Gilles Deleuze Note sparse sul filosofo francese, infaticabile

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Gilles Deleuze
LA MAPPA DI UN MONDO ALTO ‘MILLE PIANI’
Note sparse sul filosofo francese, infaticabile geografo della complessità e
dell’inafferrabilità del senso del reale. In compagnia dello psicanalista Félix Guattari,
egli solca l’intero scibile occidentale e orientale per mettere a nostra disposizione,
con la tecnica del patchwork, le innumeri connessioni di storia, antropologia,
macroeconomia, linguistica, letteratura, arte, psicologia, biologia, politica, semiotica,
geometria, nomadologia e altro ancora. La drammaturgia del suo pensiero tematizza e
pratica l’eterogeneità, lungo molteplici linee di erranza e di differenza. Con lui non si
sta mai tranquilli, perché dialoga con l’irreperibile fuori del pensiero, dov’è più
esplosivo il potenziale del linguaggio, dov’è più acuminata la qualità
dell’espressione.
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di Donato Di Stasi
Paradosso 1. A furia di latrati e di dare l’attenti, i philosophes del secondo Novecento hanno
esaurito ogni intelligenza in reciproci, selvaggi e sterili attacchi al creato, sortendone in magna pars
paccottiglia e librigli di scarso valore. A prorogare il tornio del pensiero, insiememente, si sono
volti a dentatura di proscenio, il filosofo-filosofo Gilles Deleuze (1925-1995) e il filosofopsicanalista Félix Guattari (1930-1992), arcinoti autori quadrumani di AntiEdipo (1972) e Mille
Piani (1980). Senza impermalire gli aficionados dei sodalizi maritali (Bouvard e Pécuchet, p.es.),
dal quadrato dei nomi estraggo le professeur Deleuze per offrirne conto ai lettori in un (si spera)
convincente cabotaggio di pagine.
Paradosso 2. Deleuze1 scosta la filosofia dalle accademie sfoggianti e ne teorizza la natura
rivoluzionaria, frugiferatrice di concetti nuovi, atti alla corresponsione di problemi reali. Se i
filosofi scrivono libri criptici (la storia va avanti da Platone senza grande originalità) e battono
palmo a palmo discussioni e questioni sterilizzate, come non fossimo già afflitti abbastanza da
problemi a iosa, Deleuze non lima le sue unghie e indirizza la propria attività cerebro-teoretica
direttamente ai non-filosofi, buggerandosene dei paludati impaludati e ripristinando con cipiglio
l’assunto spinoziano dell’Ethica.
Resosi loquente circa la dimensione sociale del soggetto storico, il Nostro non palpita per il teatro e
le scene oniriche individuali (Freud), bensì si interessa dell’officina, ovvero delle macchine
corporali desideranti, in sostanza si occupa di noi e del modo in cui veniamo collettivamente
programmati per autoprodurre da noi stessi ansie e palpiti consumistici, lasciandoci imporre senza
resistere il sapore metallico della tecnologia salva-vita. Per Deleuze è inutile che l’Es-inconscio
motteggi deliroso su edipi e castrazioni domestiche, su presunti traumi e frignamenti individuali,
serve piuttosto apprendere come orientarsi nell’universo mondo, congregato a razze, tribù,
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Gilles Deleuze: Empirisme et subjectivité, Paris 1953. Saggio sulla natura umana secondo Hume, Napoli 2000;
Nietzsche et la philosophie, Paris 1962. Nietzsche e la filosofia¸ Milano 1992; La philosophie critique de Kant, Paris
1963. La filosofia critica di Kant, Napoli 1997; Le bergsonisme, Paris 1966. Il bergsonismo, Milano 1983; Différence et
répétition, Paris 1968. Differenza e ripetizione, Milano 1997; Logique du sens, Paris 1968. Logica del senso, Milano
1975; (con Félix Guattari) L’anti-OEdipe, Paris 1972; (con Félix Guattari) Mille plateaux, Paris 1980. Mille piani,
Roma 2006. Foucault, Paris 1986. Foucault, Milano 1987; Pourparlers, Paris 1990. Pourparlers, Macerata 2000.
