CORSO 2001-2002
Tema:
Il significato del Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich
Engels (1847-8) attraverso alcune trappe di riflessione significative del
secolo XX
Testi:
K.Marx – F.Engels, Manifesto del Partito comunista, a cura di
E.Cantimori Mezzomonti, Laterza, Bari, 1995;
M.Weber, Il socialismo, in Scritti politici, tr. it. A.Cariolato e E.Fongaro,
Donzelli, Roma, 1998 (testo del 1918: significativo per la fine della prima
guerra mondiale, la Rivoluzione russa e per analisi di lungo periodo);
C.Schmitt, Donoso Cortés interpretato in una prospettiva paneuropea, a
cura di P. Del Santo, Milano, 1966, pp. 11-43 e 83-115 (testi del 1922 e
del 1944-49, ripubblicati nel 1950: significativi soprattutto per gli inizi
della guerra fredda e per un discorso generale su politica e filosofia della
storia);
AA.VV., Il Manifesto del Partito comunista 150 anni dopo, a cura di
R.Rossanda, manifestolibri, Roma 2000 (2000: significativo per il crollo
del socialismo e per la globalizzazione);
[su questi testi sono state tenute le lezioni da parte del docente]
K.Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero
del secolo XIX, tr. it. G.Colli, Einaudi, Torino, 1979
[su questo testo sono state tenute esercitazioni e seminari da parte degli
studenti]
Sussidi relativi alle lezioni [Marx-Engels, Weber, Schmitt e Rossanda ( a cura di)]
Prima di passare all’analisi dei testi previsti di Marx-Engels, Weber, Schmitt e
Rossanda (a cura di), ho illustrato il Discorso sulla questione del libero scambio,
tenuto da Marx il 9 gennaio 1848 all’Associazione democratica di Bruxelles, testo,
dunque, contemporaneo al Manifesto del partito comunista.
A conclusione del Discorso Marx dice: “Ma in generale ai nostri giorni il sistema
protezionistico è conservatore, mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Esso
dissolve le antiche nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo tra borghesia e
proletariato. In una parola, il sistema della libertà di commercio affretta la rivoluzione
sociale. E’ solamente in questo senso rivoluzionario, signori, che io voto in favore del
libero scambio” (tr. it. di F.Codino e A. Scarponi ). Ovviamente, Marx contestava
radicalmente la concezione secondo cui gli effetti del libero commercio sarebbero
virtuosi: al contrario, essi peggiorano la situazione degli operai; solo che la
soppressione della rendita fondiaria e il compiuto passaggio al libero scambio
capitalistico semplifica lo scontro riducendolo alle due classi sociali fondamentali
della società moderna, borghesia e proletariato, e quindi crea le condizioni per la
soppressione del capitalismo.
Questa osservazione contenuta nel Discorso ha fornito l’aggancio per illustrare la
seguente affermazione del Manifesto, ritenuta, nell’economia del corso, gravida di
implicazioni nelle letture del secolo XX, oltre che per una problematica generale di
filosofia della storia: “La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue […] dalle
altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo
sempre più in due campi nemici, in due grandi classi contrapposte l’una all’altra:
borghesia e proletariato” (tr.it. di E.Cantimori Mezzomonti). Per vie diverse, da
Weber a Schmitt a Heidegger è ritornata la riflessione sulle implicazioni di questa
analisi.
Inoltre, in riferimento alla parte del corso dedicata a Il Manifesto del Partito
comunista 150 anni dopo, ossia alla discussione su Marx nell’epoca della
globalizzazione, è tornata utile una discussione, sviluppatasi sul quotidiano italiano
“Il manifesto” nell’estate del 2001, nell’arco di tempo compreso tra i fatti di Genova
e l’11 settembre, e suscitata da un intervento di Luigi Cavallaro, il quale, discutendo
con il cosiddetto “popolo di Seattle”, poneva alcune domande che partivano proprio
dal Discorso sulla questione del libero scambio.
Perciò all’illustrazione del contenuto del Discorso ho fatto precedere anche la lettura
dell’intervento di Cavallaro.
Qui di seguito riporto questo intervento e lo schema del Discorso come sussidio
didattico. Il resto della discussione sviluppatasi su “Il manifesto” è molto
interessante, ma non è di stretta attinenza all’itinerario seguito durante il corso.
Tuttavia, dato l’indiretto interesse ai temi più generali da me affrontati, rimando alla
sezione MATERIALI BIBLIOGRAFICI di questa pagina dove quasi tutti gli
interventi, tratti dalla rete, sono riportati.
LUIGI
CAVALLARO,
PROVOCAZIONE
AL
POPOLO
DI
SEATTLE
Ma Carlo Marx non sarebbe d'accordo con voi
“Il Manifesto” 04 Agosto 2001
"Chiunque pensi che la risposta la risposta alla povertà del mondo sta nell'invettiva contro il
commercio globale è privo di cervello o sceglie di non usarlo", ha scritto Paul Krugman sul New
York Times del 22 aprile scorso per manifestare il suo dissenso nei confronti del "popolo di Seattle".
L'affermazione lascia a prima vista perplessi. Krugman, pur essendo in odore di Nobel, non può
certo definirsi un economista "organico" all'establishment, verso il quale non perde occasione per
lanciare strali polemici irridenti quanto teoricamente fondati. Come mai, allora, una presa di
posizione così dura, fino a dire che gli unici in grado di fare qualcosa per migliorare le condizioni
del pianeta sono proprio i policy makers assediati, mentre i dimostranti, sarebbero "gente senza
cervello
innamorata
del
proprio
idealismo"?
Non credo che Krugman apprezzerebbe il paragone, ma la sua presa di posizione ha un precedente
illustre in Karl Marx. Nel Discorso sul libero scambio pronunciato il 9 gennaio 1848 a Bruxelles,
intervenendo nella polemica sull'abolizione delle tariffe doganali sui cereali d'importazione rivendicata dagli industriali ed esportatori di Manchester come misura in grado di determinare la
riduzione del prezzo del pane (cioè dei salari), e proprio perciò fieramente contrastata dai socialisti
di allora - Marx prende inaspettatamente posizione a favore dei liberoscambisti. Nel farlo, non
nasconde che la "libertà" per la quale essi si battono è "la libertà del capitale", che implica
l'oppressione e la schiavitù dei salariati, né ignora che il vero scopo degli industriali è quello di
liberarsi dal peso della rendita fondiaria; tanto meno gli sfugge che, da una simile rivendicazione,
nessun beneficio immediato può venire al proletariato industriale. Nondimeno, è convinto che la
conservazione di una misura protezionistica come il dazio all'importazione sia di per sé una
sconfitta, perché - e qui si anticipa una delle tesi chiave del Manifesto del partito comunista, che
vedrà la luce poche settimane dopo - lo sviluppo capitalistico porta con sé la distruzione degli
"ultimi residui del feudalesimo" e permette il disvelarsi, proprio in ragione della sua distruttività,
dell'antagonismo irriducibile tra il capitale e il lavoro. "In generale - conclude Marx - il sistema
protezionista è conservatore mentre il sistema del libero scambio agisce come fattore di distruzione
e spinge al culmine l'antagonismo tra proletariato e borghesia. In una parola, il sistema della libertà
di
commercio
accelera
la
rivoluzione
sociale".
E' possibile che in queste parole oggi si veda un che di cinico, quasi che Marx immaginasse la
rivoluzione come uno Juggernaut sotto le cui ruote gettare l'esistenza concreta di milioni di donne e
uomini. La cosa, però, non è così semplice. Dietro la difesa marxiana del libero scambio c'è, da un
lato, la consapevolezza che molto tempo deve ancora trascorrere prima che gli individui imparino a
scambiare i loro lavori in modo diverso dallo scambio delle merci che di quei lavori sono il
prodotto; dall'altro, la convinzione che la genesi di questa nuova forma delle relazioni sociali
presuppone comunque l'appropriazione del patrimonio di conoscenze che già ora è disponibile. In
un mondo in cui il prodotto del lavoro umano assume forma di merce, il commercio internazionale
rappresenta, infatti, l'unico fattore capace di favorire la mobilità internazionale del "sapere sociale
generale" che nelle merci è, appunto, oggettivato. E l'acquisizione di questo sapere sociale generale,
in quanto principale forza produttiva, rappresenta il presupposto decisivo perché i paesi più poveri
possano ridurre lo squilibrio nell'appropriazione delle risorse a fini produttivi e di consumo che
connota
la
loro
posizione
rispetto
al
club
dei
ricchi.
Naturalmente, questo sviluppo procede sempre "dal lato cattivo", cioè in modo antagonistico: i
lavoratori di taluni paesi sono costretti, per poter avere di che vivere, a lavorare più di quanto
sarebbe necessario se si avvalessero delle conoscenze tecniche disponibili, e questo pluslavoro crea
la possibilità di un "non lavoro" e di una ricchezza eccedente per altri paesi. Ma questo sviluppo
antagonistico non è se non la conseguenza di un sistema economico - quello capitalistico - in cui le
decisioni concernenti cosa, come e per chi produrre sono assunte su base individuale. L'altra faccia
del commercio è infatti la divisione del lavoro: e se è vero che lo scambio mediato dal denaro
presuppone "l'universale dipendenza reciproca dei produttori", è anche vero che questa dipendenza
si manifesta come loro "mutua e generale indifferenza" (ancora parole di Marx). La società esiste
come "fatto estraneo" agli individui, l'interesse generale come "generalità degli interessi egoistici".
Ciò implica che in quello che von Hayek definisce il "cosmos" del mercato, i problemi economici
che investono la totalità della riproduzione sociale non sono risolti da alcuna decisione
"consapevole". Anzi, i produttori immediati non sono nemmeno consapevoli, se non confusamente,
dell'esistenza di problemi del genere: ciascuno decide il proprio comportamento in vista del
conseguimento dei propri obiettivi, basandosi sulle informazioni provenienti dal sistema dei prezzi;
il funzionamento del sistema determina poi l'impersonale risposta ai problemi di ordine più
generale.
Queste considerazioni permettono, a mio avviso, di cogliere una patente contraddizione nelle
rivendicazioni del popolo di Seattle. Nelle rappresentazioni che esso dà di se stesso (illuminanti, in
questo senso, tre recenti articoli di Giuseppina Ciuffreda), la conformazione "reticolare" non è
assunta come limite connesso al basso grado di sviluppo del movimento, ma come un progresso
rispetto alle tradizionali forme dell'agire politico. E' esclusa in radice, quindi, l'evoluzione del
"movimento di movimenti" verso forme strutturate come quelle dei partiti novecenteschi: e ciò, a
ben vedere, non è che una conseguenza del modello relazionale generale di cui il movimento stesso
è portatore, anch'esso reticolare e privo di nessi organizzativi che non siano di tipo orizzontale (non
è un caso che molti degli appartenenti al movimento condividano un'eguale avversione per i due
moloch che hanno segnato la storia del secolo breve: il capitalismo e lo Stato).
Dove sta, allora, la contraddizione? Si può rinvenirla in ciò, che le forze morali che il popolo di
Seattle ritiene artefici dell'ineguaglianza e della devastazione ambientale che si associano alla
globalizzazione (e cioè l'egoismo, la motivazione al profitto, ecc.) sono al contempo quelle che
permettono attualmente agli individui di cooperare senza che debbano per forza "conoscersi o
amarsi" e possono essere rimosse dal loro ruolo di vettori della cooperazione solo istituendo
un'autorità centrale che stabilisca, attraverso un piano mondiale, cosa, come e per chi produrre. Il
motivo, in fondo è semplice: il mercato è, per definizione, il luogo "orizzontale" in cui s'incontrano
decisioni di produrre, di scambiare e di consumare prese da individui che agiscono l'uno all'insaputa
dell'altro, ciascuno preoccupato di perseguire il proprio utile. Se dunque dobbiamo evitare che la
motivazione al profitto determini che cosa e in che quantità dovranno produrre gli imprenditori,
dovremo istituire un'autorità unica che dia loro ordini ben precisi, relativi sia alle quantità da
produrre che ai loro destinatari. E che, ovviamente, ordini a questi ultimi di consumare quei beni e
in quella specifica quantità, e imponga ai lavoratori di lavorare alle dipendenze degli imprenditori
proprio quel tempo che serve alla produzione di quei beni, e così via.
Non vale obiettare che non s'intende sopprimere il mercato, ma fissare prezzi "equi", profitti
"giusti" e così via. Sul mercato, il prezzo "equo" è quello che risulta dal gioco concorrenziale; se
ricerchiamo una "giustizia" o un'"equità" diversa da quella che si afferma sul mercato, dobbiamo
anche specificare cosa è giusto e cosa è ingiusto in ogni singolo caso. Correlativamente, dovremo
anche istituire uffici preposti a giudicare i casi dubbi e prevedere un aggiornamento sistematico
della casistica; e tutti, ovviamente, dovranno dipendere dall'autorità centrale, alla quale in ultima
analisi sarà demandata l'allocazione delle risorse mondiali. La conclusione è volutamente
paradossale, ma il problema è reale e non vi si sfugge esibendo le forme concrete di "commercio
equo e solidale" o di "banca etica": la comunanza d'intenti che simili esperienze presuppongono è
sufficiente a dar conto della loro inevitabile "particolarità". Cosa vuole, allora, il popolo di Seattle?
Schema del Discorso sulla questione del libero scambio, tenuto da Marx
il 9 gennaio 1848 all’Associazione democratica di Bruxelles
segnalo l’edizione italiana: K. Marx, Libero scambio e economia nazionale, tr.it. di F.
Codino e A. Scarponi, Roma, 1972, pp. 17-25
Abolizione delle leggi sul grano in Inghilterra come trionfo per i liberoscambisti, che ne vedono un
progresso umanitario: alleviare la condizione della classe lavoratrice con pane a buon mercato
Ingratitudine del popolo: non ne vuol sapere del pane a buon mercato in Inghilterra come del
governo a buon mercato in Francia
Argomenti dei liberoscambisti: la tassa protezionistica sul grano è un’imposta sul salario, dato il
caro prezzo dei viveri di prima necessità
risposta degli operai: nonostante il potente sviluppo dell’industria in Inghilterra, il salario è
diminuito in proporzione maggiore di quanto sia aumentato il prezzo del grano, e gli industriali
danno la colpa al fatto che gli operai fanno troppi figli
risposta degli industriali: giusto, perché è la concorrenza tra l’offerta di braccia che determina il
salario
ma data la scarsa fertilità del suolo in Inghilterra, l’unica via è di trasformarla in una grande città
manifatturiera e vincere la concorrenza con l’Europa che così abbandonerebbe le manifatture
diventando una grande campagna
piccolo commerciante: poiché non è detto che gli altri paesi si riforniscano nelle fabbriche inglesi
una volta abolita la tassa sul grano, il piccolo commercio perde gli affari con la campagna e il
commercio interno va in crisi in generale
risposta degli industriali: grano più a buon mercato e abbassamento dei salari, che invece
rimangono alti sul continente che si può a quel punto rifornire di grano anche dall’Inghilterra
imprenditore agricolo e bracciante: la fine dell’agricoltura significa la loro scomparsa
risposta degli industriali: tre premiati
Hope: ci perde solo il proprietario terriero perché l’agricoltore inglese produce grano di così buone
qualità da reggere la concorrenza straniera, per cui profitto del capitale e salario restano invariati
Morse: il prezzo del grano aumenterà in seguito all’abolizione della legge sui cereali, perché mai
dazi protettivi hanno assicurato prezzi così remunerativi. Ma, dice Marx, l’importazione non è la
causa del prezzo elevato bensì, viceversa, il prezzo elevato è la causa dell’importazione.
