CardioNEWS_nr02_esec070618:numero02 18-06-2007 12:07 Page 1 Obesità e diabete nei paesi in via di sviluppo Di corsa contro il diabete Anche la sindrome metabolica ha i suoi biomarker La prevalenza delle malattie croniche non trasmissibili sta crescendo in misura allarmante in tutto il mondo: circa 18 milioni di persone muoiono ogni anno per malattie cardiovascolari, i cui maggiori fattori predisponenti sono il diabete e l’ipertensione. Epidemia diabete, anche per i costi a carico del Servizio sanitario nazionale. Basta leggere i risultati di uno studio dell’Università di Perugia [...] L’attenzione che è stata rivolta negli ultimi decenni alla sindrome metabolica (SM), oltre a generare un’enorme quantità di informazioni dalla ricerca di base e dalla ricerca clinica, pone una richiesta non sempre esaudita di indicatori di malattia. vedi pag 5 vedi pag 8 vedi pag 10 CardioNEWS_nr02_esec070618:numero02 18-06-2007 12:07 Page 2 numero 02 maggio 2007 in questo numero Editoriale Il cardiometabolismo della donna: un punto interrogativo? di Andrea P. Peracino 3 Articoli Obesità e diabete nei paesi in via di sviluppo: una sfida in aumento di Antonio C. Bossi 5 Di corsa contro il diabete di Federico Mereta 8 Anche la sindrome metabolica ha i suoi biomarker di Santica M. Marcovina 10 Pubblicazione a cura della Fondazione Italiana per il Cuore Via Appiani 7 - 20121 Milano Direttore responsabile: Emanuela Folco Comitato editoriale: Pietro Amante; Antonio C. Bossi; Emanuela Folco; Alberto Lombardi; Federico Mereta; Rodolfo Paoletti; Andrea P. Peracino; Andrea Poli Layout grafico ed impaginazione: Monica Loredan - evectors Stampato a cura di: Lalitotipo - Via E. Fermi 17 20019 Settimo Milanese (MI) www.cardiometabolica.org Iscrizione Registro della Stampa (Tribunale di Milano) numero 212 del 4 Aprile 2007 CardioNEWS_nr02_esec070618:numero02 18-06-2007 12:07 Page 3 Editoriale Il cardiometabolismo della donna: un punto interrogativo? Andrea P. Peracino Fondazione Giovanni Lorenzini Fondazione Italiana per il Cuore S empre maggiore appare l’evidenza che la donna abbia una posizione diversa nel contesto della grande costellazione delle malattie cardiovascolari. Anche se l’essere uomo viene indicato come uno dei fattori di rischio non modificabili di dette malattie, i punti interrogativi sulla posizione della donna sono sempre più numerosi. Il genere femminile contribuisce infatti alla mortalità di dette malattie più del genere maschile nel complesso di tutte le fasce di età, e non solo in Italia. na nell’ampia costellazione delle malattie cardiovascolari presentano qua e là varie lacune che necessitano di essere riempite. Un esempio viene dal grido di allarme lanciato da Science il 10 giugno 2005: non abbastanza donne sono arruolate negli studi clinici. Qual è l’interpretazione di tale “disattenzione”? Usando come modello la sindrome coronarica, si possono riassumere alcune recenti osservazioni. Di conseguenza c’è da domandarsi se lo spazio dato alla donna negli studi corrisponda al suo contributo nella epidemiologia delle malattie cardiovascolari. In realtà, gli studi sulla don- Le donne ricoverate per infarto miocardico acuto (IMA) sono meno numerose degli uomini fino ai 65 anni, li eguagliano nella decade 66-75 anni e prevalgono dopo i 75 anni. LE DONNE E IL TRATTAMENTO DELLA SINDROME CORONARICA ACUTA Cause di morte in Italia Istat 2002 SETTORI VALORI ASSOLUTI DI CAUSA Uomini Malattie del sistema circolatorio Tumori Malattie dell’apparato respiratorio Malattie dell’apparato digerente Disturbi psichici e malattie del sistema nervoso Malattie infettive e parassitarie Cause di morte in Europa QUOZIENTE 10.000 ABITANTI Donne Uomini Donne PER 105.726 131.472 93.398 69.672 Esiste in realtà una ben documentata maggiore mortalità nelle donne dopo un IMA. Tale disparità è stata attribuita alla differenza nelle fasce di età di comparsa dell’infarto nella donna (in genere un decennio dopo rispetto all’uomo) e alla comorbilità, ritenuta più elevata nella donna. Le donne con malattia coronarica hanno tipicamente un’età più avanzata rispetto agli uomini, ma la mortalità rimane più alta anche dopo aggiustamento per età. Le donne in tale età hanno una più alta prevalenza di fattori di rischio e hanno una riserva funzionale inferiore rispetto agli uomini. Sono inoltre a maggior rischio rispetto gli uomini quando sono presenti diabete, ipertrigliceridemia o sindrome metabolica. 