Capitolo IV
Filosofia del giusto/non-giusto
e Teoria del legale/non-legale
Come si è mostrato nelle pagine che precedono questo capitolo, la lettura del libro La polemica sui concetti giuridici conferma
che il linguaggio-discorso (logos) ed il diritto (nomos) sono in una
condizione di inscindibile coalescenza, radicata nel «discorso apofantico», che è un «lasciar vedere» 1 nell’apertura della «situazione
affettiva» 2 (pathos). Nelle sue riflessioni su «Sistema grammaticale e sistema giuridico» 3, Pugliatti, uno dei quattro autori del libro
ora ricordato, invita esplicitamente a considerare il nesso che lega
la grammatica ed il diritto, in quanto fenomeni esclusivi dell’essere-uomo.
Riprendendo alcune considerazioni già proposte, si può tornare a discutere che, secondo una interpretazione sviante dell’opera
di Heidegger, non è l’uomo-soggetto che parla, ma è il linguaggio
che parla nell’uomo, considerato una entità parlata, uno scenario
desoggettivato dell’accadere degli enunciati 4, un luogo del dire
senza il dirsi, che è cancellato dall’assenza di perché, di scopi.
Questo esito configura una condizione del diritto divenuta sempre
più dominante nel presente; in essa si afferma la flessibilità, assoluta ed ‘innocente’, delle norme verso la fattualità vincente nell’accadere dei messaggi, ovvero delle informazioni asoggettive che cir1
M. HEIDEGGER, Essere e tempo, § 7-B.
Ivi, § 29.
3
Cfr. S. PUGLIATTI, Grammatica e diritto, p. 3 ss.
4
Cfr. J. DERRIDA-É. ROUDINESCO, Quale domani?, p. 12.
2
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Scienze giuridiche senza giurista: il nichilismo ‘perfetto’
colano nelle operazioni contingenti dei ‘sistemi di funzione’, determinati dal mercato.
Si consolida il fondamentalismo funzionale, che concretizza il
nichilismo giuridico ‘perfetto’ e dunque esige che non ci si interroghi più su ciò che distingue la terzietà del diritto dalla dualità
dell’ordine dei fatti, ‘decisa’ dal fatto-più, la potenza-più-potente.
Profetizzata da Nietzsche, l’«assoluta omogeneità in tutto ciò che
avviene» 5 nel ‘sensibile’ e nel ‘sovrasensibile’ chiede la caduta dell’intervallo disfunzionale tra il detto ed il non-detto; residua il continuum della fattualità sistemica. Viene così negata la differenzadi-senso, che incide come rinvio-di-senso; dunque risulta rimosso
il ‘tra’ costituito dalla scissione-unità che, oltre il nudo darsi dei
fatti, separa e connette il silenzio e le parole, il regolato e la regola,
il procedere e la procedura. Negli animali e nelle macchine, queste
ultime quattro dimensioni non sono differenziate; ne consegue
che costituiscono l’unità senza soggettività delle loro operazioni
prive di storia e di istituzioni, senza scissione tra le norme ed il diritto e, pertanto, mai in attesa dell’arte dell’interpretazione che superi il ‘vuoto’ tra la generalità delle norme e la singolarità della situazione che riguarda il soggetto del diritto nella sua libertà-responsabilità.
Negli uomini, il regolato e le regole, il procedere e le procedure
sono separati; i loro rapporti risultano lasciati all’esercizio della libertà che, aperta sulle alternative non disponibili del pathos –amore/odio, giusto/non giusto, ecc. –, istituisce la disciplina giuridica
dell’intersoggettività; dunque sono quattro dimensioni che non
possono essere fatte appartenere al materiale di un saper-fare, lavorato dal tecnico delle norme, surrogabile da un software, sempre strutturato dall’assenza della ‘apertura affettiva’.
Nei parlanti, l’intervallo tra parole e silenzio è proprio della
prospettiva del per-se-stesso e non di quella del per-qualcosa; è l’intervallo che apre lo spazio della libertà dove emerge quell’io non
fungibile che sceglie la formazione del se-stesso nell’istituire con
gli altri le regole del relazionarsi, selezionate da una interpretazio5
F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, p. 156 ss.
Filosofia del giusto/non-giusto e Teoria del legale/non-legale
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ne del nesso uomo-diritto che non è tecnica, perché la parola ed il
silenzio degli uomini non sono trattabili numericamente nelle tecnoscienze e dunque non sono anticipabili nelle conoscenze lavorate
dai programmi bio-macchinali.
La libertà del parlante si mostra essere «quel certo principio
mediante il quale possono avvenire certe cose che altrimenti non
sarebbero accadute, oppure possono non avvenire certe cose che
altrimenti sarebbero accadute. Questa – conclude Fabro – è l’assolutezza costitutiva dell’io» 6; solo muovendo dalla struttura
dell’io libero, così descritta, hanno senso la formulazione e l’impiego dei concetti giuridici principali.
Ogni saper-fare è una tecnica del per-qualcosa, ma inevitabilmente incontra l’uomo nelle manifestazioni del suo per-se-stesso,
sottratto alle tecno-scienze, essendo non oggettivabile, né quantificabile in una numerazione che lo tratti così come vengono trattate tutte le entità non umane.
Le parole del per-se-stesso non sono riducibili nei numeri del perqualcosa. Il nichilismo giuridico ‘perfetto’ progredisce attraverso la
‘trasmutazione’ tecnica delle parole nei numeri.
