell’uomo allo Spirito assoluto, concedendo all’uomo la forza di svelare l’essenza dell’universo. Ora (da Haym a Dilthey) l’uomo diventa impotente di fronte ai mutamenti storici, riducendosi a semplice prodotto della realtà storica. Lo Spirito è, ormai, specchio del tempo, non più la sua potenza. In questi filosofi c’è una specie di ansia di assoluto, che inquadri i fenomeni in una realtà superiore (in una sintesi, quindi) distogliendo l’attenzione dalla lotta fra tesi e antitesi, che in Hegel rivestiva un ruolo fondamentale proprio per la costruzione della Storia e di quell’Assoluto che i vecchi hegeliani cercavano di ripristinare. Sarà Marx a riprendere la dialettica hegeliana (seppur rifondandola) e ad amplificare proprio questo aspetto. 2. Il rovesciamento della filosofia hegeliana per opera dei giovani hegeliani. Con i vecchi hegeliani la filosofia del maestro fu mantenuta storicamente (anche se già questo mantenimento storico – storiografico – indica un deterioramento). Con i giovani hegeliani, l’impianto acquista efficacia storica. I giovani della sinistra hegeliana sono ideologi del divenire e del movimento e recuperano quella dimensione di lotta e di drammaticità propria della filosofia hegeliana. Si pone la questione fondamentale dell’identità hegeliana di realtà e razionalità. Engels dà all’equazione hegeliana un carattere rivoluzionario assoluto e un carattere conservatore relativo. “Bisogna liberare Hegel da se stesso”. Equazione realtà- razionalità: Destra. Solo il reale è razionale. Sinistra. Solo il razionale è (deve essere) reale. Possono individuarsi tre fasi della crisi e della vera e propria rifondazione dell’hegelismo: 1) Feuerbach e Ruge: trasformano la filosofia di Hegel secondo l’esigenza di una nuova epoca. 2) Bauer e Stirner: cercano di ucciderla per risolverla in un criticismo radicale e nel nichilismo. 3) Marx e Kierkegaard: estremizzano le conseguenze di questa crisi . Marx distrugge il mondo borghese – capitalistico; Kierkegaard quello borghese – cristiano. La filosofia di Hegel è una filosofia borghese. In questo momento storico, la critica all’hegelismo coincide con la critica al sistema borghese. Proprio in virtù di questa identificazione la decostruzione del sistema hegeliano sarà così profonda e permetterà il superamento dell’hegelismo. Eppure il sistema borghese sopravviverà, pur attraversando un’evoluzione; ma la mutazione del sistema borghese, con l’acuirsi delle sue contraddizioni, permetterà la finalizzazione della critica all’idealismo all’abbattimento del sistema borghese – capitalistico (Marx). Il concetto di borghesia in Hegel è ancora quello della borghesia pre – rivoluzione industriale ovvero, è slegato dal concetto di economia politica. a) Ludwig Feuerbach. Lo spirito assoluto non è altro che lo spirito defunto della vecchia teologia. La filosofia da Kant a Hegel si trova sul terreno della storia della filosofia, non su quello del divenire del mondo. La destra hegeliana sta sul vecchio binario, mentre la sinistra hegeliana e in questo caso Feuerbach, si pone come interprete di bisogni che vanno verso l’avvenire. Solo loro hanno il coraggio di creare qualcosa di nuovo. Feuerbach vuole creare un nuovo ordinamento, opposto a quello di Hegel. Lo svilimento della sensibilità naturale a naturalità (in senso negativo) è da ritrovarsi nell’origine della filosofia moderna dalla teologia cristiana. L’idealismo, quindi, ha commesso lo stesso errore della teologia, deducendo il finito dall’infinito. “La filosofia dall’assoluto è una contraddizione”. Feuerbach vuole filosofare antropologicamente. Vuole, cioè, prendere in considerazione l’unica cosa che dà valore al pensiero: la sensibilità. La sensibilità e tutta la natura e l’esistenza corporea. Le identità hegeliane non sono altro che unilateralità. Il corpo, in Hegel, è solo il momento negativo dell’anima, che l’anima deve superare per ritornare ad essere autoreferenziale. Il corpo, quindi non ha realtà autonoma. Non c’è vera identità. La corporeità sensibile si esplica nella sessualità. Riconoscendomi appartenente a un sesso, io riconosco l’esistenza di un essere diverso da me, che mi appartiene e forma la mia esistenza, completandola. Io sono diverso da altri. L’Io e il Tu diventa il principio della vita e, soprattutto, del pensiero. L’amore è il rapporto fra Io e Tu. b) Arnold Ruge. Riporta l’attenzione alla storia come storia filosofica, ovvero, coscienza della storia. Anche per Ruge, come per Rosenkranz, lo Spirito è il progresso dell'umanità. Riguardo alla “Filosofia del diritto” di Hegel, sostiene che quest’opera ha il merito di aver posto alla base dello Stato una volontà autodeterminantesi. Lo Stato è la volontà sostanziale. Ma la “filosofia del diritto” non assume la storia come base, limitandosi a porla solo alla fine. Lo Stato di Hegel non è dotato di movimento storico ma è una vera e propria idea fissa. Secondo Ruge non ci si può limitare a innalzare l’esistenza al concetto, ma bisogna realizzare il concetto in un’esistenza effettiva. In Hegel non c’è attenzione all’esistenza effettiva. Per lui, infatti la teoria è già essa stessa prassi e la differenza fra teoria e prassi sta solo nel rivolgersi dello spirito all’interno o all’esterno. Anche Ruge si inserisce pienamente nel processo di decostruzione dell’hegelismo. Ma, più di Feuerbach, si trova in una situazione di confusione e, a differenza di Marx, non è capace di completare quel processo di rifondazione dell’hegelismo su un terreno diverso. Se, da un lato, Ruge, vede nello Stato e nella Storia un principio sostanziale e ben definito; dall’altro non può fare a meno di pensare questo Stato e questa Storia come un divenire che si ripercuote sull’esistenza effettiva. Questi elementi possono, dunque, far pensare a Ruge come ad una specie di “cerniera” fra destra e sinistra hegeliana. c) Karl Marx. Tenta una semplificazione della filosofia come quella che ci fu quando il grande “colosso sistematico” della filosofia classica cadde sotto i colpi dell’epicureismo e dello stoicismo. Il crollo dell’hegelismo è una necessità storica. Marx fonda la filosofia su un altro elemento: la prassi politica ed economica. Sulla base di questa nuova fondazione, il rapporto con la “materia” è molto più profondo rispetto a quello di Feuerbach. Hegel: Mondo ridotto a filosofia. Marx: Filosofia ridotta a mondo. L’equazione fra ragione e realtà è presente, in Marx, in maniera così profonda, che riporta quasi completamente all'equazione di Hegel. Ma la lotta dei termini che riportano la realtà verso la razionalità è così forte, da riportare nella storia (seppur lineare e razionale) un dinamismo del tutto nuovo. In questo nuovo dinamismo, che si fonda su basi economico – politiche, c’è la vera unità fra teoria e prassi che in Hegel viene solo postulata. La dialettica fra teoria e prassi sta alla base della critica che Marx fa sia ad Hegel che a Feuerbach. Feuerbach si era limitato a concepire la realtà sensibile intuitivamente, cioè come oggetto pronto e non come prodotto della prassi. La ragione di questo errore sta in questioni storico-strutturali da ritrovarsi nelle caratteristiche della classe tardo borghese, vista come classe che possiede. In quanto possidente, non si rende conto che ciò che possiede è frutto di lavoro collettivo e che nulla può essere un prodotto che si costruisce immediatamente. Anche Feuerbach è ricaduto nell’errore di interpretare il mondo invece di trasformarlo. Fondamentale è in Marx, la critica ai due “partiti” hegeliani. Entrambi cedono al predominio dei concetti generali. I vecchi hegeliani vogliono conservare l’antica coscienza, i giovani hegeliani vogliono rivoluzionarla. I giovani hegeliani si sono spinti fino al limite consentito, nella critica della filosofia, senza uscire dalla filosofia (meglio dire ideologia). A questo punto si può dire che con Marx