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filosofie
Nel moNdo
a cura di Virgilio Melchiorre
i GRANdi TAsCABili
BomPiANi
ISBN 978-88-452-7547-0
© 2014 Bompiani/RCS Libri S.p.A.
Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano
I edizione Bompiani aprile 2014
L’editore si rende disponibile ad assolvere i propri impegni nei confronti
dei titolari di eventuali diritti sui contributi pubblicati.
Presentazione
Il nostro tempo vive ormai nel nome della globalizzazione,
che però procede sempre più a senso unico ed è in tal senso
contrassegnata, più che mai, dalle interconnessioni delle economie, delle iniziative finanziarie, degli apparati produttivi.
Si suole ripetere che il tempo insano delle ideologie è finito e
che la misura della buona civiltà va cercata appunto nella concretezza e nello sviluppo della produzione, nell’ampliamento
equilibrato dei mercati e dei consumi. C’è però da chiedersi
se l’indicazione di questa misura non sia essa stessa una proiezione di carattere ideologico, sotto il profilo di un primato
puramente economico della vita. E c’è ancora da chiedersi
se in questa prospettiva non si tenda, di fatto, ad azzerare la
ricchezza di quelle tradizioni di pensiero per le quali il benessere economico andava invece assunto come un mezzo e non
come un fine. D’altra parte, le ricorrenti contraddizioni dei
mercati e delle imprese, le pericolose ferite e i conflitti che ne
discendono non soltanto nel cuore degli assetti civili, ma anche e più profondamente nel rapporto con il mondo della vita,
invitano a ripensare la legittimità di una monocultura ideologica qual è appunto quella che sembra accamparsi nel primato dell’homo aeconomicus. Si avvertirebbe allora che questo
ripensamento non potrebbe darsi senza richiamarsi proprio
agli orizzonti fondativi delle diverse tradizioni: orizzonti che
possono ricomprendere e segnare nel bene o nel male lo stesso destino della vita economica, orizzonti largamente elusi e
che tuttavia sono pur sempre fungenti nel fondo delle divisioni o degli accordi possibili. Senza questo richiamo i processi
di globalizzazione resterebbero privi di orientamento e inevi-
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PrESEntazIonE
tabilmente abbandonati all’incontrollata legge dei mercati e
delle appropriazioni.
Questo volume nasce appunto dall’esigenza di risalire alle
fonti delle diverse civiltà. Si è pensato di raccogliervi a confronto alcune voci già presenti nella recente Enciclopedia filosofica, curata per le edizioni Bompiani dal Centro di Studi
Filosofici di Gallarate: voci volte a delineare proprio gli orizzonti fondativi delle più significative tradizioni culturali. Le
abbiamo aggiornate, ove occorreva, e le abbiamo integrate con
voci nuove.
Il titolo della raccolta, Filosofie nel mondo potrebbe sembrare inadeguato, se il termine “filosofia” venisse inteso com’è ora
consueto nella cultura di matrice europea, ovvero nel senso di
una scienza meramente speculativa, chiaramente distinta da
quelle visioni sul senso dell’essere che pur attraversano altri
contesti spirituali, quali possono essere i linguaggi e i pensieri
che spesso fanno tutt’uno con le religioni storiche o con i luoghi
alti della poesia. In effetti questa distinzione non è ricorrente
di là dall’emisfero di matrice greco-latina. Si pensi, ad esempio
e in prossimità, al sentire contemporaneo del mondo islamico
per il quale la parola “filosofia” non si riferisce propriamente
né a un metodo né a un sistema e, in effetti, ha un significato
molto ampio, inclusivo sia di uno statuto religioso, sia di un
pensiero socio-politico, sia ancora di un pensiero scientifico
secolare. Così, nelle società arabo-islamiche l’attributo di “filosofo” viene oggi assegnato genericamente a qualsiasi pensatore
che si sia distinto per un pensiero particolarmente complesso
e ricco, benché non necessariamente “filosofico” nel senso per
noi più abituale del termine. La parola “pensiero” sembrerebbe in questi casi più appropriata e più onnicomprensiva. Cosa
dire poi su altri fronti come quello della filosofia africana,
dove un pensatore come John Mbiti ha potuto contrapporre
all’“Io penso dunque sono” di Cartesio il principio “Io sono
perché noi siamo”? Una sentenza declinata ben diversamen-
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te da quella che, ad esempio e sullo stesso tema, Emmanuel
Mounier aveva formulato ancora in termini cartesiani: “Videor
ergo sum”. Che ne è allora dell’esperienza del cogito quale luogo fondante della filosofia nel moderno occidente?