Non ci si chiede con meraviglia e rigore sufficienti perché, nella
quotidianità del co-esistere, gli uomini abbiano relazioni comunicative che si svolgono nel linguaggio delle parole e non in quello dei
numeri. Si tralascia di analizzare e di approfondire perché il ‘lavoro’ dell’infanzia dell’uomo sia rivolto a coordinare l’istituzione, la
ripresa ed il viraggio del senso enunciato nelle parole; certo non è
riducibile in un lavoro ‘tecnico’ volto prioritariamente al ripetereeseguire i modelli di successione dei numeri. Il compito peculiare
del parlante consiste nell’aprire nuove «possibilità di senso» 7 nella
comunicazione, che si svolge nella comunità 8, nella polis, dove
all’essere-uomo appartiene che «nessuno è solo davanti alla vita» 9;
6
C. FABRO, Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda, p. 85.
E. FINK, Existenz und Coexistenz, p. 46.
8
Cfr. F.M. DE SANCTIS, voce Comunità, in Enciclopedia del Novecento, vol.
XII, pp. 223-231; G. CRIFO, Civis. La cittadinanza tra antico e moderno, p. 23 ss .
9
E. FINK, Existenz und Coexistenz, p. 45.
7
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Scienze giuridiche senza giurista: il nichilismo ‘perfetto’
costantemente ogni singolo parlante pone in discussione la vita, interpretando con gli altri le possibili ipotesi di senso inscrivibili in
essa mediante la durata delle istituzioni, che, riguardando la libertà 10, non possono certo essere confuse con gli anelli di una catena di operazioni bio-macchinali.
Lo spegnersi o l’oscurarsi del nesso parola-silenzio svuota l’attività del legislatore, che è tale se custodisce le dimensioni distinte
della trialità del logos (detto/non-detto) e della terzietà del nomos
(norme/diritto) 11, entrambe illuminate dall’apertura del pathos e
dunque non quantificabili nel linguaggio numerico più efficace,
oggi quello dei prezzi, che fa ‘girare’ il fondamentalismo funzionale delle tecno-scienze, privo del sentire patetico-affettivo. La terzietà del diritto opera nell’unità-differenza del terzo-legislatore, del
terzo-giudice e del terzo-polizia 12, figure imparziali e disinteressate
e dunque non commercializzabili nel mercato del self-service normativo 13; qui ‘funziona’ invece il tecnico delle norme, in una scienza giuridica senza giurista, divenuta tale perché incapace di questionare nel profondo la differenza tra la trialità delle parole (perse stesso/filosofia) e la dualità dei numeri (per-qualcosa/tecnica).
Si afferma l’asservimento ai numeri del linguaggio dei prezzi imposti dalla configurazione duale del mercato, determinato dall’avere-più=funzionare-più, che accade per e nella potenza-piùpotente.
Utilizzando gli strumenti delle tecnologie odierne, risultanti
dall’ibridarsi della neurobiologia e dell’intelligenza artificiale, le
scienze cognitive mostrano che le profezie filosofiche del nichilismo
‘perfetto’ di Nietzsche e la spiegazione scientifica dell’uomo si coappartengono attualmente nel fondamentalismo funzionale. In una tale condizione, emerge il convincimento che il linguaggio accade
nell’uomo e le norme accadono nelle relazioni; linguaggio e norme
10
Cfr. A. JELLAMO, Quale liberalismo? Saggi su John Stuart Mill, Bologna,
1996, p. 27 ss.
11
Cfr. il mio Filosofia del diritto, p. 120.
12
Cfr. A. KOJEVE, Linee di una fenomenologia del diritto, p. 184.
13
Cfr. P. LEGENDRE, Sur la question dogmatique en Occident, Paris p. 67.
Filosofia del giusto/non-giusto e Teoria del legale/non-legale
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sono ritenuti ‘sintomi’ asoggettivi dei sistemi bio-informazionali
gerarchizzati oggi dal ‘sistema mercato’. Permarrebbe assente un
esercizio della soggettività, imputabile al singolo parlante; dunque
non avrebbe senso il giudizio giuridico, che, sin dalla sua genesi, è
stato istituito per i soggetti imputabili e non per le cose, né per i viventi o per le macchine informatizzate, tutti funzionanti come centri di imputazione senza imputabilità, perché consistenti in operazioni sistemiche che non presentano nulla della responsabile creatività della parola extrasistemica. Giuridicamente si risponde-di-a,
si è responsabili, quanto alle condotte selezionate dall’esercizio
della libertà-imputabilità, preparate dal silenzio che conferisce
senso alle parole dello scegliersi del soggetto ed al transitarne degli effetti nell’esistenza degli altri; le operazioni sistemiche,
pre/post-umane, non rispondono al terzo-Altro del loro accadere,
essendo integralmente coincidenti con lo svolgimento dei programmi che le determinano e quindi permanendo non imputabili
perché non responsabili di una scelta ascrivibile alla libertà.
Il nulla, celebrato nel nichilismo ‘perfetto’, non è riferibile alla
scelta libera; «il nulla non si sceglie, ci si abbandona al nulla e il
nulla perché è nulla non può essere scelto come nulla, ma sono io
stesso – sostiene Fabro – che mi rifiuto di scegliere quello che potrei scegliere, e scelgo quello che non posso essere; perché non
posso essere il nulla» 14, che dunque comporta una ‘negazione’
della scelta, la sua costrizione nella vuotezza della scelta di non scegliere; di quest’ultima e di ogni diversa qualificazione della scelta
sono però responsabile, anche giuridicamente, quanto a quel che
incide nell’esistenza degli altri.