inoltre secondo Morse l’aumento del prezzo dei cereali andrebbe a profitto dell’imprenditore
agricolo e del bracciante e non del proprietario terriero
Greg, industriale, linguaggio più scientifico: in presenza delle leggi sul grano aumenta la rendita
nella misura in cui aumenta il prezzo del grano e aumenta il prezzo del grano nella misura in cui il
capitale è costretto ad applicarsi su terreni di qualità inferiore
infatti se la popolazione aumenta e quindi aumenta la richiesta di pane, se non entra nel paese grano
straniero, si è costretti a utilizzare terreno di qualità inferiore
essendo il prezzo del grano forzoso, ecco che si stabilirà sul terreno più fertile; la differenza tra le
spese di produzione dei due terreni costituisce la rendita fondiaria
se invece si abolisce la legge sul grano i terreni meno fertili finiscono di essere coltivati: precipita la
rendita e però anche parte degli imprenditori agricoli
i piccoli imprenditori agricoli passano all’industria
i grandi imprenditori o acquistano dai proprietari, andati così in rovina, terreni a buon mercato,
oppure stipulano contratti di affitto a lungo termine nel corso del quale possono con le macchine
risparmiare lavoro, quindi diminuiscono i salari
gli operai non prestano ascolto all’ipocrisia degli argomenti filantropici degli industriali che si sono
opposti alla legge delle dieci ore, hanno una legislazione privata fatta apposta per generare
contravvenzioni
gli operai comprendono allora che dietro gli argomenti filantropici con cui si copre la lotta tra
proprietari fondiari e capitalisti si vuole abbassare il prezzo del pane per diminuire il salario e
abolire la rendita per aumentare i profitti
accordo di Ricardo con gli operai
infatti anche se il prezzo del pane è diminuito, il salario è diminuito rispetto al profitto e dunque la
posizione sociale dell’operaio nei confronti del capitalismo è peggiorata
ma anche di fatto se prima era possibile un piccolo risparmio sul pane per procurarsi altri oggetti,
adesso questa economizzazione non è più possibile
l’alleanza degli operai e degli industriali contro i proprietari fondiari è solo per distruggere gli
ultimi avanzi di feudalesimo e avere di fronte un solo nemico; lo hanno capito i proprietari fondiari
che hanno appoggiato gli operai a proposito della legge delle dieci ore per vendicarsi degli
industriali
questa legge è passata dopo trent’anni di vani tentativi solo dopo l’abolizione della legge sui cereali
infatti: all’aumento di importazioni per il consumo si connette la crisi che butta sul lastrico gli
operai delle città industriali
in economia politica non bisogna calcolare un solo anno ma l’intero ciclo prosperità –
sovrapproduzione – ristagno – crisi (sei-sette anni)
sicuramente se il prezzo delle merci diminuisce, con un franco ci si può procurare più cose – e
questo vale per l’operaio come per qualsiasi altro -, però l’operaio, prima di scambiare il franco con
le altre merci, ha scambiato il suo lavoro con il capitale
ora, se l’operaio ricevesse sempre lo stesso franco per lo stesso lavoro e il prezzo delle merci
scendesse, non vi sarebbe difficoltà a mostrare che con i bassi prezzi delle merci si ottengono più
merci con il medesimo denaro
ma il punto non è lo scambio del prezzo del lavoro, del salario con altre merci bensì lo scambio del
lavoro con il capitale; questo punto non è considerato dall’economia politica che parte dal fatto
della proprietà privata ma non lo spiega
il lavoro è esso stesso una merce e quindi subisce le stesse diminuzioni di prezzo delle altre merci;
se il prezzo delle merci è dato dal costo di produzione e abbassandosi il prezzo delle merci si sono
abbassati i costi di produzione, anche la macchina-lavoratore dovrà costare meno cara
risposta dell’economista: ammesso che l’aumento della concorrenza tra gli operai in regime di
libero scambio abbassa i salari adeguandoli all’alto prezzo delle merci:
questo basso prezzo delle merci farà aumentare il consumo
l’aumento del consumo provoca un aumento della produzione
l’aumento della produzione provoca richiesta di lavoro, quindi attiva la domanda
di conseguenza i salari aumentano
ma questo ragionamento significa soltanto che il libero scambio aumenta le forze produttive: in
effetti, è giusto il ragionamento per cui l’accrescimento del capitale significa migliore condizione
per l’operaio
infatti il capitale non può restare stazionario altrimenti l’industria declina e la prima vittima di
questo declino è proprio l’operaio
ma anche se il capitale si accresce, l’operaio è destinato a subire la stessa sorte, in quanto
l’accrescimento del capitale produttivo porta all’accumulazione dei capitali
l’accumulazione dei capitali porta a una maggiore divisione del lavoro e a un maggior impiego di
macchine
questo distrugge la specializzazione, l’abilità del lavoro e aumenta la concorrenza tra gli operai
inoltre l’accrescimento del capitale produttivo precipita i piccoli industriali nel proletariato
e siccome il tasso d’interesse del denaro diminuisce con l’accumulazione dei capitali, i piccoli
rentiers precipitano parimenti nel proletariato
con l’aumento del capitale produttivo aumentano i bisogni indotti, perché si allarga mercato di cui
non si conoscono i bisogni, il che significa crisi di sovrapproduzione
aumento del capitale produttivo  aumento della concorrenza tra gli operai  diminuzione del
salario e aumento del carico di lavoro
risposta degli economisti: gli operai privati del lavoro troveranno un altro impiego
Bowring, come esempio di smentita dei liberoscambisti da se stessi: 50.000 tessitori di Londra che
disoccupati non trovano altro impiego e muoiono di inedia
Interesse del discorso di Bowring:
esattezza dei dati
ipocrisia dei sermoni liberoscambisti con cui cerca di attenuarli
gli operai sono presentati come mezzi di produzione che è necessario sostituire con mezzi di
produzione meno costosi
però vede nel lavoro dei tessitori un lavoro del tutto eccezionale e non vede che questo è il destino
di qualsiasi lavoro manuale sostituito dalle macchine come mostra Ure (19)
Bowring parla di mali individuali che però mandano in rovina intere classi, parla di sofferenze
passeggere che però significano la morte per fame per alcuni e il passaggio a una condizione
peggiore per altri
La connessione tra sventure passeggere degli operai e sviluppo dell’industria significa
semplicemente che il benessere della classe borghese ha per condizione la miseria della classe
lavoratrice
Il senso, dunque, del sermone liberoscambista che vede nella condizione dei lavoratori una
condizione passeggera per il progresso nazionale è che la decimazione di migliaia di operai non
significa la rovina della classe operaia intera perché è riserva, materia da sfruttare
Il problema dell’influenza del libero scambio sulla condizione della classe operaia è stato risolto:
tutti gli economisti, da Ricardo a Quesnay, partono dal presupposto che non esistono più gli
ostacoli che impacciano la libertà di commercio [oggi: l’ideale della globalizzazione] e queste
leggi trovano conferma man mano che si realizza il libero scambio
Prima legge: la concorrenza abbassa il prezzo delle merci riducendolo al minimo del costo di
produzione
Quindi abbassa il salario al minimo
Per cui il salario minimo è il prezzo naturale del lavoro
Il minimo del salario è ciò che è necessario per mettere in condizione l’operaio di nutrirsi e di
riprodursi in modo che la sua classe non vada in rovina
Non per questo l’operaio ha solo questo minimo di salario o sempre questo minimo di salario
Qualche volta avrà di più ma questo è la compensazione per quando ha avuto meno del minimo nei
periodi di stasi industriale
In tutto il ciclo di prosperità, sovrapproduzione, ristagno crisi, calcolando tutto, la classe operaia
avrà avuto né più né meno del minimo
Cioè si è conservata come classe a prezzo della miseria e della morte di molti sul campo di battaglia
dell’industria: “Ma che importa? La classe sussiste sempre”
Il progresso dell’industria produce mezzi di sussistenza meno costosi: infatti l’acquavite ha
sostituito la birra, il cotone il lino la lana, la patata il pane [oggi:…e gli o.g.m. il grano]
con la creazione di mezzi di sussistenza meno cari e più miserabili la conseguenza è l’ulteriore
diminuzione del minimo del salario
se allora il salario aveva cominciato facendo lavorare l’uomo per vivere, adesso gli fa vivere una
vita da macchina: l’esistenza dell’operaio è dunque quella di qualsiasi forza produttiva ed è trattata
di conseguenza dal capitalismo
quindi man mano che si verifica in tutta la sua consequenzialità il libero scambio, cioè il
presupposto degli economisti, si verifica la legge del lavoro-merce, dunque del minimo del salario
allora: o si rinnegano tutte le leggi dell’economia politica, cioè si rinnega il libero scambio che è il
presupposto su cui si basano queste leggi, oppure bisogna convenire che la legge del libero scambio
colpisce con tutto il suo rigore gli operai
conclusioni che Marx trae dall’analisi: il libero scambio come libertà del capitale e delineazione
sempre più netta dell’opposizione tra le due classi
ammettendo per un momento che siano scomparsi dazi, protezionismi ecc., ossia tutte le condizioni
a cui l’operaio può imputare la sua condizione miserevole, cadono i veli e si vede chi è il vero
nemico
libero scambio = legge del lavoro-merce e del minimo di salario [oggi: questa mi sembra essere
la lettura che Marx darebbe della globalizzazione]
e quindi il capitale divenuto libero non è meno oppressivo e vessatorio del capitale vessato dalle
dogane (quindi qui nella polemica tra libro scambio e protezionismo libertà e vessazione riguardano
libertà e vessazione del capitale non degli operai che non sono meno vessati con il libero
commercio, anzi qui la vessazione si delinea sempre più netta e compiuta)
allora ‘libertà’ qui non significa libertà di un individuo di fronte a un altro individuo, ma libertà del
capitale di schiacciare il lavoratore
non si può sanzionare la libera concorrenza con la libertà perché questa è il prodotto di uno stato di
cose basato sulla libera concorrenza
all’interno quindi di una medesima nazione parlare di fraternità è insensato, data l’ipocrisia
dell’argomento filantropico; anche la fraternità che il libero scambio stabilirebbe tra le nazioni non
sarebbe molto più fraterna
solo la borghesia può designare come fraternità lo sfruttamento giunto al suo stadio internazionale
infatti tutti i fenomeni di distruzione che la libera concorrenza fa sorgere all’interno di una nazione
si riproducono in modo gigantesco sul mercato mondiale
il libero scambio farebbe nascere un divisione internazionale del lavoro per cui ogni paese
produrrebbe
in
armonia
con
i
suoi
vantaggi
naturali
inoltre, poiché tutto è diventato monopolio, alcuni rami industriali dominano sugli altri e assicurano
ai popoli che li sfruttano di più l’impero sul mercato mondiale (cotone che ha un valore
commerciale più grande di tutte le materie prime messe insieme, impiegate per fabbricare gli abiti)
se i liberoscambisti non comprendono come mai un paese possa arricchirsi a spese di un altro, è
perchè non comprendono come in un paese una classe possa arricchirsi a spese di un’altra classe
criticare il libero scambio non significa essere per il protezionismo, così come criticare il
costituzionalismo non significa essere per l’assolutismo
peraltro il sistema protezionistico a sua volta è un mezzo per mettere presso un popolo la grande
industria e ciò già significa farlo dipendere dal mercato mondiale e quindi dal libero scambio
il sistema protezionistico contribuisce a sviluppare la concorrenza all’interno di un paese; per
questo in Germania la borghesia che comincia a farsi valere come classe, chiede dazi protettivi e
così, promuovendo la concorrenza all’interno di un solo paese, con quest’arma lotta contro il
feudalesimo e lo stato assoluto
ma in generale oggi il sistema protezionistico è conservatore mentre il libero scambio è distruttivo,
in quanto dissolve le antiche nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo tra borghesia e
proletariato
quindi affretta la rivoluzione sociale
perciò Marx vota a favore del libero scambio in questo senso rivoluzionario
SCHEMI E RIASSUNTI DA K.Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La
frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX
Come previsto, durante il corso sono state tenute, da parte degli studenti,
relazioni sui capitoli del testo di Karl Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La
frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, secondo il seguente
calendario:
6 MARZO
Introduzione: Goethe e Hegel. (dott.ssa SIMONA GIACOMETTI).
12-13 MARZO.
Il compimento della storia del mondo e dello spirito e il suo significato storico finale
in Hegel. (ANTONIO GARGANO, ALBA BRUNO).
19-20 MARZO.
Vecchi-hegeliani, giovani-hegeliani, neohegeliani. (ROBERTO EVANGELISTA,
PIERO).
25-26 MARZO.
Il dissolvimento delle mediazioni hegeliane nelle posizioni radicali di Marx e
Kierkegaard. (ALESSIO CALABRESE, MASSIMO DI LILLO).
9-10APRILE.
Nietzsche come filosofo della nostra epoca e dell'eternità. (ELENA ROMANO,
PIETRO ALAGIA, ANGELA LOBO).
16-17 APRILE
Lo spirito del tempo e la ricerca dell'eternità. (RAFFAELE RUOCCO, ELEONORA
TEDESCO, VALENTINA PETROSINO).
23-24 APRILE
Il problema della società borghese. (NICOLA BOMBACE, ENZO SINISI).
7-8 MAGGIO
Il problema del lavoro. (WALTER SILANO, DIANA CATALDO).
14-15 MAGGIO.
Il problema della cultura. (LIA TRAMONTANO, CARLA MARINO).
21-22 MAGGIO.
Il problema dell'umanità. (LIVIO TARALLO, FABRIZIO CARLINO)
28-29 MAGGIO
Il problema del cristianesimo. (DONATELLA MANICO, EVA BRACCO)
Qui di seguito si danno i riassunti o gli schemi relativi ai vari capitoli
curati rispettivamente da chi ha tenuto le relazioni. Man mano che gli
schemi o i riassunti perverranno, saranno aggiunti.
Chi volesse commentare il testo o qualche capitolo con un proprio
intervento – anche se non ha tenuto la relazione – può inviarmi per e-mail
([email protected]) il testo, che sarà inserito in questa pagina.
PARTE PRIMA
STUDI SULLA STORIA DELLO SPIRITO GERMANICO NEL
SECOLO XIX
Introduzione: Goethe e Hegel
dott.ssa SIMONA GIACOMETTI
Il testo di Karl Löwith, pubblicato nel 1941, costituisce un tentativo di interpretare l’intera
evoluzione della riflessione filosofica del XIX secolo a partire da un preciso assunto. La
ricostruzione löwithiana, infatti, strutturata in due sezioni – Studi sulla storia dello spirito
germanico nel secolo XIX e Studi sulla storia del mondo borghese-cristiano -, assume come
prospettiva d’analisi il dato essenziale della crisi del sistema hegeliano che, a giudizio dell’autore,
sarebbe stata portata a compimento da Marx e da Kierkegaard. Fin dalle prime battute del III
capitolo, Il dissolvimento delle mediazioni hegeliane nelle posizioni radicali di Marx e
Kierkegaard, scrive Löwith: “La critica di Marx e Kierkegaard separa proprio ciò che Hegel aveva
unificato; entrambi rovesciano la sua conciliazione della ragione con la realtà. [………] In tal modo
avviene non soltanto un dissolvimento del sistema di Hegel, ma in pari tempo una decomposizione
di tutto quanto il sistema del mondo borghese cristiano” 1. Nella comune critica al concetto
hegeliano di realtà, intesa come unità di essenza ed esistenza, Marx rivendica la priorità della
dimensione dell’esistenza economica della massa, Kierkegaard quella etico-religiosa dell’individuo.
Nella prefazione all’opera, d’altra parte, Löwith ribadisce ulteriormente la sua posizione rispetto
alla tradizione filosofica del diciannovesimo secolo quando chiarisce che il suo stesso testo non
offre contributi alla storia dello Spirito, né potrebbe essere altrimenti, posto che “i fondamenti della
storia dello Spirito i quali derivano dalla metafisica dello Spirito hegeliana, si sono ormai dissolti
1
K. LÖWITH, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, Torino, 2000, p. 212.
nel nulla. Lo Spirito come soggetto e sostanza della storia non è più un fondamento, ma, nella
migliore delle ipotesi, solo un problema” 2.
