Il Giardino dei Pensieri Dizionario della Filosofia greca Il Giardino dei Pensieri A cura dell’Archivio “Il Giardino dei Pensieri” www.ilgiardinodeipensieri.eu © Associazione Pi-Greco, 2012 “Dizionari dìi Filosofia” Editio minor, gennaio 2012, in versione di lavoro Dizionario di filosofia greca Termini e nozioni, figure storiche e mitologiche, eventi Accademia / Platonismo È la scuola filosofica (in greco Akademeia) fondata da Platone all’inizio del IV secolo a.C. presso un ginnasio fuori città, ad Atene, vicino a giardini dedicati all’eroe Academo (un mitico eroe attico legato alle vicende di Castore e Polluce che in questo giardino, forse una località boscosa, aveva un culto tombale). Quali fossero i caratteri della scuola è in discussione tra gli studiosi. Tre le ipotesi più importanti: che fosse una istituzione consacrata alle Muse, dal carattere quindi religioso; che fosse una vera e propria scuola di formazione politica, rivolta ai giovani migliori delle diverse parti della Grecia; che fosse una istituzione volta all'insegnamento e alla ricerca, simile ad una moderna università. In ogni caso è nell'ambiente dell'Accademia che Platone compose i suoi dialoghi ed è lì che si formò il giovane Aristotele, rimanendovi fino ai 37 anni. Nel contesto dell’Accademia platonica operarono anche personalità indipendenti, come il matematico Eudosso di Cnido (→). Al tempo di Platone, dovette esserci una diretta rivalità con un’altra scuola che mirava alla formazione politica dei giovani, quella di Isocrate, basata sullo studio della retorica piuttosto che della filosofia. Quanto ai rapporti con le altre scuole socratiche (→), sembra che l’Accademia abbia mantenuto rapporti soltanto con i Megarici (→). Dopo la morte di Platone, l'Accademia come istituzione filosofica visse per molti secoli. Si è soliti distinguere (me sono in uso anche distinzioni più analitiche): - l'Accademia antica (il IV secolo a.C.) caratterizzata dallo sviluppo degli ultimi interessi di Platone, in senso matematico-pitagorico, soprattutto con i primi scolarchi Speusippo e Senocrate: →); - l'Accademia di mezzo (dalla fine del IV al III secolo a.C.), con carattere prevalentemente scettico (le figure di maggio rilievo sono Arcesialo di Pitane e Carneade di Cirene:→); - l'Accademia nuova (dalla fine del III sec. a. C. in poi) caratterizzata dalla ripresa di motivi platonici, in un quadro vicino all'eclettismo. Nell’86 a.C. i locali dell’Accademia furono seriamente danneggiati nel contesto delle devastazioni che l’intera Atene e i suoi sobborghi subirono da parte di Silla. Da questo momento in poi il platonismo non ebbe più una propria istituzione stabile, per divenire una corrente di pensiero diffusa un po’ in tutta l’area ellenistica (ma il centro era Alessandria più che Atene). Per il periodo tra il II secolo a.C. e la fine dell’età antica gli storici della filosofia distinguono - il medioplatonismo (→), dizione entrata nell’uso all’inizio del Novecento per indicare un gruppo composito di commentatori dei dialoghi platonici attivi a partire dal II secolo a.C.; - il neoplatonismo (→), dizione storica con cui si indica la tradizione di pensiero che ha inizio (per noi, che conosciamo male le teorie dei suoi predecessori) con Plotino. In epoca ormai cristiana l’Accademia venne (idealmente) rifondata dai neoplatonici non cristiani (è la cosiddetta Scuola di Atene: →). Nel 529 d.C., quando ormai la nuova religione cristiana si era affermata del tutto, l'imperatore Giustiniano la chiuse definitivamente. Accadere Vedi Evento Accidente Il termine accidente (in greco symbebekos) ha acquisito un significato tecnico con Aristotele, che lo definisce così: “Non è né la definizione, né il carattere proprio né il genere, ma tuttavia appartiene all’oggetto, o anche, è ciò che può appartenere o non appartenere ad un solo e medesimo oggetto, qualunque esso sia” (Topici, I, 5). Il contesto in cui si colloca questa nozione è lo studio degli enti (→): Aristotele sta lavorando all’identificazione di quel che caratterizza la sostanza di un ente al fine di poterne dare una definizione reale, e trova che alcuni caratteri dell’ente studiato si trovano in una di queste posizioni: - gli appartengono per caso, non necessariamente, e quindi né sempre né per lo più, ma solo talvolta; - gli appartengono necessariamente, ma non fanno parte della sua essenza (questo significa che l’ente non cambia al variare di questi suoi caratteri). Achille Eroe omerico, è figlio di un uomo (Peleo, da cui l’aggettivo Pelide) e di una divinità marina (Teti, una delle Nereidi: →). Come altre figure del mito nate dagli amori tra mortali e immortali, Achille è mortale e in effetti muore giovane nell’ultimo anno della guerra di Troia. Omero racconta che la madre era riuscita a conferirgli l’invulnerabilità e a dotarlo di una forza che sovrastava quella di qualsiasi altro eroe, ma una parte del suo corpo (il tallone) era rimasta vulnerabile. Molti miti, accanto all’Iliade e all’Odissea (che descrive i suoi funerali e il pianto di Teti e delle altre divinità del mare), raccontano episodi della sua vita. Ed è da una lite tra lui e Agamennone, il capo della spedizione degli Achei contro Troia, che si dipana la trama dell’Iliade. Uno dei racconti del mito lo associa alla morte da giovane: potendo scegliere tra una vita lunga e priva dell’onore proprio dell’eroe e un vita breve ed eroica, sceglie senza esitare la seconda. Figura notissima nel panorama mitologico greco, è ripresa più volte dai filosofi greci nel contesto delle loro ricerche per qualche tratto utile alle loro argomentazioni. Così Zenone di Elea lo utilizza per la sua proverbiale velocità nella corsa (Omero lo chiama piè veloce) per illustrare uno dei suoi argomenti contro il movimento: vedi → Achille e la tartaruga. Achille e la tartaruga È uno dei celebri argomenti di Zenone di Elea, di cui ci parlano Aristotele e altri autori antichi, a favore delle tesi di Parmenide sull’impossibilità logica di ammettere la realtà fisica del movimento. L’ipotesi di partenza è la seguente: Achille e una tartaruga si sfidano ad una gara di velocità; ma Achille è celebre per essere piè veloce, scrive Omero, e la tartaruga è molto lenta; quindi la tartaruga parte da un punto più avanzato e Achille deve inseguirla e superarla se vuole arrivare primo al traguardo. Non riuscirà mai a superarla. Infatti, si osservi Achille fare un passo in una unità di tempo: ebbene, anche la tartaruga avrà fatto un passo. Si immagini Achille fare un secondo passo; anche la tartaruga lo avrà fatto. E così all’infinito: tutte le volte che Achille sarà nel punto in cui un istante prima c’era la tartaruga, la tartaruga già non è più lì, ma un po’ avanti. Quindi non ci sarà mai un istante in cui la raggiungerà. Dall’assurdità di questa conclusione – in aperta contraddizione con l’esperienza, ma rigorosa dal punto di vista logico – Zenone ne conclude che non è vero che Achille e la tartaruga si muovono. Il movimento non è reale. Acqua I dati d’esperienza Per intendere il punto di vista greco su un “elemento” naturale come l’acqua occorre ricordare che cos’era nell’esperienza comune: era mare e pioggia, era fiume e rugiada, era neve e grandine; ma era anche il sangue di un animale, la linfa di una pianta, il succo di un frutto. Alla base di tutte queste forme diverse, i Greci riconoscevano qualcosa di comune, che si manteneva stabile in tutte le trasformazioni. La neve e la grandine che cadono sui campi e sui monti d’inverno infatti sciogliendosi alimentano i fiumi, che sfociano nel mare o sono la fonte dell’irrigazione dei campi coltivati. La stessa acqua caduta dal cielo diventa fiume, mare, ma anche linfa delle piante, sangue degli animali che si cibano dei frutti della terra e bevono le acque delle fonti. L’acqua in sé non cambia: è quindi intesa come una componente della natura e variamente spiegata dai vari filosofi a seconda delle diverse teorie sull’origine della natura e sulla realtà effettiva del movimento. I problemi filosofici I problemi filosofici che vengono affrontati nell’elaborazione di teorie sulla natura dell’acqua sono essenzialmente due: quello dell’arche (→) e quello della struttura della materia (→). Le teorie Le teorie elaborate dai filosofi greci per risolvere i due problemi sono riassumibili nel seguente schema: - L’acqua assume un’importanza particolare per quei filosofi che considerano l’intera natura formata da pochi elementi: ad esempio Talete ne fa l’arche, cioè l’origine e il principio di spiegazione di tutti gli esseri naturali, e Empedocle ne fa una delle quattro radici di cui sono composte tutte le cose. Un caso particolare è Anassagora per cui le particelle-base della natura sono moltissime (omeomerie), e quindi nessun posto particolare spetta all’acqua pur essendo un elemento originario e non formato. - Per altri filosofi è un corpo liquido non originario, formatosi cioè a partire da altri elementi-base, come l’aria di Anassimene o gli atomi di Democrito ed Epicuro. - Per Platone e Aristotele è uno stato della materia soggetta a perenne trasformazione sulla base delle forze universali che governano la natura; questo processo è descritto da Platone, nel mito del Timeo, come prodotto dell’ordine imposto da un Demiurgo che ha utilizzato particolari ideemodelli di tipo matematico; è invece descritto da Aristotele come il risultato del passaggio continuo dalla potenza all’atto. - Per Eraclito e per la tradizione stoica che lo segue su questo punto l’acqua è un momento della perenne trasformazione di parti della natura sulla base di una ragione interna, il Logos. Acroamatico Termine greco (acroamaticos: la parola acroama significa lezione orale) che indica gli scritti aristotelici riservati alla circolazione interna alla scuola (il Liceo: →), per gli uditori delle lezioni (il termine acroamaticos si riferisce appunto gli ascoltatori). Le opere di Aristotele che ci sono pervenute fanno parte di questo gruppo (chiamati anche scritti esoterici, cioè rivolti all’interno della scuola, dal greco eso, che significa dentro), mentre quelle destinate alla pubblicazione (i cosiddetti scritti essoterici, dal greco exo, che significa fuori) si sono quasi totalmente perdute, con l’eccezione di qualche citazione frammentaria. Acropoli È la cittadella fortificata che abitualmente si trovava nelle poleis greche (il termine deriva da akros, che designa la parte alta, e da polis, città). Di derivazione micenea, perse col tempo la sua funzione difensiva e nobiliare (nel mondo miceneo vi sorgevano i palazzi dei signori territoriali) per acquistarne una tipicamente religiosa. Sia in Grecia che in Magna Grecia e in Sicilia divenne l’area sacra dove sorgevano i templi e si svolgeva la vita religiosa. Acusilao Come di altri scrittori greci del periodo arcaico, anche di Acusilao sappiamo molto poco. Attivo nel VI secolo a.C., dovette essere in rapporto al gruppo dei cosiddetti logografi, cioè scrittori il cui lavoro mirava a ricostruire per iscritto le antiche tradizioni sulle fondazioni delle città, o sulle vicende degli eroi o su altri temi di interesse storico. Di lui ci rimangono alcuni frammenti di un’opera di questo tipo, intitolata Genealogie. Ade Il termine greco è Aides, la cui radice rimanda all’invisibilità (se l’etimologia è corretta, Ade sarebbe dunque l’invisibile per eccellenza). È il dio dell’oltretomba, fratello di Zeus, e presiede ad ogni evento che abbia sede nelle “case di Ade”, cioè nel regno sotterraneo dei morti. La sua sposa è Persefone (→), che un giorno rapì egli stesso nelle pianure della Sicilia mentre raccoglieva fiori con le sue compagne. Il nome di Ade in Grecia non si pronunciava, per paura di evocarne la potenza, sicché era chiamato con molti appellativi, tra cui Plutone (Plouton), che significa “ricco”, perché dalle profondità della terra si generano grandi ricchezze (il termine è connesso con i miti sulla nascita del grano una volta seminato sottoterra). Ade regna sugli inferi in pieno accordo con l’ordine di Zeus (→), perché nella generale sistemazione dei poteri di tutte le divinità le parti del cosmo sono state distribuite ordinatamente fra tre fratelli, che dominano in pace tra loro rispettando le rispettive prerogative: Zeus è il signore del Cielo, Poseidone del mare, Ade del mondo ctonio (cioè sotterraneo: chthon è la terra e quel che vi sta sotto). Aedi In età arcaica (e probabilmente anche molto prima) gli aedi erano i cantori di professione che intonavano canti di loro composizione, ma legati a forme compositive tradizionali tramandatesi oralmente, presso le corti dei signori o negli ambienti nobiliari (aoidos significa colui che intona il canto, quindi cantore), o nelle occasioni rituali collettive. Il canto era accompagnato dal suono della lyra o della kithara (vedi la voce Lira: →). Gli aedi in quanto autori dei canti vanno distinti dai rapsodi (da raptein, cucire, e oide, canto: il rapsodo è quindi colui che cuce i canti), che si diffusero tra il V e il IV secolo a.C.: i rapsodi erano anch’essi cantori, ma intonavano canti di cui non erano autori, recuperandoli dal repertorio tradizionale e organizzandoli poi in modo personale. Nella vita culturale greca gli aedi hanno avuto un ruolo fondamentale, perché attraverso l’elaborazione dei canti hanno plasmato i miti dando loro forme e significati diversi. In questo modo hanno indirizzato la cultura greca in una direzione o in un’altra (lo si vede molto bene nell’opera di Omero, il più celebre degli aedi, e di Esiodo, in cui le componenti magiche del mito cedono spesso il posto a interpretazioni più elaborate e colte, vicine a posizioni caratterizzate da riflessione razionale). Il campo professionale degli aedi era la poesia epica (vedi la voce Epos: →), che entrava a far parte anche della formazione di qualsiasi persona colta, sicché Platone chiama i poeti “maestri della Grecia”. I primi filosofi si contrappongono spesso agli aedi, perché si muovono in una direzione che abbandona le vie del mito e Platone condanna nettamente la loro arte. In realtà anche i filosofi hanno imparato dagli aedi, e a volte li hanno anche imitati esponendo contenuti filosofici nella forma del mito (così Platone, ma prima di lui altri, ad esempio chiamando i concetti filosofici con nomi di dèi, come fanno Eraclito, Empedocle e altri, oppure scrivendo poemi filosofici: →). Poiché già negli aedi, come poi nei poeti tragici, la riflessione razionale sul mito è attivamente in opera, il rapporto tra filosofia e poesia (e quindi tra le figure professionali degli aedi e dei filosofi) in Grecia in età arcaica e classica è stato molto complesso. Aezio Vissuto nel I o forse II secolo d.C., Aezio è uno dei dossografi greci (→) a cui dobbiamo la trasmissione di notizie sui filosofi antichi di cui si sono perdute le opere. L’opera dossografica pervenutaci si intitola Raccolta di opinioni. Il Diels (→) ha dimostrato con considerazioni di tipo filologico che l’opera di Aezio dipende da un anonimo trattato del I secolo a.C. e, attraverso questo, dalle Dottrine dei fisici di Teofrasto (→), matrice e modello della posteriore dossografia. Affermazione linguistica Il linguaggio (→) esprime su un piano parallelo a quello della realtà nozioni che possono riguardare o meno la realtà. Una affermazione linguistica è quindi una proposizione (→) che esprime una nozione dotata di senso. Che sia vera o falsa, o che sia applicabile o meno alla realtà, l’affermazione linguistica in quanto tale ha comunque regole proprie di coerenza logica e di senso. Il termine greco è kataphasis, e Aristotele la definisce in questo modo: “Dichiarazione che una cosa si rapporta a un’altra” (Dell’interpretazione, VI). Il suo contrario è la negazione. Affinità Il termine greco syngheneia è utilizzato da Platone e dai suoi successori per indicare l’affinità tra l’anima dell’uomo e le idee. Lo stesso termine è utilizzato da Aristotele per indicare l’affinità della parte razionale dell’anima con il Dio concepito come pensiero di pensiero. La base teorica di questa affinità riposa sulla capacità della mente umana di pensare in termini puramente contemplativi (vedi la voce Theoria: →), cioè di vedere in sé contenuti mentali veri del tutto indipendenti dalla realtà sensibile (ad esempio le entità matematiche). Se la mente può fare questo, deve esserci un’affinità tra la sua natura e l’oggetto teorico pensato. Poiché Dio è concepito da Aristotele come un ente la cui natura implica la più perfetta affinità tra la propria realtà di essere pensante e l’oggetto pensato (in formula: Dio è pensiero di pensiero compiutamente in atto), potendo la mente umana fare qualcosa di simile è affine, ma non identica, alla natura di Dio. La nozione ritorna soprattutto nel neoplatonismo di Plotino: è la base della possibilità stessa per l’anima umana di ritornare nel grembo dell’Uno con l’estasi. Aforisma È uno dei generi letterari usati dai filosofi per i loro scritti e per una parte della tradizione orale (detti, massime, e così via). L'aforisma è in prosa ma conserva alcun elementi formali della poesia. Ha qualcosa del verso e della sua sonorità, conserva un elemento legato all'oralità, come i proverbi che hanno però tutt'altra origine. Ha anche in comune con la poesia anche qualcosa di più profondo. Come la poesia, l'aforisma è ricco di figure retoriche, di similitudini, di metafore, fa largo uso del pensiero per immagini (→) e quindi, come la poesia, è legato a forme intuitive del pensiero. Eppure è prosa. E già questo permette al primo filosofo che ha proposto la sua filosofia utilizzando questo genere letterario, Eraclito, di allontanare la propria figura da quella del poeta della tradizione omerica ed esiodea e di presentarsi in termini nuovi, come prima di lui avevano fatto i milesi. L'aforisma di Eraclito – che ha orientato fortemente i filosofi successivi, per cui qui lo prendiamo in considerazione come modello del genere letterario dell’aforisma nella filosofia greca – si caratterizza per una estrema concisione, e più esattamente per una particolare forma di concisione, in cui nella stessa parola, o breve espressione, si uniscono senza sovrapporsi del tutto due linee di pensiero. I giochi di parole, il ricorso al pensiero per immagini, hanno però una funzione diversa rispetto alla poesia epica: non hanno un funzione narrativa, non servono al "racconto". Servono ad esprimere il pensiero intuitivo rispettandone la complessità: un pensiero che non si serve più del racconto, ma della contrapposizione tra intuizioni per farne scaturire una tesi. Quando con Eraclito questa forma di espressione del pensiero compare in filosofia non serve tanto ad esprimere un pensiero concluso, il risultato di una ricerca, un dato o un fatto, una verità. Serve piuttosto ad esprimere un movimento del pensiero, anzi ad esprimere più movimenti contemporanei, più linee di pensiero. Questo carattere differenzia molto l'aforisma di Eraclito dalla successiva tradizione delle scuole ellenistiche, basata non su aforismi, ma su massime e sentenze (→), che hanno in comune con l'aforisma eracliteo di fatto soltanto l'essere in prosa, con elementi poetici, e la brevità. In Eraclito l'aforisma è dunque un mezzo adeguato per esprimere una filosofia del movimento, ed in particolare una filosofia in cui il Logos garantisce l'ordine del pensiero e delle cose agendo non come un ordinatore esterno, ma - come fuoco - dall'interno attraverso lo scontro fecondo degli opposti. Scontro che l'aforisma, nella parola singola o nella brevità della frase, rende bene: non in quanto mero espediente letterario, ma in quanto diretta espressione della realtà del pensiero che tenta di comprendere in sé la parallela realtà delle cose. L'aforisma eracliteo, a ben vedere, tenta di rendere lo stesso carattere di movimento del Logos, e questo carattere fa sì che il lettore non "dormiente" sia sorpreso, che il suo pensiero sia scosso, mediante lo scontro armonico delle parole e dei pensieri, sicché questa armonia dei contrari sia feconda anche per lui. Per un quadro generale dei generi letterari dell’antichità si veda la voce Generi letterari della filosofia antica (→). Afrodite Dea associata alla bellezza, alla fertilità e al dio Eros (→) – e dunque ad ogni tipo di generazione che si fondi sulla differenza sessuale (nel mondo vegetale come in quello animale e nell’uomo) –, nella mitologia greca Afrodite è una divinità primordiale che nacque dalla spuma del mare quando le gocce dello sperma di Urano, evirato dal figlio Crono, caddero sulle acque nei pressi dell’isola di Cipro (→ Teogonia). “Si raccontava che Afrodite fosse emersa nuda dalle onde e subito fosse stata accudita dalle divinità che sarebbero poi entrate nel suo corteggio: le Ore inghirlandate d’oro, che rappresentano la fioritura feconda delle stagioni e la forza possente del desiderio e della sessualità. Furono loro ad adornarla e ad accompagnarla sull’Olimpo, dove tutti gli dèi rimasero colpiti dalla sua bellezza, e ognuno desiderava farla sua sposa” (Guidorizzi 2009, p. 199). Il culto di Afrodite in Grecia si diffuse probabilmente a partire dall’Oriente, perché alcuni suoi tratti richiamano quelli di antiche divinità orientali come Ishtar e Astarte. Forse fu Cipro, dove esistevano importanti santuari a lei dedicati, il tramite con cui il suo culto penetrò nell’area mediterranea fino a diffondersi ampiamente (il suo culto era diffusissimo, e sorsero santuari un po’ ovunque, come quello molto celebre di Erice in Sicilia). Altre tradizioni la dicono figlia di Zeus, inserendola così in modo più diretto nel contesto dell’ordine di Zeus (→). In effetti Afrodite è figura divina un po’ ambigua, associata com’è alle forme istintive primigenie della sessualità, ma anche alle raffinatezze della seduzione. Dea molto potente, il culto tende a sciogliere questa ambiguità distinguendo una Afrodite Urania e una Afrodite Pandemia: la prima è associata da Erodoto a culti orientali, la seconda è, come dice il nome, comune a tutti. Ma la distinzione è poco chiara e Platone nel Simposio ne dà una interpretazione filosofica originale e quindi indipendente dai racconti del mito, nel contesto di un gioco letterario peraltro molto efficace condotto da Pausania (→) e ripreso in parte da Erissimaco (→). È una divinità che ritorna a volte negli scritti dei filosofi incarnando specifiche forze naturali: in Empedocle Afrodite è uno dei nomi con cui il poeta-filosofo chiama la forza che aggrega (cioè la philia). Afrodite ed Eros L’associazione tra Afrodite ed Eros è diversa a seconda del racconto della nascita della dea: - nel racconto di Esiodo Eros nasce prima di Afrodite, e agisce quindi indipendentemente da lei come forza cosmica della generazione; solo dopo la nascita della dea è associato a lei e acquisisce i caratteri “romantici” (pur restando una forza dominante) di un sentimento d’amore; - nelle altre tradizioni, che fanno di Afrodite una delle figlie di Zeus, e quindi ne inseriscono il ruolo e la potenza nel contesto dell’ordine di Zeus (→), Eros nasce dopo di lei o è suo figlio, e la sua potenza è quindi subordinata alla seduzione e alla bellezza di Afrodite. Secondo alcuni studiosi (la tesi è esposta con ampiezza di analisi e di riferimenti in Rudhart 1986) la differenza tra le due prospettive dipende dal fatto che, una volta conclusa la fase della nascita del mondo e degli dèi, il ruolo di Afrodite e soprattutto di Eros cambia, perché l’amore e la seduzione non sono solo finalizzati alla riproduzione, ma ad un vasto complesso di rapporti sociali ed affettivi. La ciclicità del mondo implica la nascita di nuovi esseri, ma questi non portano un nuovo ordine: generazione dopo generazione, l’ordine di Zeus si perpetua, e Afrodite e Eros hanno un posto importante in questo ciclo. Ma non più nella generazione di un nuovo ordine, perché quello attuale è definitivo. Agatone Non conosciamo la data di nascita di questo poeta tragico ateniese (forse il 447 a.C.), contemporaneo di Euripide e fortemente influenzato dalla sofistica. Sappiamo però che Agatone morì intorno al 401 a.C. e che lasciò Atene, sua città natale, per la corte di Macedonia. Non possediamo le sue opere. Sappiamo però che propose alcune innovazioni piuttosto importanti. Nella tragedia Anteo, ad esempio, i fatti e i personaggi non appartengono al mito, e quindi l’intera trama è di sua invenzione. Inoltre i cori sono del tutto sganciati dall’azione tragica, con la funzione di intermezzi lirico-musicali. Su Agatone abbiamo qualche informazione anche da Aristotele, che lo cita nella sua Poetica (9 e 18). Lo cita anche il suo contemporaneo Aristofane nelle sue Tesmoforiazuse. È uno dei protagonisti del Simposio platonico che – nella finzione letteraria – rimanda ad un fatto realmente accaduto che lo riguarda: nel 416 a.C. infatti conseguì la vittoria alle Dionisie con la sua prima tragedia, e il simposio descritto da Platone si tiene per festeggiare l’evento. Doveva essere un poeta celebre ai suoi tempi. Il discorso di Agatone nel Simposio di Platone Agatone pronuncia uno degli elogi del dio Eros. Inizia il suo discorso dicendo che Fedro (→) ha ragione nel dire che Eros è un dio bello e felice, anzi il più bello, ma sbaglia nel dire che è antico: al contrario Eros è giovanissimo, è legato alla bellezza dei giovani e rifugge da ogni forma di bruttezza. Leggero e potente come Ate (→) [notiamo a margine che l’accostamento è vagamente inquietante], nessuno gli resiste, ad anzi tutti, uomini e dèi, volentieri si sottomettono ai suoi voleri per il piacere che ne traggono. Non fa né subisce violenza, proprio perché potente e gradito a tutti, e quindi ottiene facilmente ciò che vuole. Al suo apparire ogni bene è apparso tra gli uomini e gli dèi, e tra essi la poesia, in cui è maestro. Quel che colpisce nel discorso di Agatone è la sua bellezza – lo sottolineano subito tutti i presenti al simposio e Socrate stesso, e lo confermano gli studiosi. Tuttavia ha ben poco a che vedere con la tragedia se non nella forma poetica spesso richiamata. Agatone stesso, poeta tragico, dichiara alla fine di aver parlato unendo lieve fantasia e grave serietà. Poiché il discorso che poco prima ha tenuto Aristofane, poeta comico, nella sua comicità ha aspetti tragici, tutto appare come se tragedia e commedia fossero presentti nel Simposio come due volti della stessa Musa. Gli studiosi ne discutono ancora oggi. Agnosticismo Il termine è moderno, e indica qualsiasi posizione filosofica che sospenda il giudizio sulla possibilità umana di sapere qualcosa sul divino. Venne coniato (su base greca: agnosia è la mancanza di conoscenza) dal naturalista inglese Huxley nel 1868 per indicare le posizioni della scienza su questioni indecidibili. Ha poi assunto un significato più specifico, legato al problema filosofico su Dio (e, nel linguaggio comune, sulla fede in generale). L’agnosticismo va nettamente distinto dall’ateismo (→) con cui non ha molto in comune: l’ateo ritiene di sapere che Dio (o una sfera dell’essere che afferisca a una realtà superiore e divina) non esiste; l’agnostico sospende il giudizio, ritenendo di non poter sapere. Questa posizione filosofica è presente in alcuni autori greci, o almeno è una cosa di cui i filosofi discutono. Tesi vicine all’agnosticismo sono presenti in Senofane, in Socrate, e in altri, tutti filosofi però in cui la ricerca del divino va oltre l’agnosticismo. In età classica posizioni coerentemente e rigorosamente agnostiche sono solo in Protagora (e più in generale nei sofisti), sulla base di argomentazioni legate ad un razionalismo moderato e cauto. Per le età successive sono agnostici anche gli scettici dell’età ellenistica e romana. Agone In greco agon significa gara, o lotta. Agone è ciascuna delle gare e dei giochi organizzati in occasione di celebrazioni religiose presso un santuario. Si tenevano agoni a livello locale o regionale, e agoni panellenici: questi ultimi erano i giochi Olimpici, Pitici, Istmici, Nemei, che si svolgevano con cadenza regolare e comprendevano prove atletiche e sportive di vario tipo, e a volte anche concorsi musicali. Analogamente, ad Atene si tenevano gli agoni drammatici, in occasione delle festività di Dioniso: vedi la voce Dionisie (→). L’importanza di questi agoni in Grecia era altissima, e l’eco degli eventi che vi si svolgevano ricorre spesso nelle opere dei filosofi. Si trattava infatti di momenti particolarmente importanti della vita collettiva greca. Aspetti politici e aspetti religiosi si univano, e la partecipazione popolare faceva sì che questi agoni fossero occasioni di formazione dell’uomo greco e di riflessione collettiva. Da qui l’interesse dei filosofi. Agora Originariamente questo termine indicava il raduno dell’assemblea (→) popolare, poi passò ad indicarne il luogo. Benché la parola agora possa riferirsi anche ad altri luoghi di riunione, nelle poleis greche si intendeva con questo termine la piazza centrale, sede della vita pubblica. In età classica era per lo più una piazza con portici, circondata dagli edifici pubblici. Vi si svolgevano anche periodicamente attività commerciali come i mercati e comunque, essendo il cuore della città, era il luogo pubblico per eccellenza, anche da un punto di vista simbolico. Agrigento Città greca sulla costa meridionale della Sicilia, venne fondata col nome di Akragas da coloni che provenivano da Gela, che sorge poco più a est lungo la stessa costa, nel 580 circa a.C. Forse con loro c’erano anche gruppi provenienti da Rodi, che era stata la città-madre della stessa Gela, fondata un secolo prima. Agrigento ebbe presto una notevole espansione, dotata com’era di un entroterra fertile e di buoni porti che le consentivano proficui commerci mediterranei. La vita politica interna dovette essere però molto agitata per tutto il periodo della sua massima fioritura (il VI e il V secolo a.C.) e i conflitti tra i cittadini furono per lo più risolti con l’imposizione del potere di un tiranno. I più importanti furono Falaride (570-554 a.C.) che divenne presto un simbolo di crudeltà (celebre il cosiddetto toro di Falaride (→), una macchina da tortura di cui si dice sia stato alla fine vittima lo stesso tiranno), e Terone (488-472 a.C.) sotto il cui potere la città raggiunse forse il massimo della sua potenza. Anche la politica estera fu piuttosto complessa: Agrigento sorgeva ai limiti della sfera d’influenza greca in Sicilia, a contatto con l’area controllata dai Cartaginesi (la punta occidentale dell’isola). Lo scontro fu inevitabile quando, sotto Terone, gli agrigentini riuscirono a controllare anche Imera, città greca sulla costa nord della Sicilia, sicché anche a nord si trovarono a stretto contatto con i Cartaginesi, che controllavano Panormus (Palermo) e altre città. Nel tentativo si assestare un colpo definitivo alla potenza cartaginese nell’isola, Terone nel 480 a.C. si alleò con il tiranno Gelone di Siracusa e insieme sconfissero i Cartaginesi nella battaglia di Imera (→), che la tradizione vuole sia stata combattuta lo stesso giorno della battaglia di Salamina (→). In realtà i rapporti con Siracusa, l’altra grande potente polis greca dell’isola, non erano idilliaci. Le due città tra il 480 e la fine del V secolo a.C. rivaleggiarono sia economicamente che dal punto di vista culturale. Fu in quest’epoca che nacquero i grandi templi della Via Sacra dell’Acropoli di Agrigento. Furono anche gli anni della scuola filosofica e medica di Empedocle, il cui rapporto con la città fu molto stretto. Tutto ebbe termine nel 406 a.C., quando un esercito cartaginese guidato da Annibale – un nipote del generale sconfitto quasi ottant’anni prima a Imera – attaccò la città e la distrusse. Gli abitanti superstiti lasciarono Agrigento e si rifugiarono in altre colonie greche, tra cui Leontini. Qualche decennio dopo ritornarono, ma la Agrigento del periodo aureo non rifiorì più. Nel corso delle guerre puniche (III secolo a.C.) Agrigento si alleò con i Cartaginesi perché la sua rivale Siracusa era alleata dei Romani, da cui fu quindi attaccata e saccheggiata. Ma l’Agrigento di quest’epoca non aveva più le dimensioni e la ricchezza di quella del V secolo a.C. o della contemporanea Siracusa, che era allora una delle maggiori città del Mediterraneo. Tuttavia per tutta l’antichità Agrigento, piccola o grande che fosse, mantenne un certo grado di prosperità come dimostra l’attività edilizia che si sviluppò per secoli – sotto tutti i regimi politici – le cui testimonianze per una serie di circostanze (alcune fortuite) sono giunte sino a noi. Aiace Aiace Telamonio, così chiamato perché figlio di Telamone, è uno dei più forti eroi greci del mito. Re di Salamina, nell’Iliade ha il ruolo di valoroso combattente, e si distingue per la sua statura e il suo valore, secondo solo ad Achille, in diretta competizione con Ettore. Aiace possedeva uno scudo che lo proteggeva al punto da renderlo quasi invincibile in battaglia. Alla morte di Achille, le armi di quest’ultimo dovevano andare al più valoroso dei Greci, e quando Ulisse riuscì con uno stratagemma a impadronirsene, Aiace impazzì. Molte versioni del mito collegano a questo episodio la sua morte. Una di esse narra che le armi di Achille, strappate da una tempesta alla nave di Ulisse, furono portate dai flutti sulla tomba di Aiace, sul promontorio Reteo. Ad Aiace erano collegati vari culti a Salamina, in Attica e nella Troade. Alcesti Figura femminile del mito, la cui vicenda matrimoniale è narrata da Euripide nella omonima tragedia, l’Alcesti, rappresentata nel 438 a.C. Eccone la trama: “Ad Admeto, re di Fere in Tessaglia, le Moire hanno concesso di vivere oltre l’ora stabilita per la sua morte, a patto però che qualcuno accetti di scendere agli Inferi al suo posto. I genitori non si sono prestati allo scambio, mentre la moglie del re, Alcesti, ha accettato già prima delle nozze di sostituire il marito. La tragedia si apre nel momento in cui, passati alcuni anni di felice vita coniugale, allietata dalla nascita dei figli, l’ora è venuta: Alcesti piange l’imminente dipartita, lamenta di dover abbandonare il cielo, il sole, i figli e il marito; i vecchi del coro esprimono la loro straziata commozione. Infine, la giovane moglie rende l’anima a Tanatos (il dio della morte). Si prepara il funerale; Admeto accusa il padre Ferete di durezza di cuore, questi risponde di non avere debiti nei suoi confronti, avendogli già una volta dato la vita. Contro le consuetudini, nella casa immersa nel lutto viene ospitato Eracle, al quale si tace la morte di Alcesti; mentre sta banchettando in casa, l’eroe viene a sapere da un servo la verità. Si lancia quindi all’inseguimento di Tanatos, per strappargli Alcesti. Al ritorno dal rito funebre, Admeto trova davanti al palazzo Eracle e Alcesti, velata, che gli viene presentata come una straniera; messa così alla prova la sua fedeltà, i due sposi possono riabbracciarsi” (Antichità classica 2000, p. 1529). Esistono altre versioni del mito, che collegano il ritorno in vita di Alcesti all’intervento della dea Persefone. Per il carattere di questo personaggio va ricordato che era figlia del re di Iolco, di nome Pelia, legato alle narrazioni mitiche su Medea (→) che, con le sue arti magiche e i suoi inganni, ne provocò la morte facendolo uccidere dalle figlie. Alcesti è l’unica figlia che non partecipa all’uccisione. Quanto al marito Admeto, per poterla sposare dovette affrontare dure condizioni impostegli dal padre Pelia, e riuscì a farlo con l’aiuto di Apollo. Alcibiade Uomo politico ateniese di primo piano negli anni della Guerra del Peloponneso. Era nato intorno al 450 a.C. ad Atene da nobile famiglia imparentata con Pericle. Quando morì suo padre – Alcibiade era ancora un bambino – fu proprio a casa di Pericle che venne accolto e allevato. Crebbe quindi al centro del mondo politico ateniese, negli ambienti vicini a Pericle profondamente segnati dalla cultura sofista, di cui assorbì le tendenze più spregiudicate e radicali. Appena trentenne, era già stratega e politico di primo piano, vicino ai democratici. La svolta nella sua vita avvenne nel 415 a.C. quando, nel contesto della Guera del Peloponneso che Atene combatteva contro Sparta, divenne ispiratore del progetto di portare la guerra in Sicilia contro Siracusa, alleata degli Spartani. Di questa spedizione ottenne, con altri uomini politici, il comando. Tuttavia poco prima della partenza della flotta quasi tutte le erme (→) ateniesi vennero deturpate (le erme erano pilastrini di sezione quadrangolare sormontati da una testa scolpita a tutto tondo raffigurante il dio Ermes, da cui il nome erme, poste ai crocicchi delle strade, ai confini delle proprietà o di fronte alle porte, come segno di protezione: Ermes era il dio dei viandanti). L’episodio rientrava nel duro conflitto che opponeva ad Atene i democratici e gli aristocratici, e fu probabilmente in ambienti aristocratici che l’episodio della mutilazione delle erme venne deciso e messo in atto per opporsi alla spedizione in Sicilia. Alcibiade fu tra i sospettati, ma non gli fu consentito di discolparsi prima di partire, contro la sua volontà. Venne però subito richiamato in patria dopo la partenza, e così decise di tradire Atene: rifugiatosi presso Sparta, ne divenne consigliere, per poi passare nuovamente – con più di un improvviso voltafaccia – dalla parte di Atene. Dopo avere mantenuto un rapporto ambiguo con la sua città, morì nel 404 a.C., ucciso da un alleato di Sparta, il satrapo Sarnabazo in Frigia, presso cui si era rifugiato. La figura di Alcibiade è tra le più discusse della vita politica ateniese degli anni della Guerra del Peloponneso, per l’instabilità del suo carattere, le scelte radicali che compì, la sua abilità politica e militare, ma anche per la mancanza di equilibrio. Personaggio presente in alcuni dialoghi di Platone (dal Protagora, ai due dialoghi che portano il suo nome, al Simposio), la figura di Alcibiade si colloca su “uno sfondo di rottura, di disprezzo delle forme, delle tradizioni, delle leggi e, senza dubbio, della religione stessa” (Lacan 1960). Allievo di Socrate, era tra i giovani che con lui si erano formati. La condanna a morte di Socrate avvenuta nel 399 a.C. a seguito del celebre processo potrebbe essere legata al ruolo che Socrate aveva avuto nella formazione non solo di Alcibiade, ma di altri esponenti politici negli anni cruciali della guerra. Il discorso di Alcibiade nel Simposio di Platone Alcibiade è uno dei personaggi principali del Simposio di Platone. Giunge tardi e pronuncia un discorso di elogio in onore di Socrate, non di Eros come avevano fatto tutti gli altri (ma in controluce emergono alcuni tratti del dio) paragonandolo alle statuette dei Sileni che dentro contengono immagini preziose degli dèi. Così è Socrate, non bello dal punto di vista fisico, ma dall’anima ricca di doni preziosi che Alcibiade dichiara di avere visto. Così è anche per i suoi discorsi, che hanno lo stesso carattere: Socrate conquista tutti con le sue parole, apparentemente semplici e piane, in realtà profonde e tali da ferire l’anima e da scuoterla, come non accade neppure ascoltando i grandi oratori. Alcibiade dichiara di sentirsi sempre messo in questione di fronte a lui. Socrate fa innamorare, ma non cede mai alle lusinghe d’amore. Alcibiade racconta come a lungo abbia tentato di sedurlo, ma senza successo. Persino nello stesso letto per tutta la notte Socrate è rimasto impassibile di fronte alla sua bellezza. E questa impassibilità è dimostrata anche da vari episodi avvenuti in guerra, in cui Alcibiade ravvisa i tratti di una superiore capacità di resistenza e di coraggio di Socrate. Questo discorso di Alcibiade è importante nell’economia non solo del Simposio, ma della stessa concezione della filosofia per Platone, perché Socrate (maschera di Eros e della filosofia) è presentato con tratti ambivalenti: da un lato è oggetto di contemplazione, dall’altro è capace di provocare le più profonde inquietudini. Così, sembra dire Platone, è la filosofia (→). Alessandria (Biblioteca di) Era la più celebre e la più grande delle biblioteche antiche (vedi Biblioteca: →). Non sappiamo quanti libri contenesse (le fonti danno cifre che vanno dai 100.000 ai 700.000), ma si trattava comunque certamente di una struttura imponente, che serviva intellettuali e studiosi di tutto il mondo ellenistico e romano. Venne fondata dai Tolomei nel 290 a C. che presero a modello la biblioteca del Liceo di Atene, la scuola fondata da Aristotele. Era collegata al Museo (→), una delle strutture di ricerca più importanti del mondo antico. La Biblioteca di Alessandria non si limitava ad una funzione di conservazione dei libri, ma ne curava anche la diffusione attraverso il lavoro dei copisti. Alla direzione della Biblioteca si succedettero intellettuali di altissimo livello e la catalogazione dei libri divenne un’attività di fondamentale importanza anche per la storia della cultura successiva perché fu ad Alessandria che le tipologie dei generi letterari e l’ordinamento delle successioni dei filosofi, e molti altri tipi di classificazione del sapere, vennero fissati per passare poi nella cultura successiva e in molti casi giungere sino a noi. Fu qui, tra l’altro, che operarono i grammatici che fissarono per primi le regole della grammatica e della sintassi, gli storici che stabilirono le successioni degli autori e dei generi, oltre ad un considerevole numero di filologi che sistemarono ordinatamente i documenti scritti del sapere antico. La Biblioteca di Alessandria andò parzialmente in fumo a causa di un incendio appiccato dai soldati di Cesare che attaccarono il porto della città nel 47 a.C. nel corso delle guerre delle ultime fasi della Repubblica. Riprese però ad operare e solo in età tardo antica subì altre rovine, per andare poi definitivamente distrutta nel 391 d.C., nel contesto delle vicende legate alle invasioni barbariche. Alessandria d’Egitto Fondata da Alessandro Magno nel 332-331 a.C., al momento della sua conquista dell’Egitto, la città ebbe uno sviluppo notevole sotto i suoi successori. Fu la capitale di uno dei più fiorenti tra i regni ellenistici, sotto la dinastia dei Tolomei (→), che all’inizio del III secolo a.C. vi fondarono le celebri istituzioni culturali del Museo (→) e della Biblioteca (vedi Biblioteca di Alessandria: →). Per tutta l’età ellenistica fu uno dei maggiori centri politici e culturali del mondo antico, e le scienze vi ebbero uno sviluppo notevole. Qui operò ad esempio il matematico Euclide (→) e qui nacque la filologia (→) come scienza rigorosa. Quando l’Egitto nell’età di Cesare passò ai Romani, la Biblioteca venne parzialmente distrutta nel corso degli eventi bellici, ma riprese la sua funzione dopo essere stata ricostruita. Alessandria mantenne quindi ancora per i primi tre secoli dopo Cristo il suo ruolo di grande centro di ricerca. Ospitò una numerosa comunità ebraica, intorno alla quale scoppiarono seri episodi di violenza di massa con massacri indiscriminati; ma allo stesso tempo fu nel contesto di questa comunità che si ebbero alcune delle acquisizioni culturali più rilevanti in ambito ebraico e poi cristiano: - fu ad Alessandria che, negli ultimi decenni del II secolo a.C., venne realizzata la prima traduzione della Bibbia in greco (è la cosiddetta Bibbia dei Settanta: →), opera possibile perché gli intellettuali ebrei di Alessandria erano ormai ellenizzati e si rivolgevano ad altri Ebrei che parlavano correntemente il greco; - fu qui che nel primi decenni del I secolo d.C. nacque la scuola filosofica ebraica di Filone di Alessandria, anch’essa di matrice tanto ebraica quanto ellenistica, che proponeva una originale interpretazione filosofica e filologica della Bibbia. In epoche successive Alessandria rimase uno dei centri più attivi di elaborazione culturale, sia