la frattura fra giovani e vecchi hegeliani viene superata, e con essa viene superata anche quell’ingenuità che ha caratterizzato il primo post-hegelismo. Inizia la vera e propria decostruzione del colosso sistematico di Hegel, che accompagnerà tutto il secolo XIX e gran parte del secolo XX. Solo una volta superata (e quindi accantonata) questa frattura tra giovani e vecchi hegeliani ci si può dedicare a fondare la filosofia su una nuova base che permetta di smascherare la vera natura di quei concetti che fino ad allora avevano trattenuto la natura umana in categorie incapaci, ormai, di contenere i cambiamenti strutturali della società. III. Il dissolvimento delle mediazioni hegeliane nelle posizioni radicali di Marx e Kierkegaard ALESSIO CALABRESE PARTE PRIMA 1) ”la storia dello spirito germanico”: “possano i seguenti studi dare un quadro vivo e fedele del periodo che va da Hegel a Nietzsche e in tal modo «comprendere» entro l’orizzonte del nostro tempo la storia filosofica del secolo XIX. Comprendere la storia significa però non già travisare a detrimento del vero e a vantaggio della vita la realtà non più evocabile di ciò che è accaduto una volta e per sempre, bensì render giustizia al fatto,proprio della storia della vita, che l’albero si giudica dai frutti, il padre dai figli. Soltanto il secolo XX ha reso chiaro e comprensibile ciò che è realmente avvenuto nel secolo XIX. (HN, prima prefazione 1939, pag.11-12) 2) il dissolvimento dell’hegelismo e la decadenza dell’Europa: la “frattura” compiuta da Marx e Kierkegaard «La crisi della filosofia hegeliana si può dividere in tre fasi: Feuerbach e Ruge cercarono di trasformare la filosofia di Hegel secondo lo spirito di un’epoca diversa; B. Bauer e Stirner fecero in genere morire la filosofia in un criticismo radicale e nel nichilismo; Marx e Kierkegaard trassero conseguenze estreme dalla situazione mutata: Marx distrusse il mondo borghese-capitalistico e Kierkegaard quello borghese-cristiano. (HN, pag.116) 3) il “presente” di Löwith: a) la Germania nazista e l’URSS potenze “antieuropee” b) Leo Spitzer: «La rivoluzione tedesca non è che un imbarbarimento bolscevista su base romantico-piccolo-borghese, la forma tedesca del bolscevismo da ceto medio» 4) il tema effettivo: “la trasformazione e il rovesciamento della filosofia dello spirito assoluto attraverso Marx e Kierkegaard in marxismo e esistenzialismo» (HN, seconda prefazione 1949, pag. 15) PARTE SECONDA 1) l’oggetto del capitolo: “Poco prima della rivoluzione del 1848, Marx e Kierkegaard espressero la loro volontà di una nuova decisione, e le loro parole conservano valore anche oggi: Marx lo fece nel Manifesto dei comunisti (1847) e Kierkegaard in un Proclama letterario (1846). Il Manifesto si chiude con l’incitamento: «Proletari di tutti i paesi, unitevi! »; il Proclama, con l’esortazione a ciascuno di adoprarsi per la propria salvezza, mentre la profezia sull’avvenire del mondo è sopportabile tutt’al più come uno scherzo. Considerato storicamente, questo contrasto caratterizza due aspetti di una comune distruzione del mondo borghese-cristiano. Per la rivoluzione contro il mondo borghese-capitalistico, Marx si è appoggiato sulla massa del proletariato; mentre Kierkegaard, nella sua lotta contro il mondo borghese-cristiano, ha riposto ogni sua speranza nell’individuo. Con ciò si accorda il fatto che per Marx la società borghese è una società di <<individui isolati>>, in cui l’uomo è estraneo al suo « essere generico », e che per Kierkegaard la cristianità si riduce ad un cristianesimo volgarizzato per la folla, in cui nessuno si presenta come successore di Cristo. Poiché però Hegel ha mediato nell’essenza questi contrasti esistenti, cioè la società borghese con lo Stato e lo Stato con il cristianesimo, le prese di posizione sia di Marx quanto di Kierkegaard tendono a mettere in rilievo la distinzione e il contrasto insiti in quelle mediazioni. Marx si volge contro l’estraniarsi da sé che il capitalismo rappresenta per l’uomo; Kierkegaard contro l’estraniarsi da sé che la cristianità rappresenta per il cristiano”. (HN, pag. 232-233) 2) la critica al concetto hegeliano di realtà: a) la logica hegeliana è ontologia, ”indagine della realtà” b) siamo nella logica dell’essenza dove la realtà in atto è sintesi di essenza e apparenza: “Wirchlichkeit è l’unità immediata, che si è prodotta, dell’essenza e dell’esistenza o dell’esterno e dell’interno. La manifestazione del reale è il reale stesso” (Hegel, Enc. paragrafo 142) c) se razionale e reale coincidono,se il mondo concreto è il contenuto della filosofia, allora la critica di Marx e Kierkegaard diventa critica radicale dello stato di cose presenti d) la filosofia di Hegel si riduce ad una teologia dove Dio è la “realtà più reale”. 3) la critica di Feuerbach: a) la dialettica hegeliana annulla in una generalità logica il singolo “questo” b) “solo la passione è il segno dell’esistenza” b) la realtà sensibile è determinata e dunque piena di contenuto immediato c) il pensiero speculativo hegeliano non raggiunge questo mondo reale, bensì solo «la mondanizzazione di un mondo teologico trascendente”. 4) la critica di Marx e Kierkegaard all’esistenza reale si rivolge per il primo all’esistenza economica della massa, per il secondo a quella etico-religiosa dell’individuo. Infine per quest’ultimo l’irriducibilità dell’essenza nell’esistenza non e “un difetto di deduzione del principio” hegeliano come in Marx: solo nel “singolo” è realizzata “l’universalità dell’esser-uomo”, dal momento che tanto l’universalità dello spirito hegeliano, quanto quella dell’umanità marxiana, appaiono a Kierkegaard “essenzialmente nulla”. 5) in Critica dell’esistenza storica Löwith sostiene che la sociologia marxiana è “in realtà espressione del trasformarsi della filosofia hegeliana dello spirito oggettivo in un’analisi della società umana” SOCIETA’ CIVILE: soddisfacimento dei bisogni, ”atomismo” e istanze particolaristiche; lavoro, produzione e scambio delle merci; dominio dell’economia e degli interessi particolari; il legame che unisce gli individui non è il sentimento (famiglia ma il legame universale che il mercato crea tra i produttori; divisione del lavoro e classi sociali le quali sono la “sintesi di Stato e società civile […] la posizione della contraddizione di Stato e società civile nello Stato” (Marx, Hegelschen Rechtph. pag.81) 6) il Medioevo e la Riv. Francese: “L’apice dell’identità hegeliana era, come Hegel stesso confessa, il medioevo. Quivi le classi della società civile in genere e le classi in senso politico erano identiche. Si può esprimere lo spirito del medioevo così: che le classi della società civile e le classi in senso politico erano identiche perché la società civile era la società politica: perché il principio organico dalla società civile era il principio dello Stato” (Marx, Hegelschen Rechtphi. pag.86) “Soltanto la Rivoluzione francese condusse a termine la trasformazione delle classi politiche in sociali, ovvero fece delle differenze di classe della società civile soltanto delle differenze sociali, delle differenze della vita privata, che sono senza significato nella vita politica. Fu con ciò compiuta la separazione di vita politica e di società civile” (Marx, Hegelschen Rechtphi. pag94) 7) l’antitesi tra Stato e società civile: “L’identità, da lui (Hegel) costruita, di società civile e Stato è l’identità di due armate nemiche, in cui ogni singolo soldato ha la «possibilità» di diventare, per «diserzione», membro della armata «nemica», e certamente Hegel descrive con esattezza la situazione empirica moderna” (Marx, Hegelschen Rechtphi. pag.63) “Il più profondo in Hegel è che egli sente come una contraddizione la separazione di società civile e società politica. Ma il falso in lui è ch’egli si appaga dell’apparenza di questa soluzione e la spaccia per la cosa