Data precisa indicazione di ciò che costituisce la questione di fondo sottesa alla sua ricostruzione 3,
l’analisi di Löwith si apre con alcune pagine di tono introduttivo dedicate ad un confronto tra
Goethe ed Hegel.
Brani della corrispondenza tra i due testimoniano della loro reciproca stima 4, oltre la quale il
presupposto di un confronto dei loro contributi alla letteratura e alla filosofia tedesche è
riconosciuto in una “comunanza del principio” 5 e più precisamente, con le parole di Löwith, “la
medietà di cui visse la natura di Goethe e la mediazione in cui si mosse lo spirito di Hegel” 6,
sebbene il luogo di questa conciliazione non fosse per entrambi lo stesso.
Punto di partenza comune ai due percorsi è individuato da Löwith in una condanna della vuota
soggettività romantica; in Goethe questo elemento emerge dalla lettura di un passo tratto da Un
importante risultato conseguito con una sola espressione geniale in cui egli ribadisce con vigore la
necessità per l’uomo di conoscere il mondo evitando tutti i rischi connessi ad una vana
contemplazione di sé 7. In Hegel la stessa critica, peraltro esposta in termini pressappoco
equivalenti, compare al paragrafo 377 dell’Enciclopedia 8.
In realtà, la questione per entrambi è posta dal problema dell’accordo tra Io e mondo, che conduce
sia Hegel che Goethe ad un confronto con Kant autore della Critica del Giudizio 9, attraverso la
quale il filosofo di Königsberg tenta di superare gli esiti meccanicistico e finalistico delle due
Critiche precedenti attribuendo finalità alla natura. Goethe, a giudizio di Löwith, in direzione di
Kant andò oltre Kant nella misura in cui attribuì alla natura umana, in luogo dell’intelletto
discorsivo, l’intelletto intuitivo o archetipo.
Posta la comunanza del principio di mediazione, l’autore procede nelle sue argomentazioni
sottolineando gli elementi di diversità, primo tra i quali il luogo di questa conciliazione, l’Assoluto
2
Ibid., p. 12. In Significato e fine della storia (1949) Löwith sostiene ancora la tesi per cui fino ad Hegel in ogni
formulazione di filosofia della storia va individuata un’originaria matrice teologica connessa alla persistenza di una
concezione giudaico-cristiana del mondo. Nell’analisi svolta da Löwith, anche in Marx domina una prospettiva
escatologica dell’avvento di una società senza classi.
3
Nella prefazione alla nuova edizione, datata, 1949, leggiamo: “Il tema effettivo: la trasformazione e il rovesciamento
della filosofia dello spirito assoluto attraverso Marx e Kierkegaard in marxismo ed esistenzialismo” in LÖWITH, op.
cit., p. 15.
4
In particolare, in una lettera di Hegel a Goethe leggiamo: “Poiché, se volgo lo sguardo al processo del mio sviluppo
spirituale, vedo che Ella è presente dappertutto ed io posso dichiararmi figlio suo [….]”, in LÖWITH, op. cit., p.23.
5
Ibid., p. 25.
6
Ibid., p. 57.
7
Löwith riporta il brano in esame: “A questo proposito confesso che il tanto celebrato apoftegma Conosci te stesso mi
sembrò sempre sospetto, come un’astuzia di sacerdoti segretamente stretti in un’intesa, i quali volessero confondere
l’uomo con una pretesa impossibile e stornarlo dall’attività rivolta al mondo esterno per impegnarlo in una falsa
contemplazione interiore. L’uomo conosce se stesso solo in quanto conosce il mondo”, Ibid., p.31.
8
Scrive Hegel: “La conoscenza dello spirito è la più concreta delle conoscenze, e perciò la più alta e la più difficile.
Conosci te stesso, questo precetto assoluto, non ha, - né preso per sé né dove lo si incontra storicamente espresso -, il
significato di una conoscenza di sé medesimo come delle proprie capacità particolari (carattere, inclinazioni e
debolezze dell'individuo), ma significa invece la conoscenza di ciò che è la verità dell'uomo, della verità in sé e per sé,
dell’essenza stessa in quanto spirito [……]”.
9
Löwith discute il giudizio hegeliano sul dualismo cartesiano nelle pagine di Dio uomo e mondo da Cartesio a
Nietzsche dedicate a Hegel in cui riprende un passo da Vorlesungen über das Wesen des Akademischen Studiums del
1803: “Contro la filosofia cartesiana…., che ha dato espressione filosofica al dualismo che guadagnava universalmente
terreno nella civiltà della storia moderna del nostro mondo nord occidentale, - un dualismo del quale, in quanto
tramonto di tutta la vita antica, tanto il più tacito mutamento della vita pubblica degli uomini, quanto le più rumorose
rivoluzioni politiche e religiose, non sono altro che aspetti esterni di colore diverso – orbene contro la filosofia
cartesiana come contro la civiltà generale da essa portata ad espressione, ogni aspetto della natura vivente, e quindi
anche della filosofia, doveva cercare una via di salvezza”, in Id., Dio uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, Napoli,
1966, pp. 71-72. Rispetto alla recezione goethiana della Critica del Giudizio, Löwith ricorda quanto Goethe si sentisse
debitore nei confronti di Kant “poiché gli insegnò, esattamente nel senso della di lui azione e del di lui pensiero, ad
intendere da un punto di vista unitario le produzioni della natura e quelle dello spirito”, Id., Da Hegel a Nietzsche, cit.,
p.28.
di Hegel, lo Spirito della storia e i fenomeni primordiali di Goethe. Il confronto tra ciò che per
Löwith è semplicemente una diversa modalità di interpretazione dello stesso principio è condotto
attraverso i giudizi che ognuno ha della nozione dell’altro. La critica hegeliana al “fenomeno
primordiale” di Goethe è fondata su una ferma accusa di astrattismo, evidente nella deduzione di un
principio semplice dalla complessità empirica 10; d’altra parte Goethe, in una lettera del novembre
1812 a Seebeck, in relazione ad un passo della Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito accusa
Hegel di negare dignità al processo naturale in questi termini: “Voler distruggere l’eterna realtà
della natura mediante uno scherzo sofistico di cattivo genere mi sembra assolutamente indegno di
un uomo ragionevole.[……] Quando, invece, un eminente pensatore – il quale penetra un’idea e
ben sa cosa valga in sé e per sé e quale maggior valore essa acquisti allorché esprime un prodigioso
processo naturale – è proprio colui che si trastulla a travisarla in maniera sofistica, a negarla ed a
distruggerla mediante parole e frasi che artificiosamente si negano a vicenda, non si sa che cosa
dire” 11.
Scrive Löwith, ancora in merito agli elementi di differenza tra Hegel e Goethe: “Il dissenso tra
Hegel e Goethe potrà quindi essere colto nella loro posizione di fronte al cristianesimo e alla storia”
12
.
Nella prefazione ai Lineamenti di Filosofia del diritto Hegel, nella figura della rosa e della croce,
opera un congiungimento tra la ragione filosofica e la teologia della croce: il loro comune oggetto,
Dio, è espresso dall’una nella forma del pensiero speculativo, dall’altra in quella della
rappresentazione. In opposizione all’essenza del giudaismo, la nozione universalizzante dell’amore
nella figura di Cristo storicizza ed umanizza la rigida prescrittività giuridica e morale in una ferma
rivendicazione dei bisogni della libertà soggettiva.
In un colloquio con Eckermann (febbraio 1829), riferendosi ad un altro filosofo, Schubarth, Goethe
esprime il suo rifiuto radicale verso l’identificazione portata a termine da Hegel in nome di un
congiungimento dell’umanità con la croce: “Allo stesso modo di Hegel, egli introduce la religione
cristiana nella filosofia: In un ambito cioè con cui quella non ha niente a che vedere. La religione
cristiana [….] si trova al di sopra di ogni filosofia e non ha bisogno da questa di alcun appoggio.
Similmente il filosofo non ha bisogno della religione per dimostrare certe dottrine come per
esempio quella dell’eterna durata” 13.
L’origine del divenire spirituale del tempo nella filosofia hegeliana della
storia dello spirito
I. Il compimento della storia del mondo e dello spirito e il suo significato
storico finale in Hegel
In una lettera del 20 Luglio 1817 scrive Hegel: “Io credo di poter indulgere alla mia facoltà tanto da riconoscere ed
ammirare in ciò l’astrazione seguendo la quale Ella si è attenuta alla semplice verità fondamentale e ha… ora
ricercato soltanto le condizioni, scoprendole presto e ricavandole in maniera semplice”. Il testo è riportato da
LÖWITH, op. cit., p.33.
11
Ibid., p. 36.
12
Ibid., p. 37.
13
Ibid., p. 39. Conferme in questo senso sono ricavabili anche dalla lettura di un commento alle lettere di Lavater
ricevute nel 1781.
10
ALBA BRUNO
1. La costruzione finale nella storia del mondo
Tutto il sistema hegeliano è pensato fondamentalmente sotto una prospettiva STORICA quanto
nessun altra filosofia anteriore.
In particolare nella Fenomenologia vi è la storia delle manifestazioni dello Spirito e dei gradi di
formazione del sapere, in cui le fasi sistematiche del pensiero e i riferimenti storici si compenetrano
a vicenda.
Lo scopo di questa costruzione è il SAPERE ASSOLUTO, scopo raggiunto dialetticalmente
attraverso il RICORDO di tutti gli spiriti già esistiti.
Quando lo Spirito raggiunge il suo pieno essere e sapere, ossia la sua AUTOCOSCIENZA, la storia
dello Spirito può dirsi compiuta, e poiché l’essenza dello Spirito è la libertà dell’essere presso di sé,
con il compimento della sua storia è raggiunto anche quello della LIBERTA’.
Partendo dal principio di libertà dello Spirito, Hegel costruisce anche la storia del mondo.
I passi più importanti dell’autoliberazione dello Spirito sono costituiti attraverso un processo che ha
il suo inizio in Oriente e la sua fine in Occidente.
Attraverso tale processo lo Spirito è educato per mezzo di dure lotte alla libertà.
“L’Oriente sapeva e sa soltanto che uno solo è libero, il mondo greco e romano che alcuni
sono liberi, il mondo germanico sa che tutti sono liberi” (pag.63).
La libertà definitiva dello Spirito si verifica, quindi, con l’irruzione nel mondo pagano del
Cristianesimo.
Soltanto il Dio cristiano è veramente SPIRITO e in pari tempo UOMO, mentre la sostanza
spirituale si soggettiva in un’individualità storica
“Questo principio costituisce il cardine del mondo, poiché quest’ultimo vi gira attorno. Sin qui
e di qui procede la storia” (pag.65)
La diffusione della fede nel Cristo ha necessariamente anche delle conseguenze politiche; infatti,
con lui fa la sua comparsa il principio della LIBERTA’ ASSOLUTA in cui l’uomo sa di essere
identico alla potenza con la quale sta in rapporto.
La storia del CONCETTO giunge in realtà alla sua conclusione con Hegel quando questi
concepisce tutta quanta la Storia, ricordando “in qui e di qui” come un compimento di tutti i tempi
2. La costruzione storica finale nelle forme assolute dello Spirito.
a) Arte e religione
Il principio del compimento domina la costruzione delle tre forme assolute dello Spirito: Arte,
Religione e Filosofia.
Alle tre epoche della storia mondiale corrispondono nell’arte: la forma simbolica, la classica e la
cristiano-romantica.
Poiché ogni modo di guardare il mondo è “Figlio del suo tempo” la vera serietà dell’arte greca e di quella cristiana è
ormai passata;
L’arte può dirsi compiuta dal suo tempo; quando tutto è estrinsecato e non rimane più nulla di
intimo e di oscuro che tende a prender figura, svanisce l’interesse assoluto nell’arte.
“Se l’arte ha rivelato le visioni del mondo essenziali … essa si è liberata del contenuto
apparente determinato ogni volta per un particolare popolo e per una particolare epoca, ed il
vero bisogno di accoglierlo si risveglia soltanto con il bisogno di rivolgersi contro con il
contenuto sino allora valido..” (pag.68)
Nella nostra epoca la cultura della riflessione ha fatto tabula rasa delle forme sostanziali dell’arte:
“ Ciò che è stato cantato in modo così grande, ciò che è stato espresso in modo così libero, è
ormai detto per sempre; si tratta di contenuti, di maniere di intuirli e di concepirli, che sono
ormai stati cantati. Soltanto il presente è fresco e vivo, il resto e scipito e scialbo” (pag.68)
La stessa forma dell’arte ha cessato di essere il supremo bisogno dello Spirito. Essa non è più il modo supremo in cui la
verità esiste.
“L’anima dell’artista grande e libera deve […] sapere e possedere il proprio scopo sin
dall’inizio ed essere sicura di sé e fiduciosa.”(pag.69)
L’artista odierno ha bisogno di una libera formazione dello spirito senza superstizioni.
In questo andare oltre se stessa l’arte riesce a significare il ritratto dell’uomo su di sé, e a perdere
ogni legame con i contenuti e le forme determinati e a raggiungere la sua piena compiutezza.
Tutto ciò che è familiare all’uomo è un possibile oggetto di quest’arte divenuta pienamente libera.
Anche la forma della religione volge verso la sua fine;
La forma della sua coscienza interiore oltrepassa la coscienza sensibile dell’arte, ma nemmeno essa
è la maniera suprema in cui lo Spirito si trova a suo agio.
Alla fine delle Lezioni sulla filosofia della religione Hegel ha formulato il problema della
situazione empirica della religione cristiana nell’epoca presente.
Hegel paragona la sua epoca alla fine del mondo romano in cui:
La razionalità si rifugiava nella forma del bene privato e del diritto privato dal momento che non
esisteva più l’universalità religiosa e politica.
L’individuo abbandona l’universale così quale è e non si prende più cura che di se stesso: gli rimane
allora solo la visione morale del mondo, la volontà e le peculiari opinioni di ciascuno prive del
contenuto oggettivo.
Lo stesso Hegel vede che la classe stessa degli ecclesiastici, il cui compito è conservare la religione,
è decaduta, perché vuole spiegare e ragionare la dottrina cristiana con motivi morali e con la storia
esterna.
“Il sale è diventato scipito”, non resta che la presuntuosità sterile dei dotti, il Cristianesimo
sembrerebbe esser prossimo alla fine; ma ciò significherebbe concludere con una dissonanza.
Hegel considera tale decadenza un avvenimento casuale che concerne solo il lato esterno del
mondo, e da cui egli ricava la conciliazione essenziale.
Lo Spirito Santo continua a vivere nella comunità della filosofia che amministra la verità al posto
dei sacerdoti.
Anche nella religione è penetrata la riflessione critica. Il pensiero non può essere represso e va
spinto fino in fondo costituendo il giudice assoluto di fronte al quale la verità della religione deve
provare se stessa.
Come l’arte diventa scienza dell’arte, così la religione diventa filosofia della religione.
Questo rifugiarsi della religione nella filosofia, dà un’esistenza concettuale ai sentimenti ed alle
rappresentazioni religiose.
La scienza del sapere assoluto è divenuta il vero culto spirituale.
“In tal modo, nella filosofia si trovano riuniti i due aspetti dell’arte e della religione:
L’oggettività dell’arte … e la soggettività della religione, che si è purificata nella soggettività
del pensare.Il pensare, infatti, è da un lato, la più intima e particolare soggettività, … e al
tempo stesso la più reale e oggettiva universalità che soltanto nel pensiero può cogliere se
stessa nella sua propria forma.” (pag.71)
b) Filosofia
Nelle Lezioni sulla storia della filosofia Hegel ha portato anche la storia della filosofia al suo
compimento.
Secondo la sua divisione della storia della filosofia il suo sistema sta alla fine della terza epoca.
La prima epoca va da Talete a Proclo, inizio e caduta del mondo antico.
In Proclo avviene la conciliazione antica tra il finito e l’infinito, mondo terreno e quello divino.
