Renata Viti Cavaliere Il ruolo del “giudizio” nella consulenza filosofica 1. Si cominci col dire che senza un buon giudizio la consulenza filosofica non potrebbe essere esercitata correttamente e neppure coerentemente teorizzata, pena l’inadempienza della sua finalità intrinseca, rivolta a vivere, e a far vivere, la pratica del pensiero come l’essenziale sostegno di un’esistenza consapevole e responsabile. Occorre tuttavia brevemente soffermarsi sul ruolo del giudizio, sulla sua portata logico-esistenziale, e nel contempo pratico-valutativa, all’interno di particolari contesti di vita. Il giudizio non è semplicemente sinonimo di sguardo prospettico sulla realtà, pur se ognuno vede le cose legittimamente a suo modo e nell’immagine che ne ritrae legge liberamente segni e significati, come in una baraonda di opinioni diverse a seconda della cultura o di naturali predisposizioni, per difetto o per eccesso, e in occasione delle mutevoli forme che il mondo umano di volta in volta assume. Il giudizio semmai, piuttosto che disunire, aggrega; ciò vuol dire ch’esso accomuna piuttosto che isolare nell’intima veste di coscienze separate. La sua funzione è quella di fare da discrimine, di stabilire distinzioni, consentendo per dir così alla realtà di emergere e di divenire, laddove senza un articolato discorso, composto di affermazioni e negazioni, le cose stesse languirebbero fin quasi a svanire del tutto. Non si esagera a porre drasticamente così il primato della parola che è discorso, e a decretare l’importanza dell’assenso, in quanto giudizio condiviso o da condividere in un raggio più ampio possibile. Ci si dovrà poi interrogare sul senso della locuzione: “buon giudizio”. Sta di fatto che dal pensiero più antico, greco, ellenistico, romano (così caro ai cultori della consulenza filosofica), giungono a noi consigli che paiono palesemente andare in tutt’altra direzione. Eccone un esempio. «Gli uomini non sono turbati dalle cose , ma dai loro giudizi sulle cose» si legge nel Manuale di Epitteto (§ 5)1. Sotto accusa pare sia messo proprio il giudizio, ogni giudizio che dipende da noi, viventi ostinatamente pensanti, con la tendenza a non volerci conformare alla realtà, sino a deformarla, oppure a fletterla sotto i nostri desideri piegandola ad attese incongrue e ingiustificate. Il suggerimento che ne deriva invita a lasciarsi andare al corso degli eventi che sono esterni ed immobili, vincolati da leggi oggettivamente precise e giuste. E tuttavia sin dalle origini i filosofi hanno decretato che al mondo non c’è il vero né il falso, il giusto e l’ingiusto, il potere e la menzogna, la bellezza e il suo opposto, senza la mediazione del logos, senza cioè quella disciplina del pensiero e dell’espressione a cui ogni volta il giudizio si sottopone. Una disciplina ben strana, che non attinge da altro che da sé 1 Cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Nuova edizione ampliata, Einaudi, Torino 2005. 2 stessa, perché il giudizio “dipende” da noi, ed è perciò nostro compito, e nostro preciso dovere, anche tenerlo a freno, magari proprio esasperando la sua funzione aggregante, mettendoci in qualche modo al riparo dai tanti possibili tentativi di aggiustamento dei fatti per scopi solamente di parte. Il bene e il male si appalesano, dunque, non altrove che nei giudizi sulle cose, e i turbamenti dell’animo che ne nascono sono come l’interfaccia dei più intimi patimenti del logos, che non si rassegna a tacere o ad approvare incondizionatamente. Proprio dal mondo antico giunge a noi una immagine divenuta classica del pensiero partecipativo e “politico”, che ha indicato ai moderni la via maestra del confronto e dell’autonomia di giudizio, accanto alla ricerca dei modi e delle strutture in cui accadono la verità e il significato nelle loro più varie espressioni. Quel che perciò la filosofia svela più che nascondere, magari secondo quelle “rivelazioni successive” di cui amava parlare Lessing, potrà essere messo al servizio della vita pratica e dell’azione individuale in virtù di un certo non immotivato ritorno al dialogo teoretico di socratica memoria; purché si sappia che non c’è confronto dialettico senza i temuti rischi e i relativi turbamenti, che in tal caso riguardano la possibilità dell’errore e dell’incoerenza, proprio in virtù del richiesto passaggio – ritenuto