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continenti, storie e geografie. Al sacerdozio psicanalitico (già sbeffeggiato da Foucault),
autocelebrantesi tra un canto tanatologico e una repressione erotica sublimata in trascendenza,
Deleuze oppone l’irruzione di un reale né simbolico, né immaginario, ma puro, crudo e del tutto
immanente, senza rivestire questi due filosofemi (realtà e immanenza) di nessuna corazza
d’assoluto, ché altrimenti si giocherebbe a carte truccate alla medesima secolare metafisica.
Lo scrive per la presentità e la postumità che non si erra dal vero a cestinare astratti e universali,
trascendenti e uni mistici, poiché il fenomenico risulta spiegabile solo in termini di processualità
(soggettivare, razionalizzare, verificare, unificare), in quanto si ha a che fare con un insieme di cose
e eventi, singolari e sperimentabili, con cui rapsodicamente si può colligere un piano d’immanenza,
inteso come propulsione e creazione di concetti non vuotamente logici e formalistici.
Scettico del proprio scetticismo, Deleuze prospetta una riflessione afferente la molteplicità,
dubitativa di se stessa, interponentesi tra cesure e enjambements di fatti sensibili, malsicura
d’altronde, eppure vitale, costantemente tesa alla propria renovatio, sapendosi costruire un pensiero
di tipo nuovo, per regioni e dimensioni locali, poco alla volta, secondo un’evidente inclinazione alla
spazializzazione, in grado di mettere fra parentesi l’abusato tempo, dai caratteri troppo
marcatamente spiritualistici e trascendentistici.
La drammaturgia deleuziana nuoce alla stupidità circolante, impedisce l’impudenza degli imbecilli
(Foucault), inficia catechismi e rigide ortodossie, contrasta, con la sua coraggiosa politica del
pensiero, il costituirsi degli individui e delle comunità all’ombra di saperi immarcescibili, di poteri
spadroneggianti, di rovinose cadute della storia collettiva, p.es. nell’eidos del denaro e della sua
spietata chiarezza enunciativa e comunicativa. Da un lato il Mercato Unico Mondiale, dall’altro
qualche sopravvissuto mercatino rionale: in questa distanza ecco ammutolire il pregresso filosofare
e impresentirsi di necessità il conseguente bisogno di riscrivere la cartografia del pianeta,
elaborando una mappa dettagliata di eventi e circostanze, nella quale venga segnata l’acquisita
pluralità dei fatti e il loro lucido/delirante divenire nel tempo storico.
Paradosso 3. Detto che del corpo duocefalo Guattari-Deleuze si intraprende l’explicatio della pars
deleuzien, anche dei loro due libri elefantiaci si elegge a oggetto di studio il secondo, il mirabilioso
Mille Plateaux/Mille piani, che, attraversato con indicibile fatica dall’inizio alla fine e viceversa
(sono 760 le pagine dell’edizione Castelvecchi, qui adoperata), conduce al di sotto di mura scrittorie
ciclopiche, invitte per la mediocrità corrente, fascinosamente sfidanti la commisurazione
intellettuale, senz’altro destinate a rimanere significanti per generazioni e postumità. Pretto
geografo, Gilles Deleuze solca l’intero scibile occidentale e orientale per mettere a nostra
disposizione, con la tecnica del patchwork, mille piani di storia, antropologia, macroeconomia,
linguistica, letteratura, arte, psicologia, filosofia stricto sensu, biologia, politica, semiotica,
geometria, nomadologia e via via lungo un elenco sorprendente e mai pedante, o professorale.
Deleuze rifiuta di congegnare i suoi scritti sul gusto del momento, non volendo accreditare
anch’egli una becera sottocultura di rotocalchi e riviste, ossia uno spazio filosofico/letterario in
sostanza reazionario, preconfezionante e schiacciante, in virtù del quale qualsiasi fermento
sotterraneo deve risultare improponibile e impossibile. Adversus questo mufloide concatenamento
di enunciazioni false e conformistiche, l’homme deleuzien sventa la pretesa della linguistica di
accartocciare il linguaggio su stesso, riservando a una schiera di eletti (filosofi del linguaggio,
semiotici e semeiotici) la comprensione di sterili e innocui massimi sistemi del nèant, pertanto
slargature linguistiche, sfide concettuali, peregrinazioni storiche, acquisizioni pragmatiche,
cancellazione definitiva della metafisica costituiscono validi motivi per inerpicarsi nella lettura e
scalare questi mille piani di apparente irragionevole complessità. Ce sera un siècle deleuzien?