stessa, allorché le « cosiddette teorie », da lui spregiate, esigono la «separazione» delle classi civili dalle classi politiche, e con ragione, perché esse esprimono una conseguenza della moderna società, essendo in questa l’elemento politico di classe precisamente niente altro che l’espressione effettiva del reale rapporto di Stato e società civile, la loro separazione” (Marx, Hegelschen Rechtphi pag.89) 8) l’errore di Hegel: “Non è da biasimare Hegel perché egli descrive l’essere dello Stato moderno tal qual è, ma perché spaccia ciò che è come l’essenza dello Stato. Che il razionale è reale, ciò è precisamente in contraddizione con la realtà irrazionale che dovunque è il contrario di quel che esprime e esprime il contrario di quel che è” (Marx, Hegelschen Rechtphi. pag. 77) 9) la “doppia vita”, bougeois-citoyen: “Per comportarsi quindi come un vero cittadino dello Stato, per acquistare importanza ed efficacia politiche, egli deve uscire dalla sua realtà civile deve astrarsene e rientrare nella propria individualità, abbandonando tutta questa organizzazione; l’unica esistenza infatti che egli trova, per essere cittadino dello Stato, è la sua individualità nuda e cruda, poiché l’esistenza dello Stato in quanto governo può fare a meno dell’individuo e la sua esistenza nella società civile prescinde da quella dello Stato. Egli può essere cittadino dello Stato solo come individuo e in contrasto con queste uniche comunità sussistenti. La sua esistenza come cittadino dello Stato è un ‘esistenza estranea alla sua esistenza come uomo sociale, è cioè un’esistenza puramente individuale”. (HN, pag.225) 10) l’uomo come “ente generico” fonda la “vera democrazia”, passando dalla polis alla cosmpolis della società comunista senza classi, ”realizzando – dice Löwith - nella società moderna la filosofia dello Stato di Hegel”. Tuttavia Marx gli obietterebbe che Io Stato hegeliano è già realizzato come il perfetto Stato del mondo capitalistico-borgese. 11) la “critica dell’economia politica” è orientata verso la totalità del mondo storico: a) l’estraniazione politica è espressa dall’antitesi Stato - società borghese b) “ sociale è espressa dall’esistenza del proletariato c) “ economica è espressa dal “feticismo delle merci” 12) estraniazione parziale e totale: a) Hegel: schiavo antico - servo moderno b) Marx: il lavoratore salariato gode sì degli stessi diritti di chi possiede i mezzi di produzione, ma è meno “libero” dello schiavo ateniese poiché se è vero che aliena semplicemente per un tempo limitato un lavoro particolare, tuttavia viene ad essere schiavo completo del mercato, essendo la sola forza lavorativa l’unica cosa che in realtà egli possiede e che deve alienare per poter sopravvivere. 13) la merce come “struttura ontologica” dell’intero mondo oggettivo in cui non solo l’uomo si estranea da se stesso, ma anche le cose da lui poiché, scrive Lukacs: “i valori d’uso appaiono senza eccezione come merci, ricevono una nuova oggettività, una nuova cosalità, che essi non avevano al tempo dello scambio meramente occasionale e nella quale si annienta e si dissolve il loro autentico e originario carattere di cosa” (G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, pag. 120) a) nei Dibattiti sulla legge contro i furti di legna (1842), Marx mette in luce come la materia (la legna) s’impadronisce dell’uomo e lo definisce: la “cosa morta” essendo espressione di rapporti “politici” (possessore e ladro), determina l’essere e il comportamento dell’uomo. L’alienazione in una cosa è dunque un’autoalienazione, una materializzazione dell’autocoscienza umana per cui “gli idoli di legno possono vincere e le vittime umane venire sacrificate”. Il capovolgimento e l’immediato autonomizzarsi dei mezzi (prodotti) dai fini (bisogni) è ciò che costituisce per essenza questo “abietto materialismo”. “Il risultato di tutte le nostre scoperte e del nostro progresso sembra consistere nel fatto che le forze materiali sono fornite di vita spirituale, e che l’esistenza umana si istupidisce in una forza materiale […] L’umanità diventa signora della natura, mentre l’uomo diventa schiavo dell’uomo o schiavo della propria infamia”. (Marx, Die Rev. und das Prol. 1866) b) l’autonomizzarsi dell’oggetto d’uso in una merce, cioè il trasformarsi (sul mercato) del suo valore d’uso in valore di scambio, rende chiaro il dominio, nella società capitalista, del prodotto sull’uomo. 14) Il “feticismo delle merci” come processo in cui gli oggetti non sono scambiati per ciò che sono (valore d’uso), ma per ciò che valgono (valore di scambio). Tale sistema neutralizza la natura degli oggetti per diffonderne il valore (economico) espresso in denaro. “Il lato misterioso del carattere di merce consiste, quindi, semplicemente nel fatto che essa presenta agli uomini i caratteri sociali del loro proprio lavoro come caratteri oggettivi degli stessi prodotti del lavoro, come qualità naturali, e sociali di queste stesse cose, facendo quindi risultare il rapporto sociale dei produttori di fronte al lavoro complessivo come un rapporto sociale oggettivo, esistente all’in fuori di loro. Con questo qui pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cioè cose sensibili, sovrasensibili o sociali … E’ semplicemente il determinato rapporto sociale degli uomini stessi, che assume qui per essi la forma fantasmagorica di un rapporto di cose. Per trovare quindi un’analogia, dobbiamo rifugiarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Qui i prodotti del cervello umano sembrano dotati di vita propria, e si presentano come figure autonome entranti in rapporti con gli uomini e tra di loro. Così si comportano i prodotti della mano umana nel mondo delle merci. Questo è per me feticismo, che inerisce ai prodotti del lavoro, appena questi vengono prodotti come merci, ed è quindi inseparabile dalla produzione di merci”. (Marx, Das Kapital, libro 1, pag.38) 15) estraneazione e divisione del lavoro: a) nell’Ideologia tedesca la causa dell’estraneità con cui gli uomini si comportano dinanzi ai loro propri prodotti, è rintracciata da Marx nella divisione del lavoro. Essa modifica anche le loro “relazioni reciproche”. b) La soppressione della divisione del lavoro eliminerà anche ogni antitesi tra città e campagna, ogni differenza tra lavoro spirituale e lavoro manuale. c) Afferma perciò Löwith: “Tale soppressione può realmente avvenire solo in una comunità, che assieme al possesso trasformi anche la realtà umana. Allo stesso modo, anche il Capitale non rappresenta una semplice critica dell’economia politica, ma una critica dell’uomo della società borghese, con un’indagine sull’economia capitalistica, la cui « cellula economica » è rappresentata dalla forma di merce del prodotto del lavoro”. (HN,pag.239) 16) la società comunista sostituirà all’opaco pervertimento del moderno mondo di merci, la “trasparenza” delle relazioni sociali con i prodotti del suo lavoro “Il mondo della merce può quindi in genere essere soppresso solo con una fondamentale trasformazione di tutti quanti i rapporti concreti di vita dell’uomo esistente socialmente. Al ritorno dal carattere di merce al carattere d’uso corrisponde la necessità di un ritorno dell’uomo diventato cosa nell’uomo “naturale”, la cui natura consiste fondamentalmente nell’essere un individuo sociale”.. (HN, pag. 242) 17) “il mondo invecchiato”: a) Kierkegaard. e Marx rompono la conciliazione hegeliana StatoChiesa b) “Il <<regno dello spirito>> della filosofia di Hegel diventa uno spettro nel mondo del lavoro e della disperazione”. (HN, pag.247) 18) la scissione e la fine del puro theorein: “In luogo dello Spirito attivo di Hegel, interviene in Marx una teoria della prassi sociale e in Kierkegaard una riflessione dell’agire intimo: in tal modo. entrambi si sottraggono con la conoscenza e la volontà alla theorìa come attività suprema dell’uomo. Per