Si constata che nelle aule di giustizia continuano ad entrare
unicamente i soggetti-parlanti, imputabili, ad esempio, perché autori di scelte che si concretizzano nella costruzione di un software
produttivo di effetti che transitano negativamente su altri uomini;
certo non vi entrano i materiali delle memorie informatiche dove il
software viene ‘salvato’, né i programmi che producono programmi per l’accrescimento tecno-scientifico della potenza-più.
14
C. FABRO, Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda, p. 231.
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Scienze giuridiche senza giurista: il nichilismo ‘perfetto’
Nel postumanesimo, risultante dalla spiegazione scientifica
dell’uomo, ogni soggetto-parlante si avvia a coesistere come fanciullo ‘innocente’, nell’autopoiesi di un giuoco dove coincidono
l’essere ed il divenire, in una contraddizione che Heidegger ripropone con l’espressione ‘caos della necessità’; caos=darsi dei casi,
necessità=svolgersi delle cause. Linguaggio e norme sono ora ritenuti strumenti desoggettivati del fondamentalismo funzionale, che
le norme assecondano e servono operando come apparato immunitario dei fatti vincenti, in un essere=divenire senza perché e senza scopi 15, essendo generato sia dalla causalità, sia dalla casualità.
I diritti dell’uomo si svelerebbero essere null’altro che uno stato necessario-contingente del successo fattuale delle operazioni
tecno-sistemiche dell’economia, della politica, dei mass media,
ecc.. Nelle relazioni giuridiche cadrebbe così il ruolo centrale del
concetto di responsabilità del soggetto libero, imputabile davanti
al terzo-Altro; come osserva Derrida, «il concetto di responsabilità
è [però] inseparabile da tutta una griglia di concetti connessi (proprietà, intenzionalità, volontà, libertà …)» 16, che costituiscono la
quotidianità del ‘giuridico’.
«L’assunzione di responsabilità è l’esercizio della libertà» 17,
che risponde dei suoi atti.
Sia pure nei confini degli itinerari che gli appartengono, lo stesso Derrida osserva che ‘responsabilità, parola, libertà’ sono «concetti, che vengono usati tradizionalmente per definire la specificità
umana, rappresentano gli elementi costitutivi del discorso giuridico» 18. Si constata che nei suoi studi non compaiono argomenti
espliciti e sufficienti per togliere l’uomo ed il diritto dall’indifferenziato di ‘tutto ciò che è’, da una presunta omogeneità con il
non-umano; però si prende atto che Derrida sente di dover superare un tale stato di indifferenziazione, nel convincimento che
«esista una discontinuità radicale fra quelli che chiamiamo gli ani15
Cfr. F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, p. 9.
J. DERRIDA, Forza di legge, p. 71.
17
C. FABRO, Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda, p. 87.
18
J. DERRIDA-É. ROUDINESCO, Quale domani?, p. 107.
16
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mali – e in particolare i Primati – e l’uomo» 19 e dunque fra le leggi trovate nei viventi e le norme giuridiche istituite dai parlanti.
L’in-differenziazione tra fattualità vincente e leggi vigenti, dunque tra il regolato e le regole, tra il procedere e le procedure, configura il non-umano e cancella il nucleo della giuridicità dei parlanti, pensato nel concetto di differenza-nomologica 20, che nomina
l’unità-scissione tra norme (il detto di un sapere chiuso, intrasistemico) e diritto (il non-detto del sapere rinviante, extrasistemico).
Una fenomenologia del diritto chiarisce queste tesi: a) le norme costituiscono l’elemento del calcolabile, b) il diritto presenta invece
la dimensione dell’in-calcolabile 21 e, in quanto tale, può incontrare la libertà che «non si misura con nulla» 22 di quantificabile nel
‘numerico’, ma si lascia valutare nella qualità del relazionarsi con
gli altri e delle regole che lo disciplinano.
In Nietzsche si legge il canone di una giustizia misurata e calcolata solamente nel ‘detto’, numericamente enunciato secondo il
linguaggio dei prezzi: «ogni cosa ha il suo prezzo, tutto può essere
comprato» 23. Nel discutere i contenuti di questa tesi, Derrida descrive che «nell’esercizio della giustizia, e innanzitutto nell’assiomatica del diritto privato, pubblico o internazionale», opera «un
lessico della responsabilità di cui si dirà che non corrisponde ad alcun concetto, ma che oscilla senza rigore attorno a un concetto introvabile» 24.
Le osservazioni qui proposte consentono di affermare che la
giustizia-merce, comprata secondo il prezzo del mercato (Nietzsche), e la giustizia riferita ad un concetto ‘introvabile’ di responsabilità (Derrida), sfuggente e vuoto, sono due direzioni inter19
Ivi, p. 106.
Cfr. il mio Senso e differenza nomologica, Roma 1993.
21
In direzione affine, ma usando il lessico che gli è proprio, Derrida pensa
questa distinzione, nominando la giustizia come «esperienza dell’impossibile»;
cfr. J. DERRIDA, Forza di legge, Torino 2003, p. 66.
22
J.-L. NANCY, L’esperienza della libertà, p. 74.
23
Cfr. J. DERRIDA, Donare la morte, Milano 2003, p. 142.
24
Ivi, p. 117.
20
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pretative accomunate negativamente dal non cogliere che il giusto ed il vero non si lasciano definire in una qualche oggettivazione calcolabile nell’ordine del quantum; si presentano invece
nell’arte del giurista che incontra la qualità esistenziale delle relazioni tra i parlanti, riprendendo il diritto (non-dicibile) che seleziona ed interpreta i contenuti delle norme (dette) che le regolano.