Il nostro titolo sembra dunque inappropriato o preclusivo?
Si noti peraltro che la stessa parola “filosofia” risulta a volte
persino assente in contesti culturali diversi dal nostro. ne va
così nuovamente del nostro titolo? La risposta può forse venirci da un caso fortemente emblematico, qual è quello del
Giappone. Come leggiamo nella voce redatta da Giuseppe Jisō
Forzani, quando parliamo di “filosofia giapponese” dobbiamo
tener presente che prima del 1862 una disciplina del genere
non era neppur praticata. Solo in seguito, con l’intensificarsi
delle relazioni fra Giappone e occidente, i giapponesi hanno
ritenuto opportuno creare a poco a poco un gran numero di
neologismi per assumere in proprio una disciplina filosofica.
Il termine tetsugaku, che ora traduce “filosofia” è al riguardo
largamente significativo. Gli ideogrammi che lo formano (tetsu e gaku) non corrispondono propriamente alle componenti
del nostro termine, philo e sophia. Tetsu, preso a sé, vuol dire
vivacità intellettuale, prontezza d’ingegno, chiarezza mentale;
gaku significa insegnamento, studio, sapere. Ma l’abbinamento dei due termini, ripensato con particolare attenzione alla
tradizione buddhista è ormai assunto per dire d’una ricerca
sui fondamenti dell’esistenza, sul principio primo dell’essere.
Da questo lato non siamo lontani dalla tradizione occidentale
e il termine “filosofia” può ben ritornarci come comune, se
solo si risalga per analogia alle origini stesse del pensiero occidentale, dai presocratici a Platone, quando la filosofia come
scienza speculativa manteneva pur sempre un suo nesso con le
intuizioni della vita poetica e con la stessa mitografia religiosa.
Il nostro titolo, Filosofie nel mondo, non sembrerà allora inappropriato, solo che lo si intenda per dire d’un pensare diversamente volto, per intuizione o per argomentazione, alle radici
stesse dell’essere, ai fondamenti primi dell’esserci.
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In questa direzione sarà possibile chiedersi se i diversi
orientamenti vanno letti come differenze essenziali o piuttosto
come modulazioni alterne di una possibile ecumene sapienziale. Citiamo, ad esempio, le vie seguite recentemente dalla
Scuola giapponese di Kyoto, dove la tradizione orientale viene
riletta alla luce del pensiero heideggeriano e dove, per contro,
lo stesso Abgrund di Heidegger viene inteso nel modo di un
“nulla assoluto”, con una ripresa sul filo del pensiero buddhista e insieme con incisivi richiami a Eckhart e a Cusano. Che
dire allora del rilievo fatto, nel suo contributo, da Brian Shūdō
Schroeder per il quale la “differenza principale tra la metafisica occidentale e quella orientale consiste nel fatto che l’occidente inizia con la domanda circa la natura dell’essere laddove in oriente la questione guida riguarda lo statuto del nulla
o della vacuità”? La distinzione non era già presente anche
nell’occidente della mistica eckhartiana e, prima ancora, nei
percorsi del neoplatonismo a fronte del pensiero parmenideo
o di quello aristotelico? Sono domande che, di nuovo, ci riportano all’incrocio di differenze che infine sono anche delle
reciprocità.
ancora per esempio e alle radici della tradizione cinese, ritroviamo l’insegnamento del Laozi col suo richiamo al Dao,
quale natura incondizionata del Principio: “Per quanto riguarda il Dao, il Dao di cui si può parlare non è il Dao eterno. Per
quanto riguarda il nome, il nome che può essere nominato
non è il nome eterno”. Viene da pensare, in occidente, allo
pseudo Dionigi l’areopagita per il quale alla Causa di tutte
le cose non si addice alcun nome e tuttavia a essa pur si addicono tutti i nomi delle cose che sono. Siamo di nuovo a un
possibile incrocio delle tradizioni? Si faccia un altro esempio,
che forse permette un confronto ben più ardito. Ci è suggerito dalla voce curata da alfredo Cadonna e, in particolare,
dove, nell’area del neoconfucianesimo, ci ritorna la parola di
Shao Yong: “Ciò che chiamo contemplazione delle cose non è
un contemplare per mezzo degli occhi. no, è un contemplare
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per mezzo del Cuore (xin). anzi, più che un contemplare per
mezzo del Cuore è un contemplare per mezzo del Principio
stesso (li)”. Viene da pensare a quel passaggio trascendentale
dell’aristotelico De anima, dove si dice dell’Intelletto agente
quale originaria condizione di ogni conoscenza: fonte che tutto produce nell’anima, come la luce che fa apparire i colori;
“atto per essenza”, purezza immortale ed eterna senza la quale
“non c’è nulla che pensi”. Ma non anticipiamo i molti possibili confronti, le assonanze e le differenze che il lettore potrà
avvertire nella lettura delle voci raccolte in questo volume: un
compito essenziale per risalire alle matrici delle culture e per
non consegnare la globalizzazione al puro gioco dei soli conflitti o delle convergenze economiche.