scientifica che filosofica. Fu qui che il matematico e astronomo alessandrino Claudio Tolomeo (→) nel II secolo d.C. propose la sua celebre sintesi astronomica nell’opera nota come Almagesto. Dal punto di vista filosofico, le scuole fiorite ad Alessandria dopo quella di Filone furono due: - tra il III al VI secolo d.C. fu attiva la scuola neoplatonica pagana di Plotino e dei suoi successori, sulla scia di una lunga tradizione che dal cosiddetto medioplatonismo porta alla scuola di Ammonio Sacca, in cui si formò Plotino; - tra II e il IV secolo d. C. fu attiva anche la cosiddetta Scuola teologica di Alessandria (→), che proseguì da una prospettiva cristiana e non più ebraica il lavoro filosofico e filologico di interpretazione della Bibbia avviato nel I secolo d.C. da Filone. Oltre a queste, va ricordato che ad Alessandria nacquero anche altri movimenti filosofici, non strutturati in scuole vere e proprie, come il neo-pitagorismo (→). Città cosmopolita, in età imperiale romana fu però al centro di seri scontri tra cristiani e pagani fino al IV secolo d.C., ed anche al centro di numerose (e spesso sanguinose) dispute teologiche nei primi secoli del Cristianesimo (le prime eresie trovarono terreno fertile nel contesto aperto e intellettualmente vivo della città). Nella storia del Cristianesimo Alessandria ha quindi un ruolo molto importante, e fu sede di uno dei principali patriarcati dell’antichità. Subì danni gravissimi all’epoca delle invasioni barbariche, con la distruzione di gran parte della stessa Biblioteca (391 a.C.), e venne poi conquistata dagli Arabi nel 642, entrando così a far parte da questo momento in poi dell’universo culturale islamico, pur mantenendo vive le tradizioni del Cristianesimo e, soprattutto, dell’Ebraismo. Se si riflette sul complesso di incroci culturali che per secoli fecero di Alessandria una delle capitali della cultura dell’epoca, si può legittimamente sostenere che fu Alessandria ad ereditare nell’età ellenistico-romana il ruolo che era stato di Atene tra l’età classica e il III secolo a.C. Alessandria [Scuola filologica di] Il contesto in cui operò la Scuola Filologica di Alessandria è quello della celebre Biblioteca. La figura più importante di questa scuola fu quella del quinto bibliotecario, Aristarco di Samotracia (→), che fissò i principi filologici elaborati dai predecessori. La ragion d’essere delle ricerche filologiche alessandrine, e quindi dell’esistenza di una scuola di questo tipo, era la Biblioteca stessa, che offriva un numero elevatissimo di antichi testi, in varie lezioni, con scarsa organizzazione dei materiali e ancor più scarsa precisione nella cura dei testi. Occorreva dunque - ordinare l’antico materiale in modo coerente e organico, ponendosi spesso anche il problema dell’autenticità delle attribuzioni a questo o a quell’autore; a volte occorreva organizzare il materiale antico in modo coerente, dandogli una forma ordinata in una regolare sequenza di libri; - stabilire la corretta versione di ciascun testo (oggi diremmo: preparare un’edizione critica dei classici), eliminando interpolazioni e corruzioni. Queste esigenze di tipo storico-filologico richiedevano scelte precise e un metodo di lavoro ordinato e coerente. Fu Aristarco a farsi promotore di uno dei due metodi che divennero poi canonici nell’antichità, il metodo dell’analogia (vedi → Analogisti); l’altro era il metodo dell’anomalia, propugnato dalla rivale Scuola filologica di Pergamo e dagli Anomalisti: →). Una parte notevole della tradizione libraria dei secoli precedenti alla fondazione della Biblioteca di Alessandria venne così sottoposta al vaglio storico-filologico dei filologi della scuola di Alessandria, e furono le loro edizioni a divenire poi canoniche e ad essere tramandate ai posteri fino a giungere (per la verità in una parte piuttosto piccola rispetto all’enorme lavoro svolto) fino a noi. Alessandria [Scuola teologica di] È una delle prime scuole teologico-filosofiche della Cristianità. Sorse ad Alessandria d’Egitto (→) nel II secolo d.C., in un contesto fortemente influenzato dalle ricerche filologiche e storiche che si svolgevano presso il Museo e la Biblioteca. Allo stesso tempo i primi studiosi della scuola trassero ispirazione dal metodo di interpretazione allegorica della Bibbia (vedi Allegoria: →) proposto un secolo prima da Filone d’Alessandria (→). La scuola ebbe a lungo un orientamento platonico, e le teorie del maestro pagano del IV secolo a.C. furono in effetti utilizzate per intendere, interpretandoli, i concetti biblici (ad esempio la nozione greca di Logos venne applicata alla figura storica e teologica, quindi umana e divina, di Cristo). Tra i rappresentanti della scuola vanno soprattutto ricordati Clemente (→) e Origene (→). Alessandrini Questa dizione si riferisce ai ricercatori, agli studiosi e agli scienziati del Museo (→) e della Biblioteca di Alessandria (→), in Egitto. In questo stesso senso si parla anche di età alessandrina, o di arte e letteratura alessandrina, e così via. La città di Alessandria fu infatti al centro delle più importanti ricerche scientifiche dell’ellenismo. Qui vennero portati avanti anche vari filoni di ricerca in campo filologico, filosofico e teologico. Alessandro di Afrodisia Filosofo greco, nato ad Afrodisia sulla costa dell’Asia Minore alla metà del II secolo d.C., tenne la cattedra imperiale di filosofia aristotelica ad Atene tra il 198 e il 211. Ha lasciato commenti sistematici a un numero molto alto di opere di Aristotele, condotti sulla base di un metodo rigoroso: interpreta infatti i singoli passi oscuri (moltissimi in Aristotele, dato lo stato e la storia delle sue opere di scuola) attraverso passi paralleli o su temi analoghi, cercando all’interno del corpus aristotelico la coerenza interna. Il suo metodo e le soluzioni da lui proposte ai problemi di interpretazione dei testi hanno fortemente influenzato la filosofia medioevale. In particolare Alessandro ha interpretato i testi aristotelici in modo da portare alla negazione dell’immortalità dell’anima individuale e ad una complessa teoria dell’intelletto, concepito come attivo (universale e immortale) e passivo (personale e materiale): vedi su questo punto la voce Intelletto attivo / Intelletto passivo (→). Oltre ai commenti alle opere di Aristotele, Alessandro di Afrodisia è anche autore di trattati su temi specifici, alcuni giunti sino a noi in traduzione araba, altri in originale greco. Tra i più importanti quelli Sulla mescolanza, Sul fato (in cui prende posizione contro la concezione stoica del fato) e Sull’anima, oltre a quattro libri di Questioni. Alessandro Magno Figura politica di primaria importanza nella storia antica, come segnala l’aggettivo Magno con cui ci si riferiva a lui già nell’antichità, Alessandro divenne re di Macedonia in circostanze drammatiche nel 336 a.C., quando il padre Filippo II venne ucciso nel corso di un attentato. Nato nel 356 a.C., aveva solo vent’anni quando salì al trono, ma riuscì immediatamente a controllare la situazione e ad assumere il potere reale, che esercitò con estrema determinazione sia all’interno che all’esterno. Aveva avuto una preparazione politico-militare di prim’ordine, curata dal padre stesso, e per circa tre anni suo precettore era stato Aristotele, che era in rapporti con la corte di Pella, la capitale macedone, perché il padre era stato medico presso quella corte. Quando negli anni successivi Aristotele tenne scuola ad Atene presso il Liceo, la città come tutta la Grecia era ormai sotto il controllo politico macedone; e quando Alessandro morì, e in Grecia si ebbero consistenti movimenti antimacedoni, poi rientrati, Aristotele dovette lasciare Atene essendo legato al partito macedone. La figura di Alessandro Magno, oltre che centrale dal punto di vista politico-militare, è importante anche per la storia della filosofia, per varie ragioni, a parte il suo rapporto con Aristotele: - fra il 334 e il 324 Alessandro guidò la celebre spedizione in Oriente che gli consentì di controllare politicamente la vastissima area tra il Vicino, il Medio Oriente e l’Asia centrale; al suo seguito c’erano molte personalità della cultura del tempo, che poterono così entrare in contatto diretto con la cultura dell’Oriente; tra questi vari filosofi, ad esempio Pirrone; - la scelta di Alessandro di compiere una spedizione in Asia aprì la strada a quell’epoca della storia antica che oggi chiamiamo ellenismo (→), caratterizzata da una profonda ellenizzazione di vaste aree dell’Oriente, ma anche dalla penetrazione in Occidente di modelli di vita, di religioni, di forme del pensiero e della cultura tipicamente orientali; la filosofia dell’epoca ellenistica ha risentito di questa apertura dell’Ellade alle culture orientali; - quando Alessandro nel 323 a.C. morì, senza avere avuto il tempo, completata la conquista dello spazio politico tra l’Egitto e l’Indo, di dare una stabile struttura al suo impero, a seguito di varie lotte tra i suoi generali si formarono alcuni regni ellenistici, e si spezzò definitivamente in tutto lo spazio ellenico quel legame tra il cittadino e la polis che aveva caratterizzato l’età arcaica e classica della storia greca; la filosofia politica e l’etica delle scuole ellenistiche ne risentirono in profondità. Aletheia Traduciamo questo termine greco con verità (il vero è alethes). È composto dalla particella privativa a, cioè non, e dal verbo lantano, che significa rimango nascosto. La verità è quindi, etimologicamente, ciò che non è nascosto, ciò che si rivela. Ora, nascondersi o rivelarsi è possibile soltanto rispetto ad un osservatore, e quindi nel termine aletheia è implicito uno dei tratti più importanti del problema filosofico della verità (→): il fatto che la verità riguarda un oggetto del discorso (o del pensiero), ma è tale solo agli occhi di un soggetto pensante. Perché ci sia aletheia, è indispensabile un soggetto consapevole di sé, oltre che della verità del proprio oggetto. La prima posizione del problema della verità è in Parmenide, che identificando l’essere e il pensare, identifica per ciò stesso il pensiero con la aletheia, dichiarando impensabili altre vie di ricerca (impensabili va inteso letteralmente: non pensabili, nel senso che le parole che si usano – ad esempio la parola nulla – non corrispondono in realtà ad alcun pensiero autenticamente tale). Alfabeto È l’insieme dei segni di cui già nell’antichità si sono servite alcune forme di scrittura (→). La caratteristica delle scritture di tipo alfabetico è che ciascun segno fissa mediante un segno un determinato suono, ed è quindi sganciato da un proprio significato. Ad averne uno non è il singolo segno, ma la parola composta da una serie di segni. Il sistema è quindi molto diverso da altri tipi di scrittura utilizzate nell’antichità, come quella geroglifica o ideografica. L’alfabeto adottato dai Greci quando compaiono, dopo il periodo del cosiddetto Medioevo ellenico, i primi documenti scritti è una variante dell’alfabeto fenicio, molto più antico e a sua volta variamente imparentato con altri alfabeti, come quelli minoici e il miceneo. Caratteristica dell’alfabeto greco è la presenza di segni che rimandano sia a suoni di consonanti, sia alle vocali (assenti in quello fenicio); la scrittura va da sinistra a destra. L’enorme complessità della lingua parlata poté quindi essere resa per iscritto solo mediante l’uso di una ventina di segni. La flessibilità e praticità del sistema fece sì che esso si diffondesse presto. In Italia venne adottato con varianti da molte popolazioni, fino ai Romani, il cui alfabeto deriva in effetti da quello greco (insieme all’etrusco). Allegoria L’allegoria è una figura retorica che consiste in una sorta di metafora distesa in forma di racconto: una narrazione è allegorica quando, al di sotto del suo significato letterale, nasconde significati che possono essere compresi soltanto attraverso un processo di interpretazione, cioè passando dal piano superficiale e letterale al piano profondo e nascosto. Il modo in cui debba avvenire questo passaggio è oggetto di diverse teorie sul cosiddetto metodo allegorico, che nella filosofia greca è stato proposto per la prima volta in forma compiuta ed esplicita da Filone di Alessandria (→), che lo applica alla lettura della Bibbia: l’interpretazione del testo letterale e superficiale delle Scritture che consente il passaggio al livello del significato profondo avviene attraverso l’uso degli strumenti filosofici messi a punto dalla tradizione greca. Con Filone ha quindi inizio quel percorso che ha consentito il legame tra filosofia e teologia ebraica, poi cristiana quando il metodo allegorico venne applicato dalla Scuola teologica di Alessandria (→), di matrice cristiana. È stato osservato che il metodo allegorico ha dei precedenti nei Sofisti, che interpretano antichi miti attribuendo loro significati filosofici, ad esempio Prodico (→) con il racconto di Eracle al bivio, o Protagora col mito di Epimeteo e Prometeo (→) del Protagora platonico. E l’uso stesso dei miti in Platone rimanda ad un loro significato nascosto. Ma l’accostamento tra queste procedure antiche e l’allegoria nel senso in cui essa viene utilizzata da Filone è controverso, ed è oggetto di dibattito tra gli studiosi. Almagesto Vedi Tolomeo Alto / Basso Questi termini, o altri che indicano egualmente gerarchie spaziali intese in senso proprio o metaforico (come nelle dizioni superiore / inferiore, lassù / quaggiù, e così via) sono frequentemente impiegati in filosofia in tre ambiti, che sono distinti anche se hanno connessioni tra loro: - l’ambito dello spazio fisico, per indicare posizioni nello spazio; qui il problema è determinare se si tratta di posizioni relative (così, ad esempio nell’atomismo) o assolute (così in Aristotele): vedi su questo punto la voce Spazio (→); - l’ambito etico ed estetico, in quelle filosofie che istituiscono gerarchie, e intendono gerarchicamente i rapporti tra un comportamento e l’altro e, a monte, tra un valore e l’altro (l’estetica è coinvolta in quelle filosofie che considerano la bellezza un valore); nel contesto di queste filosofie (ad esempio il platonismo e l’aristotelismo), come in ogni gerarchia, va distinta la posizione superiore dall’inferiore, e dunque l’alto e il basso sono termini spaziali che, secondo un processo variamente articolato di metaforizzazione, indicano un certo grado gerarchico; ad esempio in Aristotele la vita teoretica è più elevata della vita pratica, e in Platone l’anima cerca di elevarsi verso valori etici superiori; - un simile linguaggio spaziale è utilizzato anche sulle questioni ontologiche in quelle filosofie (sono sempre Platone e Aristotele a farlo, e sulla loro scorta Plotino) che gerarchizzano gli enti stabilendo livelli di realtà o di valore tra essi (spesso in parallelo alle gerarchie di valore definite in ambito etico); così in Platone le idee sono in alto, i corpi in basso. In Plotino, su base platonica, ricorre molto spesso l’opposizione tra i termini metaforici quaggiù (la vita dell’anima nel corpo soggetta al tempo) e lassù (la vita eterna dell’Uno e delle sue ipostasi eterne). Per indicare le realtà di lassù una delle parole utilizzate è apekeina, termine che indica una realtà vera posta al di là, in una trascendenza (→) molto radicale, anche se non assoluta (perché l’anima ha in sé la via che vi conduce). Altro In greco due termini diversi sono tradotti con la parola italiana altro: allos, che indica un altro fra molti, e heteros, che indica l’altro fra due. Nel Sofista (256d-258c) Platone parla positivamente dell’esistenza di un non-essere considerato come l’altro dello stesso (autos), ossia dell’Essere: non è quindi affatto il nulla o una negazione dell’essere. Aristotele insiste sull’alterità delle specie, in espressioni come «l’altro secondo la specie»: si dice che due cose che hanno questo carattere appartengono a due specie all’interno dello stesso genere (Metafisica, I, 8) Il tema dell’alterità assume poi un’importanza centrale nel neoplatonismo, perché l’anima che aspira a rientrare in sé stessa e ritrovare la via per l’unione con Uno originario deve superare l’alterità tra sé e le proprie origini. Amato / Amante È una distinzione precisa e di grande rilievo per la cultura greca. L’amante (erastes) è l’adulto che ha una funzione attiva sia dal punto di vista dell’educazione e della guida dell’amato (eromenos), che è ancora un ragazzo, sia dal punto di vista sessuale. Questa relazione non è quindi tra pari e i ruoli non sono interscambiabili. In molti passi sia di Platone che di altri si sottolinea che l’amato deve essere un ragazzo a cui non è ancora spuntata la barba, cioè che non è ancora da considerare una persona adulta. Su queste nozioni di veda la voce Omosessualità in Grecia (→). Nell’economia del Simposio platonico – il testo filosofico greco più importante su questo tema - la distinzione tra amato e amante ricorre continuamente, con la curiosa inversione finale tra Alcibiade (che in quanto giovane avrebbe dovuto essere l’amato) e Socrate (che è amato da Alcibiade e, secondo Alcibiade, anche da altri giovani che fa innamorare per poi negarsi). Anche su Eros le posizioni sono contrastanti: si discute nel Simposio se sia amante (così Diotima) o amato (così in vari altri discorsi), o presieda alle relazioni d’amore infiammando i cuori sia degli amati che degli amati. Amicizia In greco philia (deriva dal verbo philo, che significa io amo). Oltre al significato proprio c’è un uso mitico del termine ed uno metaforico in ambiti legati alla fisica e alla metafisica: ad esempio Empedocle chiama Philia una delle due forze che generano il movimento dei quattro elementi di cui è composta la realtà, e Platone dà un significato forte all’uso metaforico del termine come componente della parola philo-sofia (→). In ambiente pitagorico la philia è uno dei tratti che legano tra loro le parti dell’universo, nel quadro dell’armonia (→) cosmica. Se il termine è usato in senso proprio, la disciplina filosofica specifica che studia l’amicizia è l’etica. Presso i Greci è intesa come legame privilegiato tra due o più persone di uguali condizioni: alla base c’è il comune sentire, positivo gli uni nei confronti degli altri, che nasce tra pari. Dopo Platone, che ne tratta nel Liside, Aristotele dedica alla virtù dell’amicizia (o meglio, all’amicizia intesa come virtù: →) una trattazione molto ampia nell’VIII libro dell’Etica Nicomachea considerandola di notevole importanza ai fini etici, cioè per una concreta vita felice. E lo stesso interesse è rivolto al tema dell’amicizia dalle scuole ellenistiche, che ne fanno una delle condizioni della vita felice: così soprattutto in Epicuro, la cui dottrina utilitaristica non ha un carattere individualistico ma comunitario, perché l’utile dell’uomo passa per quello dei suoi simili, e vivere in una comunità di amici è l’utile più grande. Anche se gli Stoici hanno teorizzato il distacco dalle passioni da parte del saggio, hanno tuttavia dato anch’essi grande valore al rapporto di amicizia tra le persone, non per i suoi aspetti passionali ed emotivi (da tenere per loro strettamente sotto controllo), ma perché implica la capacità di superare la propria individualità e godere con l’amico dei comuni beni della mente (così, ad esempio, in Epitteto, Dissertazioni, II-22). Philia ed Eros Tra le nozioni filosofiche greche di philia e di eros (→), termini che rendiamo in italiano con amicizia e amore, ci sono sia somiglianze che differenze: - entrambi i termini fanno riferimento sia ad una dimensione cosmica che ad una privata e personale: nella cultura greca ad essere amici (o in conflitto) sono sia le radici di Empedocle che i cittadini uguali tra loro nella polis; ad essere legati da rapporti esprimibili in termini di eros sono sia gli dèi cosmogonici del mito sia due persone innamorate; - l’amicizia però, sentimento forte e non certo da intendere come un amore depotenziato, è intesa dai Greci come un legame tra pari, mentre l’Eros è di per sé un rapporto sbilanciato (differenza dei sessi o differenza tra amante e amato (→), due nozioni greche decisive per intendere la nozione di amore); - quanto alla loro radice, quella dell’amicizia è la somiglianza che dà piacere, l’armonia che equilibra e bilancia; mentre la radice dell’Eros è percepita nella cultura greca come un problema aperto, di difficile soluzione. La conseguenza è che l’amicizia per i Greci è sempre desiderabile (concordano, per ragioni diverse, Platone, Aristotele, Epicuro e altri); l’amore è inquietante e può non essere affatto sempre desiderabile (si veda su tutti questi temi la voce Eros: →). Amicus Plato, sed magis amica veritas Nel Libro I dell’Etica Nicomachea Aristotele, discutendo delle idee platoniche contro cui sta per enunciare una serie di argomentazioni, scrive che la ricerca è sgradevole perché “sono amici nostri gli uomini che hanno introdotto la dottrina delle idee. Ma si può certamente ritenere più opportuno, anzi doveroso, almeno per la salvaguardia della verità, lasciar perdere i sentimenti personali, soprattutto quando si è filosofi: infatti, pur essendoci cari entrambi, è sacro dovere onorare di più la verità” (Etica Nicomachea, I, 6). Questo passaggio aristotelica ha dato luogo ad un motto latino – Amicus Plato, sed magis amica veritas, cioè Platone è amico, ma è più amica la verità – che sottolinea come per il filosofo la verità debba venire prima di ogni altra considerazione in ordine ai rapporti personali fra i ricercatori. Un concetto simile è espresso anche da Platone (Fedone, 91). Amore Vedi Eros Amore e Psiche Favola ellenistica, che trae i suoi elementi dal materiale etnografico proprio di diversi popoli. Ce ne è stata tramandata una versione letteraria nelle Metamorfosi di Apuleio, scrittore latino del II secolo d.C. Amore è il dio greco Eros, innamorato di (e ricambiato