Nella storia del coesistere nelle istituzioni giuridiche, il detto
(norme/calcolabilità) appartiene al registro del legale/non-legale, il
non-detto (diritto/incalcolabilità) a quello del giusto/non-giusto. Le
norme (passato, che opera qui ed ora) sono state già presentate, il
diritto (presente, che incide sul futuro) è da ri-presentare mediante l’arte del giurista, che custodisce la dimensione del ‘pensiero
preparatorio’, come è proprio dell’opera ermeneutica del terzogiudice, che ha la sua principale dimensione temporale nel futuro.
Pur se il giudice è impegnato nel valutare fatti accaduti nel passato, la sua opera di terzo-Altro può incidere unicamente sul futuro;
il passato degli uomini non è mai riproducibile e restaurabile, certo neppure da una ‘giusta’ sentenza.
L’opposizione tra il giusto (riconoscere l’altro) ed il non-giusto
(escludere l’altro) si chiarisce nel considerare che la dimensione
del giusto è universale, ma ha la sua concretezza nell’esistenza del
singolo uomo, così da potersi dire che si tratta del ‘giusto in sé, che
ha storia nell’unicità del dirsi del parlante’; questo significa che la
dimensione universale del giusto concerne ogni uomo in quanto
uomo, ma acquista una sua realtà nel dirsi del singolo soggetto
parlante, nelle sue condotte. Si può quindi affermare che l’universalità (generalità/astrattezza) e l’esistenzialità (unicità/concretezza) del giusto costituiscono due dimensioni inscindibili nell’opera
che disciplina la coesistenza giuridica dei parlanti. Ogni singolo
soggetto, da una parte, si ‘appropria’ del giusto nella sua consistenza universale appartenente a tutti gli uomini in quanto uomini, e, dall’altra, vi inscrive simultaneamente l’unicità della sua esistenza.
Proprio nella direzione della differenza-nomologica, Benedetti
ricorda la distinzione del «diritto dalle leggi spicciole, che si accavallano quotidianamente e si risolvono nella sostanza di atti di am-
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ministrazione» 25, funzionanti con l’intervento di un qualsiasi tecnico delle norme, privo dell’arte del diritto e dunque estraneo all’opera del selezionare secondo un ‘perché’ (questione del senso esistenziale), oltre un ‘come’ (successo delle operazioni sistemiche).
Ancora una volta, la fenomenologia del diritto mostra che il codice binario legale/non-legale non è il prius, né storico, né operazionale, della giuridicità, poiché ‘funziona’ in un insieme di qualificazioni della coesistenza discusse ed ipotizzate, prima, secondo
l’opposizione-selezione tra il giusto (riconoscimento) ed il nongiusto (esclusione); è l’opposizione-alternativa più iniziale ed è costitutiva del cominciamento stesso del fenomeno diritto e del suo
incidere nelle istituzioni del coesistere. Questo prius conferisce
senso giuridico sia ai ruoli dei soggetti, sia ai termini del linguaggio del giurista, manifestando la qualificazione temporale del diritto, che, nel conferire durata, libera i rapporti dalla mutevolezza
dell’improvviso, dall’incertezza delle relazioni, ovvero dall’eventualità di essere esclusi perché costretti ad assoggettarsi all’accadere del fatto-più e quindi alla potenza-più-potente.
Secondo questa visione, il giurista, come ‘artista della ragione’,
può dire-interpretare il detto, le norme – il ‘dato’ – solo muovendo dal non-detto – il ‘fenomeno diritto’ –, che eccede ogni definito sistema giuridico. Si può mettere in parole il registro del legale/non-legale (Teoria generale del diritto) solamente muovendo dal
registro del giusto/non-giusto (Filosofia del diritto), che, nella prospettiva fenomenologica, è la struttura più iniziale del diritto, mai
compiutamente esprimibile in un definito sapere sistemico.
Se rimangono confinati e determinati secondo il modello del
codice binario legale/non-legale, il giusto ed il non-giusto, così come il bene ed il male, ecc., presuppongono un momento genetico,
individuato in una «volontà legislatrice» 26; questo sostengono anche certe direzioni teologiche, dove è riaffermato che non è la distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è non-giusto a selezionare i
25
G. BENEDETTI, La contemporaneità del civilista, p. 1268.
M. SCHELER, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, p. 265; cfr.
G. VASSALLI, Formula di Radbruch e diritto penale, Milano 2001, p. 279 ss.
26
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Scienze giuridiche senza giurista: il nichilismo ‘perfetto’
contenuti storici delle norme giuridiche, ma è la forza della volontà più forte, quella dell’Autorità che è/ha il Potere, oggi de-sacralizzata e presentata in una modalità della potenza-più-potente:
il funzionare-più. In questa prospettiva, anche i fenomeni affettivi
– l’amore, la simpatia, l’amicizia, ecc. – potrebbero divenire il contenuto imposto dalla volontà legislatrice (Autorità-eteronomia),
non considerando però – ammonisce Scheler – che «non è in potere di nessun uomo amare un altro semplicemente per precetto» 27, intendendo qui con ‘amore’ non il ‘dovere di amare, ovvero
il rispetto dell’altro, ma la predilezione dell’amato. Nell’affinità
estetica, nella comunanza speculativa, ecc., il prediligere non viene sentito e coesistito come se potesse essere l’esecuzione di un
qualche comando, certo neppure di quello oggi prodotto dalle tecno-scienze, peraltro costitutivamente anafettive.