quanto lontani siano l’uno dall’altro, sono però strettamente congiunti nell’attacco comune alla realtà esistente e nel distacco da Hegel. Ciò che li distingue conferma anche la loro affinità, poiché entrambi rimangono saldamente attaccati a quella scissione totale del terreno e del divino, da cui era già partito sulla soglia del secolo XIX Io stesso giovane Hegel per la ricostituzione dell’Assoluto come suprema unificazione dei due opposti” (HN, pag. 248) EXCURSUS SU HEGEL 1) la separazione da Hölderlin e l’inizio di una professione civile segna per Hegel la “virile «unificazione con il tempo»” e stabilisce «l’alleanza con il mondo» 2) “l’opposizione continua però a costituire un «presupposto» della filosofia. L’altro presupposto è l’unità ,in quanto scopo posto anticipatamente” (HN,pag. 249-250) La critica della realtà presente come critica della «crisi mondiale», presuppone un possibile accordo con ciò che è. In tal modo Hegel anticipò “taluni aspetti capitali della critica rifatta e portata a termine da Marx; d’altro canto, le contraddizioni che Marx credette di scoprire nelle mediazioni di Hegel sono le stesse che già Hegel aveva conciliato […] La critica dei giovani hegeliani ripeté la crisi già attraversata da Hegel stesso, prima del suo superamento nel sistema” (HN,pag.250) 3) in Germania il singolo si è «spezzato» in due «frammenti», in un «particolare individuo di Stato ed in un particolare individuo di Chiesa». 4) Come per Hegel si tratta di ricostituire nella realtà l’universalità del pensiero,così per Marx dì dare “coscienza” al proletariato in quanto classe. Per entrambi si tratta di «comprendere» (Begreifen) la cosa, cioè di intenderla, criticarla, trasformarla. Tuttavia Hegel si limita a dire, nello scritto sulla Costituzione della Germania, che: “I pensieri contenuti in questo scritto non possono avere nella loro espressione pubblica altro scopo e altro effetto fuor che la comprensione di quel che è e tendono quindi a favorire l’opinione più tranquilla e una sopportazione moderata nei contatti reali e nelle parole. Non, infatti, ciò che è ci rende impetuosi e sofferenti ma piuttosto il fatto che tutto non sia come deve essere; se però noi riconosciamo che le cose stanno così per necessità, cioè non per un arbitrio o per un caso, riconosceremo anche che così deve essere”. La critica che Marx rivolge all’economia politica che «non comprende la coerenza del movimento (economico)», ricalca la lezione hegeliana: “L’economia politica parte dal fatto della proprietà privata. Non ce la spiega. Essa esprime il processo materiale della proprietà privata, il processo da questa compiuto in realtà, in formule generali, astratte, che essa poi fa valere come leggi. Essa non comprende queste leggi, cioè non mostra come esse risultino dall’essenza della proprietà privata. L’economia politica non ci dà alcun chiarimento della ragione della divisione di lavoro e capitale, di capitale e terra» (Marx, Manoscritti, pag. 193) a) cfr. la critica di Heidegger che afferma la priorità del gesto interpretativo rispetto al comprendere soggettivistico 5) Hegel accusa i Tedeschi di “disonestà” filosofica rimanendone,a giudizio di Löwith, egli stesso vittima poiché sostiene di ”sapere cosa voglia lo «Spirito del mondo»” (HN, pag.256). a) cfr. Nietzsche, ”Che cos’è Tedesco?” in La gaia scienza 6) la «familiarità con l’esistenza», la Grecia e il significato della filosofia: “L’uomo si deve poter sentire a casa propria proprio in ciò che è diverso ed estraneo, per sentirsi egli stesso estraneo nell’esser-altro del mondo reale. Hegel ha considerato la vita greca come il grande modello di una tale <<familiarità con l’esistenza >>, anche quando il riconoscimento virile di quel che è gli doveva proibire la nostalgia di una situazione passata. Ciò che fa sì che l’Europeo colto si senta a casa propria presso i Greci è il fatto che questi ultimi si costruirono una patria nel loro mondo, e non vollero andare « oltre » e « aldilà». Essi hanno elaborato, trasformato e rovesciato a tal punto gli inizi sostanzialmente stranieri della loro cultura religiosa e sociale, che questa finì col costituire una loro creazione originale. Similmente la filosofia significa <<essere a casa propria presso di sé, che cioè l’uomo si senta a suo agio nel proprio spirito, e sia in patria quando è presso di sé>> (HN, pag. 263-264) 7) L‘estraneità di Marx e Kierkegaard e l’apolidia di Nietzsche: “Marx e Kierk. erano divenuti estranei al mondo in cui Hegel si era ancora «adattato ad abitare »; essi furono al di sopra e al di là, ossia « assurdi » e «trascendenti », secondo le espressioni usate da Goethe per indicare lo spirito futuro del secolo. infine Nietzsche non fu più a casa propria in nessun luogo, e rappresentò un « passaggio » ed un « tramonto »: nella vita greca egli non riconobbe più la familiarità con l’esistenza ed il senso plastico, ma soltanto il pathos tragico e lo spirito della musica, suscitata in lui dalla modernità di Wagner”. (HN, pag.264) PARTE TERZA: per la discussione 1) Continuità e rottura Hegel-Marx secondo Löwith: “Per Marx ed Engels il materialismo storico rappresentava il compimento della filosofia hegeliana, e il movimento dei lavoratori in Germania realizzava «l’eredità della filosofia classica tedesca ». Per quanto ciò possa sembrare a prima vista paradossale, non è tuttavia completamente assurdo, poiché la filosofia materialistica, quale Marx la concepì, si presenta non come semplice negazione, ma insieme come la «realizzazione » materialistica dell’idealismo hegeliano. Il principio fondamentale di Marx è quello stesso di Hegel — l’unità di ragione e realtà, di essenza universale e di esistenza particolare. Nella compiuta collettività comunista ciascun individuo ha attuato la sua particolare essenza umana come esistenza universale, di— carattere politico-sociale. Facendo così proprio il principio di Hegel, Marx poteva dire di rimproverare a Hegel non la sua affermazione teoretica della realtà della ragione ma la sua mancata realizzazione pratica. [...j La differenza tra la posizione materialistica e quella idealistica non sta quindi nel principio, bensì nella sua applicazione. La fonte storica dell’idealismo » hegeliano è tuttavia la tradizione greco-cristiana. Come tutto l’idealismo tedesco la sua filosofia dello spirito si fonda sui concetto greco-cristiano del Iogos, che Hegel tramuta in uno spirito metafisico svolgentesi nel processo storico. Ma poiché egli identifica la storia universale con la storia dello spirito, la sua concezione della storia conserva molto meno della sua origine religiosa che non l’ateismo materialistico. Il messianesimo marxistico trascende la realtà esistente in modo così radicale da conservare intatta, malgrado il sua « materialismo », la tensione escatologica e con ciò il carattere religioso della sua intuizione della storia, mentre Hegel, per cui la fede è soltanto un modo della ragione o del « percepire », decise al punto critico del suo sviluppo spirituale di conciliarsi col mondo quale esso è. In confronto a Marx la filosofia di Hegel è realistica”. (Löwith, Sign. e fine della storia, pag71-72) 2) Marx: “sono un idealista che ha l’impertinenza di voler fare dell’uomo un uomo” (lettera a Ruge, 1846). In ciò risiede,secondo Löwith “l’idealismo pratico” di Marx. 3) l’apolitia di Löwith e l’importanza di Spinoza, Feuerbach e Nietzsche. 