Ipotesi 1,2, 3,…n. Se si sciolgono grumi di pensiero, se si libera la scrittura dalle ingrommature
accademiche, allora la vita può finalmente passare per un campo geometrico di immanenza: sono
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flessibilità che si liberano, si intersecano l’una con l’altra, si rilasciano, si confondono, si slegano
in un processo che non ha inizio, né fine…
Il mondo non è più questione di linearità (punti, segmenti, linee), ma di grovigli micro-sociali che
si addensano, si complicano e si dispongono davanti alla soglia di ciò che un tempo
rappresentavano i concetti semplici (bene, virtù, conoscenza). Incommensurabile e indistricabile, si
stende sulla realtà una rete soffocante e mortifera di discussioni infinitamente infinite (il potere
aggettante dei media), per le quali non vale sprecare bocca e denti, perché esaurito un segmento di
pourparler ne spuntano altri a iosa, ingovernabili e refrattari a qualsiasi soluzione (si finisce per
vivere in una sfiancante problematicità ad libitum): a qualsiasi ambito appartengano (microchirurgia o biblioteconomia, la cosa è indifferente), i segmenti appaiono tutti connettibili e
rapportabili l’uno all’altro, avendo ridotto a chiacchiera il materialismo dialettico di Marx e le
corrispondenze di Baudelaire.
L’eterogeneità è stata consunta a mera apparenza, con buona pace dei tentativi di imbastire una
cultura e un pensiero antagonistici: l’esattezza di questo mondo iperfunzionale coincide con uno
sconfinato e omogeneo reticolo di controllo, valido per qualsiasi piano fisico e metafisico2,
corporale e psichico. Senza avvertimento, la rete manovra i suoi tentacoli, così da rendere
impossibili la localizzazione e un’eventuale temeraria contrapposizione: ciò che accade è sempre
vissuto come se fosse già accaduto, proprio perché nella interminata vastità della trama vengono
contemperati tutti i fenomeni, i fatti e le evenienze possibili (si vive di seconda mano, schiacciati
dai paradigmi e dagli eponimi, si sopravvive con la carta copiativa appiccicata addosso).
Sebbene non esistano più versanti, Deleuze prova a agire come se fosse possibile camminare ancora
sul crinale e allungare la vista sull’abisso nero della Tecnica; non lo spaventano né l’abolizione dei
fatti, né il circo barnum delle sole opinioni: ritiene infatti che, al di sotto dei meridiani e paralleli
degli enunciati globalizzati, esista qualcosa da riportare in superficie, sicuramente diverso dalle
linee elettriche, dalle onde elettromagnetiche, dalle radiazioni che a velocità incredibili trafiggono il
corpo degli individui. La nostra postmodernità caotica e gommosa batte a ritmi diversi e produce
cacofonie, dissonanze, suoni striduli, lancinanti, disperati e gioiosi (si balla sempre, anche sul
Titanic spezzato), così lo gliommero, di cui discettava Gadda, non nasce da uno o più fondamenti,
ma da una desolata casualità, della quale nulla è consentito sapere: ne consegue che eventuali
nuove e diverse tracce concettuali possono essere scoperte e elaborate, se (e solo se) non
obbediscono a archetipi metastorici e oppressivi (mi pare sia questa la sfida che attende la filosofia
per il presente e per il futuro immediato).
Il lavoro deleuziano non rimena al mero ri-pensare (secondo i secolari modelli custoditi negli
abbecedari filosofici), ma trascina le nostre menti esauste fino a pensare-il-nuovo, avendo compreso
che a furia di sommare nani, non si arriva a farne un gigante: con il che si sostiene che bisogna
saper estrarre dalla cartografia del mondo linee non lineari, forme senza forma, concetti al di qua
del semper et ubique (“Non c’è differenza tra ciò di cui un libro parla e la maniera in cui è fatto. Il
libro non ha più nemmeno oggetto. In quanto concatenamento, è se stesso solamente in connessione
con altri concatenamenti, in rapporto con altri corpi senza organi. Non ci si domanderà mai quel che
un libro vuole dire, significato o significante, ci si domanderà con che funziona, in connessione a
che cosa fa o non fa passare le intensità, in quali molteplicità introduce e come metaforizza la
propria… Un libro non esiste che dal di fuori e al di fuori”3).