da) Psiche, una ragazza che il dio visita ogni notte. Nei loro amori c’è però un patto: che lei non cerchi mai di vedere il suo volto. Una notte lei non resiste e accende una candela per vederlo; una goccia di cera cade sul dio addormentato, che si sveglia e deve fuggir via. La disperazione di Psiche per la perdita di Amore la porta a superare ogni difficoltà per ritrovarlo, e dopo molte peripezie riesce nell’intento. Perdonata, Psiche è accolta dagli dèi come sposa di Amore, e riceve in dono da Zeus l’immortalità. Come si vede anche da questa favola, in età ellenistica rispetto alla nozione dell’Eros tipica della tradizione greca dei periodi arcaico e classico si è verificata una netta inversione di tendenza: da forza cosmica e temibile, l’Eros è divenuto più tenero e tranquillo. In età alessandrina è ancora raffigurato con l’arco e le frecce, ma è anche visto come un bambino paffuto con le ali, che gioca, e nella favola di Amore e Psiche è un ragazzo molto bello e delicato. Amore platonico In filosofia la dizione amore platonico si riferisce alla teoria platonica dell’amore esposta soprattutto nel Simposio (→) e nel Fedro (→). Ma nel linguaggio corrente la dizione ha un significato diverso: indica quelle relazioni d’amore in cui è molto forte il coinvolgimento personale dei due innamorati, ma senza che a questo corrisponda alcuna relazione di tipo sessuale o più in generale tale da coinvolgere il corpo (fatta eccezione per lo sguardo). In realtà in Platone non c’è alcuna teorizzazione di questo tipo di amore, anche se nei gradi dell’Eros descritti nel Simposio la fisicità e la sfera del sesso viene superata da gradi più alti della spiritualità. Ma si tratta di stati descritti come successivi, e non indipendenti, rispetto al piano della fisicità. Analitica Aristotele chiama scienza dell’analitica (analytike episteme) quella parte della sua logica che studia come si giunga ad una data conclusione: analizzandola, si perviene alle condizioni da cui scaturisce, e quindi alle premesse del ragionamento che con esse si conclude. In questo senso i trattati in cui studia i processi logici con cui la mente può passare dalle premesse alle conclusioni e viceversa, cioè in cui sono studiati i sillogismi (→), sono chiamati Analitici Primi e Analitici secondi. Analogia In senso tecnico, il termine analogia (in greco analoghia) in Aristotele indica il fatto che nozioni diverse vengono utilizzate con una funzione simile, oppure che una stessa parola (ad esempio essere (→), termine analizzato nel celebre passo del Libro IV della sua Metafisica) è utilizzata in sensi diversi, collegati peraltro tra loro. Negli Stoici, in sede logica, lo stesso termine analoghia è utilizzato per indicare uno dei possibili modi del ragionamento, appunto quello analogico, che passa da una nozione ad un’altra come in una proporzione matematica (a sta a b come c sta a d). Analogisti Col termine analogisti si indicano i filologi e i grammatici alessandrini, e i loro seguaci a Roma (dagli Scipioni a Cesare, autore di un De analogia), che definirono il principio filologico e grammaticale dell’analogia come criterio per l’interpretazione dei testi e quindi per il loro studio filologico. L’idea di fondo è ispirata ad una filosofia del linguaggio di tipo convenzionalistico. Il linguaggio umano è interpretato come una convenzione, e quindi come una libera creazione degli uomini, in contesti storici determinati, che generazione dopo generazione hanno dato ad esso un ordine riconoscibile attraverso il principio di analogia (→): le parole hanno tra loro precise somiglianze (analogie di forma), per cui sono riconoscibili i nomi e i verbi; fra i nomi le somiglianze consentono di definire le declinazioni, fra i verbi le coniugazioni, e così via. È quindi possibile interpretare il linguaggio sulla base di poche e rigorose regole logiche, costruendo una grammatica che risponda a criteri scientifici, al pari delle altre scienze che si studiavano ad Alessandria (come la matematica e la fisica). Il principio dell’analogia fu alla base del lavoro grammaticale e filologico della Scuola filologica di Alessandria (→) in contrapposizione al principio di anomalia (vedi Anomalisti: →) propugnato dalla Scuola filologica di Pergamo. Anamnesi Vedi Memoria Ananke Vedi Necessità Anapodittico / Apodittico Anapodittico (in greco anapodeiktikos) è “termine proprio della filosofia greca, il contrario di apodittico. Indica quelle tesi e quei principi che non possono essere dimostrati e neppure hanno bisogno di esserlo, perché immediatamente evidenti. Ad esempio in Aristotele è anapodittico il principio di non contraddizione, che è un principio primo, non basato su altri e quindi non dimostrabile, ma allo stesso tempo è di per sé evidente. Dunque i principi anapodittici sono quelli dalla cui base possono partire le dimostrazioni rigorose” [Pancaldi 2006]. Apodittico (in greco apodeiktikos) significa dimostrativo, e si riferisce a quelle forme di ragionamento (cioè di sillogismo, per Aristotele, che usa questo termine) che sono dimostrative perché partono da premesse di accertata verità. Anax Il termine anax (o vanax, wanax) in età micenea indicava il sovrano dei Palazzi fortificati. La civiltà micenea ha dominato il Mediterraneo, tra la Sicilia e le coste dell’Asia, nei due secoli che intercorrono tra il 1.400 e il 1200 a.C.. Ciascuna città – cioè ciascuno dei Palazzi fortificati dalle mura ciclopiche – aveva un proprio sovrano: l’anax era a capo di una società aristocratica di uomini d’arme che lo riconosceva come capo. Sotto di lui c’erano quelli che oggi chiameremmo i suoi ufficiali, i capi militari che formavano il ceto dirigente, e guidavano gruppi di soldati, a difesa sulle coste e sul territorio, o in spedizioni lontane, oltremare. Il termine per indicare il loro ruolo è lawos. A capo di questi ufficiali era il lawagetas, figura intermedia tra il wanax e i lawos. Nel mondo miceneo compare anche il termine basileus per indicare i compagni d’arme del re (per la storia di questo termine rimandiamo alla relartiva voce: →). La figura regale tipica del mondo miceneo scompare nelle epoche successive, mentre l’aristocrazia finisce per prendere il sopravvento, con il costituirsi quindi di sistemi politici a guida collettiva e non individuale. Andronico di Rodi Di Andronico di Rodi, filosofo greco che fu scolarca del Liceo tra il 78 e il 47 a.C., non conosciamo né le date di nascita e di morte né le vicende essenziali della vita. La sua figura è importante nel panorama della filosofia greca soprattutto perché sotto la sua responsabilità venne realizzata l’edizione degli scritti essoterici di Aristotele, cioè degli scritti destinati alla scuola e non pubblicati dal loro autore. L’edizione che circolò nei secoli successivi, sia in Occidente che in Oriente – quindi tanto in ambiente greco e latino, quanto arabo – è quella di Andronico. Il suo lavoro editoriale fu realizzato anche grazie al lavoro del grammatico greco Tirannione il Vecchio, il cui contributo alla edizione del corpus aristotelico fu forse però solo indiretto. Aneddoto Vedi Racconti filosofici e aneddoti Anima Il termine è latino (il corrispettivo greco, il cui campo semantico non è però sovrapponibile, è phyche: →). I Greci hanno elaborato teorie filosofiche sulla natura dell’anima molto diverse – e spesso incompatibili tra loro –, ma si basano tutte sulla costatazione che il corpo di qualsiasi vivente è fatto della stessa materia di cui è fatto qualsiasi corpo inanimato; la vita va quindi spiegata sì in relazione al corpo, ma come carattere che si aggiunge ad esso. C’è un corpo, e non è vivente; c’è un altro corpo, ed è vivente. Chiamiamo anima (qualunque sia la teoria che costruiamo per descriverne la natura) la forza che rende vivente un corpo. In questo senso qualsiasi vivente ha un’anima, perché è vivo: potremo ad esempio usare l’espressione anima vegetativa per indicare la forza che rende viva una pianta e le consente di nascere da un seme e di crescere traendo energia e nutrimento dalla luce solare e dal terreno; o anima sensitiva per indicare la forza che consente a qualsiasi animale (in modi peraltro notevolmente diversi) di conoscere sensibilmente il mondo esterno e orientarsi in esso; o di anima razionale per indicare l’energia psichica che consente all’uomo di pensare in termini astratti e persino indipendenti dalla realtà esterna. I problemi filosofici sull’anima Un primo problema filosofico generale sull’anima (di qualsiasi vivente) riguarda la sua natura, cioè la risposta alla domanda: che cos’è un’anima? o, il che è in fondo lo stesso, che cos’è la vita rispetto alla materia inorganica? Infatti, abbiamo molta esperienza della vita, ma non abbiamo alcuna esperienza della nascita (in senso assoluto) della vita: qualsiasi vivente nasce infatti da un altro vivente. Dunque, che cosa rende animato un corpo? e da dove ha origine questa forza? Su questo punto si veda la voce Vita (→). Poiché la vita individuale ha termine, l’anima appare mortale, e anzi la morte potrebbe essere definita proprio come cessazione della vita dell’anima più che del corpo, perché gli elementi che compongono il corpo continuano nel loro ciclo di trasformazioni naturali. E tuttavia il corpo di un vivente è diverso dal corpo di un non vivente, perché possiede una sua specifica e autonoma organizzazione interna che un corpo non vivente non possiede più (o, se è un corpo inorganico, non ha mai posseduto). Ora, l’anima possiede una sua identità indipendentemente dal corpo, o è solo un carattere di quella sua particolare forma organizzativa che chiamiamo vita? Quest’ultima domanda acquista un particolare significato per l’uomo, che possiede una capacità di pensiero che lo porta a poter vivere anche in una sfera del reale che è indipendente a quella del mondo esterno (ad esempio l’uomo può pensare realtà astratte come gli enti matematici – astratte nel senso che non esistono come tali nel mondo materiale –, può pensare il passato che non ha vissuto e il futuro che non si sa se vivrà mai). Se l’anima dell’uomo, o una sua parte, avesse una sua identità indipendente dal corpo e non fosse solo una sua forma organizzativa, allora potrebbe in linea di principio sopravvivere al corpo. È il problema dell’immortalità dell’anima. Collegati a questi, ci sono anche i problemi studiati dalle teorie della conoscenza (→) perché è l’anima dell’uomo (e di altri viventi in altre forme) la sede della conoscenza (in quest’uso il termine psyche corrisponde all’italiano mente). Le teorie filosofiche sull’anima Le teorie filosofiche che sono state elaborate sulla natura dell’anima, da cui dipende la soluzione di tutti i problemi che abbiamo sommariamente posto, sono relativamente poche per la filosofia antica. In estrema sintesi: - una antichissima teoria sostiene che tutta la natura è vivente (per i primi filosofi naturalisti greci si parla di ilozoismo: →), e quindi la vita individuale è un frammento della vita universale; la distinzione tra materia non vivente e materia vivente è fittizia, perché in realtà tutta la materia è vivente e la vita è una forza naturale, in sé indistruttibile ed eterna, che permea tutto; oltre ai primi filosofi naturalisti questa teoria è sostenuta soprattutto dagli Stoici e – con una diversissima concezione della materia – da Plotino, che ammette quindi l’esistenza non solo delle anime individuali ma anche di un’Anima del Mondo; - una altrettanto antica teoria (forse più antica, ma su questo punto le ipotesi divergono) è di matrice religiosa e non filosofica, e propone l’idea che l’anima sia un’entità individuale di per sé del tutto separata dal corpo (l’Orfismo ad esempio parla dell’anima come di un demone: →); questa teoria è stata ripresa da diverse filosofie tra il VI e il V secolo a.C. (i Pitagorici, Empedocle) e poi da Platone, e su questa base sono stati cercati argomenti a favore dell’immortalità dell’anima, nel contesto della teoria della trasmigrazione delle anime (metempsicosi: →) o in contesti diversi; - una terza teoria, sviluppatasi nell’età che intercorre tra Democrito, Aristotele ed Epicuro, concepisce l’anima dell’uomo come un carattere stesso del corpo (la sua forma, secondo Aristotele) o come un corpo più sottile connesso al corpo umano; dà quindi dell’anima una descrizione e una spiegazione in termini rigorosamente biologici; - una quarta teoria, diffusa in ogni epoca tra i sofisti e l’età degli scettici, è in realtà una non-teoria perché sostiene l’impossibilità di sapere che cos’è l’anima, e quindi se è mortale o immortale, traendo da questo importanti conseguenze di tipo morale. Anima del Mondo Che il mondo abbia un’anima (la dizione greca è megale psyche) è tesi che va ricondotta alla definizione di anima come principio di vita: dire che il mondo ha un’anima – non quindi individuale, ma cosmica – significa dire che il mondo è vivente. La concezione dell’universo fisico come di un “grande animale” (cioè un essere vivente) risale all’ilozoismo (→) tipico dei primi filosofi naturalisti. poi la nozione di Anima del Mondo si precisa a partire da Platone, che nel Timeo la concepisce con carattere geometrico nel contesto però di un racconto mitico. A dare una interpretazione scientifica della nozione di Anima del Mondo sono soprattutto gli Stoici, che concepiscono l’universo fisico come un tutto vivente governato dal Logos che opera dall’interno attraverso il pneuma (→). L’obiettivo degli Stoici è di dare una lettura scientifica della struttura della materia e dei processi naturali mostrando che il modello meccanico e materialista degli atomisti (e quindi della scuola rivale, quella epicurea) è incapace di spiegare la vita che permea la materia dall’interno. Una lettura platonica, ma non mitica, è offerta da Plotino, che concepisce l’Anima del Mondo come la terza ipostasi, dopo l’Uno e l’Intelletto. La sua teoria applica i principi stoici (a proposito della caratteristica essenzialmente vivente della realtà) alla visione platonica. L’ipotesi greca dell’esistenza di un’Anima del Mondo venne esaminata, e scartata, dagli scienziati europei del Seicento al tempo della rivoluzione scientifica moderna (ad esempio Newton). Animale politico, animale razionale Con queste dizioni (politikon zoon, loghikon zoon) Aristotele si riferisce all’uomo. Le utilizza abitualmente (si veda, ad esempio, Politica I-2; III-6; Topici 5-2) come nozioni ovvie, che appartengono ad una tradizione non contestata: e in effetti che l’uomo sia un animale razionale è definizione che si trova in Platone, nei Sofisti, negli Stoici, e così via; che sia politico per natura, non è contrario alla maniera di sentire greca, ma è concezione specifica di Aristotele. Vanno sottolineate due cose: - il fatto che l’uomo sia un animale, cioè sia un essere vivente dotato di vita cosciente (in questo senso si parla di anima: →), assimilabile in quanto tale al mondo complessivo degli esseri viventi, con un radicamento in natura molto forte nel pensiero greco, è concezione indebolita nella filosofia tardo-antica; - il fatto che la razionalità, che non appartiene a nessun altro essere vivente di cui si possa fare esperienza, caratterizza l’uomo nella sua specifica natura, e così l’essere politico, cioè il fatto di essere un ente portato alla vita in una società con i suoi simili: il mondo degli dèi e del divino è quindi, in linea di principio, escluso, ma il problema è posto perché anche gli dèi sono concepiti come esseri razionali anche se non sempre “politici”. Anomalisti Col termine anomalisti si indicano i filosofi del linguaggio (soprattutto stoici, come Crisippo (→) e i filologi (soprattutto quelli della Scuola filologica di Pergamo (→) come Cratete di Mallo) che a partire dal III secolo a.C. si contrapposero alle teorie linguistiche e filologiche della Scuola di Alessandria (vedi Analogisti: →). Gli anomalisti devono questo nome al fatto di avere sottolineato la grande quantità di anomalie nella lingua, che rendono impossibile definire regole prive di eccezioni o spiegare come mai si usino parole diverse per indicare uno stesso oggetto o la stessa parola per indicare oggetti diversi. La loro tesi è questa, che le anomalie dipendono dal fatto che il linguaggio non è una convenzione (così la consideravano gli analogisti), ma un prodotto della natura. Soltanto la consuetudine spiega quindi le caratteristiche di ciascuna lingua, e non una qualche regola logica definibile in termini astratti. Antenore In Omero, Antenore è un uomo anziano e molto saggio, consigliere di Priamo a Troia. Prima della guerra era stato in rapporti amichevoli con alcuni capi greci, e aveva accolto nella sua casa Menelao e Ulisse, giunti a trattare le controversie poi sfociate nell’assedio. Dà spesso consigli di moderazione ai Troiani, e viene risparmiato dai Greci al momento del sacco della città (sulla sua casa viene appesa una pelle di leopardo come segnale). Antenore è legato all’Italia, perché insieme con i figli si sarebbe stabilito nella valle del Po dopo la distruzione di Troia, dando origine alla popolazione dei Veneti. Antioco di Ascalona Filosofo greco vissuto tra il II e il I secolo a.C. (conosciamo con certezza solo la data della morte, il 68-67 a.C.), è espressione della cosiddetta Accademia (→) nuova. Allievo di Filone di Larissa (→), Antioco ebbe una propria scuola platonica ad Atene, dove nel 7978 a.C. ebbe tra i suoi uditori Cicerone, con cui entrò in rapporti d’amicizia. Da Cicerone (Academica, II; Brutus, 315, De finibus, 5) e da altre testimonianze sappiamo che si discostò dalle tendenze scettiche dell’Accademia di mezzo ed anche dalle dottrine di Filone, per propugnare un ritorno al platonismo dell’antica Accademia, interpretato in modo da risultare coerente con elementi qualificanti dell’Aristotelismo e dello Stoicismo. Le sue opere sono perdute. Gli storici della filosofia, sottolineando la sua vicinanza allo Stoicismo, tendono a considerare il suo pensiero un esempio delle tendenze della sua epoca verso l’eclettismo (→). Anticipazione Vedi Prolessi Antifonte il Sofista Ci sono rimasti scarsi frammenti di questo filosofo, attivo nella seconda metà del V secolo a.C. ad Atene, che non va confuso con l’Antifonte logografo che negli stessi anni, sempre ad Atene, fu il retore che per primo fissò nella prosa attica il carattere dell’oratoria giudiziaria. Di Antifonte il Sofista non conosciamo le date di nascita e di morte, ma sappiamo che appartenne alla generazione successiva al maestri della prima sofistica, in particolare Protagora e Gorgia, la cui visione filosofica radicalizzò. Antifonte infatti, insieme con Crizia (→) ed altri, appartiene alla cosiddetta Sofistica radicale (→), che pose a tema la questione del rapporto nomos/physis (→). Antifonte considera i dettami della natura umana in generale, e gli impulsi che l’individuo sente in sé per la sua specifica natura, come più importanti della legge della polis. Le leggi che regolano la comunità sono quindi presentate negativamente, se si oppongono alla vitalità della natura dei cittadini. Aristotele attribuisce ad Antifonte anche ricerche di tipo matematico: fu il primo a tentare di risolvere il problema della quadratura del cerchio. I titoli che ci sono stati tramandati delle sue opere sono i seguenti: Sulla verità, Sulla concordia, Sullo statista, Sull’interpretazione dei sogni. Antigone È una delle più celebri figure femminili del mito greco. Protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle (vedi Antigone: →), Antigone è figlia di Edipo (→) e sorella di Ismene, Polinice ed Eteocle. Sulla madre le tradizioni divergono: le tradizioni più antiche la dicono figlia di una principessa del popolo dei Flegei, in Beozia; le tradizioni più recenti la dicono figlia di Giocasta, sposa di Edipo a Tebe e, senza che i due coniugi lo sappiano, sua madre oltre che sua sposa. Quando Edipo scopre la verità, e lascia Tebe dopo essersi accecato, Antigone lo accompagna nel suo peregrinare e lo assiste nel momento della morte, avvenuta a Colono in Attica. Tornata a Tebe, fidanzata di Emone, il figlio del re Creonte, si suicida in seguito a eventi drammatici narrati da Sofocle nella tragedia Antigone (→), alla cui trama rimandiamo. Antigone Titolo di una tragedia di Sofocle (→). L’Antigone costituisce una delle tragedie più discusse, interpretate, rilette, riadattate degli ultimi secoli. Grande interprete della tragedia fu Hegel, che all’inizio dell’Ottocento vide nell’opposizione tra i due personaggi lo scontro tra l’imperativo morale interno e la famiglia (Antigone) e la legge esterna della polis (Creonte). L’opera fu rappresentata per la prima volta ad Atene nel 442 a.C.; appartiene al ciclo dei drammi tebani che, insieme all’Edipo re e all’Edipo a Colono, mette in scena la drammatica sorte di Edipo, re di Tebe, e dei suoi discendenti. La protagonista è Antigone, figlia del re Edipo, e sorella di Eteocle e Polinice. I due fratelli si sono uccisi, il primo mentre tentava di assaltare Tebe, il secondo – che vi regnava – mentre la difendeva. Nuovo re è divenuto Creonte, fratello della madre di Antigone, Giocasta, il quale ha vietato di dare sepoltura al corpo di Polinice, in quanto questi ha combattuto contro la patria ed è quindi un traditore. Il corpo rimarrebbe quindi alla mercé delle fiere, un abominio per le convinzioni dei Greci. Antigone però non accetta il divieto: se Creonte agisce così in difesa della legge e contro il rischio del disordine nella città, Antigone ritiene che vadano salvaguardate e rispettate le leggi non scritte, ma più alte, degli dèi e dei vincoli di sangue. Antigone espone la propria decisione alla sorella Ismene che tenta invano di dissuaderla. Arriva quindi una guardia che riferisce che il corpo di Polinice è stato simbolicamente sepolto con un velo di polvere. Creonte, furioso, ordina di cancellare l’oltraggio che ha violato la sua legge