Logica della singolarità

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Tommaso Ariemma
Logica della singolarità
Antiplatonismo e ontografia
in Deleuze, Derrida, Nancy
Copyright © MMIX
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133 A/B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–2481–2
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: aprile 2009
7
Indice
Introduzione
9
Capitolo I - Deleuze: l’eterno ritorno del differente
L’immagine dogmatica del pensiero e l’eterno ritorno del differente
L’empirismo trascendentale
L’eterno ritorno del differente e il platonismo riaccentuato
Il segno, l’attuale, il virtuale
Senso e iscrizione
Deleuze e la logica della singolarità
17
17
26
31
38
47
54
Capitolo II - Derrida: l’iscrizione della singolarità
La scrittura e il platonismo
La tipografia di Platone
L’erranza empirico-trascendentale
Chora, superficie, piega
Democrazia e immanenza
Derrida e la logica della singolarità
57
57
69
74
78
87
91
Capitolo III - Nancy: la condivisione dell’esposizione
Il senso dell’esposizione
L’insieme singolare
Corpus, corpo erotico, corpo senza organi: non c’è “il” toccare
Nudità trascendentale e decostruzione del cristianesimo
Nancy e la logica della singolarità
93
93
97
106
115
120
Conclusione
123
Bibliografia
129
Capitolo I
Deleuze: l’eterno ritorno del differente
L’immagine dogmatica del pensiero e l’eterno ritorno del differente
Anche il critico meno attento non potrebbe non notare che nei quattro testi fondamentali di Gilles Deleuze Nietzsche et la philosophie
(1962), Marcel Proust et les signes (1964), Différence et répétition
(1968), Logique du sens (1969), ci sia un capitolo dedicato a una medesima immagine di pensiero e che questa abbia come suo iniziatore
Platone. Ciò che Deleuze chiama propriamente immagine dogmatica
del pensiero è un plurisecolare dispositivo di orientamento, un dispositivo che orienta il pensiero verso ciò che non lo sollecita a pensare,
distogliendolo dalla differenza in sé, ossia dal nuovo, dalla differenza
che non deriva da alcun rapporto tra identità e che sollecita nel pensiero potenze altre dal semplice riconoscimento.
Quando tutto ciò che si credeva di riconoscere fa segno verso singolarità irriconoscibili, svincolate da identità costituite, è allora e solo
allora, che il pensiero si mette in moto, come qualcosa che in quel
momento comincia, a causa di una provocazione. Per Deleuze la differenza in sé non si distingue in alcun modo dalla singolarità e viceversa (come dimostrano in modo esemplare le prime pagine
dell’introduzione a Differenza e ripetizione).
Tale indicazione ci proietta già, implicitamente, verso una concezione pre-individuale della singolarità (concezione che riprenderemo
analiticamente più avanti) che non la riduce all’individuo o al singolo,
sottraendola così al numerico, ovvero allo statuto del singolo come unità, fondamento di ogni calcolo.
18
Capitolo I
Il singolo non è il singolare: l’essenza del singolo è l’unità, ovvero
la sua solitudine. La singolarità è, al contrario, un più d’uno, un incalcolabile, una frattura nel già noto.
L’immagine di pensiero, così come viene presentata da Deleuze,
funziona allora come un potente presupposto filosofico e con Platone
avrebbe inizio l’immagine dogmatica del pensiero, che si caratterizza
per la sua impotenza a pensare la differenza in sé, perché questa è colta attraverso il riconoscimento, la rassomiglianza, l’analogia e in generale a partire dall’identico.
L’immagine dogmatica non riesce a concettualizzare, oppure vieta
al pensiero, ciò che costringe quest’ultimo a pensare, ovvero la sua
esposizione - perché non si pensa che in virtù di strappi, buchi, interruzioni. L’immagine dogmatica del pensiero, dunque, sarebbe caratterizzata dal fatto di occultare ciò che costringe il pensiero a pensare.
A partire da Platone, il pensiero sarebbe senza alcun motivo predisposto alla verità, in una elettiva amicizia, priva di scontri o violenze.
Secondo Deleuze, allora, non si può criticare l’immagine dogmatica
senza criticare una philia di stampo platonico. A priori si sa cosa può
un pensiero, quali sono le sue potenzialità. Non si tratterà mai di apprendere, quanto di ricordare. In più punti della sua opera Platone è
stato, a tal proposito, senza dubbio chiarissimo:
[…] il ricercare e l’apprendere sono in generale un ricordare1.
Bisogna, infatti, che l’uomo comprenda in funzione di quella che viene
chiamata Idea, procedendo da una molteplicità di sensazioni a una unità colta
con il pensiero. E questa è una reminiscenza delle cose che un tempo la nostra anima ha visto […]2.