Per Deleuze la prima linea di fuga corrisponde paradossalmente alla capacità di stare, senza
tremare, nella contraddizione, nel saper resistere a un centimetro dai vetri taglienti della dialettica
vera, non quella fasulla, rassicurante, dell’hegelismo, per questo egli non distingue le linee di
2
3
Cfr.Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille Piani, Castelvecchi, Roma 2006, pp. 184-231.
Gilles Deleuze – Félix Guattari, Mille piani, cit. , p. 35.
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erranza dalle linee abituali, perché non ragiona nei vecchi termini strutturali4 e non si lascia
chiudere in un sistema consolatorio, da cui risulta impossibile evadere. Deleuze deterritorializza e
riterritorializza, ovvero scompone furiosamente figure e funzioni, immaginarie e simboliche, per
ricomprendere tutto in un’analisi pratica, perciò politica, analizzando il desiderio di nomadismo o di
stanzialità, a seconda che l’individuo voglia riprendersi il suo corpo organico, massacrato dalla
Tecnica, oppure intenda vegetare come un CsO (Corpo senz’Organi), perennemente attaccato alla
macchina televisiva, telefonica, o da trasporto che gli anestetizzano l’esistenza e gliela rendono
sopportabile. In entrambi i casi Deleuze non pontifica, non apriorizza l’essere, non offre soluzioni a
portata di mano: compone la sua mappa, osserva, solidarizza con i gruppi sociali che fattivamente
cercano significati nuovi, condividendo con essi la malagrazia e il pericolo di sottoesistere; a
maggior ragione non cade mai nel delirio interiore, o peggio nell’immaginario fantasmatico (si
pensi alla categoria dell’esotico per gli autori romantici dell’Ottocento). Si scopre così che
percorrere una linea di fuga non significa sottrarsi, fuggire sic et simpliciter, ma (e questo è
doloroso e meraviglioso a un tempo) mettere in fuga l’orrore del mondo, forarlo come un tubo,
procurando di far uscire tutta la mota, la melma, i miasmi che lo compongono5 .
Se i nomadi storicamente cercavano di forgiarsi nuove armi da opporre allo Stato che li
perseguitava, i nomadi della post-storia devono saper temprare se stessi come armi viventi per
spezzare le maglie che ingabbiano la realtà (l’associazione qui è diretta all’anello che non tiene di
montaliana memoria).
Proclamata la casualità dei fenomeni e la decifrabilità delle cose, una linea di fuga non si rivela altro
che un inizio, instabile, ansiogeno, perturbante, tuttavia pur sempre un inizio, un taglio netto agli
enunciati reazionari che sostengono il potere pratico-politico del pianeta. Disfatta teoreticamente la
trascendenza, rimane solo il campo dell’immanenza, il reciproco lavorare di una linea nelle altre, il
vicendevole allearsi e lottare di chi tenta la fuga: ovunque vige l’immanenza e ovunque non cessa il
cartografo di tipo nuovo di sbriciolare le solidificazioni (una fra tutte, la burocrazia del denaro, che
ha avvinto al cappio del debito estero i paesi del Terzo, Quarto e Quinto Mondo). La
globalizzazione si palesa nell’abnormità di una mega-libertà fondata su micro-fascismi, capaci di
punire qualsiasi accenno libertario e seriamente deviante, qualsiasi flessibilità e clandestinità che
non mostrino acquiescenza al consumismo perenne.
Il segreto di Pulcinella della nostra post-storia appartiene alla messa in mora dell’individuo e delle
sue relazioni significanti: da un lato il continuo messaggio gridato nell’etere, che tutto va bene
madama la marchesa, dall’altro “una disperazione così particolare”, “una morte”, “una
demolizione”6 che i media e i libri industriali devono liquidare come una stravagante allucinazione.
Se ogni cosa brulica e si muove nel sottomondo dell’ombra, la questione filosofica si incentra su
come determinare incrinature, in quale maniera procurare larghe lacerazioni al tutto-pieno: è
possibile allora che la salvezza venga da una fuga da fermo, da un angolo senza lati, da una
contestazione pacifica e ferma? Permis de expliquer: è necessario mettersi in salvo e abbandonare i
più (gli ipermassificati) a un’esistenza contabilizzata e prevista, perché appare progressivamente
sempre più disdicevole farsi “garantire e controllare l’identità in ogni contesto”7.