Heidegger riconosce che «è stato merito dell’indagine fenomenologica l’aver di nuovo impostato una franca visione di questi fenomeni», ovvero dei fenomeni dell’apertura affettiva; rileva che
proprio «Scheler … ha diretto la problematica sulle connessioni
‘fondative’ che legano e distinguono gli atti ‘rappresentativi’ a quelli ‘interessativi’» 28. Il primo di questi due ordini, quello degli atti
‘rappresentativi’, se appartiene al logos scisso dal pathos, nomina
l’attività della ragione tecno-scientifica che opera sugli enti per calcolarli, produrli e monetizzarli, sempre nell’indifferenza-chiusura
alla dimensione patetico-affettiva. Il secondo ordine, quello degli atti ‘interessativi’, è radicato nel pathos, dove l’esistente sente che ‘ne
va di se stesso’ nella qualità del suo relazionarsi con gli altri. L’apertura affettiva costituisce lo spazio non-calcolabile; qui il pathos custodisce il logos dall’esaurire le parole della comunicazione discorsiva nei numeri del fatto-più=funzionare-più, preparatorio dell’esito
tecnico-funzionale del logos: l’attuale condizione logotecnica.
«Nell’esperienza fenomenologica – afferma Scheler – … non
esiste più alcuna separazione tra il ‘supposto’ ed il ‘dato’ … [è
27
M. SCHELER, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, p. 279; cfr.
C. FABRO, Saggio Introduttivo, in S. KIERKEGAARD, Atti dell’amore, Milano 2003.
28
M. HEIDEGGER, Essere e tempo, § 29.
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quell’]esperienza in cui viene inteso solo quanto è dato ed in cui
nulla è dato al di fuori dell’inteso. Solo nella coincidenza di ‘inteso’
e di ‘dato’ ci si manifesta il contenuto dell’esperienza fenomenologica. In questa coincidenza, nel punto in cui si concretano, incontrandosi, l’inteso e il dato, appare il ‘fenomeno’» 29. È questa l’interpretazione proposta da Scheler quanto al cominciamento fenomenologico di Husserl, diretto ‘alle cose stesse’ 30, dove Scheler
coglie però che il coincidere tra il ‘dato’ e l’‘inteso’ ha rilievo per
l’uomo solo in quanto viene illuminato dalla connessione tra logos
e pathos.
L’analisi fenomenologica chiarisce che: «la percezione affettiva» e dunque il prediligere l’altro o il considerarlo indifferente,
l’amarlo e l’odiarlo, il relazionarvisi secondo il giusto o il non-giusto, ecc., hanno «un loro contenuto a priori specifico» 31, che non
dipende né dal volere dei singoli, né dall’accadere dei fatti delle relazioni intersoggettive dei parlanti, trattate in una sistemazione ‘logico-razionale’, tecno-scientifica. Si vuol sostenere così che l’avere
un relazionarsi giusto con l’altro (riconoscendolo) oppure nongiusto (escludendolo), l’amarlo o l’odiarlo, ecc., costituiscono degli inizi non ulteriormente spiegabili nell’attività della ragione, ritenuta un apparato usabile per sistemare quel che viene posto nelle forme logiche costruite mediante espressioni modellate nell’ordine numerico-calcolante. In questo senso, con Scheler si descrivono le modalità del relazionarsi, radicate in quegli a priori che
non sono producibili, né disponibili secondo una assoluta padronanza logico-sistemica, oggi accreditata alla commistione delle conoscenze scientifiche e della prassi tecnica. Il riconoscere o l’escludere l’altro e dunque il giusto e l’ingiusto costituiscono dimensioni iniziali della relazione giuridica; sono degli a priori e non un risultato del cosiddetto intelletto ordinatorio-produttivo, attualmente configurato dal servire strumentalmente il fondamentalismo funzionale.
29
M. SCHELER, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, pp. 77-78.
E. HUSSERL-M. HEIDEGGER, Fenomenologia, p. 235.
31
M. SCHELER, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, p. 94.
30
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Scienze giuridiche senza giurista: il nichilismo ‘perfetto’
Con il superamento di un logos non reciprocamente illuminantesi con il pathos, la verità si disvela essere la qualità della relazione
con l’altro; il giusto è il contenuto del vero ed il vero è il relazionarsi
giusto nel riconoscimento che supera l’esclusione, prodotta dal fattopiù=potere-più. Queste tesi comunicano che la verità dell’esisterecoesistere non consiste solo nella correttezza logico-formale di
enunciati ‘razionali’, non si esaurisce nell’attività sistematoria, produttivo-cognitiva, delle ‘nude norme’, ma riguarda l’affettività, il
‘come ci si sente con se stessi’ nelle relazioni con gli altri, regolate
secondo le alternative dell’io profondo, sospese tra la gioia del
convenire-condividere-con-l’altro (giusto) o la noia dell’indifferenza-verso-l’altro (non-giusto), non ulteriormente spiegabili nelle
forme delle operazioni logotecniche.
Nella prospettiva ora descritta, Scheler critica la mitologia, sempre ritornante nella storia del pensiero, di «un’attività produttiva
dell’intelletto», che muoverebbe da un «caos privo di ordine» 32.
«Se il bene ed il male non sussistono in un particolare contenuto
della valutazione assiologica o del volere – continua Scheler –, bensì nella mera conformità del volere alla legge ne deriva necessariamente che ogni enunciato di questo tipo può essere buono e cattivo» 33, giusto o ingiusto; oggi diviene quel che viene ‘deciso’ dalla
contingenza della forza-più=funzionare-più, che, mediante le operazioni logotecniche, produce le norme e le impone, nell’indistinzione tra il liberare gli altri liberando se stessi (il ‘giuridico’) e l’assoggettare gli altri assoggettando se stessi (il ‘controgiuridico’).
