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LA LEZIONE
Una definizione problematica
Raggruppare le forme di pensiero sviluppatesi in un
immenso arco temporale nelle aree di cultura indiana, cinese
e giapponese sotto la voce ‘Filosofie orientali’ costituisce
un’opera di eccessiva semplificazione. Tale approccio, per
altro, non diventa molto più preciso nel delimitare la ricerca
sulle singole aree regionali (India, Cina, Giappone), data la
grande varietà di popolazioni e di vicende che in esse si sono
succedute. La stessa parola con la quale si definiscono certe
forme di espressione del pensiero ‘filosofia’ non trova
corrispondenza nelle lingue locali.
Un aspetto che caratterizza nel presente tutti e tre i casi in
esame è che il pensiero che si sta elaborando in questi paesi
non prescinde – come accade purtroppo in Occidente – da che cosa pensi o abbia
pensato l’altra metà del mondo, ma utilizza i metodi e gli strumenti elaborati dalla
tradizione mediterranea-europea-anglosassone per riappropriarsi in chiave moderna
delle proprie tradizioni allo scopo di affrontare i problemi globali del presente. Ne sono
esempi viventi, soprattutto per la questione dei diritti e dell’etica ambientale, in India
Vendana Shiva e in Giappone Tomonubu Imamichi e Shizuteru Ueda.
India: l’Oriente più vicino
La cultura filosofica indiana è la più antica del mondo, poiché le Upanishad
rappresentano un contributo maturo di riflessione già attorno al IX-VIII secolo a.C. Le
tradizioni indiane poi proseguirono secondo un ritmo di riforma, innovazione,
restaurazione delle forme prevalenti dell’induismo. Il buddhismo (apparso nel VI
secolo a.C. e poi dilagato in tutta l’Asia prima di essere conosciuto e praticato anche in
Occidente a partire dal XIX secolo), il giainismo e la scuola Chārvakhā, rifiutarono
la tradizione dei più antichi testi sacri, i Veda (i più antichi testi arii, attribuiti anche al
XX secolo a.C.). Al contrario, le sei darshana (“visioni [del mondo]”, termine più
affine in sanscrito all’espressione ‘filosofia’), le scuole di pensiero ortodosse, si
ricollegarono alle ispirazioni vediche: la letteratura Vedānta (nella quale si
configurano le interpretazioni più strettamente legate alla tradizione induista), la
logica della scuola Nyaya, la fisica dei Vaisheshika, la metafisica del Samkhya,
lo Yoga e infine il Purva Mimamsa (che pratica l’esegesi dei testi vedici).
La straordinaria ricchezza culturale del pensiero indiano, della quale questa
rappresenta una lista molto sommaria, incontrò l’Occidente in più occasioni (i greci
spesso nominano sapienti orientali chiamati ‘ginnosofisti’, sapienti nudi), ma l’impatto
del colonialismo britannico del XVIII-XIX secolo fu certamente l’evento più
condizionante. Da allora in poi, i membri delle famiglie agiate indiane iniziarono a
occidentalizzarsi studiando nelle università inglesi o americane. Le due figure eponime
del ’900 indiano, Gandhi e Tagore, studiarono in Inghilterra e, per quanto la loro
posizione fosse diversa (indipendentista e fautore del ritorno alle origini il primo,
cosmopolita e sostenitore dell’integrazione di Oriente e Occidente il secondo),
contribuirono entrambi in modo essenziale alla causa della ripresa nazionale.