La seconda epoca va dall’inizio dell’era cristiana alla Riforma, dove si realizza in un piano più alto
la stessa conciliazione tra il Terreno ed il Divino.
Nella Terza epoca quella della filosofia cristiana, da Descartes a Hegel, la conciliazione tra terreno
e divino sarà portata a compimento da Hegel stesso.
I sistemi filosofici di quest’ultima epoca realizzano concettualmente nel pensiero la conciliazione
che un tempo era avvenuta soltanto nella fede.
Il sistema assoluto di Hegel ne è la conclusione. Lo Spirito assoluto cristiano comprende se stesso
nel suo elemento, nella realtà poiché è divenuta sua.
Il mondo reale è divenuto spirituale nel senso cristiano.
La storia hegeliana dello Spirito è definitivamente e coscientemente condotta a termine in una
concatenazione sillogistica di principio e di fine.
Similarmente a Proclo, Hegel ha conchiuso il mondo del Logos cristiano nella totalità assoluta
dell’idea organizzata concretamente, ed ha portato a termine la totalità delle tre epoche.
Tutti i sistemi sono unificati in un unico sistema comprensivo e totale, in una più profonda
coscienza dell’idea.
Il Cristianesimo si è affermato all’inizio di una decadenza, in un’epoca in cui “Tutto si trova in
dissoluzione ed aspira a qualcosa di nuovo” e il compimento hegeliano della filosofia cristiana
costituisce un ultimo passo prima di un grande rivolgimento e di una rottura con il Cristianesimo.
Il suo supremo affermarsi è contemporaneo all’inizio di una decadenza, in un epoca in cui tutto si
trova in dissoluzione ed aspira a qualcosa di nuovo.
“ La filosofia incomincia con la decadenza di un mondo reale[…]e la conciliazione non
avviene nella realtà ma nel mondo ideale[…]. I filosofi in Grecia si sono ritirati dagli affari
dello Stato […] e si sono rifugiati nel mondo dei pensieri. E’ questa una vocazione essenziale
che è confermata nella storia della filosofia” (pag.74)
La filosofia di Hegel non vuole ringiovanire il mondo, ma soltanto conoscerlo perché in tale
conoscenza avviene la conciliazione “ con ciò che è”.
Il pensiero è presso di sé e nello stesso tempo abbraccia l’intero universo, il mondo divenuto
intelligente, comprensivo e trasparente.
L’oggettività sussistente è divenuta una cosa sola con la sua “generazione di se”.
Lo Spirito del mondo si è sbarazzato da ogni essenza estranea ed oggettiva, riesce a cogliersi come
Spirito Assoluto generando da sé ciò che gli diviene oggettivo.
In questa unità d’oggettività ed attività spontanea si conclude il senso compiuto dell’epoca moderna
“Sin qui è giunto lo spirito del mondo. L’ultima filosofia è il risultato di tutte le precedenti;
nulla è perduto, tutti i principi sono conservati. Questa idea concreta è il risultato degli sforzi
dello spirito attraverso quasi 2500 anni (Talete 640 AC) nel suo più serio lavoro per diventare
oggettivo a se stesso e per conoscersi: Tantae molis erat se ipsam cognoscere mentem” (pag.75).
Mentre Hegel conduce a termine con il coraggio della conoscenza, un’epoca di 2500 anni e ne apre
un’altra nuova, egli ha in realtà concluso la storia del Logos cristiano; quanto egli stesso dice
dell’arte vale ora allo stesso modo, in seguito al suo compimento, per la filosofia in lui conclusasi:
tutto un mondo di lingua, concetti e cultura è giunto alla sua fine con la storia dello Spirito di Hegel.
Hegel non ha dato al significato finale del compimento da lui realizzato nessuna espressione diretta.
Scarsi accenni all’America, che dall’inizio del secolo era considerata la terra futura della libertà,
prendono in considerazione che lo Spirito del mondo possa abbandonare l’Europa.
“L’America è quindi la terra dell’avvenire, in cui deve manifestarsi nelle epoche future
qualcosa d’importante per la storia del mondo… in quanto terra dell’avvenire, essa non può
ora interessarci affatto” (pag.76).
Dieci anni più tardi la sua conciliazione con “ciò che è” fu intaccata da nuove scissioni per opera
della Rivoluzione di Luglio e messa in discussione da una “brama di novità senza scopo”: contro
di ciò egli si sentì impotente.
La possibilità del processo verso una nuova scissione però è già contenuta e prevista nella stessa
coscienza storica di Hegel.
Nella differenza tra “il sapere” e “quel che è” risultano la possibilità e la necessità di un processo
verso nuove scissioni, tanto nella filosofia, tanto nella realtà.
Questo sapere è ciò che produce una nuova forma di sviluppo che rivoluziona anche il contenuto
sostanziale.
La filosofia che va compiendosi genera lo Spirito che tenderà ad una nuova configurazione del
reale.
In realtà la conclusione hegeliana della storia del sapere è risultata luogo di origine del divenire
spirituale e politico del secolo diciannovesimo
Un decennio dopo la sua morte, divenne manifesto, per opera di discepoli avversari di Hegel, che la
sua teologia filosofica costituiva realmente un termine ed una svolta nella storia dello Spirito e della
cultura della vecchia Europa.
Invece della mediazione di Hegel si manifestò la volontà di venire ad una decisione, che separò
nuovamente ciò che la sua costruzione compiuta aveva riunito: Antichità e Cristianesimo, Dio e
Mondo, interiorità ed esteriorità, essenza ed esistenza.
3. La conciliazione hegeliana della filosofia con lo Stato e con la religione cristiana
La filosofia del diritto di Hegel è la realizzazione concreta della tendenza a conciliare la filosofia
con la realtà in genere: come filosofia dello Stato con la realtà politica e come filosofia della
religione con quella cristiana.
In entrambi i campi Hegel si concilia con la realtà nel “comprendere” il mondo reale come
“conforme” allo Spirito.
La vera filosofia è la comprensione dell’attuale e del reale, non già un postulare qualcosa di
trascendente, uno Stato ideale, che debba soltanto essere, ma che non esista mai.
La ragione cosciente di sé - cioè la filosofia dello Stato - e la ragione in quanto realtà sussistente cioè in quanto Stato reale - sono unite l’una con l’altra e “nella profondità” dello spirito sostanziale
del tempo sono la stessa cosa.
La filosofia della religione in Hegel è ancora più importante della filosofia dello Stato in quanto
baricentro Spirituale di tutto il suo sistema.
La filosofia di Hegel è allo stesso tempo “saggezza del mondo” e “conoscenza di Dio”, poiché il
suo sapere giustifica la sua fede.
La lettura dei giornali gli sembrava avere la stessa giustificazione della Bibbia:
“ La lettura dei giornali di primo mattino è una specie di realistica benedizione del mattino. Si
orienta la propria condotta nei confronti del mondo a Dio o a ciò che è il mondo. Nei due casi
si ha la stessa sicurezza, in quanto si è ben certi a quale partito attenersi.” (Pag.83)
La verità filosofica del Cristianesimo consisteva per Hegel nella unità di umano e divino nella
figura di Cristo. Unità nuovamente dissolta: da Marx che considerava il cristianesimo un “mondo
falso”; e da Kierkegaard la cui fede paradossale ha come presupposto la differenza tra uomo e Dio.
Per mezzo di questa conciliazione della filosofia con la religione a Hegel sembrava istaurata in
modo razionale la “pace di Dio”
Hegel comprende ontologicamente sia lo Stato che la religione. Egli discute il loro rapporto badando alla loro differenza
e mirando alla loro unità. L’unità si trova nel contenuto, la differenza nella forma diversa di un medesimo contenuto.
Secondo Hegel la vera religione non ha nessuna tendenza negativa verso lo Stato esistente ma lo
conosce e lo conferma, come d’altro canto lo Stato riconosce il “controllo ecclesiastico”.
La comprensione filosofica, quindi, riconosce che Chiesa e Stato sono identici come contenuto di
verità, se stanno entrambi sul terreno dello Spirito.
La filosofia hegeliana dello Spirito si chiude con l’affermazione:
“L’eticità dello Stato e della spiritualità religiosa dello Stato si garantiscono così
reciprocamente” (pag. 86)
La conciliazione di Hegel, sulla base della filosofia, della ragione con la fede e del cristianesimo
con lo Stato fu spezzata intorno al 1840.
La storica rottura avvenne in campi diversi: per Marx una rottura con la filosofia dello Stato, per
Kierkegaard una rottura con la filosofia della religione; in entrambi i casi una rottura con
l’unificazione di Stato, cristianesimo e filosofia.
Con decisione pari a quella di Marx e Kierkegaard questa rottura fu compiuta, per quanto in modi
differenti da Feuerbach e Bruno Bauer.
Comunque divergano le loro soluzioni particolari, tutti insieme essi distruggono il mondo borghesecristiano, e con ciò anche la teologia filosofica della conciliazione di Hegel.
La realtà non appariva loro più nella luce della libertà dell’essere presso di sé, ma nell’ombra
dell’estraniarsi dell’uomo da sé.
II. Vecchi hegeliani, giovani hegeliani, neo hegeliani.
ROBERTO EVANGELISTA
1. La conservazione delle filosofia hegeliana per opera dei vecchi hegeliani.
I temi che accompagnano la divisione fra giovani e vecchi hegeliani sono di natura politica e religiosa:
- Stato
- Religione
- Singolo
Tali tematiche accompagneranno la maturazione dell’hegelismo, attraverso il marxismo e
l’esistenzialismo, in un processo di decostruzione che confluirà in Nietzsche (non è un caso che
questi centri la sua filosofia proprio intorno a questi concetti)
La prima distinzione fra destra e sinistra hegeliana si giocò sulla religione.
Destra – (più fedelmente al pensiero del maestro) critica la forma della religione, ma ne salva il
contenuto concependolo positivamente.
Sinistra – Critica entrambi: partendo dall’Idea non potevano mantenersi le notizie storiche dei
Vangeli.
I vecchi hegeliani non mostrarono una tendenza a rinnovare radicalmente il pensiero di Hegel.
Veri e propri conservatori furono Rosenkranz, Haym, Erdmann e Fischer.
ROSENKRANZ. La filosofia hegeliana ha ampliato i suoi rapporti con la realtà e,
nell’identificazione del concetto con il reale, ha trovato la vera unità fra teoria e prassi.
Feuerbach viene visto come “alleato” di Schelling “nell’evitare lo sviluppo della scienza a sistema”
cioè nel rimanere legato ad una prassi astratta senza addentrarsi nella natura né nello stato.
Il problema della prassi in Rosenkranz è molto forte ma viene rimandato, coerentemente col
pensiero di Hegel, all’idea di assoluto e alla natura intesa come essere, invece che alla natura
umana.
Rosenkranz osserva che la crisi della filosofia tedesca investiva solo la ricaduta dell’ontologia
hegeliana in una logica e in una metafisica e di quest’ultima in una filosofia della natura e dello
spirito. Da qui derivano la limitazione della logica e della metafisica al concetto di esistenza.
La sinistra hegeliana, insomma, trasporta nell’etica un bisogno metafisico che non può più essere
ritrovato nel concetto: questa è un’operazione “comoda”.
Il sistema di Hegel è l’unico fulcro di ogni polemica filosofica ed è l’unico ad avere “una tale
prontezza e una tale possibilità ad accogliere tutti i veri progressi della scienza”.
A questo punto Löwith dice che “è intervenuto un processo di dissolvimento (…) né infatti
risorgerà ancora uno dei vecchi sistemi e neppure se ne presenterà uno del tutto nuovo sintanto che
non si sia compiuto il processo di dissolvimento” (pp. 96-97)
Rosnkranz vede tutti i cambiamenti tecnici come un “progresso della nostra civiltà verso
l’uniformità” e li assimila al concetto di progresso dell’umanità, con cui ora traduce lo Spirito
hegeliano, che porta ad una “coscienza della libertà”. Lo Spirito è inteso ormai in senso umanitario
e la riduzione delle particolarità al piano generale di questo spirito è detta livellamento.
Conquiste tecnologiche – umanizzazione dell’umanità.

Bisogna tenere presente che entrambi i movimenti post-hegeliani si muovono “in odore di positivismo”, positivismo
che qui va considerato più come atteggiamento che come sistema filosofico.
HAYM. Non riforma la filosofia di Hegel, ma si accontenta di spiegarla storicamente con risultati e
strumenti diversi da quelli di Rosenkranz.
Haym è molto sensibile al cambiamento dei tempi:
“Questo non è più tempo per i sistemi, per la poesia o per la filosofia. Ora siamo invece in
un’epoca in cui la materia, grazie alle grandi scoperte tecniche del secolo, diventa sempre più
viva. (…) L’esistenza degli individui e dei popoli è fondata su nuove basi e ricondotta a nuovi
rapporti”.
La filosofia hegeliana non ha superato i tempi. Gli interessi e i bisogni sono stati più forti di lei. La
verità filosofica è ricondotta alla capacità umana. La scienza storica è l’unica vera erede della
filosofia hegeliana.
ERDAMANN. Raccoglie l’istanza di Haym, ma si chiede se il prevalere del punto di vista storico
su quello sistematico non indichi un sintomo di esaurimento per la filosofia in generale.
Erdmann può mantenere solo un atteggiamento da storico della filosofia. Rosenkranz aveva un
fondamento sistematico che gli permetteva di superare le critiche dei “giovani hegeliani”, mentre
Erdmann doveva accontentarsi di storicizzare il processo di dissolvimento dell’hegelismo.
FISCHER. Fu il vero e proprio rinnovatore dell’hegelismo. Infatti Hegel diventa il filosofo
dell’evoluzione. Per Fischer l’importanza di Hegel sta nell’aver concepito la storia come progresso
infinito, ovvero (secondo la reinterpretazione di Fischer) “deteriore infinità di un progresso
senza fine”.
Questi filosofi (per i quali si parla di scuola storica)cercano di riportare le tendenze disgregatrici e
particolaristiche dei giovani hegeliani ad un tutto organico, ad un “assoluto”. Riprendono il concetto
di “Storia dello Spirito” che, però, ha in comune col concetto hegeliano solo ed esclusivamente
l’espressione verbale.
Hegel era riuscito a connettere lo spirito dell’uomo allo Spirito assoluto, concedendo all’uomo la
forza di svelare l’essenza dell’universo. Ora (da Haym a Dilthey) l’uomo diventa impotente di
fronte ai mutamenti storici, riducendosi a semplice prodotto della realtà storica. Lo Spirito è, ormai,
specchio del tempo, non più la sua potenza.
In questi filosofi c’è una specie di ansia di assoluto, che inquadri i fenomeni in una realtà superiore
(in una sintesi, quindi) distogliendo l’attenzione dalla lotta fra tesi e antitesi, che in Hegel rivestiva
un ruolo fondamentale proprio per la costruzione della Storia e di quell’Assoluto che i vecchi
hegeliani cercavano di ripristinare. Sarà Marx a riprendere la dialettica hegeliana (seppur
rifondandola) e ad amplificare proprio questo aspetto.
2. Il rovesciamento della filosofia hegeliana per opera dei giovani hegeliani.
Con i vecchi hegeliani la filosofia del maestro fu mantenuta storicamente (anche se già questo
mantenimento storico – storiografico – indica un deterioramento). Con i giovani hegeliani,
l’impianto acquista efficacia storica.
I giovani della sinistra hegeliana sono ideologi del divenire e del movimento e recuperano quella
dimensione di lotta e di drammaticità propria della filosofia hegeliana.
Si pone la questione fondamentale dell’identità hegeliana di realtà e razionalità.
Engels dà all’equazione hegeliana un carattere rivoluzionario assoluto e un carattere conservatore
relativo. “Bisogna liberare Hegel da se stesso”.
Equazione realtà- razionalità:
Destra. Solo il reale è razionale.
Sinistra. Solo il razionale è (deve essere) reale.