Il giudizio deve certo conformarsi alle norme vigenti, «seguire
una regola di diritto o una legge generale», ma «deve assumerla …
attraverso un atto d’interpretazione restauratore», che non esige
semplicemente una «attività conservatrice e riproduttrice», bensì
– oltre la lettera di queste affermazioni di Derrida – esige l’arte del
riprendere l’a priori dell’intenzionalità giuridica: l’opposizione
giusto/non-giusto. «Ogni decisione è differente e richiede una interpretazione assolutamente unica», non affidabile quindi alla se32
33
Ivi, p. 95.
Ivi, p. 365.
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103
rialità del saper-fare usato dal tecnico delle norme, se non si vuole
la macchinalizzazione del giudicare, funzionante con coerenza
quando si constata ormai che «il giudice è una calcolatrice» 34, tale perché privo del pathos che illumina il logos nell’interpretareapplicare il nomos.
«Tra sapere e decidere c’è un salto che si impone come necessario, anche se prima di prendere una decisione è opportuno sapere quanto più e meglio è possibile» 35. Il termine ‘salto’ nomina
il darsi dello spazio aperto all’arte del giurista, che, riprendendo il
prius non disponibile del giusto/non-giusto, colma il vuoto tra la
generalità-astrattezza delle norme e la singolarità-concretezza del
caso da trattare; non si dà invece alcun ‘salto’ lungo le fasi di svolgimento della tecnica eseguita dall’operatore delle norme, che si limita a registrare il continuum del fluire di fasi sistemico-fattuali,
modellate dal procedere bio-macchinale ed oggi generate dal funzionare-più, dal suo accadere produttivo di modalità di esclusione
controgiuridica, ‘decise’ dal fondamentalismo funzionale.
Nel lavoro dei biologi, dei fisici, ecc., non compare mai nulla di
un tale ‘salto’, né di quel che apre lo spazio dell’opera d’arte, ovvero del ‘vuoto’ che separa e lega nella coessenzialità il senso istituito e l’interpretazione che inevitabilmente ne segue. Il giurista
invece legge le norme istituite in un certo contesto storico, formato dalle ipotesi di senso che individuano e qualificano una definita
condizione del coesistere e dunque non può che interpretare le
norme riprendendo l’insieme delle opinioni-ipotesi che ne hanno
segnato la genesi. Il giurista compie quindi il suo lavoro come ermeneutica creativa, dove il nomos (terzietà) è connesso al logos
(trialità), illuminato dal pathos e dai suoi a priori non-disponibili,
che costituiscono l’apertura della sfera affettivo-relazionale. Il testo delle norme vigenti costituisce l’opera del terzo-legislatore; in
quanto tale, come ogni altra opera che ha i tratti dell’arte, attende
che l’interprete ne dia la sua lettura, che però non è l’unica possibile, permanendo «la necessaria consapevolezza delle molteplicità
34
35
J. DERRIDA, Forza di legge, pp. 75-76.
J. DERRIDA-É. ROUDINESCO, Quale domani?, p. 81.
104
Scienze giuridiche senza giurista: il nichilismo ‘perfetto’
delle interpretazioni» 36. Senza l’attività dell’interprete, non anticipabile perché ogni volta unica nei distinti gradi del giudizio giuridico sui singoli casi, le norme non avrebbero alcuna vita reale
nell’esperienza giuridica, sarebbero come un morto spartito musicale, mancante della vita che può venire solo dall’esecuzione 37 che
l’interpreta.
Riprendendo ancora una volta il nucleo della tesi discussa da
Pareyson «l’opera non vive che nelle sue proprie esecuzioni» 38, si
deve dire che la vita delle norme (terzo-legislatore) è nelle loro interpretazioni (terzo-giudice). Quando si sostiene che «l’opera d’arte è congenitamente incompiuta, e questa sua incompiutezza suscita e attira il complemento delle molteplici interpretazioni» 39, allora si è impegnati anche ad affermare che le norme giuridiche sono strutturalmente incompiute, perché nel dire-enunciare il loro
contenuto non possono mai enunciare l’inesauribilità del diritto.
Pareyson sostiene che l’opera d’arte «suscita, desta, stimola infinite interpretazioni»; nelle arti figurative, «fissare lo sguardo su certi rapporti di colori e toni e figure impedisce che contemporaneamente si faccia attenzione ad altri e diversi rapporti» e dunque
ogni volta matura una interpretazione che rinvia ad altre e le attiva; proprio questo si coglie nell’opera ermeneutica che il giurista
rivolge alle norme.
Nelle tesi di Pareyson certo si dice che nessuna interpretazione
esaurisce l’opera, ma non si argomenta esplicitamente che l’opera
d’arte è tale solo in quanto è un sapere parziale di un parlante che
rinvia ad altri itinerari di altri saperi parziali, presentati nella discorsività triale ed intersoggettiva, senza che sia mai dato raggiungere un sapere totale, compiuto. Il diritto conferisce una forma alle relazioni giuridiche, le libera dall’in-informe, ma ogni «forma è
36
L. PAREYSON, Estetica. Teoria della formatività, p. 232.
Cfr. L. PAREYSON, Verità e interpretazione, pp. 68-69; G. DE LUCA, Il sistema delle prove penali e il principio del libero convincimento nel nuovo rito, in Scritti in onore di Elio Fazzalari, Milano 1993, pp. 501-525.