Fino a Nietzsche, secondo Deleuze, l’immagine dogmatica si manterrebbe più o meno costante, soprattutto come una motivazione morale, che, a partire da Platone, pensa lo sconosciuto come il dimenticato,
secondo un primato del modello ricognitivo, che non è altro che un
modo particolare di pensare la ripetizione. Questa, infatti, viene pensa1
PLATONE, Menone, 81 d6, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, p. 115.
PLATONE, Fedro, 249 d9 – e2, a cura di G. Reale, Fondazione Lorenzo Valla, Milano
1998, p. 77.
2
Deleuze: l’eterno ritorno del differente
19
ta come ripetizione del medesimo, fedele alle nostre attese, sottoposta
ad un primato dell’identità che condiziona ogni nostro incontro e ogni
risposta all’incontro:
“Che cos’è…?” è la formula con la quale la metafisica pone il problema
dell’essenza. Tale formula, forse per abitudine, ci sembra ovvia e scontata;
ma in realtà ne siamo debitori a Socrate e a Platone. Dobbiamo quindi risalire
a Platone per vedere in che misura la domanda “che cos’è…?” presupponga
un particolare modo di pensare3.
Il particolare modo di pensare, che riceve con Platone la sua istituzione, consiste nell’anteporre a un apprendimento trascendentale, cioè
ineliminabile e sempre necessario, un apprendimento originario, avvenuto in un tempo mitico (cfr. Menone 81c-d).
Nel Fedone (72 e8) Socrate afferma esplicitamente che è necessario che si sia appreso in un tempo passato ciò che deve essere ricordato. L’orientamento platonico del pensiero destituisce l’apprendere a
favore di un appreso.
Una tale destituzione rimuove nell’appreso stesso l’apprendere,
perché l’appreso deve mostrarsi come istituzione. Per questo motivo,
Menone chiede a Socrate perplesso: « […] in che senso dici che noi
apprendiamo, ma che ciò che noi chiamiamo apprendimento è reminiscenza?»4.
Attraverso un esperimento maieutico, Socrate, come si sa, fa dimostrare il teorema di Pitagora allo schiavo di Menone, per mostrare la
sua fondamentale teoria della reminiscenza. Tuttavia, Socrate dice di
averlo intorpidito (82 b-d), attraverso un modo singolare di avanzare
delle interrogazioni.
A un’analisi attenta, soprattutto dello stile del dialogo, le domande
che Socrate rivolge allo schiavo non sono problematiche, ma retoriche. Socrate lo costringe, in fin dei conti, a ripetere un procedimento a
lui estraneo. Non si tratta affatto di ricordare, quanto di corrispondere
3
G. DELEUZE, Nietzsche et la philosophie, P.U.F., Paris 1962, trad. it. di F. Polidori, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino 2002, p. 113.
4
PLATONE, Menone, 81 e4-6, cit., p. 115. Su questo punto si veda in particolare G. VLASTOS, Anamnesis in the “Meno”, «Dialogue», IV(1965), pp. 143-167; F. ARONADIO, Procedure di verità in Platone, Bibliopolis, Napoli 2002, pp. 55-121.
20
Capitolo I
a un ordine, a un apprendimento già avvenuto. Mai figura poteva essere più simbolica di quella di uno schiavo.
Ed è quasi grottesco ciò che Socrate dice a Menone, a proposito del
suo servo: «SOCRATE – Che cosa ti sembra, o Menone? C’è qualche
pensiero da lui espresso che non sia suo? MENONE – No, tutti suoi»5.
Lo schiavo non replica, ma avrebbe potuto rispondere, in modo impertinente, di non aver espresso in realtà alcun pensiero e di essersi
limitato per lo più ad annuire. Lo schiavo non ha nome ed è preso nel
suo essere qualunque, dotato di anima, e pertanto capace di conformarsi all’ordine, nella credenza che questo sia pensare.
L’immagine del pensiero che Platone istituisce è di fatto
un’immagine negativa del pensiero. La sua figura fondamentale è
quella dello schiavo, che non può far altro che confermare e subire.
Riconoscere senza conoscere:
Così tutta la teoria platonica dell’apprendimento funziona come un pentimento, schiacciato dall’immagine dogmatica nascente, e suscita un senzafondo che è incapace di esplorare. Un Menone moderno direbbe che il sapere
non è altro che una figura empirica, un semplice risultato che cade e ricade
nell’esperienza, ma che l’apprendere è la vera struttura trascendentale che unisce senza mediarle la differenza alla differenza, la dissomiglianza alla dissomiglianza, e introduce il tempo nel pensiero, come forma pura del tempo
vuoto in generale, e non come un passato mitico6.
Nel suo testo su Proust, Marcel Proust et les signes, Deleuze oppone l’apprendistato messo in opera dallo scrittore all’immagine dogmatica del pensiero istituita da Platone, vedendo nella parola costringere
il Leitmotiv della sua scrittura. Il romanzo di Proust è un grande “sistema” di incontri che costringono a interpretare, di espressioni e di
impressioni che costringono a pensare.