38,2 33,7 44,6 23,6 20.617 15.324 7,4 5,2 12.485 12.234 4,5 4,1 9.552 14.765 3,5 5,0 2.145 2.147 0,8 0,7 UOMINI DONNE Mortalità per le principali malattie (K) Istat MCV MCV Tumori Tumori uomini donne uomini donne 2002 105,7 131,4 93,4 69,6 2003 108,6 138,8 94,4 68,6 2004 100,2 123,2 94,5 70,3 www.cardiometabolica.org MCV Tumori Altre 3 CardioNEWS_nr02_esec070618:numero02 18-06-2007 È sempre più ampia l’osservazione negli ultimi decenni che gli esiti del trattamento della malattia coronarica e in particolare dell’IMA mettono in evidenza una chiara disparità di trattamento fra uomo e donna. Tale differenza è stata ripetutamente riferita a un gender bias nell’approccio medico (NEJM 1991; 325: 274-6). L’uso ridotto delle procedure di rivascolarizzazione nella donna (come emerge dalla letteratura, l’applicazione di stent medicati o nudi vede l’uomo occupare circa il 70 per cento degli interventi: NEJM 2007; 356: 998-1008 e Circulation 2007; 115: 833-9), interpretato come minore aggressività nel trattamento ospedaliero, non spiega tuttavia la mortalità superiore della donna dopo IMA (Arch Intern Med 1998; 158: 981-8). Rimane da considerare se la differente mortalità per IMA sopra ricordata sia riferibile a differenze nel rischio di base o alla scelta di trattamenti più o meno aggressivi. La scomposizione simulata delle differenze di mortalità tra donna e uomo dopo l’aggiustamento dell’età, delle procedure usate, lasciava sempre una quota significativa di differenza dovuta al genere (Circulation 2007; 115: 833-9). Si tenta oggi un’interpretazione biologica e funzionale del diverso comportamento della donna nei confronti del- 12:07 Page 4 la comparsa, evoluzione, e trattamento della lesione coronarica (Circulation 2007; 115: 823-6). La differenza è stata attribuita a condizioni specifiche della donna che includono: una menopausa precoce, il diabete gestazionale, la dissezione vascolare periparto, la preeclampsia e l’eclampsia, l’ovaio policistico, il sottopeso alla nascita, e l’ipoestrogenismo ipotalamico. Molti di questi stati che compaiono in età più giovane sono riferiti a un rischio aumentato di malattia cardiaca nell’età più avanzata (J Am Coll Cardiol 2006; 47: 30S-35S). La perdita di increzione estrogenica, che ha azione antiapoptotica nei confronti delle cellule progenitrici endoteliali di derivazione dal midollo, insieme ad altri rischi, come l’età, lasciano le donne vulnerabili e meno capaci di provvedere alla riparazione vascolare, legata questa ad un aumento del rischio di cardiopatia ischemica. A questa è legata anche la diminuzione funzionale delle cellule muscolari lisce della parete, che si evidenzia con una risposta deficitaria alla stimolazione con adenosina [Circulation 2006; 114(SII): 713]. Accanto alle variazioni vascolari dovute all’influenza ormonale, vanno tenute presenti le differenze di genere nella struttura vascolare. Le donne hanno arterie più piccole e meno adattabili al flusso, anche dopo aggiustamento per peso, altezza e pressione arteriosa (Am Heart J 2000; 139: 649-53). Con l’età o il diabete tale differenza si accentua (Hypertension 2004; 44: 67-71). Esiste una differenza nella fisiologia vascolare legata allo stato ormonale, una differente risposta dell’endotelio alla stimolazione di acetilcolina intracoronarica. I processi di riparazione nel tempo diventano inadeguati in relazione a fattori come l’età, la fluttuazione ormonale, lo stress ossidativo della sindrome metabolica, l’ipertensione e l’obesità (Circulation 2004; 109: 722-5). Ancora è da tenere presente che il diabete colpisce maggiormente la donna. Le donne diabetiche hanno un rischio cardiovascolare maggiore di 3,5 volte (gli uomini diabetici “solo” di 2,06) rispetto alle pari età non diabetiche. Il diabete aggrava l’evoluzione dell’osteoporosi. E nella donna osteoporotica, i disturbi oculari e la riduzione dell’equilibrio secondaria alla neuro-angiopatia periferica appaiono avere una parte importante nell’evoluzione verso la caduta e quindi verso le fratture. Wanted: Women in Clinical Trials Science 2005; 308: 1517 Women’s Health Special Issue ”Most biomedical and clinical research has been based on the assumption that the male can serve as representative of the species” – Vivian Simon “La maggior parte della ricerca biomedica e clinica si è basata sull’assunto che l’individuo di sesso maschile sia rappresentativo dell’intera specie” Non abbastanza donne sono arruolate negli studi clinici 4 Il cardiometabolismo della donna è chiamato in causa nel comportamento del genere femminile nei confronti delle malattie cardiovascolari. Appare logico domandarsi quale sia la conoscenza, a questo riguardo, dell’entità clinica definita “sindrome metabolica” o dei parametri che l’accompagnano come l’ipertensione arteriosa, il sovrappeso/obesità e la resistenza insulinica. Qual è il comportamento della donna di fronte ai farmaci, quando almeno nel passato i trial hanno arruolato più uomini che donne? Alcuni di questi temi entreranno nei prossimi numeri di www.cardiometabolica.org; si terranno in considerazione questi punti interrogativi nello scegliere gli interventi, e ampio spazio sarà dato al dibattito. www.cardiometabolica.org CardioNEWS_nr02_esec070618:numero02 18-06-2007 12:07 Page 5 Obesità e diabete nei paesi in via di sviluppo: una sfida in aumento Antonio C. Bossi Direttore, U.O. Malattie metaboliche e Diabetologia A.O. “Ospedale Treviglio-Caravaggio” L a prevalenza delle malattie croniche non trasmissibili sta crescendo in misura allarmante in tutto il mondo: circa 18 milioni di persone muoiono ogni anno per malattie cardiovascolari, i cui maggiori fattori predisponenti sono il diabete e l’ipertensione. Questi, a loro volta, sono scatenati dal costante