Possono individuarsi tre fasi della crisi e della vera e propria rifondazione dell’hegelismo:
1) Feuerbach e Ruge: trasformano la filosofia di Hegel secondo l’esigenza di una nuova epoca.
2) Bauer e Stirner: cercano di ucciderla per risolverla in un criticismo radicale e nel nichilismo.
3) Marx e Kierkegaard: estremizzano le conseguenze di questa crisi . Marx distrugge il mondo
borghese – capitalistico; Kierkegaard quello borghese – cristiano.
La filosofia di Hegel è una filosofia borghese. In questo momento storico, la critica all’hegelismo
coincide con la critica al sistema borghese. Proprio in virtù di questa identificazione la
decostruzione del sistema hegeliano sarà così profonda e permetterà il superamento dell’hegelismo.
Eppure il sistema borghese sopravviverà, pur attraversando un’evoluzione; ma la mutazione del
sistema borghese, con l’acuirsi delle sue contraddizioni, permetterà la finalizzazione della critica
all’idealismo all’abbattimento del sistema borghese – capitalistico (Marx).
Il concetto di borghesia in Hegel è ancora quello della borghesia pre – rivoluzione industriale
ovvero, è slegato dal concetto di economia politica.
a) Ludwig Feuerbach.
Lo spirito assoluto non è altro che lo spirito defunto della vecchia teologia.
La filosofia da Kant a Hegel si trova sul terreno della storia della filosofia, non su quello del
divenire del mondo. La destra hegeliana sta sul vecchio binario, mentre la sinistra hegeliana e in
questo caso Feuerbach, si pone come interprete di bisogni che vanno verso l’avvenire. Solo loro
hanno il coraggio di creare qualcosa di nuovo. Feuerbach vuole creare un nuovo ordinamento,
opposto a quello di Hegel.
Lo svilimento della sensibilità naturale a naturalità (in senso negativo) è da ritrovarsi nell’origine
della filosofia moderna dalla teologia cristiana.
L’idealismo, quindi, ha commesso lo stesso errore della teologia, deducendo il finito dall’infinito.
“La filosofia dall’assoluto è una contraddizione”.
Feuerbach vuole filosofare antropologicamente. Vuole, cioè, prendere in considerazione l’unica
cosa che dà valore al pensiero: la sensibilità.
La sensibilità e tutta la natura e l’esistenza corporea. Le identità hegeliane non sono altro che
unilateralità. Il corpo, in Hegel, è solo il momento negativo dell’anima, che l’anima deve superare
per ritornare ad essere autoreferenziale. Il corpo, quindi non ha realtà autonoma. Non c’è vera
identità.
La corporeità sensibile si esplica nella sessualità. Riconoscendomi appartenente a un sesso, io
riconosco l’esistenza di un essere diverso da me, che mi appartiene e forma la mia esistenza,
completandola. Io sono diverso da altri.
L’Io e il Tu diventa il principio della vita e, soprattutto, del pensiero. L’amore è il rapporto fra Io e
Tu.
b) Arnold Ruge.
Riporta l’attenzione alla storia come storia filosofica, ovvero, coscienza della storia. Anche per
Ruge, come per Rosenkranz, lo Spirito è il progresso dell'umanità.
Riguardo alla “Filosofia del diritto” di Hegel, sostiene che quest’opera ha il merito di aver posto
alla base dello Stato una volontà autodeterminantesi. Lo Stato è la volontà sostanziale. Ma la
“filosofia del diritto” non assume la storia come base, limitandosi a porla solo alla fine. Lo Stato di
Hegel non è dotato di movimento storico ma è una vera e propria idea fissa. Secondo Ruge non ci si
può limitare a innalzare l’esistenza al concetto, ma bisogna realizzare il concetto in un’esistenza
effettiva.
In Hegel non c’è attenzione all’esistenza effettiva. Per lui, infatti la teoria è già essa stessa prassi e
la differenza fra teoria e prassi sta solo nel rivolgersi dello spirito all’interno o all’esterno.
Anche Ruge si inserisce pienamente nel processo di decostruzione dell’hegelismo. Ma, più di
Feuerbach, si trova in una situazione di confusione e, a differenza di Marx, non è capace di
completare quel processo di rifondazione dell’hegelismo su un terreno diverso. Se, da un lato,
Ruge, vede nello Stato e nella Storia un principio sostanziale e ben definito; dall’altro non può fare
a meno di pensare questo Stato e questa Storia come un divenire che si ripercuote sull’esistenza
effettiva. Questi elementi possono, dunque, far pensare a Ruge come ad una specie di “cerniera” fra
destra e sinistra hegeliana.
c) Karl Marx.
Tenta una semplificazione della filosofia come quella che ci fu quando il grande “colosso
sistematico” della filosofia classica cadde sotto i colpi dell’epicureismo e dello stoicismo.
Il crollo dell’hegelismo è una necessità storica.
Marx fonda la filosofia su un altro elemento: la prassi politica ed economica. Sulla base di questa
nuova fondazione, il rapporto con la “materia” è molto più profondo rispetto a quello di Feuerbach.
Hegel: Mondo ridotto a filosofia.
Marx: Filosofia ridotta a mondo.
L’equazione fra ragione e realtà è presente, in Marx, in maniera così profonda, che riporta quasi
completamente all'equazione di Hegel. Ma la lotta dei termini che riportano la realtà verso la
razionalità è così forte, da riportare nella storia (seppur lineare e razionale) un dinamismo del tutto
nuovo. In questo nuovo dinamismo, che si fonda su basi economico – politiche, c’è la vera unità fra
teoria e prassi che in Hegel viene solo postulata.
La dialettica fra teoria e prassi sta alla base della critica che Marx fa sia ad Hegel che a Feuerbach.
Feuerbach si era limitato a concepire la realtà sensibile intuitivamente, cioè come oggetto pronto e
non come prodotto della prassi. La ragione di questo errore sta in questioni storico-strutturali da
ritrovarsi nelle caratteristiche della classe tardo borghese, vista come classe che possiede. In quanto
possidente, non si rende conto che ciò che possiede è frutto di lavoro collettivo e che nulla può
essere un prodotto che si costruisce immediatamente. Anche Feuerbach è ricaduto nell’errore di
interpretare il mondo invece di trasformarlo.
Fondamentale è in Marx, la critica ai due “partiti” hegeliani.
Entrambi cedono al predominio dei concetti generali. I vecchi hegeliani vogliono conservare
l’antica coscienza, i giovani hegeliani vogliono rivoluzionarla.
I giovani hegeliani si sono spinti fino al limite consentito, nella critica della filosofia, senza uscire
dalla filosofia (meglio dire ideologia).
A questo punto si può dire che con Marx la frattura fra giovani e vecchi hegeliani viene superata, e
con essa viene superata anche quell’ingenuità che ha caratterizzato il primo post-hegelismo. Inizia
la vera e propria decostruzione del colosso sistematico di Hegel, che accompagnerà tutto il secolo
XIX e gran parte del secolo XX.
Solo una volta superata (e quindi accantonata) questa frattura tra giovani e vecchi hegeliani ci si può
dedicare a fondare la filosofia su una nuova base che permetta di smascherare la vera natura di quei
concetti che fino ad allora avevano trattenuto la natura umana in categorie incapaci, ormai, di
contenere i cambiamenti strutturali della società.
III. Il dissolvimento delle mediazioni hegeliane nelle posizioni radicali
di Marx e Kierkegaard
ALESSIO CALABRESE
PARTE PRIMA
1) ”la storia dello spirito germanico”:
“possano i seguenti studi dare un quadro vivo e fedele del periodo che va da Hegel a
Nietzsche e in tal modo «comprendere» entro l’orizzonte del nostro tempo la storia
filosofica del secolo XIX. Comprendere la storia significa però non già travisare a
detrimento del vero e a vantaggio della vita la realtà non più evocabile di ciò che è
accaduto una volta e per sempre, bensì render giustizia al fatto,proprio della storia della
vita, che l’albero si giudica dai frutti, il padre dai figli. Soltanto il secolo XX ha reso chiaro
e comprensibile ciò che è realmente avvenuto nel secolo XIX. (HN, prima prefazione 1939,
pag.11-12)
2) il dissolvimento dell’hegelismo e la decadenza dell’Europa: la “frattura” compiuta da Marx e
Kierkegaard
«La crisi della filosofia hegeliana si può dividere in tre fasi: Feuerbach e Ruge cercarono
di trasformare la filosofia di Hegel secondo lo spirito di un’epoca diversa; B. Bauer e
Stirner fecero in genere morire la filosofia in un criticismo radicale e nel nichilismo; Marx
e Kierkegaard trassero conseguenze estreme dalla situazione mutata: Marx distrusse il
mondo borghese-capitalistico e Kierkegaard quello borghese-cristiano. (HN, pag.116)
3) il “presente” di Löwith:
a) la Germania nazista e l’URSS potenze “antieuropee”
b) Leo Spitzer: «La rivoluzione tedesca non è che un imbarbarimento
bolscevista su base romantico-piccolo-borghese, la forma tedesca del
bolscevismo da ceto medio»
4) il tema effettivo:
“la trasformazione e il rovesciamento della filosofia dello spirito
assoluto attraverso Marx e Kierkegaard in marxismo e
esistenzialismo» (HN, seconda prefazione 1949, pag. 15)
PARTE SECONDA
1) l’oggetto del capitolo:
“Poco prima della rivoluzione del 1848, Marx e Kierkegaard espressero la
loro volontà di una nuova decisione, e le loro parole conservano valore
anche oggi: Marx lo fece nel Manifesto dei comunisti (1847) e Kierkegaard
in un Proclama letterario (1846). Il Manifesto si chiude con l’incitamento:
«Proletari di tutti i paesi, unitevi! »; il Proclama, con l’esortazione a
ciascuno di adoprarsi per la propria salvezza, mentre la profezia
sull’avvenire del mondo è sopportabile tutt’al più come uno scherzo.
Considerato storicamente, questo contrasto caratterizza due aspetti di una
comune distruzione del mondo borghese-cristiano. Per la rivoluzione
contro il mondo borghese-capitalistico, Marx si è appoggiato sulla massa
del proletariato; mentre Kierkegaard, nella sua lotta contro il mondo borghese-cristiano, ha riposto ogni sua speranza nell’individuo. Con ciò si
accorda il fatto che per Marx la società borghese è una società di
<<individui isolati>>, in cui l’uomo è estraneo al suo « essere generico »,
e che per Kierkegaard la cristianità si riduce ad un cristianesimo
volgarizzato per la folla, in cui nessuno si presenta come successore di
Cristo. Poiché però Hegel ha mediato nell’essenza questi contrasti
esistenti, cioè la società borghese con lo Stato e lo Stato con il
cristianesimo, le prese di posizione sia di Marx quanto di Kierkegaard
tendono a mettere in rilievo la distinzione e il contrasto insiti in quelle
mediazioni. Marx si volge contro l’estraniarsi da sé che il capitalismo
rappresenta per l’uomo; Kierkegaard contro l’estraniarsi da sé che la
cristianità rappresenta per il cristiano”.
(HN, pag. 232-233)
2) la critica al concetto hegeliano di realtà:
a) la logica hegeliana è ontologia, ”indagine della realtà”
b) siamo nella logica dell’essenza dove la realtà in atto è sintesi di essenza e
apparenza:
“Wirchlichkeit è l’unità immediata, che si è prodotta, dell’essenza e
dell’esistenza o dell’esterno e dell’interno. La manifestazione del reale è il
reale stesso”
(Hegel, Enc. paragrafo 142)
c) se razionale e reale coincidono,se il mondo concreto è il contenuto della filosofia,
allora la critica di Marx e Kierkegaard diventa critica radicale dello stato di cose
presenti
d) la filosofia di Hegel si riduce ad una teologia dove Dio è la “realtà più reale”.
3) la critica di Feuerbach:
a) la dialettica hegeliana annulla in una generalità logica il singolo
“questo”
b)
“solo la passione è il segno dell’esistenza”
b) la realtà sensibile è determinata e dunque piena di contenuto
immediato
c) il pensiero speculativo hegeliano non raggiunge questo mondo
reale, bensì solo «la mondanizzazione di un mondo teologico
trascendente”.
4) la critica di Marx e Kierkegaard all’esistenza reale si rivolge per il primo all’esistenza economica
della massa, per il secondo a quella etico-religiosa dell’individuo. Infine per quest’ultimo
l’irriducibilità dell’essenza nell’esistenza non e “un difetto di deduzione del principio” hegeliano
come in Marx: solo nel “singolo” è realizzata “l’universalità dell’esser-uomo”, dal momento che
tanto l’universalità dello spirito hegeliano, quanto quella dell’umanità marxiana, appaiono a
Kierkegaard “essenzialmente nulla”.
5) in Critica dell’esistenza storica Löwith sostiene che la sociologia marxiana è “in realtà
espressione del trasformarsi della filosofia hegeliana dello spirito oggettivo in un’analisi della
società umana”
SOCIETA’ CIVILE:
soddisfacimento dei bisogni, ”atomismo” e istanze particolaristiche;
lavoro, produzione e scambio delle merci;
dominio dell’economia e degli interessi particolari;
il legame che unisce gli individui non è il sentimento (famiglia ma il
legame universale che il mercato crea tra i produttori;
divisione del lavoro e classi sociali le quali sono la “sintesi di
Stato e società civile […] la posizione della
contraddizione di Stato e società civile nello Stato”
(Marx, Hegelschen Rechtph. pag.81)
6) il Medioevo e la Riv. Francese:
“L’apice dell’identità hegeliana era, come Hegel stesso confessa, il medioevo. Quivi le classi della
società civile in genere e le classi in senso politico erano identiche. Si può esprimere lo spirito del
medioevo così: che le classi della società civile e le classi in senso politico erano identiche perché
la società civile era la società politica: perché il principio organico dalla società civile era il
principio dello Stato”
(Marx, Hegelschen Rechtphi. pag.86)
“Soltanto la Rivoluzione francese condusse a termine la
trasformazione delle classi politiche in sociali, ovvero fece
delle differenze di classe della società civile soltanto delle
differenze sociali, delle differenze della vita privata, che sono
senza significato nella vita politica. Fu con ciò compiuta la
separazione di vita politica e di società civile”
(Marx, Hegelschen Rechtphi. pag94)
7) l’antitesi tra Stato e società civile:
“L’identità, da lui (Hegel) costruita, di società civile e
Stato è l’identità di due armate nemiche, in cui ogni
singolo soldato ha la «possibilità» di diventare, per
«diserzione», membro della armata «nemica», e
certamente Hegel descrive con esattezza la
situazione empirica moderna”
(Marx, Hegelschen Rechtphi. pag.63)
“Il più profondo in Hegel è che egli sente come una
contraddizione la separazione di società civile e società
politica. Ma il falso in lui è ch’egli si appaga
dell’apparenza di questa soluzione e la spaccia per la cosa
stessa, allorché le « cosiddette teorie », da lui spregiate,
esigono la «separazione» delle classi civili dalle classi
politiche, e con ragione, perché esse esprimono una
conseguenza della moderna società, essendo in questa
l’elemento politico di classe precisamente niente altro che
l’espressione effettiva del reale rapporto di Stato e società
civile, la loro separazione”
(Marx, Hegelschen Rechtphi pag.89)
8) l’errore di Hegel:
“Non è da biasimare Hegel perché egli descrive l’essere
dello Stato moderno tal qual è, ma perché spaccia ciò che
è come l’essenza dello Stato. Che il razionale è reale, ciò è
precisamente in contraddizione con la realtà irrazionale
che dovunque è il contrario di quel che esprime e esprime
il contrario di quel che è”
(Marx, Hegelschen Rechtphi. pag. 77)
9) la “doppia vita”, bougeois-citoyen:
“Per comportarsi quindi come un vero cittadino dello
Stato, per acquistare importanza ed efficacia politiche,
egli deve uscire dalla sua realtà civile deve astrarsene e
rientrare nella propria individualità, abbandonando tutta
questa organizzazione; l’unica esistenza infatti che egli
trova, per essere cittadino dello Stato, è la sua
individualità nuda e cruda, poiché l’esistenza dello Stato
in quanto governo può fare a meno dell’individuo e la sua
esistenza nella società civile prescinde da quella dello
Stato. Egli può essere cittadino dello Stato solo come
individuo e in contrasto con queste uniche comunità
sussistenti. La sua esistenza come cittadino dello Stato è
un ‘esistenza estranea alla sua esistenza come uomo
sociale, è cioè un’esistenza puramente individuale”.