38
L. PAREYSON, Estetica. Teoria della formatività, p. 234.
39
Ivi, p. 235.
37
Filosofia del giusto/non-giusto e Teoria del legale/non-legale
105
di per sé interpretabile e interpretanda: suo carattere intrinseco è
di richiedere interpretazione … Ciò accade d’ogni forma» 40. Oltre
queste analisi, si deve considerare l’insuperabilità del sapere parziale, qualificativo anche dello stesso sapere giuridico che istituisce le procedure dei molteplici gradi di giudizio e dunque apre gli
itinerari delle molteplici interpretazioni, sempre in un sapere che
si sa non essere totale-numerico, ma parziale-evocante.
Nel riiniziare delle istituzioni, dunque dopo l’esaurirsi di un regime, dopo il successo di una rivoluzione e pertanto nella stesura
di una nuova Costituzione ed in ogni cominciamento di una coesistenza regolata da norme giuridiche, si osserva che, in tali fasi storiche, gli uomini non ancora coesistono secondo norme vigenti,
ma le istituiscono, mettendo in questione e selezionando i contenuti che appartengono ai poli opposti giusto/non-giusto. Istituiscono modelli di relazione, qualificativi della res publica, ecc.; li
pongono in parole e pertanto li significano in una direzione che
viene progettata secondo il futuro del senso, sempre nel questionare sul diritto (giusto/non-giusto) che precede ed eccede ogni sistema normativo (legale/non-legale). Questo riiniziare viene ripreso
ogni volta che il terzo-giudice compie l’opera dell’interpretazione
destinata al passaggio dalla norma generale alla decisione del caso
singolo.
Quando si oblia che la giuridicità è strutturata come il linguaggio-discorso 41, perché è l’unità-differenza di legale/non-legale
(l’enunciato del detto) e di giusto/non-giusto (il silenzio del nondetto), che conferiscono senso e ragione giuridica ai sistemi di norme, allora residua l’Accadere del Nessuno, un fluire indifferenziato, sintomo di una qualche potenza-più-potente. Pugliatti descrive
questo esito nel considerare che è tale da non poter «neppure essere rappresentato, ma soltanto, nella sua fluidità e nel suo inarrestabile moto, vissuto, senza che del vivere si possa acquistare coscienza riflessa» 42; accade in modalità extrasoggettive, chiarite nel
40
Ivi. p. 240.
Cfr. il mio Filosofia del diritto, p. 80 ss.
42
S. PUGLIATTI, Grammatica e diritto, p. 368.
41
106
Scienze giuridiche senza giurista: il nichilismo ‘perfetto’
loro appartenere oggi alla condizione postumana del fondamentalismo funzionale, realizzazione, come si è argomentato, del nichilismo giuridico ‘perfetto’.
La descrizione di Pugliatti anticipa lo stato contemporaneo
della giuridicità liquida, ambientata in una scienza giuridica senza
giurista; segnala simultaneamente sia il tendenziale venir meno del
formarsi del giurista nella dimensione dell’arte, sia il consolidarsi
dell’addestramento del tecnico delle norme in una qualche modalità del saper-fare, dove il logos si spegne nel numerare-calcolare,
perché non viene illuminato e vivificato dal pathos.
Attualmente, le qualificazioni di giusto e non-giusto (Filosofia
del diritto) sono svuotate ed assorbite in quelle di legale e non-legale (Teoria generale del diritto), così da far registrare la caduta
della separazione tra l’umano ed il non-umano. Oggi, giusto o
non-giusto non riguardano ogni singolo uomo, autore imputabile
delle sue condotte; sono trasmutati in aggettivi, concetti, nomi numerici, che si producono nel combinarsi di tutti gli elementi desoggettivati di un insieme, formativo di un mondo post-umano,
generato e consumato dal vicendevole incidere dell’intelligenza
neurobiologica (sé dei neuroni) e dell’intelligenza artificiale (sé degli elettroni). Scheler osserva invece che «non ci sono cose od
eventi eticamente buoni o cattivi» 43; non si danno elementi
dell’ordine non-umano che siano qualificabili come giusti oppure
non-giusti, perché queste qualificazioni si possono attribuire
esclusivamente all’uomo, alla soggettività del sé esistenziale.
In questa prospettiva, viene discussa una tesi sempre ritornante e così formulabile: «noi non appetiamo qualcosa perché intuiamo che qualcosa è buono, ma chiamiamo buono ciò che noi appetiamo» 44. Con tale tesi, si afferma che «una valutazione morale
non può mai fungere da guida del nostro agire volere, ponendosi
in essa in ultima analisi sempre e soltanto … rapporti di potenza» 45; ne consegue che «ogni tipo di cambiamento del giudizio di
43
M. SCHELER, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, p. 118.
Ivi, p. 214.
45
Ivi, p. 216
44
Filosofia del giusto/non-giusto e Teoria del legale/non-legale
107
valore … rappresenta solo l’espressione … nel fatto che una volontà si sia imposta su un’altra», sia stata portatrice di un forzapiù. Pertanto, continua Scheler, secondo questa visione «il genio
morale non è scopritore, ma ‘inventore’ … il codice morale è solo
un riepilogo successivo dei fini e delle direzioni della sua volontà!» 46. Questa costruzione, produttiva e non disvelante, presenta un concetto di giustizia che non costituirebbe pertanto una
guida per il volere, per le condotte scelte e per gli effetti che transitano negli altri; il ‘giusto’ consisterebbe soltanto nel registrare
quale volere sia stato quello vincente. Nello svolgimento coerente
di questa prospettiva, la giustizia diviene pertanto la giustificazione,
a posteriori, della forza di chi ha vinto perché più forte; il giudizio
giuridico non sarebbe terzo-imparziale, ma enuncerebbe la fattualità
vincente di una parte, senza perché e senza scopi e dunque luogo desoggettivato, innocente, del nichilismo giuridico ‘perfetto’, che utilizza la forma-informe di una legalità-contenitore usabile per qualsivoglia norma.