aumento del sovrappeso e dell’obesità, che hanno raggiunto la malnutrizione, il sottopeso e le malattie infettive nell’elenco dei problemi di salute pubblica dei paesi in via di sviluppo (1). Al giorno d’oggi, sono più di 1,1 miliardi gli adulti in sovrappeso, ben 312 milioni dei quali sono francamente obesi. Inoltre, secondo la Task Force internazionale sull’obesità, almeno 155 milioni di bambini sono sovrappeso o obesi. La International Obesity Task Force, insieme all’OMS, ha rivisto la definizione di obesità, aggiustandola per le diverse etnie, per cui un numero ancora maggiore di persone (1,7 miliardi) ricade nella nuova classificazione di sovrappeso (2). Nell’ultimo ventennio, l’obesità è triplicata nei paesi in via di sviluppo che hanno adottato stili di vita occidentali (riduzione dell’attività fisica e aumento del consumo di cibo ipercalorico a basso costo). Anche i ragazzi hanno modificato il loro stile di vita, con il risultato di un aumento del sovrappeso infantile dal 10 al 25 per cento e dell’obesità dal 2 al 10 per cento. La minaccia più grave colpisce il Medio Oriente, le isole del Pacifico, il Sud-Est Asiatico e la Cina. vrappeso. Ciò potrebbe essere dovuto a ritardata crescita fetale con sottopeso alla nascita, che conferisce predisposizione allo sviluppo dell’obesità mediante l’acquisizione di un fenotipo “risparmiatore” che conduce a insulino-resistenza e sindrome metabolica qualora vi sia un rapido aumento di peso nell’infanzia. Purtroppo aumentano anche i costi (umani e finanziari) dell’obesità. Un alto BMI aumenta sino al 16 per cento il costo sanitario, espresso come anni di vita inabile. Negli Stati Uniti, i costi diretti e indiretti dell’obesità sono stati stimati a 123 miliardi di dollari nel 2001. Nelle isole del PaciPaesi sviluppati 60 50 40 30 La relazione tra obesità e povertà è complessa. Essere poveri in una nazione povera (per esempio, in paesi con reddito annuo pro capite inferiore a 800 dollari) significa rischiare sottopeso e malnutrizione. Essere poveri in una nazione a medio reddito (3.000 dollari di reddito annuo pro capite) si associa invece a un aumento dell’obesità. Alcuni paesi si trovano ad affrontare il paradosso di famiglie con bambini malnutriti e adulti so- 20 10 0 20-44 65+ Paesi in via di sviluppo 160 140 120 100 80 60 40 20 0 20-44 Percentuale 16 45-64 65+ Mondo 14 12 10 8 6 Maschi Femmine 4 45-64 2 200 180 160 140 120 100 80 60 40 20 0 20-44 45-64 2000 65+ 2030 0 0-19 20-24 25-29 30-34 35-39 40-44 45-49 50-54 55-59 60-64 65-69 70-74 75-79 80-84 Età (anni) Prevalenza globale del diabete per età e sesso nel 2000 [da (4)] www.cardiometabolica.org Numero stimato di adulti (in milioni) con diabete per classe di età, anno e status socioeconomico nei paesi sviluppati, nei paesi in via di sviluppo e nell’intero pianeta [da (4)] 5 CardioNEWS_nr02_esec070618:numero02 18-06-2007 fico, nel 2004, le conseguenze economiche delle malattie croniche non trasmissibili (prevalentemente obesità e diabete) hanno raggiunto 1,95 milioni di dollari (a Tonga, il 60 per cento dei costi del servizio sanitario) (3). La maggiore prevalenza del diabete mellito tipo 2, delle malattie cardiovascolari e di alcuni tumori è direttamente correlabile all’eccesso di peso. Il rischio di queste patologie è particolarmente elevato nei paesi a medio reddito dell’Est europeo, dell’America latina e dell’Asia, dove l’obesità è la quinta causa di malattia (subito dopo il sottopeso). L’aumentato rischio di diabete e patologie cardiovascolari negli asiatici è dovuto alla predisposizione all’obesità addominale, che conduce alla sindrome metabolica e all’intolleranza ai carboidrati. L’aumentata prevalenza del diabete tipo 2 è strettamente collegata all’incremento dell’obesità. Circa il 90 per cento dei casi di diabete è attribuibile all’eccesso di peso. Circa 197 milioni di persone nel mondo hanno un’intolleranza glucidica proprio a causa dell’obesità e della sindrome metabolica associata, e il loro numero aumenterà a 420 milioni nel 2025. Studi di popolazione evidenziano che il diabete rimane poco frequente nei paesi che hanno mantenu- 12:07 Page 6 to i tradizionali stili di vita. Al contrario, alcuni arabi, emigranti asiatici e indiani, cinesi e ispano-americani che vivono in aree urbane e che hanno acquisito abitudini occidentali sono ad alto rischio: in queste popolazioni la prevalenza del diabete varia dal 14 al 20 per cento. Ricordiamo inoltre che la crescita maggiore della popolazione avviene in aree urbane. Di conseguenza, il diabete sta emergendo come problema di salute pubblica, con livelli di pandemia previsti per il 2030: il numero dei diabetici aumenterà da 171 milioni nel 2000 a 366 milioni nel 2030 (4). Questo incremento sarà notevole nei paesi in via di sviluppo, ove il numero di diabetici aumenterà da 84 a 228 milioni (3). Secondo l’OMS, il Sud-Est Asiatico e il Pacifico sono in prima linea in questa epidemia di diabete, con India e Cina che devono affrontare la sfida più impegnativa. In questi paesi, incidenza e prevalenza del diabete tipo 2 stanno aumentando in misura