a ragion veduta inevitabile (come già insegnava Aristotele) – dall’astratto al concreto, dal sapere generale al caso singolo, dallo schema al particolare inedito. «Bisogna… evitare … di essere come uno che abbia imparato a memoria un manuale di armonia musicale e non sappia esercitarla», così ammoniva il testo di un significativo esponente dell’antica Accademia2; e Kant, nel tempo che fu suo, dopo un bel po’ di secoli, ancora smascherava l’inganno di coloro che esibiscono filosofie mandate a memoria come una sorta di tecnica del pensiero, mentre elogiava la capacità di fare un uso libero, non imitativo né meccanico, della propria ragione. Kant è stato il teorico dell’esercizio pratico della facoltà del giudizio: un talento naturale, un dono ricevuto non per grazia elettiva, tale da garantire l’applicazione in concreto di regole altrimenti sicuramente a rischio di astratto intellettualismo3. I turbamenti che nascono dal giudizio sulle cose sono dunque il sale della vita, per cui vivere filosoficamente significa frequentare il mondo con abilità logica e spregiudicatezza teorica, e al tempo stesso con i tormenti che accrescono la passione etico-politica. Alla domanda: «cosa s’intende per un “buon giudizio”?», si risponde sin d’ora che in sé ogni giudizio è buono, se per suo tramite si fa onore al vivere degnamente umano, e si allontanano – è pur vero – provvisoriamente le angosce del quotidiano. Rispetto al senso letterale del motto di Epitteto propongo dunque una 2 Ivi, p. 158. Il riferimento a Polemone è tratto da Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, tr. di M. Gigante, Bari 1960, p. 172. 3 I. Kant, Critica della ragion pura, Analitica dei princìpi, Introduzione: Del giudizio trascendentale in generale. 2 3 sensibile mutazione di significato, che ha però il pregio, mi pare, di evitare il risvolto banale di un’etica del disimpegno. 2. Cos’è in generale un giudizio? Tema cruciale della logica proposizionale, il giudizio porta anzitutto in sé il sigillo dell’essere, vale a dire appartiene all’originario luogo da cui proviene il mistero del discorso umano nel mondo. Soggetto e predicato sono come gli opposti uniti nel simbolo eracliteo del logos che è fuoco e che scandisce la misura del movimento: legge universale è il dono del discorso che coglie l’armonia dei contrari. Il giudizio dice l’intero per Parmenide, cioè “decide” la forma dell’essere determinato, escludendo il non essere, mentre fu merito di Platone la scoperta dell’”altro” (l’eteron,ossia il non-essere) presente nel giudizio in qualità non già del mero sensibile ma dell’immagine dell’individuale4. E si potrebbe procedere a lungo intorno alla logica arcaica dei presocratici e dei platonici, sino all’aristotelica distinzione di sapere e saggezza (sophia e phronesis)5 e infine alle suggestioni contenute nella valenza retorica del latino iudicium, nel quale si esplicitava il carattere mondano e concreto della capacità di riflessione. A questi presupposti peraltro induce a pensare lo stesso Kant, al quale si deve – come già sottolineato – la ripresa dello iudicium nella figura della Urteilskraft, nella Terza Critica, e dunque la teorizzazione del ruolo della capacità di “giudizio” nella sfera in senso stretto estetico-valutativa e in senso più ampio pratico-teleologica6. Non è un caso che alla dottrina del giudizio riflettente, con le sue varie implicazioni logiche, ontologiche, politiche, si rifaccia buona parte della filosofia contemporanea, quasi a volere in ogni modo sottrarre la sfera delle motivazioni personali legate alla pratica filosofica più in generale, ai tranelli di una perniciosa fedeltà ai cosiddetti paradisi “istituzionali” (Gehlen), alle abitudini cronicizzate, alle regole perentoriamente assunte ed imposte in epoca di dominio delle tecnoscienze. Una larga fetta della riflessione odierna guarda perciò con grande interesse alla ripresa del “giudizio”, come alla facoltà propriamente umana che responsabilizza ed aggrega parimenti, senza dare più alcun credito ad una pura razionalità priva di passioni o a rinnovate invadenze iperrazionalistiche magari in nome di una restaurata filosofia della storia. Il “giudizio” si pratica nella sfera riconosciuta della contingenza del mondo umano e nella consapevolezza acquisita della totale assenza di criteri pregressi, passivamente ricevuti dalla tradizione e dogmaticamente applicati. L’aspetto più interessante del pensiero kantiano riguarda infatti la dottrina del giudizio di gusto inteso in 4 Un testo classico sull’argomento resta quello di E. Hoffmann, Il linguaggio e la logica arcaica (1925), ed. it. a cura di L. Guidetti, Ferrara 1991. 