e di trovare il colpevole di tale atto. Il coro riflette sull’azione di un uomo che vuole subordinare l’intero universo al suo dominio, ma Creonte impone il silenzio. La guardia conduce Antigone al cospetto del re; i due sono ora l’uno di fronte all’altra, incapaci di comprendersi, rappresentando due opposte ragioni: Antigone quelle dell’amore per il fratello e del rispetto delle leggi divine, Creonte quelle dell’ordine della città. La punizione per la donna è terribile: essere sepolta viva in una caverna, allontanata dalla città. Neppure il fidanzato Emone, figlio di Creonte, riuscirà a convincere il padre a cambiare la decisione presa. Antigone è così condotta al tremendo sepolcro mentre il coro canta la forza dell’amore. Nonostante la terribile sofferenza a cui va incontro, Antigone rimane fedele al suo proposito: “Potevo io, per paura di un uomo, dell’arroganza di un uomo, venir meno a queste leggi davanti agli dei? Ben sapevo di essere mortale, e come no?, anche se tu non l’hai decretato, sancito! Morire adesso, prima del tempo, è un guadagno per me. Chiunque vive fra tante sciagure, queste in cui vivo io, continue, come potrà non ritenersi fortunato, contento, se muore? Subire la morte quasi non è un dolore, per me. Sofferto avrei invece, e senza misura, se avessi lasciato insepolto il corpo morto di un figlio di mia madre. Il resto non conta nulla”. Antigone si dirige così verso la caverna. A questo punto inizia la tragedia di Creonte su cui si scaglierà la punizione divina. Tiresia l’indovino consiglia a Creonte di permettere la sepoltura di Polinice per evitare l’ira degli dèi. Il re, anche se con difficoltà, accetta ma quando decide di liberare Antigone, scopre che questa si è uccisa; alla vista del padre anche Emone si dà la morte. Appresa tale notizia, si uccide anche Euridice, moglie del re. A Creonte, che prende il cadavere del figlio tra le braccia, non rimane che la disperazione. Antistene Filosofo greco nato e vissuto ad Atene circa tra il 436 e il 366 a.C., Antistene dovette formarsi negli ambienti della sofistica attivi in città e fu forse in contatto diretto con Gorgia. Era comunque uno dei giovani che seguivano Socrate nella sua attività filosofica, e dopo la morte del maestro fu lui a fondare quella Scuola cinica (vedi la voce Cinici: →) la cui vita, tra alterne vicende, si sarebbe protratta fino al II secolo d.C. Antistene sviluppò l’insegnamento socratico in una direzione opposta a quella di Platone: sua è la celebre frase, in polemica con Platone, “Vedo il cavallo, non la cavallinità”, per indicare il fatto che i concetti non hanno alcuna validità reale: l’intera sfera dell’esperienza e della conoscenza non esce dalla sfera della soggettività, e non accede ad alcuna superiore verità oggettiva. In sede etica fu Antistene ad avviare quella riflessione sulla semplicità dei bisogni naturali dell’uomo che portò i successori della scuola (in particolare Diogene di Sinope: →) ad atteggiamenti di aperta contestazione delle convenzioni sociali, in nome delle esigenza di piena e individuale autosufficienza che ci rende liberi. Quale fosse però il contesto unitario della sua filosofia, al di là di questi temi che gli vengono attribuiti, è difficile dire perché delle sue opere non è rimasto quasi nulla, se non scarsi frammenti. Ci viene tramandato che abbia anche composto dialoghi. Antilogia Dal greco anti (contro) e logos (qui nel senso di discorso), una antilogia nasce dall’accostamento di due termini, o due frasi, o due discorsi contrapposti, tra cui una mente razionale non ha possibilità di decidere a quale dare il proprio assenso. Erano di questo tipo i discorsi contrapposti della tradizione retorica: la tecnica consisteva nel produrre, con metodo, su qualsiasi tema argomenti a favore e argomenti contro, con l’obiettivo di acquisire la capacità di rendere più forte il discorso più debole. Nelle filosofie ellenistiche le antilogie sono uno dei tropi (→) dei filosofi scettici: tra due proposizione contrarie e di egual valore che è sempre possibile enunciare su qualsiasi argomento gli scettici dicevano che era necessario non affermare la verità né dell’una né dell’altra. Antropomorfismo Il termine è composto dalle parole greche anthropos (uomo) e morphe (forma): è la tendenza, denunciata per la prima volta con forza da Senofane, che porta l’uomo a concepire gli dèi a propria immagine e somiglianza. Più in generale, la visione antropomorfa della natura porta a considerare i fenomeni naturali come espressione di una volontà personale, o come manifestazioni di una intelligenza simile a quella umana. Apatia In greco pathos (→) è la passione, l’apatia (apathia) è la vita condotta senza subire il dominio delle passioni (letteralmente apathia significa senza passione). Il significato di apathia, termine usato in senso tecnico dalle scuole ellenistiche, è molto lontano dal significato corrente del termine italiano apatia, che indica una tendenza all’inazione e una incapacità di reagire agli eventi. Nella filosofia greca l’apathia è invece il carattere dell’uomo saggio che sa governare con razionalità la propria vita senza lasciarsi condizionare dalle proprie passioni, e ne è quindi libero. In questo senso tecnico l’apatia non implica mancanza di azione; anzi, può essere una delle condizioni per un’azione efficace, razionale e libera. Questa nozione, particolarmente importante per lo Stoicismo, non è esclusiva di questa scuola, ma trova concordi varie tendenze dell’etica dell’epoca ellenistica. Anche la scuola cinica, ad esempio, aderì all’ideale dell’apatia. Apeiron Vedi Infinito / Indeterminato Apollo Divinità tra le più importanti del pantheon greco, figlio di Zeus, Apollo è il dio associato alla luce, alla musica (la lira è il suo strumento, in opposizione al flauto dionisiaco), all’ispirazione poetica, e quindi alla sapienza. Per questa ragione è il dio a cui più spesso i filosofi si sono richiamati, insieme con Atena. Nonostante queste associazioni, è un dio capace di dare la morte con il suo arco e la sua freccia, nonché un dio capace di crudeli vendette. La sua sapienza, la sua bellezza – è rappresentato come un giovane dalle forme abbaglianti, tipiche della statuaria classica – e il suo amore per le arti non ne fanno per nulla un dio pacifico e poco vendicativo. Identificato con il Sole, e quindi con la luce reale ma anche con quella metaforica dell’intelligenza, in quanto dio della sapienza è a lui che le comunità greche si rivolgono per averne responsi: il suo santuario a Delfi (→) è una delle istituzioni panelleniche più importanti. È da lui che provengono alcuni degli impulsi più importanti nel processo di civilizzazione dell’uomo: è Apollo ad ispirare e poi ad approvare i codici legislativi delle città (attraverso i responsi del suo oracolo), e a lui che ci si rivolge per averne alti principi morali e civili, e quindi filosofici. Apollodoro Apollodoro è un allievo di Socrate, e lo troviamo in tre dialoghi di Platone: nel Simposio è il narratore, nell’Apologia di Socrate è citato da Socrate stesso come uno di coloro che sono disposti a farsi per lui garanti del pagamento di una multa; nel Fedone è il discepolo che scoppia in lacrime nel momento in cui Socrate beve la cicuta e si avvia quindi alla morte. L’immagine è quella di un amico e seguace molto vicino ed affezionato, il che corrisponde alla presentazione che il personaggio Apollodoro fa di se stesso all’inizio del Simposio. Apologia Vedi Encomi e apologie Aponia È termine epicureo. L’aponia (così in greco) è lo stato di perfetta quiete del corpo e della mente, quando non mancano di nulla e quindi godono di un piacere pieno che rende la vita felice. Il termine, pur negando qualcosa – significa letteralmente non soffrire -, indica una realtà positiva (cioè il puro piacere di vivere) perché per l’epicureismo il piacere è connesso alla vita stessa, a condizione che non manchi di nulla. Aporetici [Dialoghi] Sono così chiamati i primi dialoghi di Platone, il cui personaggio principale è Socrate. La loro specifica caratteristica è che si concludono, dopo complesse indagini dialettiche, senza mettere capo ad una specifica teoria sulle questioni trattate. In questi dialoghi aporetici (così chiamati con riferimento alla nozione di aporia: →) Socrate con i suoi interlocutori va alla ricerca della definizione di un concetto (mediante la risposta alla domanda "Che cos'è…?") senza che sia possibile giungere a una conclusione univoca. Si tratta dunque di dialoghi, e quindi di ricerche filosofiche, la cui conclusione è aperta. Sono stati interpretati sia come dialoghi giovanili, in qualche modo preparatori alle ricerche della maturità di Platone, sia come esercizi di tipo dialettico utili alla formazione del filosofo. Aporia In riferimento a determinati e complessi ragionamenti, in greco si usa la parola aporia (il verbo aporein significa essere incerto) per indicare la difficoltà razionale a pervenire a una soluzione dei problemi studiati (la nozione è affine a quella di paradosso: →). Il carattere proprio dell’aporia è quindi il dubbio che la conclusione a cui porta un determinato ragionamento non sia corretta e nasconda un errore che tuttavia, ripercorrendo il ragionamento, non si trova. In questo senso gli argomenti di Zenone di Elea contro il movimento sono abitualmente indicati nel loro complesso come Aporie di Zenone (vedi ad esempio la voce Achille e la tartaruga: →) Poiché l'aporia sviluppa una chiara coscienza dei problemi, è uno strumento contro il dogmatismo ma anche, allo stesso tempo, espressione della difficoltà della ragione di interpretare ogni aspetto della realtà. Apparenza Utilizziamo il termine italiano apparenza per tradurre più di un termine greco, da dokein a phainesthai, a phainomenon (che rendiamo anche con fenomeno). Il contesto è quello del “problema della conoscenza e delle riflessioni sulla natura della cose che ne conseguono. All'interno della relazione tra il soggetto che conosce e l'oggetto sensibile conosciuto, il termine apparenza (dal latino tardo apparentia, legato al verbo apparere, apparire) designa l'oggetto nella sua semplice presentazione al soggetto, prima di ogni indagine filosofica. Il concetto rimanda all'idea che l'apparenza - e quindi ciò che il soggetto percepisce dell'oggetto - non sia affatto la vera realtà della cosa, e che l'indagine debba continuare per passare dal piano superficiale del conoscere senza adeguata riflessione alla problematizzazione sul sapere e sulle condizioni che ne consentono la validità. Il concetto di apparenza è quindi studiato da tutte le teorie della conoscenza. È legato ad altri concetti, con cui può sovrapporsi, come quello di fenomeno (→). È importante osservare che il termine apparenza rimanda, da un lato, ad un soggetto (il fatto che qualcosa appare implica che vi sia qualcuno a cui appare), dall’altro ad un oggetto (qualcosa che appare). Il problema decisivo è quello del rapporto tra l’apparenza e la verità. Infatti - l’apparenza può nascondere la verità, ed anzi sostituirsi ad essa, apparire essa stessa come vera (e in questo modo si apparenta all’inganno); - l’apparenza può al contrario rivelare la verità, come un sintomo rivela la malattia (e in questo modo piuttosto che apparentarsi all’inganno è una via per ricercare la verità). Andare al di là dell’apparenza significa quindi utilizzare ciò che essa rivela per ottenere, mediante diverse vie di indagine (nei limiti delle possibilità dell’uomo), la conoscenza della vera realtà di ciò che appare. Questo implica necessariamente non solo un lavoro di indagine sull’oggetto che appare, ma anche sul soggetto per cui appare. I limiti dell’apparenza (ciò che essa nasconde) potrebbero infatti dipendere dai limiti della capacità di conoscenza del soggetto” [Pancaldi 2006]. Nella filosofia greca il problema dell’apparenza è stato posto per la prima volta, e in modo radicale, da Parmenide, che nel suo poema riceve dalla dea l’invito a non prestar credito alle cose apparenti e a seguire piuttosto la via della verità. Il tema è stato poi trattato in tutto lo sviluppo della filosofia greca. Arcesilao di Pitane Filosofo greco, Arcesilao di Pitane (315-241 a.C. circa) intorno al 265 a.C. divenne scolarca dell'Accademia, alla quale impresse una direzione scettica. Affidò le sue dottrine esclusivamente alla tradizione orale e il suo pensiero ci è quindi noto attraverso le testimonianze di Cicerone e di Sesto Empirico. Il suo scetticismo non derivava da quello di Pirrone, con cui pure aveva diversi punti di contatto, ma da una ripresa delle tematiche scettiche presenti dapprima in Socrate, poi in Platone. Deriva quindi dallo stesso metodo dialettico di ricerca della verità proprio della sua scuola: non è forse vero che Socrate non ha voluto insegnare nulla perché riteneva di non sapere nulla, se non l'aver coscienza di non sapere? E il metodo di ricerca socratico applicato nei dialoghi platonici non porta forse a progressive scoperte che non giungono tuttavia mai ad un sapere davvero definitivo? Non è Platone a parlare del filosofo come amico della sapienza piuttosto che come sapiente e a sottolineare l'incertezza di ogni forma di conoscenza della realtà fisica, perché fondata sulla sensibilità? Quella di Arcesilao era quindi un’interpretazione radicale della dottrina di Platone che riprende la visione socratica della filosofia come ricerca della saggezza, ammettendo con franchezza i limiti della conoscenza umana. Per Arcesilao, quindi, la saggezza non consiste - come per le scuole ellenistiche - nel possedere la verità e nell'adeguamento della condotta di vita ad essa, quanto nella libertà dall'errore. Il filosofo è quindi innanzitutto un dialettico, un uomo, cioè, che sviluppa il metodo socratico per mostrare attraverso la contrapposizione delle opinioni il limite della conoscenza. L'Accademia si muove così sulla via indicata da Socrate con la sua interpretazione dell'invito del dio Apollo all'uomo: "Conosci te stesso!"; impara, cioè, a conoscere i tuoi limiti attraverso un rigoroso esame della tua coscienza. Arche Benché il termine sia in genere riferito solo ai primi filosofi naturalisti, il problema definito dal termine arche (origine, principio) è proprio di tutta la storia della filosofia, fino alle ricerche del XXI secolo. Si tratta infatti di capire, se l’universo ha una origine, qual è questa origine; se non ce l’ha, come possa spiegarsi la estremamente complessa configurazione della realtà. Riferito ai primi filosofi, il termine arche indica la particolare curvatura che loro hanno dato al problema, ed è per questa specificità che la parola si utilizza in filosofia in riferimento a loro (sembra sia stato Anassimandro il primo ad usarla, ed è Aristotele che nel Primo Libro della Metafisica ricostruisce la storia del problema e delle teorie proposte come soluzione, prima della sua). I naturalisti, infatti, non hanno inteso l’origine soltanto come il momento d’inizio da cui lo sviluppo dell’universo avrebbe preso le mosse, ma anche come il principio attivo che è ancora adesso (molto dopo l’inizio) alla base della trasformazione incessante della natura. Per risolvere il problema dell’arche i filosofi naturalisti hanno quindi dovuto non solo identificare uno o più elementi da cui ha preso le mosse la storia dell’universo (cioè di quella che i Greci chiamano physis), ma anche spiegare come questa origine si è poi prolungata nelle attuali leggi che lo reggono. L’arche è stato quindi concepito: - come un elemento originario che ha in sé il principio che spiega perché l’universo è ordinato: l’acqua di Talete, l’Apeiron di Anassimandro, l’aria di Anassimene, il fuoco-Logos di Eraclito, il numero di Pitagora; - come un insieme di elementi originari che non hanno in sé il principio che spiega l’ordine dell’universo, e sono quindi associati a forze che pongono ordine (o disordine): le quattro radici di Empedocle connesse con Amicizia e Contesa, o le omeomerie di Anassagora connesse con la Mente, Nous. Nelle filosofie successive (l’età di Platone e di Democrito, poi di Aristotele e delle scuole ellenistiche) il problema è reimpostato in modo diverso: non si cerca più un elemento originario, ma una spiegazione complessiva dell’universo attuale, spesso concepito privo di origine ed esso stesso eterno (Aristotele, Democrito, Epicuro) o rinascente ciclicamente dalle proprie ceneri (Stoicismo), o legato a un diverso ordine di realtà (Platone, Plotino). Archetipo Vedi Modello Archita di Taranto Vissuto circa tra il 430 e il 360 a.C., Archita di Taranto fu un filosofo pitagorico di cui non ci rimangono le opere, se non per frammenti brevi in numero esiguo. Sappiamo però che fu in contatto con Platone, che fu a Taranto presso di lui nel suo primo viaggio in Magna Grecia, e con lui ebbe relazioni di amicizia e di ricerca anche nel periodo dell’Accademia. Benché si sia occupato di molte questioni filosofiche e tecniche (di tipo matematico, musicale, e di altro ancora nel contesto del pitagorismo), Archita non fu solo un filosofo, ma anche un uomo politico al vertice del potere nella polis di Taranto. Areopago È il tribunale ateniese che si occupa dei delitti di sangue e di empietà. Aveva la sua sede in una collinetta nei pressi dell’Acropoli, da cui prendeva il nome, che letteralmente significa Colle di Ares. L’istituzione del Tribunale era infatti legata a un episodio che aveva come protagonista questo dio, che un giorno ai piedi di questa collina uccise Alirrozio, figlio di Poseidone e della ninfa Eurite, colpevole di un atto di violenza nei confronti di Alcippe, figlia di Ares. Il mito racconta che Poseidone portò Ares a giudizio davanti agli dèi olimpi, che si riunirono per giudicare nella stessa collina in cui erano avvenuti i fatti, assolvendo Ares. Altre tradizioni collegano l’origine di questo tribunale ad Atena (si veda, ad esempio, la trama delle Eumenidi di Eschilo: →) Nella storia, si tratta della prima e antichissima istituzione pubblica ateniese, con un carattere fortemente aristocratico: originatosi dal consiglio degli anziani dei primi secoli dopo il Mille a.C., era composto da membri della nobiltà eletti a vita ed esercitava sulla città un potere notevole, di fatto controllando la vita pubblica fino alle riforme del VI secolo a.C., da Solone all’istituzione della democrazia. Nell’Atene democratica del V secolo il suo ruolo era molto ridotto, limitandosi a giudicare particolari delitti, e tale rimase per tutta l’età classica. Ma ancora in età ellenistica e romana l’Areopago era in grado di esercitare i suoi poteri, mantenendo il prestigio di una antica e venerabile istituzione. Ares Figlio di Zeus e di Era, è il dio della guerra (i Romani lo identificheranno con Marte). Nel mito è accompagnato da due figure divine, Deimos e Phobos (letteralmente, Paura e Terrore): sono suoi figli e suoi scudieri (la loro madre è Afrodite, di cui Ares è amante). In quanto dio della guerra, dovrebbe essere invincibile, ma nella mitologia greca altri dèi oltre ad Ares hanno capacità militari, dallo stesso Zeus ad Athena, che incarna sia la saggezza che la forza. Così in molti racconti mitologici è Ares ad avere la peggio quando si scontra contro questi dèi. Arete Traduciamo questo termine con virtù, ma la resa italiana è in parte fuorviante perché non esiste nella nostra lingua un preciso corrispettivo. In italiano virtù è un concetto morale, mentre nella tradizione greca questa connotazione morale per il termine arete giunge tardi (non prima dell’età di Socrate e di Platone) senza però soppiantare del tutto il significato originario. Il significato del termine Nella concezione tradizionale greca infatti l’arete è la capacità di un uomo (ma anche, per estensione, di un animale) di svolgere al meglio il ruolo che la natura, la tradizione o la società gli assegnano: ad esempio per un artigiano o per un mercante è la capacità di svolgere al meglio il proprio lavoro; per l’educatore, o la madre, o la moglie, o per qualsiasi figura privata, è la capacità di comportarsi in modo che i compiti che la società assegna a ciascuno siano svolti nel migliore dei modi. Si parla quindi, al limite, dell’arete di un ladro, se è bravo a rubare. Quando si fece strada nella cultura greca l’idea che il bene sia un valore superiore, indipendente dall’uomo e oggettivamente fondato su uno strato profondo dell’Essere, la nozione di arete acquisì una connotazione etica e passò ad indicare la capacità dell’uomo di seguire il bene e fuggire il male. Ma su cosa fossero in concreto il bene e il male, e quindi sulla definizione concreta di virtù, le scuole filosofiche si diversificarono notevolmente (vedi la nozione di Bene: →). I problemi filosofici Tra l’età di Socrate e quella di Platone il problema centrale relativo alla nozione di arete è proprio la sua definizione: - che cosa si debba intendere per virtù sia in generale, sia negli specifici casi in cui la virtù gioca un ruolo nei rapporti umani (il tema è connesso alla definizione del bene: →); - se la virtù sia una sola, o se ciascuna virtù sia qualcosa di separato dalle altre; - se la virtù sia insegnabile, e quindi quali debbano essere le forme organizzative della paideia greca. Su quest’ultimo punto, come del resto sugli altri, Platone (e il personaggio-Socrate nei suoi dialoghi) conduce un serrato confronto con i Sofisti (ad esempio nel Protagora è esaminata la questione se una specifica virtù, quella politica, sia insegnabile come sostiene Protagora). Tra l’età di Aristotele e quella delle scuole ellenistiche il problema della identità della virtù è posto in termini etici in stretto rapporto con la visione dell’uomo: l’arete è da tutti intesa come la capacità dell’uomo di essere pienamente se stesso, e quindi che cosa sia la virtù dipende dal modo in cui la vera è realtà dell’uomo è concepita. Così l’analisi aristotelica delle virtù si lega alla sua visione