preoccupante anche tra i bambini, con conseguenze potenzialmente devastanti. Le temibili complicazioni cardiovascolari dell’obesità e del diabete potrebbero sopraffare nazioni in via di sviluppo che si dibattono ancora sotto il peso delle malattie infettive. Il rischio di patologie cardiovascolari è notevolmente maggiore tra i soggetti obesi, i quali soffrono di ipertensione arteriosa cinque volte più spesso dei normopeso. Di fatto il sovrappeso e l’obesità stanno contribuendo all’aumento globale dell’ipertensione: nel 2000 gli ipertesi erano un miliardo, ma saranno 1,56 miliardi nel 2025 (5). Questo aumento avrà effetti considerevoli nei paesi in via di sviluppo, dove la prevalenza dell’ipertensione è già elevata e le malattie cardiovascolari tendono a svilupparsi più precocemente rispetto ai paesi sviluppati. Gli effetti del diabete sulle complicazioni cardiovascolari sono ancora più gravi in alcuni gruppi etnici occidentali minoritari, così come nei paesi in via di sviluppo, in cui un maggior rapporto vita/fianchi è il più forte predittore di cardiopatia ischemica e ictus cerebrale. Il rischio cardiovascolare stimato è più alto negli abitanti del sud dell’Asia rispetto agli occidentali o agli africani: questa differenza è attribuibile ad un esordio più precoce o a una diagnosi ritardata di diabete e/o ipertensione. Milioni di casi di diabete nel 2000 e proiezione per il 2030 con percentuali di cambiamento [da (1)] Nel 2000, inoltre, 2,41 milioni di morti premature a causa delle complicazioni cardiovascolari del fumo hanno colpito i paesi in via di sviluppo. Questa emergente epidemia di malattie causate dal tabacco sta esacerbando la mortalità correlata all’obesità, diabete e ipertensione, patologie che causano sofferenza renale. La nefropatia diabetica si sviluppa in circa un terzo dei diabetici, e la sua incidenza sta rapidamente crescendo nei paesi in via di sviluppo, specialmente nella regione Asia-Pacifico. La nefropatia diabetica è risultata la più comune causa di malattia renale terminale in nove nazioni asiatiche su 10, con un’incidenza (tra tutte le cause di insufficienza renale terminale) che è passata dall’1,2 per cento nel 1998 al 14,1 per cento nel 2000 (6). 6 www.cardiometabolica.org CardioNEWS_nr02_esec070618:numero02 18-06-2007 In Cina, tra il 1990 e il 2000, la proporzione di insufficienza renale terminale da nefropatia diabetica è aumentata dal 17 al 30 per cento. In India la nefropatia diabetica colpirà 6,6 dei 30 milioni di diabetici. Queste statistiche prospettano un’epidemia di nefropatia diabetica a nazioni che non saranno in grado di affrontarne le ripercussioni, realtà dove l’insufficienza renale terminale è una sentenza di morte. Ma non basta: l’interessamento renale ha un effetto moltiplicatore sui decessi da complicazioni cardiovascolari nella patologia diabetica. Lo studio internazionale sulle malattie vascolari nel diabete condotto dall’OMS ha mostrato come la proteinuria risulti associata a un aumento del rischio di morte da insufficienza renale cronica o malattia cardiovascolare, come pure di aumentata mortalità da ogni causa. I cambiamenti di stile di vita che permettono di ridurre il peso corporeo di- 12:07 Page 7 minuiscono l’incidenza di diabete e ipertensione. La prevenzione dell’obesità, del diabete e dell’ipertensione richiede però cambiamenti sociali e politici. Iniziative di sanità pubblica devono essere stimolate per rendere disponibili cibi più sani, per pianificare interventi di educazione sanitaria, per stimolare l’esercizio fisico. Nel 2003, l’assemblea dell’OMS ha adottato una “Strategia globale per la dieta, l’attività fisica e la salute” i cui target sono modificare gli stili di vita per combattere le patologie non trasmissibili. Gli obiettivi dell’OMS per i paesi in via di sviluppo considerano le mense scolastiche e le abitudini di vita salutari. Alcune nazioni tra cui Brasile, India e Cina, hanno avviato programmi di monitoraggio dell’obesità e della nutrizione. Essendo tali iniziative all’esordio, non vi sono dati sui costi della loro implementazione e molte di tali iniziative potranno incontrare la strenua opposizione di aziende alimentari, ma anche di consumatori, che potrebbero vedere limitati i propri interessi o i propri diritti civili. La sfida è superare questi ostacoli per proporre strategie accettabili al fine di frenare questa “marea montante” di obesità, diabete e ipertensione. Parole chiave: epidemiologia, obesità, diabete mellito, ipertensione BIBLIOGRAFIA 1. Hossain P, Kawar B e El Nahas M. Obesity and Diabetes in the Developing World – A Growing Challenge. N Engl J Med 2007; 356: 213-5 2. Haslam DW, James WP. Obesity. Lancet 2005; 366: 1197-209 3. The world health report 2006: working together for health. WHO, Geneva 2006 4. Wild S, Roglic G, Green A, Sicree R, King H. Global prevalence of diabetes: estimates for the year 2000 and projections for 2030. Diabetes Care 2004; 27: 1047-53 5. Kearney PM, Whelton M, Reynolds K, Muntner P, Whelton PK, He J. Global burden of hypertension: analysis of worlwide data. Lancet 2005; 