(HN, pag.225)
10) l’uomo come “ente generico” fonda la “vera democrazia”, passando dalla polis alla
cosmpolis
della società comunista senza classi, ”realizzando – dice Löwith - nella società moderna la
filosofia dello Stato di Hegel”. Tuttavia Marx gli obietterebbe che Io Stato hegeliano è già
realizzato come il perfetto Stato del mondo capitalistico-borgese.
11) la “critica dell’economia politica” è orientata verso la totalità del mondo storico:
a) l’estraniazione politica è espressa dall’antitesi Stato - società borghese
b)
“
sociale è espressa dall’esistenza del proletariato
c)
“
economica è espressa dal “feticismo delle merci”
12) estraniazione parziale e totale:
a) Hegel: schiavo antico - servo moderno
b) Marx: il lavoratore salariato gode sì degli stessi diritti di chi possiede i mezzi di
produzione, ma è meno “libero” dello schiavo ateniese poiché se è vero che
aliena semplicemente per un tempo limitato un lavoro particolare, tuttavia viene
ad essere schiavo completo del mercato, essendo la sola forza lavorativa l’unica
cosa che in realtà egli possiede e che deve alienare per poter sopravvivere.
13) la merce come “struttura ontologica” dell’intero mondo oggettivo in cui non solo l’uomo si
estranea da se stesso, ma anche le cose da lui poiché, scrive Lukacs:
“i valori d’uso appaiono senza eccezione come merci, ricevono una
nuova oggettività, una nuova cosalità, che essi non avevano al tempo
dello scambio meramente occasionale e nella quale si annienta e si dissolve
il loro autentico e originario carattere di cosa”
(G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, pag. 120)
a) nei Dibattiti sulla legge contro i furti di legna (1842), Marx mette in luce come
la materia (la legna) s’impadronisce dell’uomo e lo definisce: la “cosa morta”
essendo espressione di rapporti “politici” (possessore e ladro), determina
l’essere e il comportamento dell’uomo. L’alienazione in una cosa è dunque
un’autoalienazione, una materializzazione dell’autocoscienza umana per cui
“gli idoli di legno possono vincere e le vittime umane venire sacrificate”.
Il capovolgimento e l’immediato autonomizzarsi dei mezzi (prodotti) dai fini
(bisogni) è ciò che costituisce per essenza questo “abietto materialismo”.
“Il risultato di tutte le nostre scoperte e del nostro progresso sembra
consistere nel fatto che le forze materiali sono fornite di vita spirituale, e che
l’esistenza umana si istupidisce in una forza materiale […] L’umanità diventa
signora della natura, mentre l’uomo diventa schiavo dell’uomo o schiavo della
propria infamia”.
(Marx, Die Rev. und das Prol. 1866)
b) l’autonomizzarsi dell’oggetto d’uso in una merce, cioè il trasformarsi (sul
mercato) del suo valore d’uso in valore di scambio, rende chiaro il dominio,
nella società capitalista, del prodotto sull’uomo.
14) Il “feticismo delle merci” come processo in cui gli oggetti non sono scambiati per ciò che sono
(valore d’uso), ma per ciò che valgono (valore di scambio).
Tale sistema neutralizza la natura degli oggetti per diffonderne il valore (economico) espresso
in denaro.
“Il lato misterioso del carattere di merce consiste, quindi, semplicemente nel fatto che
essa presenta agli uomini i caratteri sociali del loro proprio lavoro come caratteri
oggettivi degli stessi prodotti del lavoro, come qualità naturali, e sociali di queste stesse
cose, facendo quindi risultare il rapporto sociale dei produttori di fronte al lavoro
complessivo come un rapporto sociale oggettivo, esistente all’in fuori di loro. Con questo
qui pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cioè cose sensibili, sovrasensibili o
sociali … E’ semplicemente il determinato rapporto sociale degli uomini stessi, che
assume qui per essi la forma fantasmagorica di un rapporto di cose. Per trovare quindi
un’analogia, dobbiamo rifugiarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Qui i
prodotti del cervello umano sembrano dotati di vita propria, e si presentano come figure
autonome entranti in rapporti con gli uomini e tra di loro. Così si comportano i prodotti
della mano umana nel mondo delle merci. Questo è per me feticismo, che inerisce ai
prodotti del lavoro, appena questi vengono prodotti come merci, ed è quindi inseparabile
dalla produzione di merci”.
(Marx, Das Kapital, libro 1, pag.38)
15) estraneazione e divisione del lavoro:
a) nell’Ideologia tedesca la causa dell’estraneità con cui gli
uomini si comportano dinanzi ai loro propri prodotti, è
rintracciata da Marx nella divisione del lavoro. Essa modifica
anche le loro “relazioni reciproche”.
b) La soppressione della divisione del lavoro eliminerà
anche ogni antitesi tra città e campagna, ogni differenza
tra lavoro spirituale e lavoro manuale.
c) Afferma perciò Löwith:
“Tale soppressione può realmente avvenire solo in una
comunità, che assieme al possesso trasformi anche la realtà
umana. Allo stesso modo, anche il Capitale non rappresenta
una semplice critica dell’economia politica, ma una critica
dell’uomo della società borghese, con un’indagine sull’economia capitalistica, la cui « cellula economica » è rappresentata dalla forma di merce del prodotto del lavoro”.
(HN,pag.239)
16) la società comunista sostituirà all’opaco pervertimento del moderno mondo di merci, la
“trasparenza” delle relazioni sociali con i prodotti del suo lavoro
“Il mondo della merce può quindi in genere essere soppresso solo con una
fondamentale trasformazione di tutti quanti i rapporti concreti di vita dell’uomo
esistente socialmente.
Al ritorno dal carattere di merce al carattere d’uso corrisponde la necessità di un
ritorno dell’uomo diventato cosa nell’uomo “naturale”, la cui natura consiste
fondamentalmente nell’essere un individuo sociale”..
(HN, pag. 242)
17) “il mondo invecchiato”:
a) Kierkegaard. e Marx rompono la conciliazione hegeliana StatoChiesa
b) “Il <<regno dello spirito>> della filosofia di Hegel diventa uno
spettro nel mondo del lavoro e della disperazione”.
(HN, pag.247)
18) la scissione e la fine del puro theorein:
“In luogo dello Spirito attivo di Hegel, interviene in Marx una teoria della prassi
sociale e in Kierkegaard una riflessione dell’agire intimo: in tal modo. entrambi si
sottraggono con la conoscenza e la volontà alla theorìa come attività suprema
dell’uomo. Per quanto lontani siano l’uno dall’altro, sono però strettamente
congiunti nell’attacco comune alla realtà esistente e nel distacco da Hegel. Ciò che
li distingue conferma anche la loro affinità, poiché entrambi rimangono saldamente
attaccati a quella scissione totale del terreno e del divino, da cui era già partito
sulla soglia del secolo XIX Io stesso giovane Hegel per la ricostituzione
dell’Assoluto come suprema unificazione dei due opposti”
(HN, pag. 248)
EXCURSUS SU HEGEL
1) la separazione da Hölderlin e l’inizio di una professione civile segna per Hegel la “virile
«unificazione con il tempo»” e stabilisce «l’alleanza con il mondo»
2) “l’opposizione continua però a costituire un «presupposto» della filosofia. L’altro
presupposto è l’unità ,in quanto scopo posto anticipatamente” (HN,pag. 249-250)
La critica della realtà presente come critica della «crisi mondiale», presuppone un possibile
accordo con ciò che è. In tal modo Hegel anticipò
“taluni aspetti capitali della critica rifatta e portata a termine da Marx; d’altro canto, le
contraddizioni che Marx credette di scoprire nelle mediazioni di Hegel sono le stesse che
già Hegel aveva conciliato […] La critica dei giovani hegeliani ripeté la crisi già
attraversata da Hegel stesso, prima del suo superamento nel sistema”
(HN,pag.250)
3) in Germania il singolo si è «spezzato» in due «frammenti», in un «particolare individuo di
Stato ed in un particolare individuo di Chiesa».
4) Come per Hegel si tratta di ricostituire nella realtà l’universalità del pensiero,così per Marx
dì dare “coscienza” al proletariato in quanto classe.
Per entrambi si tratta di «comprendere» (Begreifen) la cosa, cioè di intenderla, criticarla,
trasformarla.
Tuttavia Hegel si limita a dire, nello scritto sulla Costituzione della Germania, che:
“I pensieri contenuti in questo scritto non possono avere nella loro
espressione pubblica altro scopo e altro effetto fuor che la
comprensione di quel che è e tendono quindi a favorire l’opinione più
tranquilla e una sopportazione moderata nei contatti reali e nelle
parole. Non, infatti, ciò che è ci rende impetuosi e sofferenti ma
piuttosto il fatto che tutto non sia come deve essere; se però noi
riconosciamo che le cose stanno così per necessità, cioè non per un
arbitrio o per un caso, riconosceremo anche che così deve essere”.
La critica che Marx rivolge all’economia politica che «non comprende la coerenza del
movimento (economico)», ricalca la lezione hegeliana:
“L’economia politica parte dal fatto della proprietà privata. Non ce la spiega. Essa esprime
il processo materiale della proprietà privata, il processo da questa compiuto in realtà, in
formule generali, astratte, che essa poi fa valere come leggi. Essa non comprende queste
leggi, cioè non mostra come esse risultino dall’essenza della proprietà privata. L’economia
politica non ci dà alcun chiarimento della ragione della divisione di lavoro e capitale, di
capitale e terra»
(Marx, Manoscritti, pag. 193)
a) cfr. la critica di Heidegger che afferma la priorità del gesto interpretativo rispetto al
comprendere soggettivistico
5) Hegel accusa i Tedeschi di “disonestà” filosofica rimanendone,a giudizio di Löwith,
egli stesso vittima poiché sostiene di ”sapere cosa voglia lo «Spirito del mondo»”
(HN, pag.256).
a) cfr. Nietzsche, ”Che cos’è Tedesco?” in La gaia scienza
6) la «familiarità con l’esistenza», la Grecia e il significato della filosofia:
“L’uomo si deve poter sentire a casa propria proprio in ciò che è diverso ed estraneo, per
sentirsi egli stesso estraneo nell’esser-altro del mondo reale. Hegel ha considerato la vita greca
come il grande modello di una tale <<familiarità con l’esistenza >>, anche quando il
riconoscimento virile di quel che è gli doveva proibire la nostalgia di una situazione passata.
Ciò che fa sì che l’Europeo colto si senta a casa propria presso i Greci è il fatto che questi
ultimi si costruirono una patria nel loro mondo, e non vollero andare « oltre » e « aldilà». Essi
hanno elaborato, trasformato e rovesciato a tal punto gli inizi sostanzialmente stranieri della
loro cultura religiosa e sociale, che questa finì col costituire una loro creazione originale.
Similmente la filosofia significa <<essere a casa propria presso di sé, che cioè l’uomo si senta
a suo agio nel proprio spirito, e sia in patria quando è presso di sé>>
(HN, pag. 263-264)
7) L‘estraneità di Marx e Kierkegaard e l’apolidia di Nietzsche:
“Marx e Kierk. erano divenuti estranei al mondo in cui Hegel si era ancora «adattato ad
abitare »; essi furono al di sopra e al di là, ossia « assurdi » e «trascendenti », secondo le
espressioni usate da Goethe per indicare lo spirito futuro del secolo. infine Nietzsche non fu più
a casa propria in nessun luogo, e rappresentò un « passaggio » ed un « tramonto »: nella vita
greca egli non riconobbe più la familiarità con l’esistenza ed il senso plastico, ma soltanto il
pathos tragico e lo spirito della musica, suscitata in lui dalla modernità di Wagner”.
(HN, pag.264)
PARTE TERZA: per la discussione
1) Continuità e rottura Hegel-Marx secondo Löwith:
“Per Marx ed Engels il materialismo storico rappresentava il compimento della
filosofia hegeliana, e il movimento dei lavoratori in Germania realizzava «l’eredità
della filosofia classica tedesca ». Per quanto ciò possa sembrare a prima vista
paradossale, non è tuttavia completamente assurdo, poiché la filosofia materialistica,
quale Marx la concepì, si presenta non come semplice negazione, ma insieme come la
«realizzazione » materialistica dell’idealismo hegeliano. Il principio fondamentale di
Marx è quello stesso di Hegel — l’unità di ragione e realtà, di essenza universale e di
esistenza particolare. Nella compiuta collettività comunista ciascun individuo ha
attuato la sua particolare essenza umana come esistenza universale, di— carattere
politico-sociale. Facendo così proprio il principio di Hegel, Marx poteva dire di
rimproverare a Hegel non la sua affermazione teoretica della realtà della ragione ma
la sua mancata realizzazione pratica. [...j
La differenza tra la posizione materialistica e quella idealistica non sta quindi nel
principio, bensì nella sua applicazione. La fonte storica dell’idealismo » hegeliano è
tuttavia la tradizione greco-cristiana. Come tutto l’idealismo tedesco la sua filosofia
dello spirito si fonda sui concetto greco-cristiano del Iogos, che Hegel tramuta in uno
spirito metafisico svolgentesi nel processo storico. Ma poiché egli identifica la storia
universale con la storia dello spirito, la sua concezione della storia conserva molto
meno della sua origine religiosa che non l’ateismo materialistico. Il messianesimo
marxistico trascende la realtà esistente in modo così radicale da conservare intatta,
malgrado il sua « materialismo », la tensione escatologica e con ciò il carattere
religioso della sua intuizione della storia, mentre Hegel, per cui la fede è soltanto un
modo della ragione o del « percepire », decise al punto critico del suo sviluppo
spirituale di conciliarsi col mondo quale esso è. In confronto a Marx la filosofia di
Hegel è realistica”.
(Löwith, Sign. e fine della storia, pag71-72)
2) Marx: “sono un idealista che ha l’impertinenza di voler fare dell’uomo un uomo” (lettera a
Ruge, 1846). In ciò risiede,secondo Löwith “l’idealismo pratico” di Marx.
3) l’apolitia di Löwith e l’importanza di Spinoza, Feuerbach e Nietzsche.
4) la critica di Lukacs al libro di Löwith:
“viene compiuto per la prima volta, nella storiografia filosofica borghese tedesca, il tentativo dì
inserire organicamente nello svolgimento la dissoluzione dell’hegelismo e la filosofia del
giovane Marx. Ma già dal fatto che Löwith fa culminare questo svolgimento in Nietzsche, e
certo non nel senso di smascherarne le tendenze, appare chiaramente che egli non vede i
problemi reali del periodo trattato e quando si imbatte in essi li pone decisamente alla rovescia.
Poiché egli scorge la direzione principale semplicemente in un allontanamento da Hegel, i suoi
critici di destra e di sinistra e, in particolare,Kierkegaard e Marx, vengono a trovarsi per lui
sullo stesso piano: il loro contrasto in tutte le questioni appare come semplice diversità di temi
in un indirizzo fondamentale essenzialmente uniforme. Si comprende facilmente come con un
orientamento di questo genere Löwith veda fra gli hegeliani dei periodo della dissoluzione
(Ruge, Bauer), Feuerbach e Marx solo diversità di sfumature in una tendenza unica, non già
opposizioni qualitative […] Anche questa dunque è una notte in cui tutte le vacche sono nere”.