Dogma è ciò che viene imposto dal pensiero stesso al proprio avvenire, piuttosto che dalla sua capacità d’incontro, la cui componente
fondamentale è l’esperienza del segno, perché, come Deleuze sentenzia, «Quel che ci costringe a pensare è il segno»7.
5
Ivi, p. 133.
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 216.
7
G. DELEUZE, Marcel Proust et le signes, P.U.F., Paris 1964, trad. it. di C. Lusignoli e D.
De Agostini, Marcel Proust e i segni, Einaudi, Torino 2001, p. 90. Sulla lettura di Deleuze di
6
Deleuze: l’eterno ritorno del differente
21
La genesi del pensiero è, a ben vedere, una creazione continua stimolata da segni e produttrice di segni. Una creazione fondamentalmente involontaria.
Il pensiero costretto a pensare, infatti, appartiene ad un’immagine
antivolontaristica e antiricognitiva del pensiero. Proust, secondo Deleuze, pur invocando il termine reminiscenza, si discosta essenzialmente da Platone.
Mentre Platone vede la reminiscenza in termini di ricomposizione,
Proust la riprende in termini di creazione, ripetizione differente, a partire da un diverso rapporto con il segno, non greco (precisamente, non
platonico). Scrive infatti Deleuze:
Se una parte vale per se stessa, se un frammento parla in se stesso, se un
segno si evidenzia, ciò avviene in due modi diversi: o perché permette di indovinare un tutto da cui è tratto, di ricostituire l’organismo o la statua ai quali
appartiene, e di ricercare l’altra parte che si adatta ad esso – oppure inversamente, perché non esiste parte che gli corrisponda, totalità in cui possa essere
inserito, unità da cui possa essere estratto, e alla quale possa essere restituito.
Il primo modo è quello dei Greci8.
L’altro modo di rapportarsi al segno, ovvero l’altro modo di pensare la ripetizione (perché il segno non è che una ripresentazione, una risonanza), Deleuze lo rintraccia, dunque, nell’opera di Proust, perché
in questa (Deleuze ne analizza dei passi decisivi) «non c’è reminiscenza platonica»9. Piuttosto un altro tipo di reminiscenza che fa dire a
Deleuze: «Non si tratta più di dire: creare è ricordarsi – ma ricordarsi è
creare […]»10.
La reminiscenza in Proust indica a Deleuze un sentiero altro dalla
presenza metafisica: “la reminiscenza non rimanda semplicemente da
un presente attuale a antichi presenti”11. Oltre ad essere portatore di
Proust si vedano F. SOSSI, Filosofia di Proust, Unicopli, Milano 1988, pp. 141-144; M. CARBONE, Una deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee sensibili, Quodlibet, Macerata 2004, pp. 49-175. Sul problema del segno e dell’immagine dogmatica del pensiero si
veda F. ZOURABICHVILI, Deleuze. Une philosophie de l’événement, P.U.F., Paris 1996, trad. it.
di F. Agostini, Deleuze. Una filosofia dell’evento, Ombre corte, Verona 1998, pp. 11-49.
8
Ivi, p.104.
9
Ivi, p.105.
10
Ivi, p.102.
11
G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., p. 114.
22
Capitolo I
una concezione moderna e antiplatonica della reminiscenza, Proust
annuncia, inoltre, una differente concezione dell’idea, che Deleuze,
come vedremo più avanti, svilupperà in modo originale 12.
L’idea in Proust, non sarebbe più un “prima” rispetto a un “dopo”,
come accade in Platone, ma un vero è proprio evento, che rompe il
circolo dell’idea platonica dove questa veniva pensata come un presente altrove. Il tempo platonico è un tempo ricurvo, ciclico e Deleuze
non manca di sottolineare come nel «Timeo si trovano delle belle pagine sull’attività del Demiurgo, che piega, arcua, mette in cerchio»13.
All’interno di tale discorso sul tempo e sulla reminiscenza, sul prima e su dopo, l’essere del segno, ovvero ciò che costringere a pensare,
è proprio ciò che, se pensato radicalmente, dischiude un’altra e più
profonda immagine del tempo.
L’immagine dogmatica del pensiero vieta, pertanto, al pensiero di
accogliere il segno in tutta la sua potenza e ricchezza, ovvero come
differenza, singolarità. Il segno indica, suggerisce, eccede ogni volta
in modo singolare ciò che è attuale e identico, chiuso in se stesso.