4) la critica di Lukacs al libro di Löwith: “viene compiuto per la prima volta, nella storiografia filosofica borghese tedesca, il tentativo dì inserire organicamente nello svolgimento la dissoluzione dell’hegelismo e la filosofia del giovane Marx. Ma già dal fatto che Löwith fa culminare questo svolgimento in Nietzsche, e certo non nel senso di smascherarne le tendenze, appare chiaramente che egli non vede i problemi reali del periodo trattato e quando si imbatte in essi li pone decisamente alla rovescia. Poiché egli scorge la direzione principale semplicemente in un allontanamento da Hegel, i suoi critici di destra e di sinistra e, in particolare,Kierkegaard e Marx, vengono a trovarsi per lui sullo stesso piano: il loro contrasto in tutte le questioni appare come semplice diversità di temi in un indirizzo fondamentale essenzialmente uniforme. Si comprende facilmente come con un orientamento di questo genere Löwith veda fra gli hegeliani dei periodo della dissoluzione (Ruge, Bauer), Feuerbach e Marx solo diversità di sfumature in una tendenza unica, non già opposizioni qualitative […] Anche questa dunque è una notte in cui tutte le vacche sono nere”. (La distruzione della ragione,pag. 15-16) PARTE SECONDA STUDI SULLA STORIA DEL MONDO BORGHESE-CRISTIANO I. Il problema della societa’ borghese NICOLA BOMBACE “Voi avete fiducia nell’ attuale ordinamento della società, senza pensare che tale ordinamento è esposto ad inevitabili rivoluzioni[…]Ci avviciniamo ad una situazione critica ed al secolo delle rivoluzioni. Ritengo cosa impossibile che le grandi monarchie europee possano durare ancora a lungo“. Così profetizza Rousseau . Nel suo famoso romanzo pedagogico, l‘ Emilio, Rousseau critica l‘ uomo della società borghese come un non essere qualcosa di unitario e di totale , come un uomo che non perviene ad unità con se stesso, ma è un privato da un lato e un cittadino dall‘altro. Nietzsche riconosce in questa immagine “la più grande forza rivoluzionaria dell’epoca moderna “, cifra del nichilismo europeo; in un uomo siffatto, servitore di due padroni, manca la risposta alla domanda decisiva: “Qual è il senso, qual è il perché “. Che questa distinzione tragga la sua origine dalla teologia cristiana è evidente dall ‘ appello che Rousseau fa all‘inizio del suo romanzo: “ ogni cosa è buona nel momento in cui esce dalle mani dell’autore di tutte le cose, tutto degenera nelle mani dell ‘ uomo “ . Motivo fondamentale del pensiero rousseauiano è il contrasto tra l ‘ uomo allo stato naturale, dell ’ originario mondo adamitico, e l ‘ uomo allo stato civile. La civiltà allontana gli uomini dalla natura, crea le diseguaglianze tra di loro e con essa tutti i mali sociali. Nel Contratto sociale Rousseau esamina le condizioni nelle quali la comunità possa essere fondata su basi naturali e possa rispondere ad una norma di giustizia. Il problema che qui si pone è “ trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi con tutti, non ubbidisca tuttavia che a se stesso e rimanga così libero come prima “. Tale forma di associazione è quella che si fonda nel contratto, col quale ciascun individuo aliena totalmente i suoi diritti al corpo sociale o politico, esprimentesi attraverso le leggi, come “ volontà generale “. Questa non è la forma delle volontà particolari, ma una volontà che tende all ‘ interesse comune, di guisa che l ‘ individuo ubbidendo ad essa non subisca alcuna diminuzione della propria libertà; fuori della volontà generale egli non può che avere interessi particolari e ingiusti. Al tempo stesso la volontà generale deve identificarsi con la coscienza divina, e la comunità politica con la religione cristiana, unità che costituirebbe la religione civile. In questa concezione di “ volontà generale come volontà di tutti “ si inserisce la critica di Hegel , il quale ritiene che Rousseau intenda la volontà generale solo come volontà complessiva dei singoli cittadini e non già come veramente universale. A differenza di Rousseau , il cui esame delle antinomie proprie della società borghese termina in una disperata rassegnazione ( nelle Lettere della Montagna scrive “ Le patriotisme et l ‘ humanité sont deux vertus incompatibles dans leur énergie et surtout chez un peuple entier “ ), Hegel vede in queste antinomie la forza degli stati moderni ( cfr. Filosofia del diritto , par. 260 ) . Lőwith ci ricorda le lettere che Rousseau scrisse al re di Polonia : “ Non c‘ è più nessun mezzo di salvezza se non un grande rivolgimento , che sarebbe quasi altrettanto temibile quanto il male che esso potrebbe risanare ; costituirebbe quindi un delitto degno di punizione il desiderare ardentemente che tale rivolgimento avvenga .” Il rivolgimento, il cui solo desiderio per Rousseau sarebbe stato un delitto , si rivelò in Francia con tutta la sua forza e grandezza; esso sconvolse la società d ‘ Ancien régime , con i suoi privilegi di classe e le sue regole , opponendo ad una forma politica basata sul binomio assolutismo - aristocrazia e fondata sulla rendita agricola, una nuova forma politica proveniente da una nuova classe sociale, la cui identità si riconosceva grazie alla rivoluzione. Nel 1789 fu formulata la “ Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino “ , la quale ancora oggi costituisce il fondamento di tutti gli stati democratici , e la grande vittoria dell ‘ ideologia borghese . Già nel titolo compare la distinzione tra uomo e cittadino , ragion per cui secondo Lőwith essa appare assai più liberale del Contratto sociale , il cui fine risiede nel costituire un modello di umanità non borghese , tentativo per altro sperimentato dal totalitarismo . La Rivoluzione francese fu accolta positivamente da Hegel. “Da quando il sole sta nel firmamento e i pianeti si muovono intorno a lui, non si era mai visto che l’ uomo si basasse sul suo cervello, cioè sul pensiero, e costruisse secondo questo la realtà. Anassagora per primo aveva detto che il νους governa il mondo ; ora però l’ uomo è giunto a riconoscere che il pensiero deve dominare la realtà spirituale. Questa fu quindi una magnifica aurora. In quell’ epoca si è diffusa una nobile commozione, ed un entusiasmo dello spirito ha fatto rabbrividire il mondo , come se soltanto allora si fosse giunti ad una vera conciliazione tra il divino ed il mondo.” ( Filosofia della storia ) . Apparsa ai suoi occhi come rovesciamento di una società non più rispondente all ‘ idea di libertà , il limite dell ‘azione rivoluzionaria secondo il filosofo è al tempo stesso la sua forza dirompente , una forza negativa che tuttavia non ha avuto la capacità di dare un fondamento positivo al nuovo stato . E’ chiaro , quindi , che Hegel rigetti la dottrina del Contratto sociale , nel quale la formazione dello stato dipende dall‘ arbitrio dei cittadini , e insieme la concezione liberale rappresentata dalla teoria di Von Humboldt , vedendo in esse conseguenze “ che distruggono il divino in sé e per sé e l’ assoluta autorità di esso “ ( Filosofia del diritto , par. 258 – confusione di stato e società civile - ). Nel paragrafo 260 della Filosofia del diritto Hegel dice : “ lo stato è la realtà della libertà concreta “ , esso da un lato è per l ‘ individuo una forza esterna che lo necessita e subordina a sé , dall ‘ altro è il suo fine immanente , come è il fine della famiglia e della società civile , i quali rispetto ad esso sono organismi particolari e imperfetti , e da esso devono dipendere . La Repubblica di Platone ( cfr. Filosofia del diritto , par. 185 ) e il Contratto sociale di Rousseau ( nel quale Hegel scorse soltanto l ‘ idea dei diritti dell ‘ uomo e non già quella dei doveri ) , la πόλις antica e il cristianesimo protestante , sono i presupposti dai quali Hegel partì per innalzare la realtà dello stato prussiano ad esistenza filosofica . Nello stato moderno avviene la conciliazione della universalità sostanziale della πόλις antica con la singolarità soggettiva della religione cristiana , ovvero esso è al tempo stesso il superamento e la conservazione delle antitesi entro se stesso . Marx ed Hegel analizzano la società borghese come un sistema di bisogni , la cui eticità si perde negli estremi ed il cui principio è l ‘ egoismo , ma Marx non avverte effettivamente la conciliazione tra stato e società civile espressa nel sistema hegeliano , e ritorna in un certo