(La distruzione della ragione,pag. 15-16)
PARTE SECONDA
STUDI SULLA STORIA DEL MONDO BORGHESE-CRISTIANO
I. Il problema della societa’ borghese
NICOLA BOMBACE
“Voi avete fiducia nell’ attuale ordinamento della società, senza pensare che tale ordinamento è
esposto ad inevitabili rivoluzioni[…]Ci avviciniamo ad una situazione critica ed al secolo delle
rivoluzioni. Ritengo cosa impossibile che le grandi monarchie europee possano durare ancora a
lungo“. Così profetizza Rousseau . Nel suo famoso romanzo pedagogico, l‘ Emilio, Rousseau critica
l‘ uomo della società borghese come un non essere qualcosa di unitario e di totale , come un uomo
che non perviene ad unità con se stesso, ma è un privato da un lato e un cittadino dall‘altro.
Nietzsche riconosce in questa immagine “la più grande forza rivoluzionaria dell’epoca moderna “,
cifra del nichilismo europeo; in un uomo siffatto, servitore di due padroni, manca la risposta alla
domanda decisiva: “Qual è il senso, qual è il perché “. Che questa distinzione tragga la sua origine
dalla teologia cristiana è evidente dall ‘ appello che Rousseau fa all‘inizio del suo romanzo: “ ogni
cosa è buona nel momento in cui esce dalle mani dell’autore di tutte le cose, tutto degenera nelle
mani dell ‘ uomo “ . Motivo fondamentale del pensiero rousseauiano è il contrasto tra l ‘ uomo allo
stato naturale, dell ’ originario mondo adamitico, e l ‘ uomo allo stato civile. La civiltà allontana gli
uomini dalla natura, crea le diseguaglianze tra di loro e con essa tutti i mali sociali.
Nel Contratto sociale Rousseau esamina le condizioni nelle quali la comunità possa essere fondata
su basi naturali e possa rispondere ad una norma di giustizia. Il problema che qui si pone è “
trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i
beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi con tutti, non ubbidisca tuttavia che a se
stesso e rimanga così libero come prima “. Tale forma di associazione è quella che si fonda nel
contratto, col quale ciascun individuo aliena totalmente i suoi diritti al corpo sociale o politico,
esprimentesi attraverso le leggi, come “ volontà generale “. Questa non è la forma delle volontà
particolari, ma una volontà che tende all ‘ interesse comune, di guisa che l ‘ individuo ubbidendo ad
essa non subisca alcuna diminuzione della propria libertà; fuori della volontà generale egli non può
che avere interessi particolari e ingiusti. Al tempo stesso la volontà generale deve identificarsi con
la coscienza divina, e la comunità politica con la religione cristiana, unità che costituirebbe la
religione civile. In questa concezione di “ volontà generale come volontà di tutti “ si inserisce la
critica di Hegel , il quale ritiene che Rousseau intenda la volontà generale solo come volontà
complessiva dei singoli cittadini e non già come veramente universale. A differenza di Rousseau ,
il cui esame delle antinomie proprie della società borghese termina in una disperata rassegnazione (
nelle Lettere della Montagna scrive “ Le patriotisme et l ‘ humanité sont deux vertus incompatibles
dans leur énergie et surtout chez un peuple entier “ ), Hegel vede in queste antinomie la forza degli
stati moderni ( cfr. Filosofia del diritto , par. 260 ) .
Lőwith ci ricorda le lettere che Rousseau scrisse al re di Polonia : “ Non c‘ è più nessun mezzo di
salvezza se non un grande rivolgimento , che sarebbe quasi altrettanto temibile quanto il male che
esso potrebbe risanare ; costituirebbe quindi un delitto degno di punizione il desiderare
ardentemente che tale rivolgimento avvenga .” Il rivolgimento, il cui solo desiderio per Rousseau
sarebbe stato un delitto , si rivelò in Francia con tutta la sua forza e grandezza; esso sconvolse la
società d ‘ Ancien régime , con i suoi privilegi di classe e le sue regole , opponendo ad una forma
politica basata sul binomio assolutismo - aristocrazia e fondata sulla rendita agricola, una nuova
forma politica proveniente da una nuova classe sociale, la cui identità si riconosceva grazie alla
rivoluzione. Nel 1789 fu formulata la “ Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino “ , la
quale ancora oggi costituisce il fondamento di tutti gli stati democratici , e la grande vittoria dell ‘
ideologia borghese . Già nel titolo compare la distinzione tra uomo e cittadino , ragion per cui
secondo Lőwith essa appare assai più liberale del Contratto sociale , il cui fine risiede nel costituire
un modello di umanità non borghese , tentativo per altro sperimentato dal totalitarismo .
La Rivoluzione francese fu accolta positivamente da Hegel. “Da quando il sole sta nel firmamento
e i pianeti si muovono intorno a lui, non si era mai visto che l’ uomo si basasse sul suo cervello,
cioè sul pensiero, e costruisse secondo questo la realtà. Anassagora per primo aveva detto che il
νους governa il mondo ; ora però l’ uomo è giunto a riconoscere che il pensiero deve dominare la
realtà spirituale. Questa fu quindi una magnifica aurora. In quell’ epoca si è diffusa una nobile
commozione, ed un entusiasmo dello spirito ha fatto rabbrividire il mondo , come se soltanto allora
si fosse giunti ad una vera conciliazione tra il divino ed il mondo.” ( Filosofia della storia ) .
Apparsa ai suoi occhi come rovesciamento di una società non più rispondente all ‘ idea di libertà , il
limite dell ‘azione rivoluzionaria secondo il filosofo è al tempo stesso la sua forza dirompente , una
forza negativa che tuttavia non ha avuto la capacità di dare un fondamento positivo al nuovo stato .
E’ chiaro , quindi , che Hegel rigetti la dottrina del Contratto sociale , nel quale la formazione dello
stato dipende dall‘ arbitrio dei cittadini , e insieme la concezione liberale rappresentata dalla teoria
di Von Humboldt , vedendo in esse conseguenze “ che distruggono il divino in sé e per sé e l’
assoluta autorità di esso “ ( Filosofia del diritto , par. 258 – confusione di stato e società civile - ).
Nel paragrafo 260 della Filosofia del diritto Hegel dice : “ lo stato è la realtà della libertà concreta
“ , esso da un lato è per l ‘ individuo una forza esterna che lo necessita e subordina a sé , dall ‘ altro
è il suo fine immanente , come è il fine della famiglia e della società civile , i quali rispetto ad esso
sono organismi particolari e imperfetti , e da esso devono dipendere .
La Repubblica di Platone ( cfr. Filosofia del diritto , par. 185 ) e il Contratto sociale di Rousseau (
nel quale Hegel scorse soltanto l ‘ idea dei diritti dell ‘ uomo e non già quella dei doveri ) , la πόλις
antica e il cristianesimo protestante , sono i presupposti dai quali Hegel partì per innalzare la realtà
dello stato prussiano ad esistenza filosofica . Nello stato moderno avviene la conciliazione della
universalità sostanziale della πόλις antica con la singolarità soggettiva della religione cristiana ,
ovvero esso è al tempo stesso il superamento e la conservazione delle antitesi entro se stesso .
Marx ed Hegel analizzano la società borghese come un sistema di bisogni , la cui eticità si perde
negli estremi ed il cui principio è l ‘ egoismo , ma Marx non avverte effettivamente la conciliazione
tra stato e società civile espressa nel sistema hegeliano , e ritorna in un certo senso a dialogare con
Rousseau , a riproporre le ambiguità e contraddizioni della società civile ; egli critica la Filosofia
del diritto di Hegel e avvia un ‘ analisi scientifica della realtà materialmente osservata e libera da
fantasmi speculativi .
Marx scopre che i Diritti dell’ uomo e del cittadino non sono universali , ma rappresentano gli
interessi della borghesia , laddove il borghese è l ‘ uomo dell ‘ emancipazione politica del 1789 , ma
non dell ‘ emancipazione umana : “ Si è ben lontani dal concepire l ‘ uomo come essere generico “.
Per abolire le contaddizioni della società borghese , che Rousseau vedeva nella coppia bourgeois –
citoyen , Marx ritiene come unica soluzione una rivoluzione sociale, protagonista della quale questa
volta è il proletariato, classe universale che vive del suo lavoro. Essa è l ‘ antagonista vivente della
borghesia, proprietaria dei mezzi di produzione e del capitale .
Il più radicale degli ideologi borghesi è Stirner. Egli giunge a teorizzare una società di individui isolati , in cui non
soltanto le classi , ma anche l ‘ uomo in quanto tale , sono ridotti alla figura dell ‘ io e della sua proprietà. Secondo
Stirner la Rivoluzione francese ha creato un cittadino ubbidiente e bisognoso di protezione, un borghese mediocre che
vive di sicurezza e di legalità ; inoltre critica il proletariato, il quale al pari della borghesia è sottomesso alla società e al
lavoro. Stirner pensa un io " unico “ che superi ogni determinatezza sociale , risultato logico cui giunge astraendo dalla
società borghese in cui vive l ‘ inalienabile “ io “ . E proprio per questo tale soluzione non è accolta da Marx , il quale
vi vede una radicalizzazione del principio individualistico borghese .
Da Marx e da Stirner prende le distanze Kierkegaard, che concepisce un uomo singolo ,
esistente effettivamente ed in tensione verso l ‘ universalità ; ma nell’ esistenza effettiva
qualsiasi decisione pratica tradisce l ‘ universale campo delle possibilità ideali , rivelandosi
ineluttabilmente fallimentare e insoddisfacente . Pertanto la libertà dell ‘ uomo risiede nell ‘
interiorità, ovvero là dove si manifesta l ‘ autentico “ enten – eller “ . “ Il mio enten – eller ,
scrive Kierkegaard , non caratterizza il più da vicino la scelta tra bene e male , esso
caratterizza quella scelta con la quale si sceglie bene e male ovvero li si esclude “ . (cfr.
appendice )
Sancito il principio di uguaglianza tra gli uomini , non è più possibile , secondo Kierkegaard ,
governare con mezzi mondani , ma solo il martire può farlo perché , sacrificandosi , pone una
verità che sola può risolvere il problema della diseguaglianza umana . Il martire muore per la
verità e il suo atto radicale apre nella storia un varco che ne interrompe il corso istituendo il
sacro , legge eterna per tutti gli uomini .
Al protestantesimo radicale di Kierkegaard , Lőwith fa seguire la reazione radicalmente
cattolica di Donoso Cortès contro i movimenti socialisti in Francia : “ Mi guardai intorno e
vidi la società civile indebolita e malata , tutti i rapporti umani intricati e confusi ; vidi i
popoli eccitati dal vino dell ‘ indignazione e la libertà scomparsa dalla terra. Vidi tribuni
incoronati e re spodestati . Mai si offrì uno spettacolo di così grandi trasformazioni e
rivolgimenti , di tali esaltazioni ed avvilimenti. Mi sono allora posto la domanda : tutto questo
disordine non proviene forse dal fatto che si sono lasciati cadere in dimenticanza i principi
fondamentali della morale e dell ‘ ordine , difesi e posseduti unicamente dalla Chiesa di Cristo
? Il mio dubbio divenne certezza , quando riconobbi che al giorno d ‘ oggi soltanto più la
Chiesa offre il quadro di una società ordinata, che essa soltanto nella agitazione generale
costituisce l ‘ elemento moderatore , che essa soltanto è intimamente libera, che in essa
unicamente il suddito ubbidisce con amore all’ autorità legittima e dal canto suo l’ autorità si
dimostra piena di giustizia e di mitezza nei suoi comandi, che essa soltanto infine è la scuola
onde escono i grandi cittadini, dal momento che la Chiesa possiede l’ arte della vita e l’ arte
della morte , della vita che suscita i santi, e della morte che crea i martiri.[ Der Staat Gottes
Introduzione.]. Donoso Cortès , un aristocratico spagnolo di grandi capacità politiche , vide
nella Rivoluzione francese lo sconvolgimento dell ‘ ordine sociale , il caos in opposizione all ‘
ordinamento della creazione biblica ; diffidando della capacità governativa della classe
borghese , che oscilla irresoluta tra destra e sinistra ( clasa discutidora ) , Donoso Cortès
indica come via di salvezza una dittatura dall’ alto che impedisca la ribellione dal basso . Il
modello al quale deve ispirarsi questa dittatura del governo è costituito dai principi
fondamentali della morale e dell ‘ ordine della Chiesa cattolica . D ‘ altro canto Proudhon ,
che riconobbe l ‘ importanza che la Chiesa cattolica ha avuto nella storia delle nazioni
moderne , progettò un nuovo ordinamento della società dal basso .
Di provenienza aristocratica , lo storico Alexis de Tocqueville scrive : “ Io venni al mondo
alla fine di una lunga rivoluzione , che aveva distrutto lo Stato antico e non aveva fondato
nulla di durevole . Quando cominciai a vivere , l ‘ aristocrazia era già morta e la democrazia
non ancora nata . Il mio istinto non mi poté quindi determinare ciecamente a scegliere l ‘ una
oppure l ‘ altra…Dal momento che io stesso appartenevo all ‘ antica aristocrazia della mia
patria , non la odiai o l ‘ invidiai , e neppure l ‘ amai in modo particolare , quando essa fu
distrutta ; ci si stringe infatti volentieri solo a quanto è vivo . Le fui abbastanza vicino per
poterla conoscere bene , e ne rimasi abbastanza distante per poterla giudicare senza passione .
Non posso dire la stessa cosa della democrazia “. Lo studioso analizzò l ‘ età moderna col
criterio di valutazione dell ‘ antico regime ( proprio al libro di Tocqueville “ L’ Ancien
régime et la Révolution “, del 1856, si deve la fortuna del concetto storiografico di “ antico
regime “ per indicare la fisionomia distinta della società prerivoluzionaria ) . La questione da
lui posta riguarda il rapporto tra libertà e uguaglianza nelle democrazie moderne .
Tocqueville intende per libertà la dignità dell ‘ uomo responsabile di sé , come unico
contrappeso al livellamento democratico . Dalla sua analisi della democrazia europea viene
fuori che “ dacché in tali società gli uomini non sono legati gli uni agli altri da classi , caste ,
gilde o da stirpi , essi sono tanto più portati a curarsi unicamente dei loro propri interessi […]
e a restringersi in un ottuso egoismo , dove ogni virtù pubblica viene soffocata . Il dispotismo ,
anziché combattere questa tendenza , la rende piuttosto irresistibile ; esso toglie infatti ai
cittadini ogni aspirazione comune , ogni rapporto reciproco , ogni necessità di consigliarsi in
comune . Essi erano già propensi ad isolarsi : il dispotismo li riduce alla solitudine e li chiude
nelle mura della vita privata . “ (L’ Ancien régime …) Una democrazia perde ogni valore
quando rende soltanto uguali senza produrre libertà , l‘uomo borghese al prezzo della libertà
si compra una vita mediocre , un benessere medio ma sicuro .
Sorel è dell ‘ opinione che la democrazia borghese manchi della virilità e delle virtù guerriere
che avevano distinto le democrazie cittadine dell ‘ antichità. Disprezzando i cinici successi
della borghesia capitalista , Sorel fonda le sue speranze nella classe proletaria , serbatoio di
istinti sani e di forza creativa , dotata principalmente di virtù guerriere . Nella “ Réfléxions
sur la violence “ egli esprime la convinzione che solo una grande guerra può evitare il fatale
appiattimento della società borghese , portando al potere una classe di uomini dominatori .
Tale posizione ha evidentemente una analogia col pensiero di Nietzsche , per il quale “ le
stesse nuove condizioni , per cui di regola… l ‘ uomo andrà facendosi mediocre , cioè un
animale del gregge, utile , lavoratore […] abile , soprattutto in sommo grado appropriate per
dare origine all ‘ uomo d ‘ eccezione dalle qualità più pericolose ed attraenti […]. Il processo
verso la democrazia dell ‘ Europa è al tempo stesso un ‘ involontaria organizzazione per
educare dei tiranni.”