L’indifferenza verso le qualificazioni opposte dei contenuti delle norme giuridiche, nella divaricazione tra il riconoscimento-liberazione (giusto) e l’esclusione-assoggettamento (non-giusto), può
essere chiarita riferendola a quanto si osserva per i contenuti delle
norme morali. Al riguardo Scheler considera che: «la nostra conoscenza dei valori morali è intrinsecamente connessa alle manifestazioni vitali della nostra volontà più di quanto non lo sia con la nostra conoscenza teoretica» 47: il pathos non è un accessorio eventuale del logos; non lo è neppure nel plesso che – lo si è venuto
chiarendo progressivamente – unisce circolarmente le tre direzioni dell’intenzionalità, ovvero quelle dell’affettività, della logica e
del diritto.
Quando il coesistere della giuridicità viene esaurito nei due poli del legale e del non-legale, segue che si afferma un «nomos impersonale» 48, perché soltanto nell’ordine del giusto e del non-giu46
Ivi, p. 217.
Ivi, p. 393.
48
Ivi, p. 370.
47
108
Scienze giuridiche senza giurista: il nichilismo ‘perfetto’
sto diviene centrale il riferimento al se-stesso nell’interezza della
sua personalità, consistente nel reciproco illuminarsi del logos e
del pathos; l’uomo non è semplicemente un luogo anaffettivo dell’espletamento di operazioni logotecniche che, con flessibilità desoggettivata, si conformano alle leggi imposte da una ragione che
padroneggia perché è più forte, avendo più successo nel ‘caos della necessità’.
Il se-stesso, imputabile giuridicamente, non è semplicisticamente un «soggetto meramente logico» 49, una finzione giuridica;
è anzi la pienezza del se-stesso, il superamento della sua frammentazione negli ambiti oggi definiti dalle operazioni delle tecnoscienze dei diversi ‘sistemi di funzione’. Il se-stesso è l’unità del
soggetto-parlante, «prima della differenza tra percezione interna
ed esterna, tra volontà interna ed esterna, tra sentire, amare, odiare nella propria interiorità o nella sfera dell’alterità ecc.» 50.
L’originarietà fenomenologica del diritto è cancellata con la negazione dell’unità del se-stesso; il concetto di imputabilità costituisce infatti il nucleo di quella concretezza dell’esperienza giuridica che presuppone un se-stesso imputabile; si allude ad un io
non ridotto ad oggetto della spiegazione scientifico-sperimentale,
che lo considera e lo dissolve nei frammenti di io, corrispondenti
alle diverse funzioni ‘innocenti’, perché bio-macchinali, dei diversi sistemi sociali, dove sono smembrati e consumati l’io del mercato, l’io del mass media, l’io del tempo libero, del benessere biologico, ecc..
Al se-stesso appartiene l’esistere ed il coesistere «nel processo di
compimento d’atti intenzionali» 51, sia cognitivi, sia affettivi, ovvero, riprendendo il lessico di Heidegger prima discusso, sia «rappresentativi» (logos), sia «interessativi» 52 (pathos). L’intenzionalità
dell’uomo è volta al futuro, a quanto non è ‘qui ed ora’, perché
permane costantemente in formazione nell’istituire relazional49
Ivi, p. 465.
Ivi, p. 473.
51
Ivi, p. 482.
52
M. HEIDEGGER, Essere e tempo, § 29.
50
Filosofia del giusto/non-giusto e Teoria del legale/non-legale
109
mente il senso; non può costituire pertanto un oggetto della conoscenza e della spiegazione scientifica, che possono trattare solo
quel che è già presente: il materiale della riproduzione-verifica eseguita dalle tecniche di laboratorio.
Non si considera, osserva Scheler, che «i fatti assiologici si impongono come fenomeni originari che non si prestano ad alcuna
spiegazione ulteriore»; si tralascia l’intera sfera della «pura percezione affettiva», ovvero non si prende atto che all’uomo appartiene l’esistere nella «assoluta conformità alle leggi del sentire, dell’amare e dell’odiare, assoluta come quella della logica pura» 53.
Come l’uomo non dispone delle leggi della logica, così non dispone
neppure delle leggi del sentire nella sua apertura affettiva, che si
svolge nel relazionarsi intersoggettivo-triale.
L’uomo non produce e consuma la distinzione logica tra vero e
falso e neppure la distinzione affettivo-relazionale tra amare ed odiare, tra riconoscere (giusto) ed escludere (non-giusto), irriducibili ai
poli del ‘legale’ e del ‘non-legale’, dove oggi tutto può acquisire la
forma vuota della giuridicità post-umana, strumentale al successo
della potenza-più-potente.
L’operatore delle tecno-norme è ora al servizio del fondamentalismo funzionale, del Nessuno, risultante dall’ibridazione tra
l’intelligenza biologica e l’intelligenza artificiale, in una condizione
che è postumana e pertanto è priva sia di autori, sia di gerarchie di
senso, come accade proprio nella natura delle cose e dei viventi
non-umani, perché privi dei contenuti, storicamente istituiti, del
nesso che salda nomos, logos e pathos.
53
315.
M. SCHELER, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, pp. 313-