senso a dialogare con Rousseau , a riproporre le ambiguità e contraddizioni della società civile ; egli critica la Filosofia del diritto di Hegel e avvia un ‘ analisi scientifica della realtà materialmente osservata e libera da fantasmi speculativi . Marx scopre che i Diritti dell’ uomo e del cittadino non sono universali , ma rappresentano gli interessi della borghesia , laddove il borghese è l ‘ uomo dell ‘ emancipazione politica del 1789 , ma non dell ‘ emancipazione umana : “ Si è ben lontani dal concepire l ‘ uomo come essere generico “. Per abolire le contaddizioni della società borghese , che Rousseau vedeva nella coppia bourgeois – citoyen , Marx ritiene come unica soluzione una rivoluzione sociale, protagonista della quale questa volta è il proletariato, classe universale che vive del suo lavoro. Essa è l ‘ antagonista vivente della borghesia, proprietaria dei mezzi di produzione e del capitale . Il più radicale degli ideologi borghesi è Stirner. Egli giunge a teorizzare una società di individui isolati , in cui non soltanto le classi , ma anche l ‘ uomo in quanto tale , sono ridotti alla figura dell ‘ io e della sua proprietà. Secondo Stirner la Rivoluzione francese ha creato un cittadino ubbidiente e bisognoso di protezione, un borghese mediocre che vive di sicurezza e di legalità ; inoltre critica il proletariato, il quale al pari della borghesia è sottomesso alla società e al lavoro. Stirner pensa un io " unico “ che superi ogni determinatezza sociale , risultato logico cui giunge astraendo dalla società borghese in cui vive l ‘ inalienabile “ io “ . E proprio per questo tale soluzione non è accolta da Marx , il quale vi vede una radicalizzazione del principio individualistico borghese . Da Marx e da Stirner prende le distanze Kierkegaard, che concepisce un uomo singolo , esistente effettivamente ed in tensione verso l ‘ universalità ; ma nell’ esistenza effettiva qualsiasi decisione pratica tradisce l ‘ universale campo delle possibilità ideali , rivelandosi ineluttabilmente fallimentare e insoddisfacente . Pertanto la libertà dell ‘ uomo risiede nell ‘ interiorità, ovvero là dove si manifesta l ‘ autentico “ enten – eller “ . “ Il mio enten – eller , scrive Kierkegaard , non caratterizza il più da vicino la scelta tra bene e male , esso caratterizza quella scelta con la quale si sceglie bene e male ovvero li si esclude “ . (cfr. appendice ) Sancito il principio di uguaglianza tra gli uomini , non è più possibile , secondo Kierkegaard , governare con mezzi mondani , ma solo il martire può farlo perché , sacrificandosi , pone una verità che sola può risolvere il problema della diseguaglianza umana . Il martire muore per la verità e il suo atto radicale apre nella storia un varco che ne interrompe il corso istituendo il sacro , legge eterna per tutti gli uomini . Al protestantesimo radicale di Kierkegaard , Lőwith fa seguire la reazione radicalmente cattolica di Donoso Cortès contro i movimenti socialisti in Francia : “ Mi guardai intorno e vidi la società civile indebolita e malata , tutti i rapporti umani intricati e confusi ; vidi i popoli eccitati dal vino dell ‘ indignazione e la libertà scomparsa dalla terra. Vidi tribuni incoronati e re spodestati . Mai si offrì uno spettacolo di così grandi trasformazioni e rivolgimenti , di tali esaltazioni ed avvilimenti. Mi sono allora posto la domanda : tutto questo disordine non proviene forse dal fatto che si sono lasciati cadere in dimenticanza i principi fondamentali della morale e dell ‘ ordine , difesi e posseduti unicamente dalla Chiesa di Cristo ? Il mio dubbio divenne certezza , quando riconobbi che al giorno d ‘ oggi soltanto più la Chiesa offre il quadro di una società ordinata, che essa soltanto nella agitazione generale costituisce l ‘ elemento moderatore , che essa soltanto è intimamente libera, che in essa unicamente il suddito ubbidisce con amore all’ autorità legittima e dal canto suo l’ autorità si dimostra piena di giustizia e di mitezza nei suoi comandi, che essa soltanto infine è la scuola onde escono i grandi cittadini, dal momento che la Chiesa possiede l’ arte della vita e l’ arte della morte , della vita che suscita i santi, e della morte che crea i martiri.[ Der Staat Gottes Introduzione.]. Donoso Cortès , un aristocratico spagnolo di grandi capacità politiche , vide nella Rivoluzione francese lo sconvolgimento dell ‘ ordine sociale , il caos in opposizione all ‘ ordinamento della creazione biblica ; diffidando della capacità governativa della classe borghese , che oscilla irresoluta tra destra e sinistra ( clasa discutidora ) , Donoso Cortès indica come via di salvezza una dittatura dall’ alto che impedisca la ribellione dal basso . Il modello al quale deve ispirarsi questa dittatura del governo è costituito dai principi fondamentali della morale e dell ‘ ordine della Chiesa cattolica . D ‘ altro canto Proudhon , che riconobbe l ‘ importanza che la Chiesa cattolica ha avuto nella storia delle nazioni moderne , progettò un nuovo ordinamento della società dal basso . Di provenienza aristocratica , lo storico Alexis de Tocqueville scrive : “ Io venni al mondo alla fine di una lunga rivoluzione , che aveva distrutto lo Stato antico e non aveva fondato nulla di durevole . Quando cominciai a vivere , l ‘ aristocrazia era già morta e la democrazia non ancora nata . Il mio istinto non mi poté quindi determinare ciecamente a scegliere l ‘ una oppure l ‘ altra…Dal momento che io stesso appartenevo all ‘ antica aristocrazia della mia patria , non la odiai o l ‘ invidiai , e neppure l ‘ amai in modo particolare , quando essa fu distrutta ; ci si stringe infatti volentieri solo a quanto è vivo . Le fui abbastanza vicino per poterla conoscere bene , e ne rimasi abbastanza distante per poterla giudicare senza passione . Non posso dire la stessa cosa della democrazia “. Lo studioso analizzò l ‘ età moderna col criterio di valutazione dell ‘ antico regime ( proprio al libro di Tocqueville “ L’ Ancien régime et la Révolution “, del 1856, si deve la fortuna del concetto storiografico di “ antico regime “ per indicare la fisionomia distinta della società prerivoluzionaria ) . La questione da lui posta riguarda il rapporto tra libertà e uguaglianza nelle democrazie moderne . Tocqueville intende per libertà la dignità dell ‘ uomo responsabile di sé , come unico contrappeso al livellamento democratico . Dalla sua analisi della democrazia europea viene fuori che “ dacché in tali società gli uomini non sono legati gli uni agli altri da classi , caste , gilde o da stirpi , essi sono tanto più portati a curarsi unicamente dei loro propri interessi […] e a restringersi in un ottuso egoismo , dove ogni virtù pubblica viene soffocata . Il dispotismo , anziché combattere questa tendenza , la rende piuttosto irresistibile ; esso toglie infatti ai cittadini ogni aspirazione comune , ogni rapporto reciproco , ogni necessità di consigliarsi in comune . Essi erano già propensi ad isolarsi : il dispotismo li riduce alla solitudine e li chiude nelle mura della vita privata . “ (L’ Ancien régime …) Una democrazia perde ogni valore quando rende soltanto uguali senza produrre libertà , l‘uomo borghese al prezzo della libertà si compra una vita mediocre , un benessere medio ma sicuro . Sorel è dell ‘ opinione che la democrazia borghese manchi della virilità e delle virtù guerriere che avevano distinto le democrazie cittadine dell ‘ antichità. Disprezzando i cinici successi della borghesia capitalista , Sorel fonda le sue speranze nella classe proletaria , serbatoio di istinti sani e di forza creativa , dotata principalmente di virtù guerriere . Nella “ Réfléxions sur la violence “ egli esprime la convinzione che solo una grande guerra può evitare il fatale appiattimento della società borghese , portando al potere una classe di uomini dominatori . Tale posizione ha