dell’uomo come animale sociale e razionale, l’analisi stoica si concentra sul legame tra il logos umano e il Logos universale, e così via. Aretusa Nell’isola di Ortigia a Siracusa c’è ancora oggi una fonte che in età greca era il simbolo stesso della città, da cui sgorgava acqua purissima che si diceva provenisse sotterraneamente dalla Grecia. Qui infatti, tra l’Elide e l’Argolide nel Peloponneso, scorreva il fiume Alfeo, il cui dio (dallo stesso nome) si innamorò di una delle Naiadi, che si chiamava Aretusa. Per sfuggire al dio-fiume, la ninfa si trasformò in fonte, sprofondò sotto terra e percorrendo sotterraneamente tutto lo spazio tra il Peloponneso e la Sicilia riemerse come fonte ad Ortigia. Esistono molte versioni di questo mito, che è tra i più celebri dell’antichità tra quelli che hanno per protagonista una ninfa. Argomentazione per assurdo Nella sua forma originaria, risale a Zenone di Elea che la usa nel proporre le sue celebri aporie. La struttura dell’argomentazione prevede un elemento di dialogo tra due persone ed è quindi legata alle origini della dialettica (→)antica: - chi propone l’argomentazione accetta come base del discorso la tesi del suo interlocutore; è una mossa tattica, perché l’obiettivo è fornire, alla fine del ragionamento, un argomento contro la tesi che (provvisoriamente e in ipotesi) si accetta; - data la tesi, accettata come premessa non dimostrata e neppure discussa, si analizza attraverso un esempio o una deduzione a quali conseguenze porta la sua accettazione; - la conclusione del ragionamento mostra che queste conseguenze sono assurde, cioè logicamente contraddittorie; - se ne conclude che la tesi originariamente accolta è assurda. Argomento logico Si deve nettamente distinguere un argomento da una dimostrazione (→) (argomentare e dimostrare sono quindi pratiche razionali discorsive diverse): - data una tesi, un argomento è un percorso logico che parte da una riflessione teorica o da un esempio d’esperienza (reale o possibile) che rafforza la tesi o la pone in crisi, mai in modo definitivo e inappellabile: l’argomento logico è quindi un passaggio interno ad un processo di riflessione, di dialogo o di ricerca; - data una tesi, una dimostrazione è, nella sua forma classica tipica della geometria euclidea, il percorso che, da premesse, porta necessariamente attraverso passaggi logici privi di salti alla certezza razionale della correttezza della tesi. Mentre dunque nella dimostrazione la ragione discorsiva dell’uomo trova fondamenti di certezza (almeno sul piano logico), in linea di principio è sempre possibile contrapporre ad un argomento a favore un argomento contro, e viceversa. Aria La base d’esperienza della riflessione filosofica greca sull’aria è simile alla nostra ma non identica, perché la società industriale e l’urbanizzazione hanno profondamente modificato la qualità dell’aria, modificandone quindi le percezioni sensoriali primarie (ad esempio gli odori, che oggi differiscono meno che in passato nelle diverse stagioni, o i colori). Quanto alle dimensioni della sfera dell’aria che circonda la Terra, i Greci non avevano modo di determinarne l’ampiezza. I filosofi naturalisti l’hanno studiata come uno degli elementi che costituiscono la natura, nel contesto delle ricerche connesse al problema dell’arche (→), della struttura della materia (→), ed anche del rapporto tra l’uomo, la natura e gli dèi, perché il tempo atmosferico era legato, nella tradizione mitologica, alla sfera di Zeus. Forse la più celebre delle teorie greche sull’aria è quella di Anassimene che la identifica come l’arche stesso della natura. In Empedocle è uno dei quattro elementi (o radici, rizomata) da cui sono formate tutte le cose, ed è quindi eterna come eterna è la natura. Sul rapporto tra l’aria e la struttura della materia valgono le stesse considerazioni che abbiamo proposto per l’acqua (→). Quanto al tempo atmosferico, diversi filosofi hanno svolto accurate indagini e proposto teorie. In senso radicalmente contrario all’intervento divino nel mondo sono le teorie che Epicuro propone nella Lettera a Pitocle e Lucrezio riprende nel De rerum natura: tutti i fenomeni naturali, compresi i fulmini, sono da ricondurre alle leggi generali che governano la natura, e in essi non si manifesta mai alcuna volontà superiore. Aristarco di Samo Filosofo e scienziato greco formatosi negli ambienti del Liceo (fu allievo di Stratone di Lampsaco: →), visse nel III secolo a.C. in un momento di particolare fervore degli studi scientifici. Di lui ci resta un’opera dal titolo Sulle grandezze e distanze del Sole e della Luna. Al suo nome è legata l’ipotesi cosmologica che vede il Sole al centro di un universo finito, ipotesi tuttavia che non ebbe seguito nell’antichità. Prevalse la tesi geocentrica, poi fatta propria da Tolomeo (→), la cui opera influenzò il Medioevo e l’età moderna, quando la tesi di Aristarco venne ripresa da Copernico. Aristarco di Samotracia Vissuto circa tra il 217 e il 145 a.C., fu uno dei più importanti filologi della Scuola filologica di Alessandria (→). Allievo di Aristofane di Bisanzio (→), di cui proseguì l’opera come editore dei poemi omerici, fu il quinto bibliotecario della Biblioteca di Alessandria, e in questa veste diede un notevole impulso alla Scuola filologica, definendone i principi guida e il metodo di lavoro. Studioso di questioni grammaticali, curò personalmente anche un notevole numero di edizioni filologicamente accurate di opere classiche, in qualche caso accompagnate da commenti: opere della tradizione epica (oltre a Omero anche Esiodo), lirica (Archilogo, Alceo, Pindaro, Anacreonte), tragica (Eschilo, Sofocle, Euripide). Aristippo di Cirene È il nome di due dei filosofi della Scuola cirenaica (→). Il primo è l’Aristippo di Cirene fondatore della scuola, che nacque a Cirene nel 435 e si trasferì ad Atene dove entrò in contatto con il circolo di Socrate e dei suoi allievi. Dopo la morte del maestro, fu in diverse città della Grecia e del Mediterraneo, tra cui Siracusa, dove sembra abbia conosciuto Platone, nel corso del suo primo soggiorno in Sicilia. Morì nel 366 a.C. Non abbiamo le sue opere e ci resta soltanto qualcosa dei suoi detti. Non sappiamo bene quindi in che senso la fondazione della scuola di Cirene sia riferibile direttamente al suo pensiero. Sappiamo che ebbe una figlia, Arete, e un nipote, anch’egli Aristippo detto il Giovane, e la tradizione dossografica assegna a loro la codificazione del principio chiave della scuola, l’enunciazione di un ideale di vita basato sul principio del piacere. Aristofane Commediografo greco, è una delle figure più importanti della cultura ateniese della seconda metà del V secolo a.C. Nato ad Atene intorno al 445, vi morì poco dopo il 388 a.C. dopo una vita spesa in una intensa attività teatrale. Non conosciamo quasi nulla della sua vita, se si esclude quello che si ricava dalle sue stesse commedie. Della sua vasta attività di autore di teatro (conosciamo una trentina di suoi titoli, ma la sua produzione dovette essere più ampia) avviata in giovanissima età (le prime commedie furono rappresentate nel 427 a.C., quando Aristofane non era ancora ventenne) restano 11 commedie intere e un migliaio di frammenti. Con lui giunge a maturazione la commedia attica, caratterizzata da un forte impegno civile e politico, non dissimile da quello – su tutt’altro registro – della tragedia. Una sua commedia ha un rilievo particolare nella storia della filosofia perché mette in scena Socrate, ironizzando pesantemente su di lui e sulla sua cerchia: è Le Nuvole, alla cui voce (Nuvole →) rimandiamo per il riassunto. Aristofane compare come personaggio-chiave del Simposio platonico, e questo ha sempre destato interrogativi tra gli interpreti: come mai Platone ha rappresentato in questo contesto amichevole Socrate e Aristofane insieme, quando nella realtà storica Aristofane dovette essere un nemico di Socrate, e nell’Apologia di Socrate Platone fa dire a Socrate che proprio con Le Nuvole sono nate le prime voci in città contro di lui? Il discorso di Aristofane nel Simposio di Platone Aristofane propone, come gli altri, un suo elogio di Eros. Racconta che alle origini gli uomini non erano come noi, ma erano di tre sessi (maschi, femmine ed ermafroditi) e doppi rispetto a noi, a forma di palla con quattro gambe e quattro braccia, e due teste contrapposte. Forti e agili abbastanza da sfidare gli dèi, vennero per questo puniti da Zeus che li divise in due esseri separati, con l’aiuto di Apollo che sanava le ferite prodotte. È questa la ragione per cui ancora oggi ci si innamora: l’obiettivo è ricostruire l’unità originaria. Chi originariamente era un maschio cerca un maschio per completare se stesso, chi femmina cerca una femmina; chi era ermafrodito cerca una persona del sesso opposto. Il discorso di Aristofane, poeta comico, nella sua comicità ha aspetti tragici. Come nel caso del discorso di Agatone (→), tutto appare come se tragedia e commedia fossero presenti nel Simposio come due volti della stessa Musa. Commenta Lacan: “Senza dubbio è significativo per noi, ricco di insegnamenti, di suggestioni, di interrogativi, che sia Agatone, il tragico, ad aver fatto, per così dire, il romancero comico dell’amore, e che sia invece Aristofane, il comico, ad averne parlato nel suo senso di passione, con un accento quasi moderno” (Lacan 1960, p. 126). Aristofane di Bisanzio Vissuto circa tra il 257 e il 180 a.C., fu uno dei massimi filologi dell’antichità, non solo per il suo lavoro di curatore ed editore di antichi testi presso la Biblioteca di Alessandria, di cui fu il quarto bibliotecario, ma anche perché tenne una scuola di grammatica nella quale si formarono i grammatici e i filologi del periodo aureo della Scuola filologica di Alessandria (→). In gioventù era stato allievo di Callimaco (→), ma poi aveva elaborato un proprio metodo filologico, utilizzato soprattutto per l’edizione critica dei poemi omerici, ottenuta attraverso un lavoro di analisi delle molte e discordanti redazioni manoscritte che allora circolavano. Fu anche editore delle opere complete di Pindaro e di Euripide, che raccolse per la prima volta in una edizione basata su principi filologici ispirati a rigore scientifico. Aristoi / Aristocrazia Aristoi in greco sono i migliori, aggettivo che indica di per sé i più forti; kratos è il potere, e dunque l’aristocrazia (in greco aristokratia) è quella forma di gestione della vita politica che concede il potere ai migliori, cioè ai più forti. In età arcaica, e soprattutto in età classica, all’aristocrazia si contrappose il potere del demos, del popolo, che sul finire del VI secolo a.C. diede vita ad Atene a forme istituzionali di democrazia (→). Da questo punto di vista l’aristocrazia e la democrazia sono visti come sistemi politici contraposti e spesso in lotta tra loro. Questo non significa che i nobili in Grecia fossero tutti aristocratici: erano aristoi, sì, ma in molti casi divennero capi di parte democratica (come Pericle, ad esempio) o accettarono lealmente la democrazia come sistema “costituzionale” della polis. Nel mondo omerico (che riflette probabilmente pratiche politiche affermatesi lungo il corso di molti secoli, tra il periodo miceneo e l’VIII secolo a.C.) gli aristoi sono i capi delle famiglie più importanti, per ricchezza e potenza (anche fisica: gli eroi sono forti, belli, coraggiosi), accettati dagli altri come pari grado nel contesto dei consigli che affiancano il basileus (→), egli stesso un aristos acclamato dagli altri ad un incarico politico superiore. È da osservare che questi consigli, che danno concretezza pubblica al potere di per sé privato dei capifamiglia, sono spesso indicati, già in Omero, come consigli degli anziani (→), anche se spesso i suoi membri sono eroi nel pieno vigore degli anni. In Grecia l’aristocrazia si affermò, come forma diffusa di governo delle città, nel corso del Medioevo ellenico, dopo il crollo del mondo miceneo, e quindi non conosciamo con esattezza le tappe del processo che portò i nobili ad assumere direttamente su di sé la responsabilità politica, una volta caduta la funzione regale dell’anax miceneo. Quando nella Grecia continentale e nelle colonie dell’Egeo e della Magna Grecia ricompare la documentazione scritta, tra l’VIII e il VII secolo, la maggior parte delle poleis sono rette dai nobili, con istituzioni stabili, in regime quindi di aristocrazia, ma con tensioni sociali molto forti dovute alla pressione politica del demos, escluso dalla cerchia dirigente della città. Nella celebre tripartizione dei regimi politici proposta da Aristotele, sulla base peraltro di un lunga tradizione precedente, l’aristocrazia è il governo dei migliori, ed è distinta non solo dalla democrazia (il governo di tutti i cittadini), ma anche dalla monarchia (→) (il governo di uno solo). La sua specifica degenerazione è l’oligarchia (→), cioè il governo di pochi e non necessariamente i migliori, che si impongono sugli altri con la forza contro la legge. Aritmetica Vedi Geometria Armodio e Aristogitone Sono figure storiche. L’episodio per il quale divennero famosi ad Atene e in Grecia riguarda gli ultimi anni della tirannide ad Atene, subito prima dell’instaurazione della democrazia alla fine del VI secolo a.C.. Dopo Pisistrato, erano divenuti tiranni della città Ippia e Ipparco (quest’ultimo in posizione subordinata) e i due nobili ateniesi Armodio e Aristogitone nel 514 a.C. ordirono una congiura che, per ragioni private più che politiche, mirava all’uccisione dei due tiranni. Ippia si salvò, mentre Ipparco rimase ucciso, insieme ad Armodio. Aristogitone venne condannato e poi giustiziato. I due tirannicidi vennero celebrati in età democratica come eroi, e nello stesso tempo i tiranni vennero dipinti negativamente. Sia sull’eroismo dei due tirannicidi, viste le ragioni per cui agirono, che sul carattere negativo della tirannide ad Atene gli storici sollevano dubbi. Nel Museo Archeologico di Napoli si conservano loro celebri statue antiche. Armonia È una delle nozioni fondamentali della concezione estetica e filosofica dei Pitagorici e, attraverso di loro, di una delle concezioni classiche della bellezza. Il termine greco harmonia deriva da harmozo, che significa accordo, e in filosofia cominciò ad acquisire un significato tecnico quando i Pitagorici lo utilizzarono per indicare il perfetto equilibrio tra le parti che conferisce bellezza a un oggetto naturale (ad esempio il corpo umano) o ad un prodotto dell’arte (ad esempio una statua o un tempio: si veda la voce Canone: →). La nozione ha due aspetti: uno matematico e una metafisico, e il suo legame con la bellezza dipende da entrambi. Da un punto di vista matematico l’armonia è un rapporto numerico tra due grandezze, ad esempio la celebre sezione aurea (→). La prima elaborazione di questa teoria, per cui la bellezza di un corpo o di un suono dipende dal rapporto quantitativo tra le sue parti, nacque in ambiente pitagorico in ricerche di tipo musicale, ma corrispondeva ad un modo di sentire comune, non ascrivibile di per sé ad una specifica scuola. Da un punto di vista metafisico l’armonia è la perfezione stessa dell’Essere, comunque esso sia inteso dalle varie scuole filosofiche greche. Questa perfezione si esprime nel fatto che nella sfera della realtà fisica e mentale non c’è posto per contraddizioni insolubili, per conflitti non superabili, per la realtà effettiva del male: tutto è bene, se visto da una prospettiva corretta, e l’armonia è la nozione che spiega come ciò sia possibile avendo l’uomo esperienza concreta dell’errore, della contradizione e del male. Ciò che appare tale non lo è in realtà, perché nell’economia generale della realtà è bilanciato da altre realtà che compongono il Tutto, che è quindi armonico (si pensi alle tesi di Eraclito sulla armonia dei contrari). La bellezza è dunque un carattere primario dell’Essere, perché ne esprime l’armonia interna. Non tutte le scuole filosofiche greche hanno accettato questa nozione metafisica di armonia: ad esempio Platone la accetta solo per la realtà delle idee, non per quella dell’universo fisico. Ed anche chi la accetta, come Plotino, ad esempio, non sempre associa l’armonia alla bellezza (nell’esempio di Plotino la bellezza ha una identità ed una origine diversa). Altre scuole, come la Sofistica, la Megarica, la Scettica, insistono su aspetti non armonici della realtà (ad esempio sulle aporie). Tuttavia la nozione di armonia, esprimendo bene l’ottimismo metafisico tipico di gran parte del pensiero greco (con importanti eccezioni, soprattutto nel mito più che nella filosofia), ha caratterizzato in modo profondo la visione greca dell’uomo e del mondo. Tutti i teorici dell’estetica (→) nel mondo antico la riprendono, in vario modo, sia pur discutendola, come fa Plotino. E i teorici medioevali li seguono su questo terreno, perché interpretano (da Agostino in poi) la bellezza della natura come un riflesso della bellezza di Dio. Di questa bellezza l’armonia è una componente. Arte Vedi Estetica Asclepio È il dio greco della medicina. Nel mito era figlio di Apollo e venne allevato dal centauro Chirone che gli insegnò l’arte medica. Intorno a questo dio fiorirono nell’antichità molti racconti e leggende, sicché le tradizioni non sono univoche. Ma sappiamo che, storicamente, il suo culto era praticato originariamente in Tessaglia. Poi tra il VI e il V secolo a.C. compaiono gli asclepiadi, cioè gli aderenti ad una scuola medica che aveva il suo centro nell’isola di Cos e il suo più importante rappresentante in Ippocrate, che diede alla medicina antica una svolta decisiva in senso razionalista. I medici di Cos si dicevano asclepiadi perché rivendicavano una discendenza dal dio Asclepio. Questa direzione razionalista della medicina antica (→) non fu però l’unica legata alla figura di Asclepio. Nel V secolo a.C. il culto del dio venne introdotto in altre aree con curvature culturali diverse; e presso il tempio di Ascelpio ad Epidauro si fece strada la pratica dell’incubazione (→), che implicava un rapporto personale tra l’ammalato (che dormiva nel recinto sacro del tempio) e il dio guaritore. Asia Oggi distinguiamo in maniera netta l’Asia dall’Europa e dall’Africa, ma per i Greci queste distinzioni dovettero formarsi lentamente (e la nozione di Europa che per noi è abituale è di epoca molto successiva). Quando compaiono le prime fonti scritte, tra l’VIII e il VII secolo a.C., l’Asia è per i Greci ancora soltanto la costa ionica e il suo entroterra. In Erodoto, che si interessò da storico al rapporto tra la civiltà greca e quella asiatica, e quindi propose una netta distinzione anche geografica, l’Asia è distinta con chiarezza dall’Africa (il punto di separazione è l’Istmo di Suez) e dall’area culturale greca (il confine geografico è meno chiaramente identificabile, perché città greche importanti e di antica tradizione sorgevano nell’area orientale dell’Egeo, in quella che sempre più si indicava come Asia Minore, almeno a partire dall’età di Alessandro Magno, vissuto un secolo dopo Erodoto). Benché la geografia sia importante, per i Greci l’identità dell’Asia era soprattutto culturale, ed era questo carattere più che una identità geografica a differenziarli dai molti popoli che abitavano le terre a est dell’Egeo. Il rapporto con queste terre era ambivalente, perché da lì provenivano molte tendenze della cultura e della religione ellenica (debito non sempre riconosciuto dai Greci, ma a volte sì), e soprattutto pericoli reali e concreti (si pensi alle Guerre Persiane: →). E comunque i Greci, attratti dall’Oriente, al tempo di Alessandro Magno tentarono con successo la conquista di queste terre, riuscendo a realizzare una sorta di ellenizzazione della loro cultura, a prezzo però di una fusione della stessa cultura ellenica con elementi orientali (nacque così il cosiddetto ellenismo (→). Assemblea In età classica è l’organo costituzionale fondamentale della democrazia: è la riunione di tutti i cittadini aventi diritti politici che, insieme e a maggioranza, prendono le decisioni politiche (vedi la voce Ecclesia: →). Ma di per sé la riunione dei cittadini con fini di decisione politica è molto precedente alla nascita della democrazia. Assemblee dei cittadini sono presenti, e con un ruolo non marginale, sin dai poemi omerici, cioè in un’età in cui il potere reale era nelle mani di una élite militare e politica. Infatti anche in questo mondo di basileus (→) e di consigli degli anziani (→), il momento in cui il popolo si riuniva era importante per due ragioni: - perché in una civiltà orale l’Assemblea era il luogo in cui i capi politici e militari manifestavano il loro potere e chiedevano testimonianza, perché tutti potessero sapere e soprattutto ricordare; - perché nell’antica società greca (sia in quella omerica che in quelle storiche dell’età arcaica e classica) il potere dei signori era comunque regolato e limitato dalle tradizioni, e l’Assemblea aveva i suoi diritti tradizionali; se non altro, il diritto di essere informata e di concedere o meno il consenso, senza il quale nessun potere era in realtà stabile, neppure quello del più potente degli eroi omerici o dei tiranni della storia successiva. Non va dimenticato poi che i Greci si sono sentiti sempre, in tutti i momenti della loro storia, un popolo libero, cioè un popolo di cittadini e non di sudditi. L’Assemblea, in qualsiasi regime politico, esprimeva questo status che era sì politico, ma riposava su un fondamento culturale fortemente consolidato sul piano della tradizione. Assenso Gli Stoici parlano di assenso (in greco synkatathesis) per indicare l'atto con cui la mente accetta o respinge come valide o come non valide le proprie rappresentazioni (→) e le proprie idee. Il termine ha quindi un particolare interesse nello studio del rapporto tra la volontà e l'intelletto (qual è il ruolo della volontà nell'assenso?) e nei tentativi di comprendere la natura dell'errore (perché la mente concede il proprio assenso a idee errate?). Si vedano dunque le voci Volontà (→) ed Errore (→). Va sottolineato il fatto che nel problema dell’assenso è in gioco la libertà (→) intesa come libero arbitrio: ad esempio, la mente può negare l’assenso alle rappresentazioni del tutto evidenti? Assimilazione Il termine greco homoiosis, che traduciamo con assimilazione, è il processo con cui ci si rende simili a qualcosa o a qualcuno. Platone lo usa a proposito dell’anima che si rende simile alle realtà ideali a cui per natura è affine (Fedone 80a), sicché questo processo è in realtà per l’anima un rientrare nella propria più profonda natura. Plotino lo utilizza a proposito del processo ascendente che l’anima compie, per gradi, per rassomigliare all’Uno, cioè per vivere in lui la propria vita. Assioma / Postulato È termine tecnico della logica aristotelica. L’axioma è “ciò che in virtù di se stesso è necessario che sia, e dobbiamo quindi crederlo” (Analitici secondi, I-10) ed è quindi un principio vero e allo stesso tempo indimostrabile perché non rinvia ad altri principi che lo precedono e da cui deriva. In Aristotele il classico esempio è quello del principio di non-contraddizione. La nozione di assioma in Aristotele va distinta da quella di postulato (in greco aitema) che è una proposizione che viene accolta senza dimostrazione, non perché sia auto-evidente come è il caso di un assioma (→), ma come momento di un ragionamento complessivo in cui ciò che viene dato per accolto adesso verrà in un secondo momento discusso. Aristotele precisa che si tratta di una presupposizione al momento indimostrata, ma dimostrabile, di tipo particolare: chiama postulato quella proposizione che viene accolta da chi conduce la dimostrazione quando l’interlocutore non è affatto convinto che sia la verità o non si è formato un’idea precisa (così in Analitici secondi, I-10). Anche in matematica (il riferimento è in particolare ad Euclide, ma sulla base di una lunga tradizione precedente) la nozione di assioma indica una nozione generale evidente di per sé, non dimostrabile, che sta a fondamento di una sequenza di dimostrazioni. Anche Euclide distingue assiomi (verità evidenti) e postulati (enunciati che esprimono ciò che si chiede di ammettere). La differenza tra assiomi e postulati è venuta meno nel corso del XIX secolo. Oggi per assioma o postulato si intende un enunciato primitivo di una teoria. Assoluto Il termine è di derivazione latina (ab-solutus, staccato da, indipendente, e, in altra accezione, compiuto): è il participio passato del verbo absolvere, che significa tanto staccare quanto assolvere, compiere. I due significati rimangono nell’uso filosofico del termine: - assoluto è detto ciò che è ed esiste in completa assenza di condizioni, in modo del tutto indipendente; - assoluto è detto ciò che è perfetto e compiuto nella sua perfezione. In una terza accezione, oggi utilizziamo questo termine in contrapposizione a relativo, in dizioni come “in assoluto...”