Sulla via del confronto il lettore potrebbe, a prima vista, meravigliarsi di non incontrare voci che ripercorrano il corso del
pensiero occidentale. Si tratta, in effetti, di una mancanza voluta: qualunque voce, per i limiti di spazio che le si potevano consentire, sarebbe risultata a questo riguardo superficiale o comunque inadeguata per un lettore abituato alla ricchezza delle
correnti storie della filosofia occidentale. È sembrato così più
opportuno chiedere un diverso contributo a due noti studiosi, l’uno dell’area “continentale” (Ugo Perone), l’altra dell’area
“analitica” (Franca D’agostini). Si trattava, in definitiva, di
individuare a larghi tratti i paradigmi essenziali del pensiero
occidentale, dalla Grecia all’età cristiana, sino alla modernità
incontrata nella sua problematicità, ma anche nei suoi esiti possibilmente positivi. L’analisi di Perone perviene, alla fine del
proprio percorso, ai paradigmi della finitezza e della temporalità: modi essenziali dell’esserci che la modernità ha posto in
campo in modo decisivo, modi “irrecusabili”, che però precipiterebbero nell’insignificanza se non si offrissero come il campo più proprio per riproporre la questione del senso e del fondamento. “Ciò che per noi rimane essenziale – scrive Perone – è
che l’essere, comunque esso debba essere detto, non può essere
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attinto direttamente, ma solo entro l’orizzonte dell’ente (il tema
della finitezza) e, ancora, che l’essere, comunque esso debba essere detto, non può essere detto come a-temporalità (il tema del
tempo).” Si ripropone in tal modo ancora una volta il teorema
metafisico, ma in modo che a un tempo diventa fondativo di
una prospettiva etico-politica: da un lato un orizzonte di senso, dall’altro luoghi di concreta significazione che a loro volta
si danno come manifestazione e partecipazione di una radice
metafisica. “In quest’orizzonte di senso, che permane generalissimo, ma non per questo privo di forma, diverse soluzioni sono
possibili, ma esse – ed è compito odierno della filosofia – convergono nel tentativo di essere modi dell’inclusione, che non
è inglobamento, e del rispetto, che non è assolutizzazione.” Si
può ben dire che sia questa la prospettiva più opportuna dalla
quale la filosofia europea può riproporsi all’incontro delle altre
tradizioni.
In una direzione analoga si profila anche il contributo della
D’agostini che, stando nell’ottica del pensiero analitico e con
particolare attenzione ai suoi sviluppi recenti in australia, ha
prospettato il compito di costituire un canone o una lingua
filosofica universale: “L’idea di una lingua filosofica universale – scrive la D’agostini – può essere certamente la base di
un ‘pensiero unico’ – espressione con cui Vattimo e altri autori
designano il pensiero delle scienze tecnocratiche ‘senza pensiero’ – ma è anche la precondizione per ‘pensare il mondo’
e la varietà dei suoi ‘orizzonti di senso’.” Viene con questo ripresa l’ambizione greca di praticare le strutture universali del
pensiero, ma proprio questa ambizione – per concludere con
la D’agostini – implica che ci si debba sentire stranieri nei recinti del proprio sapere e insieme cittadini del mondo. È nello stile di questa comune appartenenza e di questa estraneità
che può infine dischiudersi un fruttuoso dialogo fra le diverse
tradizioni di pensiero: un dialogo che, però, esige discrezione e pazienza per i passi lunghi della storia, senza cedere alla
tentazione di violente scorciatoie. Ci soccorre al riguardo la
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vicenda dell’intelligencija russa nel corso dell’ottocento e del
novecento, ampiamente delineata nella voce di Chiara Cantelli: storia o rivincita dell’anima slava dell’Europa che, a suo
modo, ora in versione religiosa ora in modo dichiaratamente
ateo, ha tentato di perseguire un universale compimento della
storia. Potremmo dirne come d’una vicenda densa di ambizioni e di contraddizioni, che per un verso vale a icona della buona meta, ma che per un altro verso, con i suoi martìri e i suoi
fallimenti, resta come un serio avvertimento a non abbreviare
i circuiti faticosi della storia.
Virgilio Melchiorre
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