Il segno è ciò che, in quanto traccia, non ha potuto cominciare, e
che, nello stesso tempo, in quanto porta qualcos’altro con sé, non cessa di divenire: vi è un eterno ritorno che non ha nulla di ciclico, proprio in virtù dell’istanza del segno, che lo costituisce. Per Deleuze,
come vedremo più avanti, Nietzsche ha espresso le parole decisive su
una temporalità non ciclica e nondimeno intimamente costituita dalla
ripetizione. Non a caso, per Deleuze, la filosofia di Nietzsche è anche
e soprattutto una filosofia del segno:
Un fenomeno non è né un apparire, né un manifestarsi, ma è un segno, un
sintomo il cui senso è dato da una forza attuale. L’intera filosofia è sintomatologia e semeiotica […] Al dualismo metafisico di apparenza ed essenza, co-
12
Cfr. G. DELEUZE, Marcel Proust e i segni, cit., pp. 101-102: «l’essenza, da parte sua,
non è più l’essenza stabile, l’idealità vista, che riunisce il mondo in un tutto, e vi introduce la
giusta misura. L’essenza secondo Proust […] non è solo la visione di qualcosa, ma una specie
di punto di vista superiore. Punto di vista irriducibile, che significa contemporaneamente la
nascita del mondo e il carattere originale di un mondo».
13
G. DELEUZE, Lezione del 21 marzo 1978, in www.webdeleuze.com , trad. it. di S. Palazzo, Fuori dai cardini del tempo, Mimesis, Milano 2005, p. 76.
Deleuze: l’eterno ritorno del differente
23
sì come alla relazione scientifica di causa ed effetto, Nietzsche sostituisce la
correlazione tra fenomeno e senso14.
L’immagine dogmatica vieta al pensiero di pensare la ripetizione
della differenza, preferendole la ripetizione dell’identico, creando un
dispositivo di ricognizioni che vieta di pensare adeguatamente ciò che
è insieme fortuito e inevitabile, e che si ripete, differenziandosi.
Ciò che è primo per il pensiero, secondo Deleuze, è l’incontro, che
non è mai il medesimo, quanto piuttosto ciò che ripete la sua differenza. Attraverso la lettura di Proust, ma a partire soprattutto dalle tesi di
Nietzsche, Deleuze propone, allora, un rovesciamento del platonismo:
la sua critica si concentra sulla strategia complessiva di Platone. Come magistralmente sottolinea Foucault:
Rovesciare, con Deleuze, il platonismo significa spostarsi insidiosamente
in esso, scendere di un gradino, giungere fino a quel piccolo gesto – discreto,
ma morale – che esclude il simulacro; significa anche abbassarsi leggermente
rispetto ad esso, aprire la porta, spalancandola, alla chiacchiera di lato; significa instaurare una serie staccata e divergente; costituire, con questo piccolo
salto laterale, un para-platonismo scoronato.15
La teoria delle idee platonica viene analizzata da Deleuze a partire
da una strategia profondamente selettiva, e cioè a partire dal metodo
della divisione, dalla diairesis 16.
14
G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 6.
M. FOUCAULT, Theatrum philosophicum, «Critique», 282, novembre 1970, ora in M.
FOUCAULT, Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, tr. it. di F. Polidori, Theatrum philosophicum, «aut aut», 277-278, 1997, p. 56.
16
G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., pp. 83-84: «[…] la divisione platonica non
si propone affatto di determinare le specie di un genere, o piuttosto se lo propone, ma in modo
superficiale e persino ironico, per meglio nascondere sotto codesta maschera il vero segreto.
La divisione non è il contrario di una “generalizzazione” né è una specificazione. Non si tratta
affatto di un metodo di specificazione, ma di selezione. Non si tratta di dividere un genere determinato in specie definite, ma di dividere una specie confusa in discendenze pure, o di selezionare una discendenza pura a partire da un materiale che non lo è. […] Anche se indivisibile
e infima, la specie di Aristotele resta pur sempre una grossa specie. La divisione platonica opera in tutt’altro campo, in quello delle piccole specie o delle discendenze. […] Il senso e lo
scopo del metodo di divisione è la selezione dei rivali, la prova dei pretendenti […] (come
chiaramente appare nei due esempi principali di Platone: nel Politico, ove il politico è definito
come colui che sa “pascere gli uomini”, ma sopravvengono in molti, commercianti, contadini,
formai, ginnasti, medici, a dire: il vero pastore degli uomini sono io! E nel Fedro, ove si tratta
15
24
Capitolo I
L’idea in Platone, dunque, non è ancora, come lo sarà per Aristotele, una nozione generale, un’astrazione: è un potente criterio selettivo,
un vero e proprio “modello”. Separare l’immagine dalla cosa stessa,
l’originale dalla copia, l’icona dal simulacro, non è che una ripartizione della ripetizione. Nella divisione platonica che assegna posizioni,
priorità, egemonie, Deleuze ritrova il più importante e fondamentale
dei procedimenti dialettici. Distinguere il buon delirio, il vero amore,
escludere chi pretende di essere il vero amante, rientra ancora in una
disciplina del segno, ossia dell’incontro, per la costituzione di un modello, di un essere autentico, che possa mettere a riparo da incontri
successivi. La scena platonica è un dispositivo di immunizzazione che
trae la propria forza, oltre che dal gesto selettivo, dall’uso del mito
come ciò che permette di erigere il modello, di creare un’immagine
che giustifichi la selezione verso l’egemonia dell’identico e del già noto.