365: 217-23 6. Lee G. End-stage renal disease in the Asian-Pacific region. Semin Nephrol 2003; 23: 107-14 Prende il volo Red Dress Italia Sulle ali delle recenti sfilate di “Milano moda donna”, la donna si veste di rosso per richiamare l’attenzione sulla salute del proprio cuore e contribuire a prevenire le malattie cardiovascolari. Prende il volo il progetto Red Dress Italia, che richiama un’importante campagna informativa nata negli Stati Uniti nel 2002 per sensibilizzare le donne nei confronti delle malattie cardiovascolari. Durante le sfilate di febbraio a New York, i più noti stilisti statunitensi mettono all’asta le loro creazioni di colore rosso e il ricavato è destinato allo studio e alla prevenzione delle malattie cardiovascolari. In quest’occasione i media invitano le donne a indossare un abito rosso o almeno a portare un accessorio di tale colore. La prevenzione permette di dimezzare le morti; oggi le donne muoiono più degli uomini per malattie cardiovascolari e sono anche meno trattate da un punto di vista farmacologico perché vengono curate con medicine studiate per gli uomini. Ecco perché, con il contributo della moda e del mondo scientifico, la Fondazione Giovanni Lorenzini e la Fondazione Italiana per il Cuore hanno un obiettivo: costruire un istituto per la salute della donna. [email protected] www.cardiometabolica.org 7 CardioNEWS_nr02_esec070618:numero02 18-06-2007 12:07 Page 8 Di corsa contro il diabete Federico Mereta giornalista E pidemia diabete, anche per i costi a carico del Servizio sanitario nazionale. Basta leggere i risultati di uno studio dell’Università di Perugia, coordinato dall’endocrinologo Pierpaolo De Feo della Società italiana di Diabetologia (SID), che ha determinato l’effetto dell’attività fisica e del dispendio energetico sulla terapia e sui costi socio-sanitari del diabete di tipo 2. La ricerca è stata effettuata su 179 pazienti diabetici di tipo 2, seguiti per due anni e suddivisi in sei gruppi uguali per età, sesso, durata del diabete ed elementi della sindrome metabolica, ma differenti per spesa energetica, espressa in METsora (unità di misura dell’esercizio fisico ottenuta moltiplicando l’intensità per la durata). Dopo due anni il gruppo sedentario non ha avuto benefici in termini di pressione arteriosa, circonferenza addominale e glicemia, mentre la relativa spesa farmaceutica annua pro capite è aumentata di 558 euro. Il gruppo che aveva svolto un’attività lieve ha ottenuto solo di ridurre il ricorso ai farmaci. Gli altri quattro gruppi (caratterizzati da un dispendio energetico medio-alto, grazie ad attività come marcia veloce, bicicletta, danza latino-americana, ginnastica aerobica, nuoto, vogatore, simulatore di sci da fondo) hanno migliorato sensibilmente i propri parametri e ridotto in modo significativo la spesa sanitaria. Più in generale, lo studio ha dimostrato che camminare ogni giorno per 4-5 chilometri o andare regolarmente in bicicletta riduce la pressione arteriosa di 10 mmHg, il giro vita di 4,5 cm, il peso corporeo di 3 kg, la glicemia del 20 per cento e la colesterolemia del 30 per cento. Di conseguenza si riducono il rischio d’infarto del 15 per cento e il rischio coronarico a dieci anni del 2,2 per cento. Non solo: con l’esercizio fisico regolare si riducono di 550 euro il costo annuo per farmaci, di 700 euro il costo per esami, visite ed eventuali ricoveri e di 110 euro i costi sociali indiretti (giornate lavorative perse). Il risparmio sui costi totali può arrivare così fino a 2.000 euro annui per paziente. Sulla base di questa e molte altre rilevazioni scientifiche, l’American Diabetes Association (ADA) ha recentemente messo a punto le raccomandazioni per chi soffre di diabete di tipo 2, realizza- te in accordo con l’American College Of Sports Medicine, pubblicate su Diabetes Care e reperibili in internet a http://care.diabetesjournals.org/content/vol30/suppl_1/. In estrema sintesi, ai diabetici si consiglia le attività aerobiche di resistenza, come corsa lenta, nuoto o semplicemente lunghe passeggiate, sempre associate alle indicazioni dietetiche per controllare il peso corporeo. Questa semplice misura, studiata con il medico per evitare un eccessivo impegno fisico, può infatti tamponare gli effetti di un pericoloso ma inevitabile meccanismo legato all’età, in grado di favorire l’insorgenza della patologia. Più si invecchia, più la massa muscolare tende a ridursi e il muscolo, oltre a essere meno efficace nella contrazione, consuma meno energia anche a riposo. L’aumento dell’infiltrazione adiposa nei fasci muscolari squilibra anche l’insulina, la cui attività diventa sempre meno efficace, fino all’insulino-resistenza. Questa condizione nel tempo, stimola il pancreas a produrre una sempre maggiore quantità di insulina – peraltro sempre meno efficace perché il tessuto muscolare la impiega male – e apre la strada al diabete. L’ADA insiste molto sul fatto che l’esercizio fisico regolare può interrompere questa catena negativa, ma non basta: le ricerche più recenti dimostrano che l’attività regolare, oltre a far diminuire