5 Aristotele distingueva tra phronesis e synesis, indicando in quest’ultima la capacità critica del giudicare, che precede il carattere imperativo del buon senso acquisito (Et. Nic., VI, 11, 1143a10). Tuttavia saggezza e capacità di giudizio riguardano entrambe il dominio non della scienza ma della perspicacia pratica. 6 I. Kant, Kritik der Urteilskraft (1790); si preferisce ora in traduzione italiana il testo a cura di L. Amoroso, Critica della capacità di giudizio, Milano 1995. 3 4 senso largo come la possibilità di comprendere il particolare mediante la capacità di misurare di volta in volta la legalità del casuale. Il mondo accade veramente, quanto al suo essere per noi che lo abitiamo, nell’evento originario del giudizio, che è fonte di relazioni interumane nella costruzione del senso di cui ci si assume il peso e il valore. Di fatto è proprio il ruolo imperativo dell’intersoggettività che viene progressivamente scardinato, sino a far emergere il compito della pratica individuale del discorso in comune7. Il riferimento all’opera di Kant è pressoché d’obbligo, anche per un motivo all’apparenza estrinseco. In essa la ragione pare occuparsi solo di sé stessa. Ed è un bene che sia così perché la filosofia non si lascia “tradire” nella prassi, e conserva opportunamente una impegnativa struttura teorica di fondo. Epperò, benché in assenza di vistosi riscontri reali, sociali, psicologici e antropologici, nelle prime due Critiche – si è detto – Kant aveva passato al laminatoio le tante questioni di biologia e di scienza fisica, di analisi sociale e di ipotesi finali venate di malcelata metafisica, sino ad aprire il sistema nel ’90 con la Critica del Giudizio al nuovo per definizione, al particolare, al vivente, alla storia8. Il gusto, analizzato secondo la forma del giudizio riflettente estetico, si svela un modo di pensare, un bisogno di confronto reale, una disposizione al bene morale, la capacità di sentire la voce dell’universale uscendo dal particolarismo di una soggettività irrelata. La ripresa della nozione latina di sensus communis è emblematica: ci si appellava ad una sorta di senso che abbiamo in comune non già per avallare forti radicamenti storici e culturali, ma per dare piuttosto spazio allo spirito comunitario sul piano della validità universale di princìpi per loro natura trascendentali. All’identità di gruppo si sostituisce l’esigenza di una mentalità molto ampia, la più ampia possibile, sul piano s’intende non dei contenuti ma delle loro potenzialità d’incontro e sulla base del rispetto dei princìpi del discorso seriamente dialettico9. Il senso comune di cui parla Kant è più vicino al vichiano principio direttivo dell’azione (di tutto un popolo, ma anche di tutto il genere umano) che non al mondo della vita entro chiusi giochi linguistici di stampo wittgensteiniano. Si tratta di un senso comunitario che non alimenta apparati di dipendenza, ma sancisce che esiste un fondo originariamente unitario nella stessa umana natura, la quale possiede la facoltà nascosta e misteriosa del giudizio, la sola che renda la filosofia fedele al suo scopo di partenza. Il consulente filosofico non potrà non tenerne conto. 7 Ricordo solo alcuni tra i più importanti autori contemporanei che hanno trattato il tema del giudizio: Jaspers, Gadamer, Arendt, Lyotard, e in Italia, Croce, Scaravelli, Antoni. 8 L. Scaravelli, Osservazioni sulla “Critica del Giudizio” di Kant (1955), in Opere di L. Scaravelli, a cura di M. Corsi, vol. II, Firenze 1968. 9 In particolar modo Hannah Arendt ha riconsiderato la nozione di “senso comune”, sia ne La vita della mente, ed. it., Il Mulino, Bologna 1987, sia nelle sue lezioni kantiane: Lectures on Kant’s Political Philosophy (1982), tr. it., Teoria del giudizio politico, Genova 1991. 