La filosofia nella Terra di Mezzo
La Cina ha sempre chiamato se stessa Zhōngguó, ‘Paese Centrale’, a rafforzare l’idea
di essere il perno del mondo. L’incontro tra il pensiero cinese e quello occidentale non
avvenne tanto per merito di Marco Polo quanto, tre secoli più tardi, grazie al gesuita
Matteo Ricci (1552-1610). Fu Matteo Ricci, per esempio, a latinizzare il nome di
Kŏngfūzĭ in Confucio e a tentare la divulgazione del cristianesimo e del patrimonio
filosofico occidentale in Cina. Nonostante i meriti di Matteo Ricci, l’incontro tra Oriente
e Occidente in Cina fu soprattutto legato agli scambi commerciali e dopo le due
Guerre dell’Oppio (1839-1842 e 1856-1860) gli europei imposero ai cinesi
condizioni di subordinazione. La situazione appare oggi profondamente mutata, con la
Cina, divenuta superpotenza economica, nuovamente capace di affermare anche a
livello artistico e culturale il proprio orgoglio identitario, come tutti hanno potuto
vedere in occasione delle Olimpiadi di Pechino e dell’Esposizione Universale di
Shangai. Oggi nella raffigurazione identitaria cinese c’è una spolverata di look
occidentale consumistico, ma è nel marxismo della tradizione politica ufficiale
che la filosofia europea si è radicata. Il marxismo di Stato si è coniugato con le
tradizioni più antiche: il confucianesimo che per secoli ha rappresentato l’ideologia
della burocrazia imperiale e il legalismo (fondato nel III secolo a.C. da Han Fei Zi),
ossia visioni del mondo che incoraggiavano la disciplina e l’obbedienza al potere e
contro le quali proprio il marxismo fu visto come l’antidoto moderno. Dopo il
periodo più strettamente legato ai tentativi di Mao Zedong di sradicare le tradizioni o
assimilarle alle forme del comunismo, negli anni recenti il taoismo sta conoscendo
una rinascita e in Occidente ne sono arrivate delle versioni ‘trendy’, come la
geomanzia del Feng shui.
Il Giappone e la rivoluzione scientifica europea
Il Giappone incontra l’Occidente attorno al XVII secolo, in particolare grazie a
navigatori e mercanti olandesi. Cina e India avevano stabilito da più tempo i primi
contatti con gli europei, direttamente (come nel caso dell’impresa di Alessandro
Magno o i viaggi dei Polo) o indirettamente (attraverso mercanti arabi, persiani, turchi
ecc.). Ma il Giappone era rimasto impermeabile ai contatti con l’Occidente fino all’età
delle grandi navigazioni oceaniche. Nonostante la diffidenza con la quale i giapponesi
si ponevano in relazione con gli stranieri, specialmente quelli provenienti da così
lontano, caute forme di apertura accolsero le conoscenze esibite dai nuovi ospiti. Il
termine che venne coniato per queste conoscenze fu ‘rangaku’, letteralmente ‘scienze
olandesi’, visto che prevalentemente dalle Province Unite provenivano i soli mercanti
autorizzati a effettuare scambi con il Giappone durante l’epoca di chiusura
all’Occidente dello shogunato dei Tokugawa (1641-1853). Il carattere non naturale e
spontaneo di questo contatto era sottolineato anche dal fatto che l’avamposto
commerciale olandese (inizialmente costruito dai portoghesi) era l’isolotto artificiale di
Dejima, nella baia di Nagasaki. Con il nome di rangaku il sapere occidentale si diffuse
non tanto per una vocazione esterofila (che fu invece il tratto caratteristico della
successiva era Meiji) quanto per l’indiscutibile efficacia pratica delle tecniche e
delle conoscenze che derivavano dalla recente rivoluzione scientifica
europea. A titolo di esempio, solo nel 1774 venne divulgata la teoria copernicana
da Motoki Yoshinaga e dieci anni dopo Shizuki Tadao rese nota ai connazionali la
legge gravitazionale newtoniana. La prima esposizione del pensiero occidentale da
Talete a Kant venne realizzata da Takano Choei nella prima metà dell’Ottocento e qui
apparve la prima proposta di traduzione del termine ‘filosofia’ con ‘gakushi’,
ossia ‘sapere fondamentale’. Prevalse invece, alcuni anni più tardi, la proposta
avanzata da Nishi Amane che suggerì il termine ‘tetsugaku’, composto da due
simboli kanji: ‘tetsu’ (saggezza) e ‘gaku’ (scienza). Si può notare come in
entrambi i casi non appaia nella traduzione il legame con il termine ‘amore’. Con Nishi
Amane il Giappone era appena entrato nell’era Meiji (1868-1912), l’epoca della
modernizzazione, e nulla appariva di più ‘moderno’, agli occhi della nuova élite
nipponica, della filosofia occidentale.
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