progressivamente il metabolismo a riposo, influenza anche la produzione Se la dieta da sola non basta a tenere sotto controllo il diabete, l’attività fisica può fare la differenza: lo dimostra una ricerca originale, presentata al recente congresso dell’American Academy of Neurology. Lo studio, condotto all’Università dello Utah, ha infatti dimostrato che un intelligente e regolare movimento può favorire la rigenerazione dei nervi danneggiati dalle prime avvisaglie del diabete. Nelle persone con intolleranza al glucosio, 2,5 ore settimanali di esercizio fisico moderato– come jogging o nuoto – affiancate a un po’ di attenzione alimentare possono infatti ridurre il peso corporeo del 7 per cento, sufficiente a ottenere questo risultato sui filamenti nervosi. Questo significativo risultato nelle fasi precoci della neuropatia diabetica (che non può essere arrestata quando la malattia ha già danneggiato i nervi) è stato osservato in 32 soggetti con intolleranza glicemica misurando loro la densità dei nervi nelle gambe. Dopo un mese di trattamento a base di attenzioni dietetiche e attività fisica quotidiana, i filamenti nervosi diventano più densi e quindi migliori conduttori dei segnali rispetto a quanto rilevato nella popolazione di controllo. Senza il minimo bisogno di ricorrere ai farmaci. 8 www.cardiometabolica.org CardioNEWS_nr02_esec070618:numero02 18-06-2007 di calore provocata dagli alimenti. Questo fenomeno è mediato da specifici segnali ormonali; in particolare, l’attività fisica regolare agisce direttamente sulla corticotropina (CRF), che induce una riduzione delle calorie introdotte e un aumento del consumo di energia, al contrario del neuropeptide Y, che ha un’attività diametralmente opposta. Con l’esercizio fisico si favorisce la sintesi di CRF e si consumano più calorie, con evidente vantaggio metabolico. Confermano queste osservazioni le Clinical Guidelines on The Identification, Evaluation and Treatment of Overweight and Obesity in Adults, reperibili sul sito internet dei National Institute of Health (NIH) di Bethesda a http://www.nhlbi.nih.gov/guidelines/obesity/ob_home.htm, che ricordano come l’aumento dell’attività fisica, solo o associato a un trattamento dietetico, consenta di creare un deficit nel bilancio calorico e quindi di favorire il calo di peso. Per questo, secondo gli esperti dei NIH, l’attività fisica regolare rappresenta un fattore protettivo dalle malattie cardiovascolari e dal diabete, sia in termini di morbilità sia di mortalità. In particolare, agisce abbassando la pressione arteriosa e i trigliceridi, aumenta il colesterolo HDL e migliora la tolleranza al glucosio, indipendentemente dalla perdita di chili. A favore di una vita più attiva si schiera anche l’International Diabetes Fede- www.cardiometabolica.org 12:07 Page 9 ration (IDF), che nelle sue Linee guida più recenti (reperibili all’indirizzo http://www.idf.org/home/index.cfm?nod e=1457), redatte sulla base dei maggiori studi sulla patologia, segnala che l’esercizio fisico regolare è in grado da solo di far calare significativamente nei diabetici i valori di emoglobina glicosilata (indicatore fedele del controllo glicemico nel tempo). Non solo: oltre l’attività aerobica, anche gli esercizi più pesanti – come la pesistica – se praticati regolarmente nel tempo, sono in grado di influire positivamente sulla morbilità e sulla mortalità del diabetico. La sintesi di tutte queste osservazioni è semplice: muoversi diventa l’arma fondamentale per contrastare l’avanzata del diabete di tipo 2, che già oggi interessa almeno cinque italiani su cento. E soprattutto compare sempre prima, perdendo l’attributo di “senile” che lo legava alla terza età. «La rapida crescita dell’incidenza di obesità e diabete di tipo 2 è legata a doppio filo agli stili di vita» è il messaggio che proviene dal recente congresso della Società italiana di Diabetologia che si è tenuto a Milano. «Sono la cattiva alimentazione, troppo ricca di zuccheri e grassi, ma soprattutto la scarsa attività fisica e la pigrizia la ragione di tutto. Ci si muove sempre meno, il lavoro è sempre più sedentario, si prende l’auto anche per andare a comprare il giornale. E queste cattive abitudini coinvolgono anche i più piccoli. Le prove vengono dai numeri. Oggi il 58 per cento dei diabetici tipo 2 ha più di 65 anni, ma ben il 37 per cento è tra i 45 e i 65 anni e addirittura cinque malati su cento sono under 35. Considerando che dopo 15-20 anni dall’esordio del diabete possono comparire gravi complicazioni a carico dell’apparato cardiovascolare, dell’occhio e del rene, c’è il concreto pericolo che in futuro l’infarto miocardico e l’ictus cerebrale si presentino in persone sempre più giovani». Dopo 2 anni, la spesa pro capite annua per farmaci aumentava (p<0,001) di 393 euro in G 0, non mostrava differenze significative in G 1-10 (206 euro, p=0,068), diminuiva in G 11-20 (-196 euro, p=0,014), in G 21-30 (-593 euro, p<0,0001), G 31-40 (-660 euro, p<0,0001) e G>40 (-579 euro, p<0,0001). Il risparmio sui costi è risultato significativamente correlato (p<0,0001) all'incremento