. La concezione greca più vicina alla nozione moderna di assoluto è forse l’Uno di Plotino e dei neoplatonici; ma in assenza di una diretta elaborazione del concetto e del termine nella filosofia antica, il latino absolutus e l’italiano assoluto traducono in realtà varie espressioni greche: da kath’auto (che vuol dire in sé) a anupothetos (cioè incondizionato). In un senso tecnico non direttamente filosofico, il termine absolutus è stato utilizzato per la prima volta dai grammatici e dagli studiosi di retorica latini, per indicare un elemento della frase o del discorso che ha un senso in sé compiuto e non rimanda ad altro, oppure per indicare un’azione giunta a compimento. Nela filosofia moderna il termine ha acquisito significati tecnici specifici, assenti nella filosofia antica. Concreto / Astratto “Termini opposti, che definiscono determinate modalità del reale: - concreto è detto di ciò che appartiene alla sfera di ciò che esiste come realtà effettuale, sia come oggetto materiale che come evento; i termini greci che traduciamo con concreto sono le espressioni aristoteliche ta ek protheseos e kath’ekaston, cioè individuale; - astratto è detto di ciò che appartiene alla sfera del pensiero e della mente con un certo grado di indipendenza dalla realtà delle cose e degli eventi, anche ripetendone alcuni caratteri (astraendoli, appunto, dalle cose e dagli eventi); il termine aristotelico per astratto è l’espressione ta ex aphaireseos. Aristotele tratta di questi temi soprattutto in due luoghi: in Dell’anima, III-7 e negli Analitici secondi I-18, in relazione alla nozione di induzione (→)alla quale rimandiamo. Tuttavia queste definizioni sono problematiche, perché partono dall’assunto che la materia e la sfera ad essa connessa degli eventi nel tempo siano reali, o comunque abbiano un grado di realtà maggiore della sfera del pensiero per immagini o concettuale (che chiamiamo appunto “astratto”). Vi sono però indizi che portano a ritenere che le cose non stiano così: ciò che è sottoposto al fluire del tempo ha una natura instabile, è destinato a trasformarsi, mentre i concetti (o alcuni tipi di concetti, come quelli matematici) non dipendono per la loro verità dal fluire del tempo e quindi sono “stabili” (la domanda verte su quale sia la natura di un’idea al di fuori del tempo, se davvero è possibile questo). È dunque possibile che si debba operare una inversione, e considerare concreta la sfera del pensiero più della sfera della materia e degli eventi” [Pancaldi 2006]. È soprattutto Platone nella filosofia greca a insistere su questa tesi, seguito poi da Plotino. Si tenga poi presente che tutte le teorie, anche se riguardano enti concreti (ad esempio gli atomi degli atomisti) sono, in quanto teorie, del tutto astratte benché abbiano come oggetto un ente concreto descritto nella sua concretezza, perché sono frutto di catene complesse di ragionamento e non della conoscenza diretta (cioè sensibile) dell’ente in questione (gli atomi sono inconoscibili attraverso i sensi). Inoltre i fatti della vita interiore sono concreti, anche se si riferiscono a enti non reali (la paura di un evento che poi non accadrà è concreta, anche se non lo è l’evento a cui si riferisce). Concretezza non può quindi essere sinonimo di legame con la realtà materiale o con eventi esteriori reali: concreta è anche la vita della mente, che costruisce teorie astratte su fatti concreti, pensa concretamente enti ed eventi inesistenti, e così via. È quindi problematico il rapporto sia di ciò che è concreto sia di ciò che è astratto con la nozione filosofica di realtà. Si può dubitare della effettiva concretezza di quel che inesorabilmente passa, come della effettiva astrattezza di una possibilità reale che poi non si realizza. Ma sono solo esempi: i casi possibili sono moltissimi. Astrologia, Astronomia Il termine greco astronomia significa studio degli astri, esattamente come astrologhia. Ma studiare le leggi degli astri (nomos significa legge) è cosa ben diversa dallo studiare l’influsso che gli astri hanno sulla vita umana. I due termini indicano quindi discipline distinte, benché per lo più – almeno dall’ellenismo in poi – studiate entrambe dagli stessi scienziati: - l’astronomia è lo studio filosofico e scientifico degli astri, a partire dalla loro composizione fisica e dalle leggi del loro movimento (per questi aspetti si vedano le voci Terra e Cieli: →); Aristotele la considera la scienza più affine alla filosofia perché studia oggetti sì sensibili, come i Cieli, ma eterni ed incorruttibili; - l’astrologia è lo studio delle influenze che antiche tradizioni rilevano tra gli astri e la vita umana sulla Terra. Mentre quindi l’astronomia nel mondo greco si è sempre mantenuta nel contesto scientifico e filosofico, l’astrologia ha sconfinato sul terreno della ricerca religiosa, a questo spinta in parte anche da almeno due tradizioni filosofiche: la cosiddetta teologia astrale platonica (→) e la concezione stoica del Cosmo, che teorizzava in alcuni autori l’esistenza di correnti di “simpatia” (la base fisica è il pneuma: →) tra il microcosmo umano e il macrocosmo, cioè l’universo nella sua totalità. La distinzione tra i due ambiti, astronomico e astrologico, nell’antichità venne posta con forza da tutte quelle scuole filosofiche (ad esempio quella epicurea) che negavano ogni influenza dei cieli sull’uomo, mentre i due ambiti tendevano a sovrapporsi presso gli studiosi che li ammettevano. Di fatto però gli studiosi che hanno scritto sia opere astronomiche che astrologiche hanno separato i due ambiti, pur essendosi occupati di entrambi i tipi di ricerche: ad esempio Tolomeo (→), che con l’Almagesto ci ha lasciato la più compiuta sintesi dell’astronomia scientifica antica, ha scritto anche un’opera astrologica, dal titolo Influssi astrologici (risale al 140 d.C. circa), nota anche come Tetrabiblos. Ma sono appunto due opere, e due teorie, diverse. In effetti, qualunque cosa si pensi del supposto influsso degli astri sulla vita umana, è un problema diverso quello dell’astronomia (che studia gli astri nella loro natura e nei loro movimenti) e quello dell’astrologia (che, a partire da questa natura e da questi movimenti, studia l’influsso che gli astri hanno sulla vita umana). La sintesi tra le due discipline venne negata da quegli studiosi che negavano l’influsso degli astri sull’uomo, ma venne cercata da quanti, come gli Stoici, ritenevano non fosse possibile fornire un’immagine organica e coerente dell’universo fisico senza studiarne i rapporti tra le parti, e quindi anche i rapporti tra la vita sulla Terra e la realtà dei Cieli. L’astrologia di cui parliamo intendeva avere gli stessi caratteri scientifici dell’astronomia. A fianco di questa linea di ricerca si sono sviluppate nell’antichità (soprattutto negli ultimi secoli dell’ellenismo e nell’età tardo-antica) anche tendenze magico-religiose, spesso a sfondo mistico, di tipo astrologico, che tuttavia non possono essere collegate (almeno non in modo diretto) alle ricerche filosofiche e scientifiche, attenendo alla sfera della religione. Le due sfere – religiosa e scientifiche – appartenevano però alle origini alla stessa tradizione: in Persia, in Mesopotamia, in Egitto, sin dal III millennio a.C. si osservavano i Cieli sia per comprendere le leggi che li governano, sia per comprenderne l’influsso sulle vicende numane. Varie religioni astrali erano ancora vive in Oriente nel momento in cui il mondo greco entrò in contatto con le culture dell’Asia al tempo della spedizione di conquista di Alessandro Magno, sicché alcune di esse penetrarono in Occidente. Già nell’antichità però si discuteva polemicamente sulla pratica dell’astrologia: ad esempio nell’ambito della Stoia Panezio non la ammise, e filosofi scettici come Carneade e soprattutto Sesto Empirico la avversarono, perché “innalza a nostro danno un gran numero di superstizioni e spinge a non far nulla secondo la retta ragione” (così Sesto in Contro i matematici, V-2) Atarassia Il termine italiano riprende il greco ataraxia, che indica la tranquillità dell’animo, la calma interiore per una lunga schiera di pensatori tra Democrito e gli Stoici. Sono però questi ultimi che hanno posto l’atarassia al centro della loro etica: il saggio è, innanzitutto, sereno, perché sa controllare le passioni e perché sa che la realtà è buona ed è governata con razionalità perfetta dalla forza immanente del Logos. Analoga nozione, anche se su tutt’altro quadro teorico, è comunque presente nelle altre scuole ellenistiche, dagli epicurei agli scettici. Ate Associata all’accecamento della mente, e quindi alla colpa che l’uomo fatalmente commette quando la sua mente è accecata, nella mitologia greca Ate è descritta come una dea leggerissima che si posa sulla testa degli uomini senza che questi se ne accorgano. Esiodo la dice figlia della Discordia e sorella dell’Illegalità, entrambe personificazioni, come spesso accade in Esiodo. Nel mito venne cacciata dall’Olimpo da Zeus nel momento in cui questi impose il suo ordine sul mondo: la fece precipitare sulla Terra e le impose di non ritornare mai più sull’Olimpo, liberando così il mondo divino da un serio pericolo. Non così per gli uomini, che al pericolo di Ate sono sempre esposti. Questa divinità è tra quelle che i Greci indicavano come responsabili dei comportamenti irrazionali e colpevoli dell’uomo, incomprensibili ai loro occhi senza un intervento esterno, divino. Il contesto è quella della riflessione sulla colpa – sulla oggettività e soggettività della colpa (→) –, un tema che fu a lungo dibattuto dai poeti, fino ai grandi tragici del V secolo a.C., e dai filosofi. Ateismo In greco a è una particella che indica negazione e theos significa dio (→). L’ateismo è quindi una teoria che nega l’esistenza di dei o di un Dio unico, o della sfera del divino in quanto tale. La nega, si badi, non la considera inconoscibile, e non considera irrisolvibile il problema dell’esistenza degli dèi o di Dio. L’ateismo è una teoria che afferma qualcosa di preciso: esclude che nella realtà ci sia posto per il divino. Nessuna teoria filosofica greca ha proposto l’ateismo nelle forme in cui lo ha fatto la filosofia moderna, e solo singoli pensatori hanno esposto tesi che possono essere realmente definite atee. Del resto non è mai stato posto in termini espliciti dai Greci il problema dell’esistenza di esseri divini: o questa esistenza è considerata ovvia, oppure è considerata indecidibile, dando luogo a posizioni agnostiche (→), senza di fatto porre il problema (l’indecidibilità dipende dal modo in cui si concepiscono le capacità della mente umana: non c’è una vera e propria indagine sul tema). Atena È una dea tra le maggiori del pantheon greco, e con Apollo è anche la dea per eccellenza della filosofia. Figlia di Zeus, nacque però in un modo che mette conto raccontare, per la sua importanza per la filosofia. Quando ancora non aveva il pieno controllo delle forze dell’universo e il suo ordine non dominava ancora il mondo, Zeus era sposato con Metis, la dea dell’intelligenza astuta. Quando Metis rimase incinta, Gea e Urano rivelarono a Zeus che la figlia che stava per nascere avrebbe a sua volta avuto un figlio che lo avrebbe spodestato, come Zeus stesso aveva fatto con suo padre. Per impedire questo, e allo stesso tempo per tenere sempre dentro di sé Metis, da cui avere consigli, Zeus inghiottì la sua sposa. Quando giunse il tempo della nascita, fu Efesto ad incaricarsi di colpire con un’ascia la testa di Zeus, facendo così uscire Atena, già grande e armata di elmo, lancia e scudo. Dea bella, forte e guerriera, ma anche molto saggia e vergine (i nomi Parthenos e Pallas, Pallade, che le sono spesso associati hanno questo significato), ha una vasta gamma di attributi e di caratteri. È Polias, cioè protettrice delle città, e innanzitutto di Atene, la “sua” città per eccellenza; è Ergane, cioè protettrice delle arti e dei mestieri, in specifico dei lavori femminili, che si svolgono nel chiuso della casa; è Promachos, cioè legata alle attività guerriere; e così via. Atena è spesso rappresentata con la civetta, animale a lei sacro. Atene Benché la filosofia sia stata coltivata in molte poleis sia della Grecia continentale che delle colonie d’Oriente e d’Occidente, e benché Atene abbia assunto un ruolo in questo campo di studi piuttosto tardi, solo a partire dalla metà del V secolo a.C., di fatto l’immagine della filosofia greca è fortemente connessa con questa città, perché nell’età classica e poi in quella ellenistica qui si concentrarono la maggior parte delle scuole filosofiche. Non che i filosofi fossero per lo più ateniesi: provenivano da tutta l’Ellade, infatti, e in età ellenistica anche da zone al di fuori dell’area culturale greca propriamente detta; ma Atene era il luogo in cui uomini e idee si incontravano. Qui sorsero poi le grandi istituzioni scolastiche che si mantennero in vita per tutta l’età ellenistica (l’Accademia, il Liceo, il Giardino, la Stoa) nonché i movimenti filosofici nemici delle istituzioni (la scuola cinica e la scettica). Senza che, peraltro, Atene avesse mai il monopolio della ricerca (la filosofia, del resto, non era nata qui). Le origini della città si riflettono nei racconti della mitologia e solo tardi e non in modo chiaro nelle descrizioni dell’archeologia. Nel sito della città dovette sorgere un centro miceneo, che non venne distrutto quando alla fine del XII secolo a.C. le rocche micenee crollarono, né fu mai interessato dalle invasioni dei Dori. Il sito ebbe quindi una completa continuità di sviluppo e di insediamento, anche se durante il Medioevo ellenico subì lo stesso declino degli altri centri. La nascita dell’Atene che conosciamo dalla prima documentazione scritta è legata al mito di Teseo (→), l’eroe che avrebbe unificato l’Attica e creato quindi le basi della struttura politica della città e del suo stabile rapporto col territorio su cui sorgeva. Già allora doveva avere una forte vocazione mercantile, come altre città della Grecia, potendo anche contare sul porto del Falero e, più tardi, su quello del Pireo. Legata alla produzione agricola e alla coltivazione dell’olivo (il dono che la tradizione vuole sia stato offerto alla città da Atena, la “sua” dea protettrice), era però anche un luogo di notevole produzione artigianale, se la ceramica attica è stata trovata in tutto il Mediterraneo, dove era giunta evidentemente attraverso commerci. La città aveva quindi sia una forte componente aristocratica, legata al possesso della terra, sia una altrettanto forte componente popolare. Così i conflitti tra gli aristoi e il demos segnarono per secoli il suo sviluppo politico: all’inizio del VI secolo fu Solone (→) a riformare le sue istituzioni e a trovare un punto di conciliazione tra gli opposti interessi del popolo e dei nobili; poi, dopo una più che decennale parentesi di tirannia, fu qui che si svilupparono in forma compiuta e stabile le istituzioni della democrazia, che ressero anche le prove militari del V secolo a.C. (dalle vittoriose Guerre Persiane alla perduta Guerra del Peloponneso). E, in certo modo, con le pratiche della democrazia si identifica la storia della città anche nelle epoche successive, quando in realtà l’autonomia era ormai perduta, a favore prima dei Macedoni, poi dei Regni ellenistici, poi di Roma. Rimase sede di scuole filosofiche importanti per tutta l’antichità Dopo l’epoca ellenistica, ne nacquero di nuove, e venne rifondata una sorta di nuova Accademia da parte dei neoplatonici (è la cosiddetta Scuola di Atene: →). La sua chiusura nella prima metà del VI secolo d.C. per volere di Giustiniano (in epoca cristiana non era più tollerabile una istituzione filosofica indipendente e pagana) segnò in qualche modo simbolicamente la fine della filosofia greca e l’inizio di altre forme della cultura, legate alla civiltà che si chiamerà Bizantina. Ma l’importanza sia economica che culturale di Atene era ormai un ricordo del passato, ed era Costantinopoli (Bisanzio, da cui civiltà bizantina) la città-guida dell’identità greca. Atomo / Atomismo Fondata sulla concezione greca dell’atomos, termine che significa non diviso, indivisibile – l’italiano atomo rimanda invece ad una realtà che la fisica insegna essere composta di parti ben distinte l’atomismo è una delle teorie sulla struttura della materia (→) che vennero elaborate tra il IV e il II secolo a.C. dapprima da Leucippo e Democrito, poi da Epicuro. La più completa esposizione teorica dell’atomismo che ci sia rimasta non è però greca, ma latina: è infatti contenuta nel De rerum natura di Lucrezio, essendo perduti i testi fondamentali delle scuole atomiste greche. I problemi a cui l’atomismo risponde sono in realtà due, uno relativo al rapporto tra l’essere e il nulla, l’altro relativo al problema della struttura della materia: - quello relativo all’essere è quello posto da Parmenide: come è possibile che l’essere (→) divenga? se nasce o si trasforma o muore, allora nasce dal non-essere, si trasforma in qualcosa di diverso dall’essere e muore divenendo non-essere; e questo è logicamente impossibile perché concepirlo significherebbe ammettere l’essere e l’esistenza del non essere; - il problema relativo alla struttura della materia riguarda i processi di generazione e di corruzione dei corpi e le leggi che li governano. La soluzione atomista al problema riguardante l’essere consiste nel negare che l’essere nasca, si trasformi o muoia: ad esistere da sempre e per sempre non sono infatti i corpi, che mutano continuamente, ma le particelle che li compongono, che non mutano mai, esistono da sempre, sono immodificabili, esisteranno sempre, sono in numero infinito e si muovono in uno spazio vuoto che ha le stesse caratteristiche di eternità e immutabilità. Il problema della struttura della materia è risolto con una complessa teoria del movimento degli atomi. I corpi che continuamente si formano e muoiono non alterano in alcun modo l’immutabilità dell’essere, perché morire significa soltanto che l’aggregazione atomica cessa e gli atomi si riaggregano in un altro modo. L’atomismo antico ha messo quindi capo ad una teoria della materia come essere individuale e reale, esistente, pieno, immutabile. La realtà della materia non è oggetto d’esperienza perché gli atomi sono tutti, senza eccezioni, più piccoli della capacità dei sensi dell’uomo di distinguere le singole particelle, per cui tutti gli enti che conosciamo sono corpi, cioè aggregati di atomi. La nozione di atomo nasce quindi da una deduzione teorica a partire da presupposti teorici (l’eleatismo) ed empirici (l’esperienza della divisione di qualsiasi corpo, che gli atomisti dimostrano - con ragionamento teorico, non sperimentalmente - non possa essere condotta all’infinito). Nell’atomismo non vi sono eccezioni in questa