Una vera e propria morale come favola agisce nel mito, come
l’istituzione stessa dell’immagine dogmatica del pensiero, la fondazione suggestiva e seducente dei suoi presupposti17. Così Platone integra il mito nella dialettica: la divisione lo esige in quanto fondamento
capace di fare la differenza, come criterio di selezione dei pretendenti,
e a sua volta il mito esige la divisione come operazione che pone lo
stato delle differenze, il piano su cui il mito deve agire. Dialettica e
mitologia sono inseparabili. La teoria della partecipazione, infine,
di stabilire il buon delirio e il vero amante, e ove molti pretendenti affermano di essere gli
amanti, l’amore!».
17
Cfr. ivi, p. 86: « Se è vero infatti che il mito e la dialettica sono due forze distinte nel
platonismo in generale, questa distinzione cessa di avere valore nel momento in cui la dialettica scopre nella divisione il suo vero metodo. È la divisione che supera la dualità e integra il
mito nella dialettica. La struttura del mito che appare chiaramente in Platone, è il circolo, con
le sue due funzioni dinamiche, del girare e del tornare, del distribuire o ripartire – la ripartizione delle parti spetta alla ruota che gira come la metempsicosi spetta all’eterno ritorno. Qui
non ci interessano le ragioni per cui Platone non è davvero un protagonista dell’eterno ritorno.
Nondimeno resta il fatto che il mito, nel Fedro come nel Politico o altrove, costituisce il modello di una circolazione parziale, in cui appare un fondamento atto a fare la differenza, vale a
dire a misurare ruoli e pretese. Tale fondamento si trova determinato nel Fedro sotto la forma
delle Idee, così come sono contemplate dalle anime che circolano al di sopra della volta celeste; nel Politico, sotto la forma del Dio-pastore che presiede di persona al movimento circolare dell’universo. Centro o motore del circolo, il fondamento è istituito nel mito come principio
di una prova o di una selezione, che conferisce tutto il suo senso al metodo della divisione fissando i gradi di una partecipazione elettiva».
Deleuze: l’eterno ritorno del differente
25
svolge anch’essa un ruolo fondamentale, come ciò secondo cui il mito
ripartisce. Essa serve a scovare il simulacro18.
Il dispositivo del mito non si disgiunge dal primato di un apprendimento originario, di un primo apprendimento, già sempre al di fuori
di ogni nostra esperienza. Perché il mito evoca un’esperienza prima,
l’esperienza dei primi. Con un esplicito riferimento alla tradizione orale, il mito della scrittura nel Fedro si apre con l’espressione akoé, “ho
sentito dire”19.
In quanto momento sorgivo, primo, il mito si identifica con la sua
stessa verità: è autofondante. La verità dei primi è fuori discussione:
essa sfugge in modo dogmatico alla verifica della sua verità. Il suo
dogmatismo si esplica soprattutto nel fatto che esso funziona come un
cliché: nel Timeo (26c) si parla di una marchiatura indelebile, quasi
una coniazione, a proposito di una storia ascoltata molto tempo prima.
Tutti i dialoghi di Platone, secondo Deleuze, fanno ricorso al mito
per valutare i pretendenti e scovare il simulacro, tranne uno: il Sofista,
in quanto è in questo dialogo che Platone tenta di individuare, senza
valutare pretese e conformità ideali, il cattivo pretendente per eccellenza, il sofista, il simulacro che non è solo una falsa copia, ma ciò
che mette in discussione le nozioni di copia e di modello, il meccanismo stesso della dialettica. Il simulacro è ciò che non somiglia
all’idea, è ciò che s’insinua con violenza prima della copia, costringendo il dialettico a far ricorso al mito, ad un’istituzione morale che
predilige il già noto e l’innocuo, al sopravvenuto e al traumatico.
18
Cfr. ivi, pp. 87-88: «Partecipare vuol dire avere parte, avere dopo, avere in secondo
grado. Chi possiede in primo grado è il fondamento. Solo la Giustizia è giusta, dice Platone;
quanto ai cosiddetti giusti, essi possiedono in secondo, in terzo o in quarto grado.. o in simulacro, la qualità di essere giusti. Che solo la giustizia sia giusta non è una semplice proposizione analitica. È la designazione dell’Idea come fondamento che possiede in primo grado. E
il proprio del fondamento è dare in partecipazione, dare in secondo grado. Così ciò che partecipa, e che partecipa più o meno secondo gradi diversi, è necessariamente un pretendente. […]
Se il giusto pretendente (il primo fondato, il ben fondato, l’autentico) ha dei rivali che sono
come suoi parenti, suoi aiutanti, suoi servitori, che partecipano a diverso titolo alla sua pretesa, egli ha anche i suoi simulacri, le sue contraffazioni rivelati dalla prova: questi è secondo
Platone il “sofista”, buffone centauro o satiro, che tutto pretende e, pretendendo tutto, non è
mai fondato, ma contraddice tutto e contraddice anche se stesso…» (Il corsivo è nostro).