evidentemente una analogia col pensiero di Nietzsche , per il quale “ le stesse nuove condizioni , per cui di regola… l ‘ uomo andrà facendosi mediocre , cioè un animale del gregge, utile , lavoratore […] abile , soprattutto in sommo grado appropriate per dare origine all ‘ uomo d ‘ eccezione dalle qualità più pericolose ed attraenti […]. Il processo verso la democrazia dell ‘ Europa è al tempo stesso un ‘ involontaria organizzazione per educare dei tiranni.” II. Il problema del lavoro. WALTER SILANO Lavoro e cultura nel XIX secolo hanno costituito la sostanza della società borghese. Il lavoro è diventato la forma di esistenza del “salariato” e il “possesso” della cultura il privilegio dell’intellettuale. Tanto la netta separazione di lavoro e cultura in due estremi che si condizionano a vicenda (l’aspirazione dei lavoratori fu di appropriarsi i privilegi della cultura borghese, mentre gli intellettuali non poterono fare a meno di considerasi dei “lavoratori” spirituali”, per non lasciar apparire come un’ingiustizia il loro privilegio), quanto il loro livellamento sul piano di una cultura popolare media testimoniano il fatto che il lavoro nella sua attuale situazione non educa l’uomo in quanto tale. Il lavoro si è acquistato con grande lentezza la sua validità sociale. Secondo l’originaria concezione cristiana il lavoro non è in sé un’attività meritoria, ma rappresenta la conseguenza e la punizione del peccato. Soltanto nel protestantesimo venne alla luce quella valutazione cristiana del lavoro mondano, classicamente rappresentata da B. Franklin. Tale mondanizzazione ha fatto trionfare la valutazione borghese del lavoro come attività che riempie di senso la vita umana, e tale valutazione è da allora dominante. L’uomo borghese non solo deve lavorare, ma vuole lavorare, il lavoro non rappresenta per lui solo un comportamento ascetico che tiene lontano dai vizi dell’ozio e della dissolutezza, ma diventa la fonte di ogni virtù e gioia. Questo sdoppiamento del significato del lavoro, ripercorribile anche sul piano della storia del significato della parola, non ne esaurisce tutta l’essenza. Il lavoro appartiene piuttosto semplicemente all’essere dell’uomo, in quanto significa in genere ‘essere attivo nel mondo’. In questo significato pieno ed originario il lavoro è stato inteso per l’ultima volta da Hegel. Per lui è il modo fondamentale con cui l’uomo produce la sua vita, dando inoltre una forma al mondo. C. Rössler e A. Ruge: il lavoro come appropriazione del mondo e come liberazione dell’uomo. Il Rössler , ricollegandosi a Hegel, concepisce il lavoro come un processo di appropriazione. Egli distingue una duplice specie di appropriazione. La prima trasforma immediatamente per sé la natura, è limitata a ogni singolo essere vivente, senza risultare comunicabile. L’uomo ha in comune con l’animale questa prima specie di appropriazione. La seconda è mediata, poiché viene realizzata attraverso strumenti meccanici e non. Questi sono scambiabili e comunicabili, e trasformano la natura in un mondo oggettivo appartenente all’uomo. Ciò che Rössler chiama “lavoro” è proprio la produzione di questi strumenti. Il lavoro quindi disciplina l’istinto naturale, superandolo e oltrepassando tutti i bisogni individuali. Il soddisfacimento del lavoro non consiste in un godimento separato da esso, quindi nella soddisfazione dei bisogni individuali, ma nella realizzazione della stessa forza appropriativa. Soltanto nel cristianesimo si ha il dispiegamento storico del lavoro, in quanto forza appropriativa spirituale e etica; tutte le religioni precristiane hanno conosciuto il lavoro solo come mezzo subordinato ad altri scopi e non già come fine a se stesso. Tuttavia solo il protestantesimo ha liberato il lavoro considerandolo come un momento etico e pieno di dignità nel complesso della vita umana. Il risultato del lavoro libero e comune è costituito dai “valori generali d’uso”. La società civile fonda, attraverso il lavoro, anche un’appropriazione delle personalità, cioè determina ciascuno, per quanto non nella sua totalità, a diventare un collaboratore per i fini comuni della produzione sociale, e cioè a diventare un lavoratore. Da ciò Rössler si attendeva, nonostante la sua polemica contro il socialismo, una generale libertà e cultura fondate sul lavoro di tutti. Il Ruge, nella sua trattazione della storia della filosofia, ha considerato il lavoro come il risultato della storia dello Spirito. Per lui Platone, Aristotele ed Hegel hanno compiuto le più grandi rivoluzioni, ma per timore delle conseguenze pratiche della loro liberazione dello Spirito hanno apposto un argine alla dialettica progressiva del pensiero con le loro caste sociali, con i loro guardiani dello stato e con le loro classi. La storia effettiva dello Spirito e di tale liberazione , però, ha spezzato questi limiti ed ha fatto del lavoro un principio universale. Il lavoro si unifica alla cultura , perché secondo Ruge è per su stessa natura formativo. “ Noi sappiamo ora che nessun lavoro disonora , che esso soltanto fa progredire e libera l’umanità ; Hegel stesso ha … mostrato come lo schiavo possa dominare il suo stesso padrone con il lavoro. Per nobilitare ogni lavoro è soltanto necessario sviluppare i concetti, e scorgere cosa sia e cosa produca il lavoro. Esso rinnova ogni giorno l’umanità” (citato da Löwith, pag. 406). Ruge inoltre, spiega la storia della filosofia dal punto di vista del lavoro divenuto universale, ed in questa ottica vede il punto più alto da questa raggiunta nella “politeia” aristotelica. La repubblica degli U.S.A. rappresenta, per lui, l’ultima incarnazione di questa idea di una polis, in cui ogni cittadino è autonomo e attivo in quanto lavoratore. Però questo carattere creativo del lavoro fu colto solo limitatamente da Hegel, e non fu visto affatto da Aristotele. “Sebbene Aristotele scorga la necessità del lavoro per lo Stato, egli ne disconosce il carattere creativo e la nobiltà che plasma e libera il mondo. Ignora che il lavoro supera e foggia il mondo esterno e quello umano, e che esso non fa ciò come semplice vita, ma spirito pensante, determinando un’autoliberazione. Il lavoratore non è un animale ma un uomo pensante. Il concetto di attività volgare non inerisce più al lavoro , non appena lo si colga e lo si comprenda soltanto come attività che penetra ogni cosa creativamente. Attraverso il lavoro degli artigiani e degli artisti lo spirito giunge se stesso nella sua alterità , e attraverso alla scienza esso giunge a sé nel suo proprio elemento. Aristotele invece elimina le due cose dallo stato : il lavoro della società civile sta al di sotto e il lavoro della filosofia sta al di sopra dello Stato, mentre in realtà il primo costituisce il cuore e il secondo il cervello dello Stato stesso”( citato da Löwith pagg. 406 – 407). Per Ruge il lavoro , in quanto attività che libera l’uomo pensante , è la più sostanziale conferma della natura particolare dell’uomo, è l’unica attività che redime e rende felici: “Soltanto il lavoratore fa della società civile una società umana; ogni formazione della natura e dello spirito è opera sua ; egli è il padre dell’uomo”. Ruge sviluppa il suo concetto di lavoro in antitesi alla ristrettezza di quello economico. Infatti per lui il principio dell’economia è soltanto il valore, astrattamente rappresentato dal denaro ; mentre il principio della sua società del lavoro non consiste semplicemente nella produzione del valore, ma attraverso questo nella produzione dell’uomo e della società stessa nel mondo naturale. La giustificazione del socialismo di fronte all’economia politica sta nel fatto che questo media gli interessi particolari con quelli universali e si propone come fine lo spirito comune, mentre l’economia politica si limita al sistema dei bisogni egoistici , trascurando il lato umano e spirituale della società