4 5 3. Non entro nel merito della pratica della consulenza filosofica, alla quale oramai specialisti del settore, in Italia e fuori dell’Italia, hanno dedicato scritti acuti e particolarmente impegnati10. Aggiungo però alcune considerazioni connesse alla tesi della centralità teorica della questione del giudizio. Il dialogo tra non esperti, tra il filosofo praticante, socraticamente conscio di non sapere e l’ospite che richiede “aiuto” si svolge comunque in condizioni di evidente squilibrio, se non di vera e propria dipendenza reciproca. Il postulante aspetta conforto al suo male di vivere, e il consulente potrebbe cadere nel facile errore di trovare vie rassicuranti muovendo in primo luogo le emozioni e poi risospingendo l’interlocutore all’interno della sua realtà di provenienza. Entrambi i procedimenti poco o nulla avrebbero a che fare con la filosofia e col senso da essa tradizionalmente assunto. La sollecitazione critico-razionale, si sa, mette piuttosto l’animo in allarme producendo ansia di decisione, e potrebbe cedere facilmente il passo a pur meritevoli ma più agili prospettive di una maggiore serenità interiore. A ben vedere l’imbarazzo del consulente filosofico ripropone una sorta di ricorrente tentazione in cui da sempre la filosofia è incorsa: il puro idealismo come l’estremo pragmatismo, la metafisica dell’assoluto, il materialismo, l’edonismo, sono esempi, autorevoli, tra altri della tendenza a fissare un’origine o un approdo, un sentiero privilegiato o una via di edificazione e di perfezionamento. Il compito del consulente filosofico è perciò tra i più delicati e difficili, perché attiene in primo luogo alla concezione stessa del filosofare di fronte al proprio tempo, alla storia e ai fatti particolari che richiedono d’essere compresi e riguardano tutti come componenti di una stessa comunità di soggetti razionali. Il confronto a due non dovrebbe svincolarsi dal più vasto mondo di significati e di espressioni pubbliche, pena la radicalizzazione di un rapporto declinato forse solo sul filo dell’emozione e della cura estremizzata del sé. Al dialogo della terapia psicologica si dovrebbe sostituire magari un colloquio a più voci, una sorta di esercitazione in comune, uno scambio tra diverse modalità di ricezione degli eventi, che pure non sarebbe immune dal pericolo della passività e dell’imbonimento ideologico. La responsabilità del consulente filosofico è perciò totale e assoluta, come la responsabilità del pensiero che giudica caso per caso con il solo criterio della sua incondizionata autonomia. Riuscire a trasmettere il bisogno di una razionalità critica, ricca di pathos emotivo nella partecipazione a principi comuni e condivisi, è l’insegnamento principale della filosofia come pratica di vita. A tal scopo tutti i mezzi utili sono da ritenere buoni e tutti i rimedi saranno opportuni se capaci di cancellare un inveterato sospetto verso il 10 Anche in tal caso ricordo i testi principali: G.B. Achenbach, La consulenza filosofica, Apogeo, Milano 2004; R. Lahav, Comprendere la vita, Apogeo, Milano 2004; N. Pollastri, Il pensiero e la vita, Apogeo, Milano 2005. Interessante anche il fascicolo di “Discipline filosofiche” (XV, I, 2005) su La svolta pratica in filosofia, vol. 2: Dalla filosofia pratica alla pratica della filosofia. 5 6 nuovo e verso ciò che ancora non si conosce, com’è tipico del relativismo dogmatico o di un assolutismo metafisico. L’antropologia filosofica, che annuncia l’aspro cammino dell’esistenza attiva nel mondo, segue e non precede il compito critico. Già un gran risultato avrà raggiunto il consulente filosofico capace di provocare nell’interlocutore quella purificazione dei suoi concetti e princìpi richiesta da Kant a chi si avvicinava al suo pensiero. Una pratica di purificazione, di cui parlava il Forestiero di Elea nel Sofista platonico, che se non è la cosa più dolce, «è certo indispensabile – scriveva Scaravelli a chiusura della sua Critica del capire – a far sì che possiamo produrre in noi quella intima disposizione che ci metta in grado di non essere costretti a vedere dappertutto solo ciò che già conoscevamo»11. C’è un nuovo possibile significato in ogni parola anche la più ripetuta, e solo nel discorso giudicante e disputante sarà possibile intuire la proposta di verità ch’essa contiene. 11 L. Scaravelli, Critica del capire e altri scritti, in Opere, cit., vol. I, p. 196. Sulla questione del giudizio mi permetto di rinviare alla Introduzione al mio volume, Il giudizio e la regola. Saggi e riflessioni, Loffredo, Napoli 1997. 6