Con Deleuze non si sta mai tranquilli da nessuna parte: non prescrive concetti, non svela segreti,
descrive le forme che assume la contraddizione, avvertendo che ciascun aspetto rimane in
permanenza aperto, secondo un’indeterminazione oggettiva in cui non è dato riposare, stare,
localizzarsi in un interno comfortable. Le forme della contraddizione concernono flussi e particelle
di identità che sfuggono alla categorizzazione del reticolo mentale e immaginario, delineandosi la
4
Ibid., p. 307.
Ibid., p.308.
6
Gilles Deleuze – Félix Guattari, Mille piani, cit. , p. 310.
7
Ibid., p. 297.
5
5
possibilità di afferrare il presente come qualcosa che non è già accaduto. Se la tendenza della
contemporaneità risulta monumentale e antiquaria (rivivere ossessivamente le giunture del passato,
bloccando divenire e avvenire), Deleuze ri-fonda la libertà dell’individuo e dei gruppi sulla ricerca
di un nuovo sguardo che scrosti cose e eventi, e che non si dimostri timoroso, né presupponente, al
contrario manifesti la sua forza nel ghermire ciò che è imprendibile e molecolarizzato “a velocità
tale da superare le soglie ordinarie della percezione”8.
Non solo è necessario che siano impressioni, percezioni, intuizioni, azioni migliori, ma che riescano
a interferire con i punti di rigidità e con le correnti di flessibilità della dimensione conscia (politica,
sociale, economica, culturale) e inconscia (i movimenti in controtempo dei grandi territori interiori).
Si può parlare di una dialettica delle incrinature, perché si tratta di attraversare l’individuo, i suoi
muri concettuali, le sue linee sensitive fredde e calde, i suoi chiarori e le sue oscurità morali: in
definitiva, o la luce cruda della Tecnica e dell’Iperliberismo, oppure i policromatismi deleuziani,
nascosti, non ordinari, impercettibili, imprevedibili, che non si sa nemmeno in quale forma cercare.
Deleuze non dipinge grigio su grigio, né adotta l’intero come unità di misura, procede invece per
frazioni di intero, schegge di realtà, frantumi e detriti che non gli fanno querulare una stupida
decadenza, piuttosto lo mettono sulle tracce di una condizione generalizzata, che nella sostanza è
semplice e elementare (egemonia dell’Artificiale a tutti i livelli e distruzione di ogni micro-libertà),
ma che in superficie viene artatamente presentata come complessa e indecifrabile, allo scopo di far
arretrare gli individui in un recinto di solitudine, garantito da tessere, numeri e trilli dislocati lungo
l’intero asse temporale quotidiano, in modo che nessun istante resti scoperto: è il trionfo di spie, led,
batterie ricaricabili, decibel, hertz e definizioni elettromagnetiche del senso della vita.
Il lettore dotato di un minimo di coraggio può procurarsi i Mille piani di Deleuze e affacciarsi a un
suo balcone qualsivoglia per intercettare un bisogno autentico di significanza, di passione, di
soggettività, di collettività, di prospettive di trasformazione di una realtà planetaria altrimenti
gelida, eterna, immutabile, essenzialmente tediosa.
Paradosso finale. Gilles Deleuze dialoga con l’irreperibile fuori del pensiero, dov’è più esplosivo
il potenziale del linguaggio, dov’è più rimuginante la qualità dell’espressione: sganciandosi dalla
tradizionale diade identità/negazione, getta sguardi assorti sulla differenza, scoprendola motore
positivo, forza direttamente sociale e storica, produzione, flusso tra i flussi della macchina
desiderante uomo, con l’intento di segnare nuovi tracciati e forme di aggregazione. Si immagini lo
stupore fra gli stampatori di clichés (i cosiddetti filosofi) all’apparire dell’asimmetrica parabola dei
Mille piani, concertato di un sistema privo di centro e di gerarchie, mappa di millanta direzioni
ciascuna delle quali percorribile e abbandonabile in piena libertà di intenti.
Dalle ringhiere ancora tiepide dei suoi piani di scrittura Deleuze osserva rimpiccioliti gli individui,
che vorrebbe costituiti di potenza e autonomia, per questo lascia effondere la polifonia di un
pensiero che non teme di affrontare la frammentarietà, la diffusa abolizione di senso, l’imporsi del
nulla come valore ultimo.
Non lo so quando, ma questo, o il prossimo, sarà un secolo deleuziano.
luglio 2007
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Gilles Deleuze – Félix Guattari, Mille piani, cit. , p 298.
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