del dispendio energetico. I METs-ora/sett. sono risultati inversamente correlati ai costi per farmaci prescritti (r-0,51, -18 euro) e per altre spese sanitarie (r-0,33, -23 euro), ai costi sociali indiretti (r-0,40, -36 euro) e ai costi totali (r-0,60, -66 euro) e positivamente correlati ai costi sociali diretti (r=0,44, 13 euro). È stato stimato che, in due anni, camminare 5 km al giorno riduce i costi per farmaci di 550 euro, i costi per altre spese sanitarie di 700 euro, i costi sociali indiretti di 110 euro, i costi totali di 2.000 euro, con un incremento dei costi sociali diretti di 400 euro. Dopo due anni i gruppi 0 e 1-10 non avevano subito variazioni dei suddetti parametri, mentre negli altri gruppi a dispendio energetico via via crescente, si assisteva ad una riduzione significativa (p<0,05) di HbA1c, valori pressori, colesterolemia totale, trigliceridemia e rischio coronarico a 10 anni. Nei gruppi 21-30, 31-40 e > 40 si verificava anche una riduzione di peso, circonferenza vita, frequenza cardiaca, glicemia basale, colesterolemia LDL e un incremento della colesterolemia HDL (p<0,05). 9 CardioNEWS_nr02_esec070618:numero02 18-06-2007 12:07 Page 10 Anche la sindrome metabolica ha i suoi biomarker Santica M. Marcovina, PhD, ScD Research Professor of Medicine Director, Northwest Lipid Metabolism and Diabetes Research Laboratories University of Washington, Seattle, USA L’ attenzione che è stata rivolta negli ultimi decenni alla sindrome metabolica (SM), oltre a generare un’enorme quantità di informazioni dalla ricerca di base e dalla ricerca clinica, pone una richiesta non sempre esaudita di indicatori di malattia. I criteri decisionali utilizzati per impostare la diagnosi clinica della sindrome metabolica sono rappresentati da circonferenza addominale, trigliceridemia, colesterolemia-HDL, pressione arteriosa e glicemia (Grundy SM, Costa F, et al. Diagnosis and Management of the Metabolic Syndrome An American Heart Association/National Heart, Lung, and Blood Institute Scientific Statement. Circulation 2005; 112: 2735-52). Questi indicatori vengono oggi sempre più supportati da una serie di biomarker che sono richiamati per meglio individuare alcuni momenti fisiopatologici della SM quali: l’infiammazione, il metabolismo degli acidi grassi, i cosiddetti “adipo-ormoni”, il metabolismo del glucosio, la funzionalità endoteliale, i collegamenti con la formazione della placca aterosclerotica, il comportamento del microcircolo, il rimodellamento della muscolatura vasale e cardiaca e così via. Si tratta di un complesso quadro clinico che appare sfociare da un lato verso lo sviluppo della malattia aterosclerotica cardiovascolare, dall’altro verso un aumento del rischio di sviluppare il diabete di tipo 2; questo quadro clinico, in sintesi, è chiamato cardiometabolismo. Lo studio dei momenti fisiopatologici accennati impone l’uso dei cosiddetti “biomarcatori di malattia”, che sempre più richiedono studi di base e clinici, standardizzazione, qualificazio- 10 L’utilizzo clinico dei nuovi marker L’introduzione di un nuovo marker nel portafoglio della diagnostica biochimica o per immagini richiama una serie di attività che devono valutare: • l’apporto del nuovo marker in senso assoluto e relativo come significato e come supporto al clinico; • l’affidabilità dei risultati come possono derivare dall’inserimento del nuovo marker nel percorso diagnostico, di prevenzione e di trattamento; • l’utilizzabilità del marker nella contestualità temporale dell’atto medico. Così, si assiste sempre più all’utilizzo dei marker (tradizionali o nuovi) nella costruzione di algoritmi decisionali con impatto sulla decisione clinica (diagnostica, terapeutica e preventiva). Nel contempo, la medicina si pone le seguenti domande: • quali criteri consentono di utilizzare un nuovo marker come fattore di rischio? • quali sono gli indici di affidabilità di un marker in laboratorio? • qual è l’effetto di tale affidabilità nel caso di un utilizzo acritico degli algoritmi decisionali? Quando il marker è riconosciuto determinante e indipendente nel meccanismo patogenetico di una malattia, e si dimostra che la variazione dell’uno si associa alla probabilità di comparsa dell’altra, il biomarker può essere classificato come fattore di rischio. I grandi studi hanno evidenziato l’importanza di valutare su grandi popolazioni il comportamento di alcuni parametri chimici e biologici, interpretabili come fattori di rischio, in correlazione con l’evoluzione prospettica di alcuni esiti clinici, consentendo di identificare il peso predittivo di detto fattore nei confronti di un particolare esito. In campo cardiovascolare, questi studi hanno originato una serie di suggerimenti interpretativi basati sull’analisi multivariata della popolazione studiata e interpretati con l’introduzione di punteggi e/o formule che consentano di costruire algoritmi decisionali. www.cardiometabolica.org CardioNEWS_nr02_esec070618:numero02 18-06-2007 ne, validazione e consenso sul loro uso nei protocolli collegati. La decisione clinica sia sul singolo individuo