II. Il problema del lavoro.
WALTER SILANO
Lavoro e cultura nel XIX secolo hanno costituito la sostanza della società borghese. Il lavoro è
diventato la forma di esistenza del “salariato” e il “possesso” della cultura il privilegio
dell’intellettuale.
Tanto la netta separazione di lavoro e cultura in due estremi che si condizionano a vicenda
(l’aspirazione dei lavoratori fu di appropriarsi i privilegi della cultura borghese, mentre gli
intellettuali non poterono fare a meno di considerasi dei “lavoratori” spirituali”, per non lasciar
apparire come un’ingiustizia il loro privilegio), quanto il loro livellamento sul piano di una cultura
popolare media testimoniano il fatto che il lavoro nella sua attuale situazione non educa l’uomo in
quanto tale.
Il lavoro si è acquistato con grande lentezza la sua validità sociale.
Secondo l’originaria concezione cristiana il lavoro non è in sé un’attività meritoria, ma rappresenta
la conseguenza e la punizione del peccato. Soltanto nel protestantesimo venne alla luce quella
valutazione cristiana del lavoro mondano, classicamente rappresentata da B. Franklin. Tale
mondanizzazione ha fatto trionfare la valutazione borghese del lavoro come attività che riempie di
senso la vita umana, e tale valutazione è da allora dominante.
L’uomo borghese non solo deve lavorare, ma vuole lavorare, il lavoro non rappresenta per lui solo
un comportamento ascetico che tiene lontano dai vizi dell’ozio e della dissolutezza, ma diventa la
fonte di ogni virtù e gioia.
Questo sdoppiamento del significato del lavoro, ripercorribile anche sul piano della storia del
significato della parola, non ne esaurisce tutta l’essenza. Il lavoro appartiene piuttosto
semplicemente all’essere dell’uomo, in quanto significa in genere ‘essere attivo nel mondo’.
In questo significato pieno ed originario il lavoro è stato inteso per l’ultima volta da Hegel. Per lui è
il modo fondamentale con cui l’uomo produce la sua vita, dando inoltre una forma al mondo.
C. Rössler e A. Ruge: il lavoro come appropriazione del mondo e come liberazione dell’uomo.
Il Rössler , ricollegandosi a Hegel, concepisce il lavoro come un processo di appropriazione. Egli
distingue una duplice specie di appropriazione.
La prima trasforma immediatamente per sé la natura, è limitata a ogni singolo essere vivente, senza
risultare comunicabile. L’uomo ha in comune con l’animale questa prima specie di appropriazione.
La seconda è mediata, poiché viene realizzata attraverso strumenti meccanici e non. Questi sono
scambiabili e comunicabili, e trasformano la natura in un mondo oggettivo appartenente all’uomo.
Ciò che Rössler chiama “lavoro” è proprio la produzione di questi strumenti.
Il lavoro quindi disciplina l’istinto naturale, superandolo e oltrepassando tutti i bisogni
individuali. Il soddisfacimento del lavoro non consiste in un godimento separato da esso, quindi
nella soddisfazione dei bisogni individuali, ma nella realizzazione della stessa forza appropriativa.
Soltanto nel cristianesimo si ha il dispiegamento storico del lavoro, in quanto forza appropriativa
spirituale e etica; tutte le religioni precristiane
hanno conosciuto il lavoro solo come mezzo
subordinato ad altri scopi e non già come fine a se stesso. Tuttavia solo il protestantesimo ha
liberato il lavoro considerandolo come un momento etico e pieno di dignità nel complesso della vita
umana.
Il risultato del lavoro libero e comune è costituito dai “valori generali d’uso”.
La società civile fonda, attraverso il lavoro, anche un’appropriazione delle personalità, cioè
determina ciascuno, per quanto non nella sua totalità, a diventare un collaboratore per i fini comuni
della produzione sociale, e cioè a diventare un lavoratore.
Da ciò Rössler si attendeva, nonostante la sua polemica contro il socialismo, una generale libertà e
cultura fondate sul lavoro di tutti.
Il Ruge, nella sua trattazione della storia della filosofia, ha considerato il lavoro come il risultato
della storia dello Spirito. Per lui Platone, Aristotele ed Hegel hanno compiuto le più grandi
rivoluzioni, ma per timore delle conseguenze pratiche della loro liberazione dello Spirito hanno
apposto un argine alla dialettica progressiva del pensiero con le loro caste sociali, con i loro
guardiani dello stato e con le loro classi.
La storia effettiva dello Spirito e di tale liberazione , però, ha spezzato questi limiti ed ha fatto del
lavoro un principio universale.
Il lavoro si unifica alla cultura , perché secondo Ruge è per su stessa natura formativo.
“ Noi sappiamo ora che nessun lavoro disonora , che esso soltanto fa progredire e libera l’umanità ; Hegel stesso ha …
mostrato come lo schiavo possa dominare il suo stesso padrone con il lavoro. Per nobilitare ogni lavoro è soltanto
necessario sviluppare i concetti, e scorgere cosa sia e cosa produca il lavoro. Esso rinnova ogni giorno l’umanità”
(citato da Löwith, pag. 406).
Ruge inoltre, spiega la storia della filosofia dal punto di vista del lavoro divenuto universale,
ed in questa ottica vede il punto più alto da questa raggiunta nella “politeia” aristotelica. La
repubblica degli U.S.A. rappresenta, per lui, l’ultima incarnazione di questa idea di una polis,
in cui ogni cittadino è autonomo e attivo in quanto lavoratore. Però questo carattere creativo
del lavoro fu colto solo limitatamente da Hegel, e non fu visto affatto da Aristotele.
“Sebbene Aristotele scorga la necessità del lavoro per lo Stato, egli ne disconosce il carattere
creativo e la nobiltà che plasma e libera il mondo. Ignora che il lavoro supera e foggia il
mondo esterno e quello umano, e che esso non fa ciò come semplice vita, ma spirito pensante,
determinando un’autoliberazione. Il lavoratore non è un animale ma un uomo pensante. Il
concetto di attività volgare non inerisce più al lavoro , non appena lo si colga
e lo si
comprenda soltanto come attività che penetra ogni cosa creativamente. Attraverso il lavoro
degli artigiani e degli artisti
lo spirito giunge se stesso nella sua alterità , e attraverso alla
scienza esso giunge a sé nel suo proprio elemento. Aristotele invece elimina le due cose dallo
stato : il lavoro della società civile sta al di sotto e il lavoro della filosofia sta al di sopra dello
Stato, mentre in realtà il primo costituisce il cuore e il secondo il cervello dello Stato stesso”(
citato da Löwith pagg. 406 – 407).
Per Ruge il lavoro , in quanto attività che libera l’uomo pensante , è la più sostanziale
conferma della natura particolare dell’uomo, è l’unica attività che redime e rende felici:
“Soltanto il lavoratore fa della società civile una società umana; ogni formazione della natura
e dello spirito è opera sua ; egli è il padre dell’uomo”.
Ruge sviluppa il suo concetto di lavoro in antitesi alla ristrettezza di quello economico.
Infatti per lui il principio dell’economia è soltanto il valore, astrattamente rappresentato dal
denaro ; mentre il principio della sua società del lavoro non consiste semplicemente nella
produzione del valore, ma attraverso questo nella produzione dell’uomo e della società stessa
nel mondo naturale.
La giustificazione del socialismo di fronte all’economia politica sta nel fatto che questo
media gli interessi particolari con quelli universali e si propone come fine lo spirito comune,
mentre l’economia politica si limita al sistema dei bisogni egoistici , trascurando il lato umano
e spirituale della società civile.
Ruge è critico, infine, anche nei confronti di Hegel, che a suo parere non coglie lo spirito
della società civile, trascurando nella sua dottrina delle tre classi quella che è la vera classe
universale ossia la classe dei lavoratori.
Nietzsche : il lavoro come dispersione del raccoglimento e della contemplazione.
Nietzsche solo occasionalmente affronta il problema del lavoro nella vita dell’uomo. In queste
occasioni, comunque, il lavoro per lui non costituisce più una forza plasmatrice del mondo ed
educatrice dell’uomo, ma è sentito solo come affanno e come peso. Essendo la pesantezza il
carattere essenziale del lavoro, l’uomo è spinto ad alleggerirsi da questo peso gettandosi in facili
piaceri ed esaurendosi nello svago , appena non abbia più da lavorare.
L’affannarsi del lavoro e la ricerca di godimento sfrenato sono due aspetti di una medesima realtà :
una società frenetica che non ha più spazio per la contemplazione e per l’ozio.
“ Ci si vergogna ormai del riposo; il riflettere a lungo su qualcosa suscita quasi dei rimorsi di coscienza . Si pensa con
l’orologio alla mano, e a mezzogiono si mangia con l’occhio rivolto al listino di borsa: si vive come temendo
continuamente di poter tralasciare qualcosa. Meglio fare qualsiasi cosa che nulla : questo principio è adattissimo a dare
il colpo di grazia ad ogni cultura e a ogni gusto raffinato….” (citato da Löwith, pag. 428)
Eppure la tendenza alla contemplazione ha le sue radici tanto nell’ethos antico che in quello cristiano. Soltanto
l’affannosa laboriosità del mondo moderno è riuscita a dissolvere la gerarchia tra otium e labor, e tra raccoglimento
cristiano e attività terrena; essa inoltre ha contribuito più di ogni altra cosa all’incredulità e al dissolvimento della vita
religiosa.
“Tra coloro che per esempio ora in Germania vivono staccati dalla religione , trovo uomini di vario genere …, anzitutto
però in maggioranza individui la cui laboriosità ha spento di generazione in generazione gli istinti religiosi : costoro non
sanno più a cosa servono le religioni, e registrano soltanto con una specie di ottuso stupore la loro presenza nel
mondo….” (citato da Löwith, pag. 429)
Anche la vita degli studiosi è stata stravolta da quando anche la ricerca scientifica è diventata un anello nella catena
del lavoro senza riposo.
Tutto ciò ha gettato l’uomo del mondo borghese nell’ansia e nella disperazione. L’apparente modo di risollevarsi è
lavorare, rinunciare alla propria individualità per sentirsi parte di un grande meccanismo: la “maledizione del lavoro” è
diventata la “benedizione del lavoro”.
“Nella glorificazione del lavoro, nell’instancabile discorrere che si fa della “benedizione del lavoro”, io vedo lo stesso
pensiero nascosto che nella lode degli atti altruistici di utilità comune. Tale pensiero è il timore di ogni realtà
individuale. In fondo si sente ora … che un tale lavoro rappresenta la miglior polizia,che esso tiene tutti soggiogati ed è
in grado di impedire poderosamente lo sviluppo della ragione, del desiderio violento, del gusto dell’indipendenza”
(citato da Löwith, pag. 430).
Per Lowith soltanto spiriti rari come Nietzsche e Tolstoj hanno riconosciuto il falso pathos e l’implicito nichilismo
che caratterizza la concezione del lavoro nel mondo borghese – cristiano, una valutazione di cui un classico apologeta
fu Emile Zola.
Lowith alla fine del discorso precisa che la considerazione del lavoro come fine
a se stesso non è solo una
caratteristica della società industriale dell’epoca borghese, ma si applica per la prima volta nel suo pieno significato al
popolo dello stato totalitario, il quale attribuiva al lavoro uno scopo apparente , che in realtà non poteva che essere la
guerra, e conclude dicendo :
“Anche questo sviluppo è stato visto anticipatamente dall’autore della Volontà di potenza : “Sull’avvenire del
lavoratore: i lavoratori dovrebbere imparare a sentire come soldati. Ad essi spetta un emolumento, un soldo, non già una
retribuzione”. Dal memento per altro che Nietzsche concepiva l’ “addestramento” delle masse solo come mezzo per
scopi superiori , egli potè anche domandarsi nei riguardi della “schiavitù del presente”: “ Dove sono coloro, per cui essi
lavorano?”.” (pag. 431 )
IV. Il problema dell’umanità
FABRIZIO CARLINO

Hegel. L’essenza vera e universale dell’uomo è lo Spirito. Per il cristiano l’uomo è,
nell’ottica hegeliana, universale, infinito e incondizionato. Ma se l’uomo in questo senso
teologico è spirito, l’uomo nel suo senso “antropologico”, che gli verrà dato da Feuerbach in
poi, è solo il bourgeois, il soggetto dei bisogni. L’umanità non è ancora un problema in
quanto è intimamente connessa al cristianesimo.
 Feuerbach. L’essenza dell’uomo è l’uomo corporeo. C’è una prima frattura, dovuta alla
separazione tra cristianesimo e umanità, al passaggio dalla teologia filosofica di Hegel
all’antropologia, dalla filosofia dell’infinito a quella della finitezza. Il soggetto di ogni
possibile predicato è l’uomo in carne ed ossa. Resta nell’ambito del protestantesimo perché
umanizza Dio, sostituisce il cristianesimo con l’umanità, ottenendo una concretezza formale
e un’astrattezza dei contenuti.
 Marx. L’essenza universale del vero uomo della società comunista consiste nell’essere un
soggetto di bisogni. Si deve distinguere l’attuale uomo alienato dall’uomo onnilaterale
comunista. Il primo è scisso tra pubblico e privato, tra valore e forma naturale, tra materia e
spirito. Solo il proletariato, che vive il massimo di alienazione, può portare a compimento
l’emancipazione umana e quindi a superare l’attuale scissione dell’uomo.
 Stirner. L’uomo di Feuerbach, Bauer e Marx viene radicalmente criticato come ultimo
travestimento della fede cristiana. Stirner intende l’uomo come reale, singolo, in carne ed
ossa, l’io che dice io, che basta a se stesso e si fonda sul nulla. Questo io è per Stirner la fine
nichilistica dell’umanità cristiana ed è in realtà una ulteriore frattura, più profonda delle
precedenti, nel concetto di umanità del mondo borghese-cristiano.
 Kierkegaard. Si oppone sia all’umanità elevata a principio da Ruge, Feuerbach, Marx, sia
all’io nudo di Stirner, proponendo un ritorno al cristianesimo delle origini. Criticando
radicalmente l’uomo cristiano-borghese del suo tempo, concepisce l’uomo come singolo di
fronte a Dio, un singolo nel quale però - a differenza di Stirner- emerga ciò che è
universalmente umano. Si conserva quindi, anche se nell’ eccezione del singolo, il concetto
di universalità dell’uomo. “Vi sono così tre eccezioni che contraddistinguono ancora
l’essenza universale dell’uomo, nella dissoluzione della realtà sussistente: la massa del
proletariato che si contrappone alla società borghese (Marx), l’io che si allontana da ogni
comunità (Stirner) e la personalità che si stacca dal cristianesimo positivo. Queste tre
eccezioni costituiscono ancora, nel dissolversi dell’umanità borghese-cristiana, l’essenza
universale dell’uomo.” (pag. 474)
 Nietzsche. Rappresenta, insieme a Stirner, la frattura più profonda nel concetto di umanità
borghese-cristiana. C’è anche in Nietzsche un’intima connessione tra umanità e
cristianesimo: il superuomo compare con la morte di Dio. Alla liberazione da Dio
corrisponde un superamento dell’uomo, dell’ultimo uomo, umanitario e spregevole. Il
mestiere dell’uomo senza Dio, che non ha più bisogno di felicità, ragione, virtù, giustizia,
cultura, pietà, sarà il pericolo, la sua unica missione; un uomo che si appoggia sul nulla,
sospeso nel vuoto. Contro l’umanità cristiana e l’idea dell’uguaglianza degli uomini si rifà
all’antichità.
Oggi, con la dissoluzione dell’umanità cristiana che aveva distrutto l’armonia greca, ci troviamo di
fronte alla difficoltà di pensare l’umanità, se non come ‘uomo senza qualità. Ma l’umanità non è un
pregiudizio, fa parte della natura dell’uomo e va quindi rifondata.