19
Su questo punto si veda E. LLEDÒ, El surco del tiempo. Meditaciones sobre el mito platonico de la escritura y la memoria. Editorial Critica, Barcelona 1992, trad. it. di M. Carmignani, Il solco del tempo. Il mito platonico della scrittura e della memoria, Laterza, RomaBari 1994, p. 19.
26
Capitolo I
Ciò che Deleuze evidenzia nel testo platonico è il brulichio dei simulacri, delle copie delle copie, ossia delle ripetizioni differenti, in cui
la loro differenza non si oppone ad un modello, né alla sua perfetta imitazione, ma manifesta la loro inadeguatezza. “Far risalire i simulacri” è il motto di un rovesciamento del platonismo altro da quello che
Heidegger attribuiva a Nietzsche, consistente non solo nel sovvertimento gerarchico fra “soprasensibile” e “sensibile”, ma in un’assolutizzazione del sensibile20. Il phantasma, il simulacro, invece è la nozione chiave per il rovesciamento deleuziano, che ha certo alla base
un’altra lettura di Nietzsche.
Simulacro è tutto ciò che intacca il rapporto modello-copia: l’arte,
la poesia, la scrittura, il sofista vengono visti come perversioni, lontani talmente dal modello, dall’invocare altri modelli, magari alternativi21.
La poesia è lontana dalla verità perché dice spesso cose che non esistono. Un poeta può dire “Teeteto vola” quando Teeteto sta seduto.
Ma è qui che si nasconde l’abisso: la poesia avanzerebbe un altro senso della parola, un altro impiego del discorso, diverso da quello della
constatazione. Farebbe divenire la parola espressiva o emozionale,
mostrando così tutta l’inadeguatezza del modello del discorso platonico fondato sulla referenzialità, sulla rappresentazione, non
sull’incontro con l’insolito.
L’ empirismo trascendentale
L’apprendimento trascendentale, contrapposto al platonico apprendimento mitico, implica una trasformazione concettuale della nozione
classica di trascendentale. L’apprendimento trascendentale implica
una differenza costitutiva, svincolata da un Io sintetico che unifica le
rappresentazioni dell’esperienza, come pure da ogni differenza analitica propria dell’individuo in generale. Questi ultimi, infatti, presuppongono una differenza impersonale e preindividuale come
20
Cfr. M. HEIDEGGER, Nietzsche, Neske, Pfullingen, 1961, 2 voll., trad. it. di F. Volpi,
Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, pp. 205-215.
21
La questione è così posta da Platone nei luoghi che Deleuze non manca di registrare
(Teeteto, 176 e; Timeo 28 b).
Deleuze: l’eterno ritorno del differente
27
l’impercettibile necessario a ogni percezione, e di cui però ogni percettologia non riesce a rendere ragione. Una sfumatura, dunque, o
l’essere stesso della sfumatura, che supera ogni dualismo e ogni opposizione.
Pertanto, per Deleuze, la differenza, e dunque la singolarità, è sia
trascendentale che empirica ed “empirismo trascendentale” è
l’espressione paradossale, chiaroscurale e sfumata, che usa per definire la propria filosofia. A partire da Empirisme et subjectivité. Essai
sur la nature humaine selon Hume, Deleuze si propone di mettere a
fuoco il principio fondamentale dell’empirismo, ossia la ripetizione
della differenza come costituente dell’esperienza in generale, al di là
della centralità dell’identità come pure della soggettività psicologica.
Tuttavia solo con l’avvento del criticismo kantiano, che apre
l’orizzonte del trascendentale, l’eredità metafisica che pure gravava su
Hume può essere superata. Può essere superato il suo fisicalismo,
l’empirismo puro. Così il principio fondamentale dell’empirismo diventa la differenza empirico-trascendentale: fondendo empirismo e
criticismo, quest’ultimo perde la centralità a priori della soggettività
dominante in Kant.
Si tratta di pensare, per Deleuze, l’empirismo trascendentale come
un motivo che fonde insieme le intuizioni di Hume e Kant, in una sintesi originale.