sia negli studi di popolazione si basa quindi su un numero crescente di dati che sono forniti da metodologie assai diversificate (biochimiche, biofisiche, di immagine, funzionali…) e trovano nell’esperto la possibilità di essere tra loro combinati e integrati rinforzando il valore predittivo del loro uso. Oggi la dottrina sull’integrazione dei biomarker si è estesa molto (vedi oltre) e costituisce il filone di alcuni progetti internazionali che sono emblematicamente rappresentati da corsi e convegni. Dopo il 1st Symposium on Integrated Biomarkers di Lugano (CH) del 2005, che ha messo in luce una serie di elementi poi evidenziati in un recente articolo (Marcovina SM, Sobesky J, et al. Biochemical and bioimaging markers for risk assessment and diagnosis in major cardiovascular diseases: a road to integration of complementary diagnostic tools. J Intern Med 2007; 261: 214–34), si sta preparando il 2nd Symposium (Berlino, 21-23 giugno 2007), dal quale ci si attende qualche ulteriore progresso sulla strada verso l’integrazione tra marcatori biochimici e d’immagine. Il rapido sviluppo dei biomarker richiede infatti una stretta 12:07 Page 11 cooperazione fra la ricerca di base e clinica, l’identificazione, sviluppo e messa a disposizione di biomarker, la regolamentazione e gestione economica della loro applicazione in campo medico nella diagnosi, prevenzione e terapia del paziente, senza perdere di vista l’importante ruolo dei biomarker stessi come endpoint surrogati nella valutazione dei grandi studi clinici. Il Simposio di Berlino è disegnato per consentire un percorso basato sull’evidente utilità di un approccio integrato, dai casi clinici (che saranno presentati e studiati nella famosa Clinica universitaria “Charité”, dove il trattamento dei malati si fonda proprio sull’approccio integrato) all’applicazione in prevenzione primaria e secondaria, dal monitoraggio del trattamento (con l’identificazione degli elementi qualificanti) al consenso nel loro impiego. La qualificazione è verificata nel modello delle malattie cardio-cerebrovascolari, per la larga trasversalità dei meccanismi patogenetici di dette patologie. L’INTEGRAZIONE DEI BIOMARKER Le decisioni cliniche (e il 90 per cento dei dati riportati in cartella) derivano dall’esperienza clinica, dalla dia- gnostica di laboratorio, per immagini e funzionale e dalla semeiotica fisica. L’interesse per i biomarker è aumentato significativamente negli ultimi decenni, richiedendo più attenzione alla loro qualità, alla loro utilità applicativa e alla loro efficacia ed efficienza in termini di rapporto rischio/beneficio per il paziente e costo/beneficio per la società. Il loro valore predittivo può essere aumentato integrando biomarker originati da metodologie diverse (per esempio biochimici, per immagini e funzionali), realizzando utili sinergie tra esperienze e competenze differenti (accademia, clinica, laboratorio, imaging, bioinformatica, produzione, economica, gestionale). Per svolgere la funzione di end-point surrogati, i biomarker integrati devono possedere i seguenti requisiti: • correlazione statistica tra biomarker integrati e indice prognostico; • quantificabilità e identificabilità con rilevanza ed evidenza clinica; • sensibilità, specificità e valore predittivo in relazione con la prognosi; • chiara identificazione del cut-off tra livelli normali e anormali; • evidente modificazione dei biomarker in risposta al trattamento; • monitorabilità tramite programmi di quality assurance. Dieci domande prima di attivare uno screening basato su un “nuovo” biomarker 1. Si tratta di un approccio diagnostico economico, standardizzato, affidabile di un marker riconosciuto indipendente e sufficientemente predittivo di un evento clinico? 2. Esiste una popolazione di riferimento che supporta statisticamente l’utilizzo del fattore? 3. Il nuovo fattore di rischio prevede un valore prognostico clinico significativo al di sopra e al di là di quello dato dai fattori di rischio tradizionali? 4. Si tratta di un fattore di rischio che può essere oggetto di intervento o di prevenzione? 5. È prevedibile una modificazione del comportamento clinico legato all’utilizzo del fattore di rischio? 6. Quali problemi possono essere legati all’uso del fattore di rischio (per esempio, falsi negativi o falsi positivi)? 7. La modificazione del fattore di rischio con interventi medici produce benefici clinici? 8. Se il fattore di rischio è un marker indiretto (ma non casuale), la modifica del piano di trattamento in base all’informazione data dal nuovo fattore di rischio produce un beneficio clinico? 9. I fattori di rischio tradizionali sono stati valutati e trattati in modo appropriato? 10. Il beneficio globale portato dalla valutazione del nuovo fattore di rischio prevale sulle conseguenze e i costi associati al suo utilizzo su grandi popolazioni? www.cardiometabolica.org 11 18-06-2007 12:07 Page 12 è un progetto della Fondazione Italiana per il cuore Depositato presso l’AIFA in data 16 giugno 2007 CardioNEWS_nr02_esec070618:numero02 con un grant educazionale di Cod. 60515070