civile. Ruge è critico, infine, anche nei confronti di Hegel, che a suo parere non coglie lo spirito della società civile, trascurando nella sua dottrina delle tre classi quella che è la vera classe universale ossia la classe dei lavoratori. Nietzsche : il lavoro come dispersione del raccoglimento e della contemplazione. Nietzsche solo occasionalmente affronta il problema del lavoro nella vita dell’uomo. In queste occasioni, comunque, il lavoro per lui non costituisce più una forza plasmatrice del mondo ed educatrice dell’uomo, ma è sentito solo come affanno e come peso. Essendo la pesantezza il carattere essenziale del lavoro, l’uomo è spinto ad alleggerirsi da questo peso gettandosi in facili piaceri ed esaurendosi nello svago , appena non abbia più da lavorare. L’affannarsi del lavoro e la ricerca di godimento sfrenato sono due aspetti di una medesima realtà : una società frenetica che non ha più spazio per la contemplazione e per l’ozio. “ Ci si vergogna ormai del riposo; il riflettere a lungo su qualcosa suscita quasi dei rimorsi di coscienza . Si pensa con l’orologio alla mano, e a mezzogiono si mangia con l’occhio rivolto al listino di borsa: si vive come temendo continuamente di poter tralasciare qualcosa. Meglio fare qualsiasi cosa che nulla : questo principio è adattissimo a dare il colpo di grazia ad ogni cultura e a ogni gusto raffinato….” (citato da Löwith, pag. 428) Eppure la tendenza alla contemplazione ha le sue radici tanto nell’ethos antico che in quello cristiano. Soltanto l’affannosa laboriosità del mondo moderno è riuscita a dissolvere la gerarchia tra otium e labor, e tra raccoglimento cristiano e attività terrena; essa inoltre ha contribuito più di ogni altra cosa all’incredulità e al dissolvimento della vita religiosa. “Tra coloro che per esempio ora in Germania vivono staccati dalla religione , trovo uomini di vario genere …, anzitutto però in maggioranza individui la cui laboriosità ha spento di generazione in generazione gli istinti religiosi : costoro non sanno più a cosa servono le religioni, e registrano soltanto con una specie di ottuso stupore la loro presenza nel mondo….” (citato da Löwith, pag. 429) Anche la vita degli studiosi è stata stravolta da quando anche la ricerca scientifica è diventata un anello nella catena del lavoro senza riposo. Tutto ciò ha gettato l’uomo del mondo borghese nell’ansia e nella disperazione. L’apparente modo di risollevarsi è lavorare, rinunciare alla propria individualità per sentirsi parte di un grande meccanismo: la “maledizione del lavoro” è diventata la “benedizione del lavoro”. “Nella glorificazione del lavoro, nell’instancabile discorrere che si fa della “benedizione del lavoro”, io vedo lo stesso pensiero nascosto che nella lode degli atti altruistici di utilità comune. Tale pensiero è il timore di ogni realtà individuale. In fondo si sente ora … che un tale lavoro rappresenta la miglior polizia,che esso tiene tutti soggiogati ed è in grado di impedire poderosamente lo sviluppo della ragione, del desiderio violento, del gusto dell’indipendenza” (citato da Löwith, pag. 430). Per Lowith soltanto spiriti rari come Nietzsche e Tolstoj hanno riconosciuto il falso pathos e l’implicito nichilismo che caratterizza la concezione del lavoro nel mondo borghese – cristiano, una valutazione di cui un classico apologeta fu Emile Zola. Lowith alla fine del discorso precisa che la considerazione del lavoro come fine a se stesso non è solo una caratteristica della società industriale dell’epoca borghese, ma si applica per la prima volta nel suo pieno significato al popolo dello stato totalitario, il quale attribuiva al lavoro uno scopo apparente , che in realtà non poteva che essere la guerra, e conclude dicendo : “Anche questo sviluppo è stato visto anticipatamente dall’autore della Volontà di potenza : “Sull’avvenire del lavoratore: i lavoratori dovrebbere imparare a sentire come soldati. Ad essi spetta un emolumento, un soldo, non già una retribuzione”. Dal memento per altro che Nietzsche concepiva l’ “addestramento” delle masse solo come mezzo per scopi superiori , egli potè anche domandarsi nei riguardi della “schiavitù del presente”: “ Dove sono coloro, per cui essi lavorano?”.” (pag. 431 ) IV. Il problema dell’umanità FABRIZIO CARLINO Hegel. L’essenza vera e universale dell’uomo è lo Spirito. Per il cristiano l’uomo è, nell’ottica hegeliana, universale, infinito e incondizionato. Ma se l’uomo in questo senso teologico è spirito, l’uomo nel suo senso “antropologico”, che gli verrà dato da Feuerbach in poi, è solo il bourgeois, il soggetto dei bisogni. L’umanità non è ancora un problema in quanto è intimamente connessa al cristianesimo. Feuerbach. L’essenza dell’uomo è l’uomo corporeo. C’è una prima frattura, dovuta alla separazione tra cristianesimo e umanità, al passaggio dalla teologia filosofica di Hegel all’antropologia, dalla filosofia dell’infinito a quella della finitezza. Il soggetto di ogni possibile predicato è l’uomo in carne ed ossa. Resta nell’ambito del protestantesimo perché umanizza Dio, sostituisce il cristianesimo con l’umanità, ottenendo una concretezza formale e un’astrattezza dei contenuti. Marx. L’essenza universale del vero uomo della società comunista consiste nell’essere un soggetto di bisogni. Si deve distinguere l’attuale uomo alienato dall’uomo onnilaterale comunista. Il primo è scisso tra pubblico e privato, tra valore e forma naturale, tra materia e spirito. Solo il proletariato, che vive il massimo di alienazione, può portare a compimento l’emancipazione umana e quindi a superare l’attuale scissione dell’uomo. Stirner. L’uomo di Feuerbach, Bauer e Marx viene radicalmente criticato come ultimo travestimento della fede cristiana. Stirner intende l’uomo come reale, singolo, in carne ed ossa, l’io che dice io, che basta a se stesso e si fonda sul nulla. Questo io è per Stirner la fine nichilistica dell’umanità cristiana ed è in realtà una ulteriore frattura, più profonda delle precedenti, nel concetto di umanità del mondo borghese-cristiano. Kierkegaard. Si oppone sia all’umanità elevata a principio da Ruge, Feuerbach, Marx, sia all’io nudo di Stirner, proponendo un ritorno al cristianesimo delle origini. Criticando radicalmente l’uomo cristiano-borghese del suo tempo, concepisce l’uomo come singolo di fronte a Dio, un singolo nel quale però - a differenza di Stirner- emerga ciò che è universalmente umano. Si conserva quindi, anche se nell’ eccezione del singolo, il concetto di universalità dell’uomo. “Vi sono così tre eccezioni che contraddistinguono ancora l’essenza universale dell’uomo, nella dissoluzione della realtà sussistente: la massa del proletariato che si contrappone alla società borghese (Marx), l’io che si allontana da ogni comunità (Stirner) e la personalità che si stacca dal cristianesimo positivo. Queste tre eccezioni costituiscono ancora, nel dissolversi dell’umanità borghese-cristiana, l’essenza universale dell’uomo.” (pag. 474) Nietzsche. Rappresenta, insieme a Stirner, la frattura più profonda nel concetto di umanità borghese-cristiana. C’è anche in Nietzsche un’intima connessione tra umanità e cristianesimo: il superuomo compare con la morte di Dio. Alla liberazione da Dio corrisponde un superamento dell’uomo, dell’ultimo uomo, umanitario e spregevole. Il mestiere dell’uomo senza Dio, che non ha più bisogno di felicità, ragione, virtù, giustizia, cultura, pietà, sarà il pericolo, la sua unica missione; un uomo che si appoggia sul nulla, sospeso nel vuoto. Contro l’umanità cristiana e l’idea dell’uguaglianza degli uomini si rifà all’antichità. Oggi, con la dissoluzione dell’umanità cristiana che aveva distrutto l’armonia greca, ci troviamo di fronte alla difficoltà di pensare l’umanità, se non come ‘uomo senza qualità. Ma l’umanità non è un pregiudizio, fa parte della natura dell’uomo e va quindi rifondata.