“Empirismo trascendentale” è l’esplicita formula del superamento
di un dualismo e di una gerarchia, quella trascendentale/empirico, dove le condizioni dell’esperienza sono, per Deleuze, troppo larghe per il
reale22, ovvero troppo generiche e soprattutto riferite ad un soggettivi-
22
Cfr. G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., p.93. Sul trascendentale in Deleuze si
veda l’interessante saggio G. LEBRUN, Le trascendental et son image, in E. ALLIEZ (a cura di),
Gilles Deleuze. Une vie philosophique, Insitut Synthélabo pour le progrés de la connaissance,
Le Plessis-Robinson 1998, pp. 265-275. Sull’empirismo trascendentale si veda in particolare
B. BAUGH, Trascendental empiricism, «Man and the world», 25, 1992; J. -C. MARTIN, Variations. La philosophie de Gilles Deleuze, Payot, Paris 1993, pp. 29-49 ; C. DI MARCO, Deleuze
e il pensiero nomade, FrancoAngeli, Milano 1995, pp. 102-112; U. FADINI, Deleuze plurale,
Pendragon, Bologna 1998, pp. 47-58; C. IMBERT, Empirisme, ligne de fuite, «Magazine Littéraire», 406, 2002.
28
Capitolo I
tà trascendentale, come accade sia in Kant che in Husserl23, che àncora
tali condizioni a una identità vuota e trascendente, pura.
La filosofia finisce così per presupporre, in maniera astratta e disincarnata, ciò che dovrebbe ogni volta spiegare. Secondo Deleuze:
Il torto di tutte le determinazioni del trascendentale come coscienza è di
concepire il trascendentale a immagine e somiglianza di ciò che si presume
fondi. Allora, o ci si dà bell’e fatto ciò che si pretendeva generare con un metodo trascendentale; ce lo si dà bell’e fatto nel senso cosiddetto “originario”
che si suppone appartenga alla coscienza costituente. Oppure, in conformità
allo stesso Kant, si rinuncia alla genesi o alla costituzione per attenersi a un
semplice condizionamento trascendentale; ma non si sfugge nondimeno al
circolo vizioso, in base al quale la condizione rinvia al condizionato di cui essa ricalca l’immagine24.
Al di là di ogni soggettività trascendentale, bisogna, per Deleuze,
praticare un empirismo superiore, un empirismo, appunto, trascendentale. Come spiega Deleuze: «l’empirismo diviene trascendentale […]
quando afferriamo direttamente nel sensibile […] l’essere stesso del
sensibile»25 .
Fondamentale, affinchè vi sia un empirismo trascendentale, è per
Deleuze non ricalcare il trascendentale sulle figure dell’empirico, per
non ripetere la strategia platonica, che, nella teoria della reminiscenza,
confondeva l’essere del passato con un essere passato, invocando
l’antico presente mitico.
Il segno, al di là di ogni semiologia tradizionale, diviene l’istanza
fondamentale dell’empirismo trascendentale, perché esso esprime la
doppia faccia della differenza, a un tempo differimento a priori e cosa
differente, principio e dato, che non si esaurisce nella presenza. Il segno esprime, in modo chiaroscurale, empirico-trascendentale, il differente. Il segno racchiude dunque il differimento spazio-temporale e un
qualcosa di irriducibile.
23
Cfr. su questo punto le critiche a Husserl e a Sartre in Logica del senso, cit., serie XIV e
XV. Per un’analisi dettagliata del confronto tra Deleuze e la Fenomenologia si veda K. ROSSI,
L’estetica di Gilles Deleuze. Bergsonismo e fenomenologia a confronto, Pendragon, Bologna
2005, in particolare il capitolo 1.
24
Ivi, p. 98.
25
Cfr. G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., p. 79.
Deleuze: l’eterno ritorno del differente
29
Il segno viene sottratto, nel pensiero di Deleuze, ad ogni riduzione
alla sfera del mero significante, ad ogni vincolo soggettivo o linguistico che crede di padroneggiare il suo potenziale. Esso non è semplicemente qualcosa che sta per qualcos’altro, non è il mero supporto per la
rappresentazione, ma, eminentemente, l’irruzione stessa del fuori, come differenza sensibile che implica un senso. Il segno apre il pensiero,
lo espone al suo potenziale, cioè al suo senso, alla sua apertura, implicata in ogni segno.
Proprio per questa implicazione, il segno è una differenza in sé che
richiede ogni volta una decifrazione del suo senso, come la sua ultima
essenza: ogni segno ci costringe ad esplicarla. Tale essenza non è intesa, come abbiamo già avanzato parlando di Proust, in senso platonico,
ma come qualità ultima e differenziante, come la sua stessa problematicità e il suo avvenire.
Il riferimento, poi, che spesso Deleuze fa ad una geroglificità del
segno, come pure al ruolo di egittologo dell’interprete26, possiede un
importante rinvio implicito ad un costitutivo carattere scrittorio del
segno. In questo senso implicito si rivela tutto l’antiplatonismo di Deleuze, essendo Platone colui che condanna la scrittura (come vedremo
in particolare nel capitolo su Derrida) e insegna a disciplinare i segni.
Ancora una volta è Proust l’ispiratore dell’attenzione verso
l’iscrizione del singolare 27.
Significativa è l’affermazione di Deleuze, che, nell’opera dedicata
a Proust, chiude il capitolo dedicato all’immagine di pensiero istituita
da Platone: «Non c’è Logos, ci sono soltanto geroglifici. […] Dovunque il geroglifico, il cui duplice senso è il caso dell’incontro e la necessità del pensiero: “fortuito e inevitabile”»28.
26
Per un riferimento esemplare cfr. G. DELEUZE, Marcel Proust e i segni, cit., p. 6.
Leggiamo ne Le Temps retrouvé: «Ricordai con piacere, perché mi provava che a quel
tempo ero già lo stesso e che si trattava d’un tratto fondamentale della mia natura, ma anche
con tristezza, pensando che da allora non avevo fatto alcun progresso, come già a Combray io
fermassi con attenzione davanti alla mente qualche immagine che aveva attratto con forza il
mio sguardo, una nube, un triangolo, un campanile, un fiore, un sasso, sentendo che sotto
quei segni c’era qualcosa d’affatto diverso che dovevo sforzarmi di scoprire, un pensiero di
cui essi erano la traduzione, al modo di quei caratteri geroglifici che sembrano rappresentare
soltanto oggetti materiali. Questa decifrazione era difficile, certo; ma era la sola che desse
qualche verità da leggere». (M. Proust, Le Temps retrouvé, trad. it. a cura di G. Raboni, Il
tempo ritrovato, Mondadori, Milano 1993, p. 229).
28
Ivi, p. 94.
27
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Capitolo I
Esprimendo per certi versi un problema che sarà esplicitato e portato avanti da Derrida, come mostreremo nel capitolo successivo, ovvero quello dell’iscrizione, Deleuze aggiunge, sempre a proposto dello
scrittore:
Proust oppone ovunque il mondo dei segni e dei sintomi al mondo degli
attributi, il mondo del pathos a quello del logos, il mondo dei geroglifici e
degli ideogrammi al mondo dell’espressione analitica, della scrittura fonetica
e del pensiero razionale. Egli rifiuta costantemente i grandi temi ereditati dai
Greci: il philos, la sophia, il dialogo, il logos, la phoné29.
L’immagine di pensiero che viene inaugurata da Platone pone il
problema dell’incontro, del segno, e nello stesso tempo mira a depotenziarlo, a prevenirlo30.
Il pensiero è, come abbiamo già detto, costantemente sollecitato dai
segni. Così accade per la madeleine di Proust che sollecita a pensare
Combray. E la decifrazione si pone sempre come una ricerca, come
uno scoprire, poiché il segno, la sua singolarità, è inanticipabile, il suo
ritorno è sempre differente 30.
29
Ivi, p. 100.
Così scrive Deleuze a proposito della disciplina platonica: «Platone ci offre
un’immagine del pensiero sotto il segno degli incontri e delle violenze. In un testo della Repubblica, Platone distingue nel mondo due specie di cose: quelle che lasciano inattivo il pensiero, o gli danno solo il pretesto di una parvenza di attività; e quelle che fanno pensare, che
costringono a pensare. Le prime sono gli oggetti della ricognizione; su questi oggetti, si esercitano tutte le facoltà, ma in esercizio contingente, che ci fa dire «è un dito», è una mela, è una
casa…, ecc. Altre cose, invece, ci costringono a pensare: non più oggetti riconoscibili, ma cose che fanno violenza, segni incontrati. […] Il segno sensibile ci fa violenza: mobilita la memoria, mette l’anima in moto; ma, a sua volta, l’anima smuove il pensiero, gli trasmette la costrizione della sensibilità, lo costringe a pensare l’essenza come la sola cosa che deve essere
pensata. Ed ecco le facoltà entrare in un esercizio trascendente, dove ognuna affronta e raggiunge il proprio limite: la sensibilità che afferra il segno; l’anima, la memoria che lo interpreta; il pensiero, costretto a pensare l’essenza. […] Ma il demone socratico, l’ironia, sta nel prevedere gli incontri. In Socrate, l’intelligenza ancora li precede; provocandoli, suscitandoli, organizzandoli». (G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, cit., p. 93. Su questo punto si veda anche Differenza e ripetizione, cit., pp. 182-183).
30
Cfr. ivi, pp. 6-7; 23; 17: «Qualcuno invocherà il platonismo di Proust: apprendere è ancora ricordare. Ma per quanto importante sia la sua funzione, la memoria interviene solo come
mezzo di un apprendistato che la sorpassa sia negli scopi che nei principi. La Ricerca è rivolta
verso il futuro, e non verso il passato. Apprendere è cosa che concerne essenzialmente i segni.
Questi sono appunto oggetto di un apprendimento temporale, non di un sapere astratto. Apprendere significa anzitutto considerare una materia, un oggetto, un essere, come se emettes30
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