visione della realtà. Tutto ciò che non è atomo pieno o spazio vuoto, è un aggregato di atomi nello spazio, oppure non esiste. In Epicuro, di cui abbiamo più informazioni, l’atomismo è materialista ma non è una teoria atea, perché è affermata l’esistenza degli dèi, anch’essi composti di atomi. Né è una teoria che dia poco rilievo all’anima umana e alla sfera pura del pensiero, realtà che sono invece oggetto (questo già in Democrito) della massima attenzione: sono anch’esse ricondotte ad aggregazioni di atomi (anche la conoscenza, sia sensibile che razionale, è spiegata su base materialista). Attica È la regione su cui sorge Atene, delimitata a nord dalla Beozia. Ha quasi interamente la struttura geografica di una penisola che si incunea nell’Egeo, tra l’Eubea e il Golfo di Egina. Abitata da popolazioni greche di stirpe ionica, era piuttosto nettamente divisa in tre zone, una montuosa, un’altra pianeggiante e fertile, una terza costiera, ciascuna delle quali aveva proprie esigenze, sicché fino alle riforme di Solone (inizio VI secolo a.C.) e di Clistene (fine dello stesso secolo) c’erano state tensioni prolungatesi per secoli. Dopo la riforma di Clistene - che introdusse la democrazia ad Atene, ma ridefinì anche i rapporti tra le tre aree dell’Attica - la storia dell’Attica si identifica con la storia stessa di Atene, perché la città e la regione formarono un insieme politico unitario e (relativamente) armonico. Atto / Potenza Sono nozioni tipicamente aristoteliche in riferimento all’essere proprio di ciascun ente. I termini greci che traduciamo con la parola italiana atto sono due: - energeia (da energo, agisco, lavoro) che è composto da ergon (il lavoro) e en (in); l’energeia è innanzitutto la forza, l’energia che serve per operare; quindi è l’azione che operando sull’essere in potenza realizza ciò che prima era solo possibile; infine è l’essere reale, passato dalla potenza appunto all’atto; - entelecheia, che rimanda a telos, fine, cioè alla compiutezza che è appunto una caratteristica dell’atto. L’essere in atto è dunque, semplicemente, l’essere reale di un ente, la modalità effettiva e presente che lo caratterizza nella sua sostanza attuale. La dunamis, termine che traduciamo con potenza, in Platone e in altri autori è la capacità di agire, la facoltà di fare qualcosa. È Aristotele ad assegnare alla dunamis un significato tecnico in rapporto all’atto, per indicare l’essere in potenza di un ente, cioè le modalità non attualmente reali di quell’ente, che tuttavia sono possibili. Va osservato che l’essere in potenza riferito a un ente è concepibile solo se l’ente esiste ed è qualcosa in atto. Quindi l’essere in atto in un certo modo precede la potenza, e ne è la condizione. Atto puro È una delle varie espressioni che Aristotele utilizza per indicare la vera natura di Dio: è atto puro perché privo di ogni potenzialità non realizzata. Non gli manca quindi nessuna compiutezza né alcuna perfezione. Non c’è quindi in Dio passaggio dalla potenza all’atto, e quindi nessun cambiamento. Autonomia / Autosufficienza Il termine greco autarkeia significa letteralmente potere su se stesso, e lo traduciamo quindi sia con autonomia sia con autosufficienza, in contesti che rimandano al carattere etico della nozione greca. L’autarkeia è infatti il tratto specifico del saggio che ha raggiunto l’autosufficienza e per la sua libertà (→), e quindi per la sua eudaimonia (felicità: →) dipende sempre meno dagli altri e sempre più solo da se stesso. Benché sia utilizzato con particolare enfasi dai Cinici, la nozione è comune, anche se con diverse sottolineature, un po’ a tutte le filosofie elleniste, per le quali, più o meno concordemente, non si può far dipendere la propria vita dagli altri, o dal caso o da cose come la fortuna o la sfortuna. Le ragioni per cui non è eticamente corretto farlo sono però diverse da una scuola all’altra, e possono dipendere sia dalle concezioni specifiche sulla natura e sull’uomo, sia dalla considerazione scettica sull’ignoranza umana. L’obiettivo dell’autarkeia, sia pure variamente intesa, mette quindi d’accordo sia i “dogmatici” che gli “scettici”. Azione / Agire La lingua greca distingue l’azione in quanto compiuta da un soggetto (è la praxis) dall’azione che trasforma un oggetto (poiesis, da cui poesia (→), che è il prodotto di un fare). L’agire e l’azione sono quindi concepiti come caratterizzanti l’uomo sul piano della realtà empirica e operativa: per conseguenza hanno a che fare essenzialmente con l’etica, con la politica e con le attività produttive ed economiche. L’agire e l’azione sono contrapposte - al subire (vedi pathos: →), in generale e soprattutto riguardo alle passioni; - al solo pensare, sicché la vita pratica è contrapposta alla vita teoretica (ad esempio in Aristotele Etica Nicomachea VI, 4); - alla sola parola (come nell’italiano “fra il dire e il fare…”: ad esempio in Platone, Gorgia 450d). Un uso specifico di questo termine nel senso dell’agire contrapposto al patire è in Aristotele che parla di nous prakticos, dizione che siamo soliti tradurre con intelletto attivo (→). Aulos Traduciano con flauto il termine greco aulos, anche se i due termini non si corrispondono del tutto perché le varietà dei flauti in uso in Grecia erano molte e diverse dalle varie forme del flauto dei nostri giorni. L’aulos era presente nella musica e nella poesia greca (la poesia era stabilmente associata alla esecuzione musicale e, spesso, alla danza) in molti tipi di composizioni. Associato ai tamburelli, formava un insieme tipico delle musiche e delle danze di tipo dionisiaco, e di quelle affini, come le esecuzioni dei Coribanti (→) o dei seguaci di Cibele. Autosufficienza Il termine greco che traduciamo con autosufficienza è autarkeia, e indica quel carattere tipico della vita che consiste nel ridurre le nostre esigenze al minimo richiesto dalla natura umana, in modo che sia facile soddisfarle e sia quindi possibile essere interiormente liberi, senza subire il ricatto sociale delle convenzioni e la pressione di falsi obiettivi, come la ricchezza, il potere, e così via, tutte cose non richieste dalla nostra natura. Il tema è stato ampiamente sviluppato dalle scuole ellenistiche, in particolare dai Cinici (→) con una curvatura di dura critica sociale, e dagli Stoici (→) nel contesto di una complessa teoria sull’uomo e sull’universo. Baccanti Vedi Menadi Baccanti Titolo di una tragedia di Euripide (per la figura delle Baccanti come seguaci di Dioniso vedi la voce Menadi: →). La tragedia è stata scritta intorno al 406 a.C., quando il poeta si trovava ospite alla corte del re di Macedonia, Archelao. Fu rappresentata ad Atene qualche anno dopo, quando Euripide era già morto. Il protagonista dell’opera è il dio Dioniso, nato da Zeus e Semele, una delle figlie del vecchio Cadmo, re di Tebe, che ha però lasciato il potere a suo nipote, Penteo, figlio di sua figlia Agave. Dioniso nel prologo spiega di essersi recato a Tebe, città della madre, per vendicarsi delle sorelle di questa che negano che egli sia figlio di Zeus e quindi che abbia origine divina. Dionisio vuole introdurre il suo culto anche a Tebe, e soprattutto colpire della sua mania le donne tebane che a seguito di ciò salgono sul monte Citerone, guidate da Agave, per celebrare i riti in onore del dio, diventando così Baccanti. Penteo, emblema della razionalità, vede nei riti celebrati solo la follia degli istinti sessuali e del disordine e vuole proteggere la città: contro il parere del vecchio Cadmo e dell’indovino Tiresia, Penteo ordina di catturare Dioniso e di imprigionarlo. Il dio si lascia catturare, ma non rivela la sua identità facendo finta di essere uno straniero fedele al dio, mentre Penteo lo irride per il suo aspetto effemminato e lo conduce nei sotterranei della reggia; Dioniso ha però ingannato Penteo, facendogli credere di averlo legato mentre il re ha legato al suo posto un toro, e fa scatenare un terremoto riuscendo così a liberarsi. Intanto un pastore racconta al re quello che sta avvenendo sul monte Citerone: le Baccanti non stanno compiendo atti scostumati, ma prodigi: le donne porgono il seno a piccoli lupi per allattarli, percuotono la terra facendone sgorgare acqua o aprono con le dita, nel terreno, fonti di vino o di latte. Accortesi di essere spiate da uomini, esse si sono poi precipitate sulle bestie della mandria; animate da forza prodigiosa le hanno dilaniate e si sono lanciate sulle campagne sottostanti, senza che nessuno potesse resistere al loro furore. Ora è Penteo che, dissuaso dal prendere le armi contro le donne, vuole spiarne i segreti, non presentendo l’orrenda fine a cui va incontro. Travestito da donna per non essere riconosciuto, egli è ormai preda del dio: la misera creatura mortale è vittima della divinità crudele, che gioca con lei e la illude, promettendole, con sinistra ironia, vittoria e gioia. Un messaggero racconta la fine di Penteo: scambiatolo per una belva, le Baccanti si sono gettate sull’uomo, prima tra tutte la madre Agave a cui Penteo rivolgeva inutili suppliche, facendolo a brandelli. Agave, credendo di aver ucciso una belva, porta in alto sulla punta del tirso il capo mozzato del figlio, come un trionfo; Cadmo riesce a richiamarla alla ragione, ed ella comprende ora la vendetta del dio. Entra quindi Dioniso che spiega il motivo della sua azione: egli ha voluto punire Penteo e tutti coloro che non hanno voluto riconoscerlo. Tutti dovranno pagare, con il dolore e l’esilio. Barbari In Omero barbaro è colui che parla una lingua incomprensibile ai Greci, e la cosa ovviamente non ha di per sé alcuna connotazione negativa. C’erano barbari civilizzati ed altri che non lo erano. Al tempo delle Guerre Persiane e del contemporaneo scontro in Sicilia con i Cartaginesi (è l’inizio del V secolo a.C.) i Greci, che da secoli erano in contatto con antichissime civiltà dell’area mediterranea (ad esempio gli Egiziani) e mediorientale (ad esempio le popolazioni della Mesopotamia), furono spinti a elaborare meglio il loro rapporto con la cultura e la civiltà di chi non apparteneva al mondo ellenico. Così, forti di quella che sentivano una precisa superiorità delle tradizioni panelleniche rispetto a quelle non elleniche, nel corso del V secolo a.C. il termine barbari, che continuava a indicare quanti non parlavano greco, assunse una connotazione negativa. Tuttavia i Greci non ebbero mai atteggiamenti pregiudizialmente ostili verso i popoli vicini. La nozione nel suo significato negativo passò poi ai Romani, che la applicarono alle civiltà che via via dominarono in Occidente (ma non la applicarono certo al colto e civilizzato Oriente). Basileus Il termine basileus ha una lunga storia nel mondo greco, dai Micenei ai sovrani ellenisti e fino agli imperatori dell’Impero Romano d’Oriente. Presso i Micenei indica i funzionari di corte, e più in generale il ceto dei signori compagni dell’anax, il re. Per mancanza di documentazione storica, non possiamo seguire con esattezza le trasformazioni politiche che si verificarono tra il crollo della civiltà micenea e l’età di Omero (l’VIII-VII secolo a.C.); sappiamo però che in Omero i termini basileus e anax sono usati ormai in modo indifferente: indicano i vari sovrani del mondo dell’epoca. Nella civiltà greca del periodo arcaico e classico, quando l’istituto della monarchia decadde e venne sostituito da vari regimi, quello di basileus è appellativo per lo più religioso, ad indicare la funzione sacrale di determinati funzionari (ad Atene di uno degli arconti). Solo a Sparta continuava ad indicare i due magistrati al vertice della piramide del potere. Il termine basileus venne poi ripreso dai sovrani dell’epoca ellenistica, per indicare la figura politica del re, ed anche quella religiosa, essendo i sovrani ellenisti figure di tipo sia greco che orientale, e quindi legati a una concezione di tipo assoluto e teocratico della sovranità. In questo senso politica e religione tendevano a sovrapporsi nell’uso del termine basileus, che divenne poi il titolo dell’imperatore quando l’Impero Romano venne diviso nelle due parti, di lingua greca e romana, d’Oriente e d’Occidente. Beatitudine Vedi Felicità Bellezza / Bello Bellezza in greco è kalon, neutro sostantivato di kalos, bello. È uno dei concetti filosofici centrali per tutta la tradizione di ricerca dei Greci. La bellezza come problema filosofico Il problema filosofico della bellezza è innanzitutto volto a comprendere - che cosa sia in sé la bellezza e quali siano i suoi caratteri; qualsiasi definizione di bellezza rischia infatti di essere contraddetta dall’esperienza, perché realtà materiali o mentali, o situazioni della vita, che percepiamo belle possono non corrispondere alla definizione teorica che viene proposta; - perché la bellezza abbia tanta forza sulla vita interiore dell’uomo, cioè che cosa le conferisca il potere che essa esercita (in relazione o meno alla sfera dell’eros: →). Va poi sottolineato che i Greci hanno visto nella bellezza il segno di una realtà più profonda della superficie delle cose o dei pensieri o delle situazioni. La bellezza di queste superfici è percepita come se ci parlasse d’altro, cioè di uno strato più profondo dell’essere. È forse la bellezza una via per una possibile ricerca filosofica sulle profondità dell’essere? Da questo scenario di problemi emerge con chiarezza una distinzione fondamentale: quella tra la superficie dell’esperienza del bello (il piano dell’emozione e della percezione della bellezza) e le profondità dell’eco che la bellezza suscita in noi. Il sospetto di molti filosofi è stato questo, che la bellezza manifesti qualcosa non di superficiale, ma di profondo, e che quindi nella superficiale esperienza del bello che tutti ben consociamo si nasconda in realtà la rivelazione di una verità più profonda. Le teorie sulla bellezza Le teorie greche in risposta alla domanda “che cos’è la bellezza?” sono essenzialmente due, anche se declinate nei modi più diversi a seconda delle varie scuole: - la bellezza come armonia (→), derivante quindi dall’equilibrio tra le parti e dalla percezione che i nostri sensi ne hanno (con le distorsioni proprie dell’occhio e dell’orecchio) anche di tipo cromatico (arti visive, immagini della natura) o acustico (poesia, musica, suoni in natura); - la bellezza come pura semplicità non composta di parti, forma pura che comunica una emozione senza mediazioni, capace di parlare direttamente al cuore e alla mente insieme. La prima nozione è di derivazione pitagorica e la si ritrova nei contesti più diversi, filosofici e artistici per tutta la grecità (e poi, senza soluzione di continuità, nel Medioevo). La seconda è implicita nel platonismo ed è fatta propria soprattutto dal neoplatonismo (Plotino ha elaborato una complessa teoria in merito). La bellezza e il bene Quanto al suo significato in relazione allo studio della realtà profonda dell’essere, va ricordato che la cultura greca aveva un’espressione, kalos kai agathos, che legava in modo strettissimo il bello (kalos) e il buono (agathos). L’espressione deriva dalla morale eroica, essendo caratteri dell’eroe il coraggio e la virtù, di per sé interiori che si esprimono però nella bellezza esteriore. Il modello ideale dell’eroe omerico è il giovane bello o bellissimo, la cui bellezza è legata all’energia interiore, oltre che alle forme esteriori. Quando l’etica eroica venne abbandonata a favore di altre concezioni della vita sociale e individuale, l’espressione kalos kai agathos passò a indicare – come se si trattasse di una sola parola – il tratto dell’uomo che possiede le virtù apprezzate dai Greci. Ancora una volta il bello e il buono erano accostati, al punto da divenire indistinguibili: “essere belli” era un altro modo per dire “essere buoni”. Se si applica alla filosofia questa nozione, ne nasce l’idea (che sarà fortemente sviluppata da varie scuole, tra cui la prima Accademia e il neo-platonismo) che il bello e il buono siano due volti della stessa medaglia, o addirittura due termini per dire la stessa cosa. Il riferimento è alla perfezione dell’essere che sta sotto la superficie delle cose e delle emozioni del cuore. Bene Il termine greco è agathon, neutro sostantivato dell’aggettivo agathos, che significa buono. È uno dei concetti fondamentali della filosofia, in due settori diversi che tuttavia in parte si sovrappongono: - l’etica, che va alla ricerca della risposta alla domanda “che cos’è il bene?” per proporre un modello per il comportamento dell’uomo; - lo studio dell’essere, che va alla ricerca delle sue radici e si chiede che rapporto ci sia tra il bene e il livello profondo dell’essere delle cose e dell’uomo. Storia della parola Nella tradizione greca dell’età degli eroi, il bene non ha una connotazione etica precisa: non è un valore morale che si imponga per la sua superiorità. È il carattere delle cose eccellenti e dei comportamenti legati alla virtù dell’eroe (vedi arete →). In Omero tutto è bello e tutto è buono (Omero loda tutto, dicono gli studiosi), e i mali sono l’effetto di un imperscrutabile destino superiore a uomini e dèi, o del capriccio degli dèi, o della incapacità degli uomini di restare entro i limiti della propria natura (si veda per questo la nozione di hybris: →). La morale eroica non è una morale del bene: è una morale della virtù e dell’onore, codificata dalle tradizioni che definiscono con precisione che cosa ci si aspetta dall’eroe e che cosa dall’uomo comune (si parla in questo senso di civiltà dell’onore: →). Dapprima nella tragedia attica, poi nella filosofia socratica e post-socratica, la nozione di bene cominciò ad assumere una connotazione etica, e divenne quindi di primaria importanza la risposta alla domanda “che cos’è il bene?” (o, se si preferisce una migliore esplicitazione: come riconosciamo il bene rispetto al male? perché ciò che riconosciamo come bene è bene e non qualcos’altro?). È il tema centrale della ricerca di Socrate e di Platone; in quest’ultimo filosofo il concetto di bene assume una rilevanza primaria, ma non si giunge mai ad una chiara definizione teoretica di cosa sia il bene e delle ragioni per cui il bene è bene. Il problema filosofico del bene Il problema ha un duplice aspetto: - da un lato l’esperienza insegna che ciò che è bene per qualcuno (nei filosofi greci gli esempi proposti riguardano anche gli animali, non solo l’uomo) può essere un danno per un altro; ed è su questa base che i Sofisti proposero la loro dottrina del relativismo (→); una nozione filosofica nonrelativista del bene dovrebbe chiarire come sia possibile questa contraddizione (cioè che ciò che chiamiamo bene possa essere male per qualcuno); - d’altro lato la coscienza individuale così come le leggi della città hanno bisogno di un chiaro sistema di riferimento per compiere le scelte, e il bene sembra essere la nozione corretta per fornire questo metro; ma quando si prova a identificare in concreto di che si tratta, non se ne viene a capo facilmente perché sarebbe necessario trovare dei fondamenti etici oggettivi, e nulla in natura ha questo carattere. Così i filosofi che ammettono una realtà più profonda della natura (come Platone o Plotino) cercano il bene al di fuori della natura; mentre i filosofi che ritengono che la struttura profonda dell’essere sia interna alla natura identificano il bene con elementi naturali (ad esempio il piacere (→) per gli epicurei, o il dovere (→)per gli Stoici, che è naturale perché naturale è la ragione dell’uomo come frammento del Logos universale). Per tutti, in definitiva, il bene si identifica con la natura stessa (la natura, beninteso, che sta sotto la superficie delle cose e degli eventi, concepita dai platonici come diversa dalla realtà materiale e dagli altri come la struttura profonda dell’universo fisico). Beozia La regione storica greca della Beozia è delimitata a est dal Golfo di Corinto e dalla Focide, a nord dalla Locride, a ovest dallo stretto di Eubea e a sud dall’Attica. La più celebre, e a lungo la più potente, delle sue numerose città è Tebe (→), una delle capitali della cultura ellenica soprattutto in età pre-filosofica. La Beozia nel II Millennio a.C. era controllata dai Micenei con le loro rocche, poi subì alla metà del millennio l’invasione degli Eoli, per passare poi gradualmente sotto il controllo dei Beoti, che erano Greci del nord-ovest. Dopo la prima metà del IV secolo a.C., quando Tebe era ancora in grado di lanciare la sua sfida politico-militare alle altre poleis greche, finì tuttavia per entrare nell’orbita macedone, per poi progressivamente decadere rispetto all’antica grandezza, non solo politica ma anche culturale. Una parte non piccola dei più importanti miti greci ha avuto origine o sviluppo in questa regione, ad esempio le complesse narrazioni su Edipo (→) e la sua famiglia. Bibbia dei Settanta Nell’ambiente degli Ebrei ellenizzati di Alessandria d’Egitto (→) intorno alla fine del II secolo a.C. venne completato il lavoro di traduzione della Bibbia in greco. Questa versione fu detta Bibbia dei Settanta perché secondo la tradizione furono settantadue gli intellettuali che vi lavorarono (una leggenda dice che 72 dotti ebrei lavorarono indipendentemente al Pentateuco traducendolo in 72 giorni nello stesso identico modo). L’opera ebbe diffusione amplissima nell’antichità (e non solo), e fu la versione utilizzata anche dai primi cristiani, compresi gli Evangelisti e i primi Padri della Chiesa. Biblion Vedi Libro Biblioteca Da biblion (libro) e theke (deposito), il termine biblioteca indicava già nell’antichità i luoghi in cui si raccoglievano i libri (→), nelle case private o in luoghi pubblici. Come è ovvio, la circolazione libraria nel mondo antico era molto ridotta; le biblioteche pubbliche erano quindi luoghi di fondamentale importanza non solo per il conservazione dei libri, e quindi per consentire agli studiosi di consultarli e studiarli, ma anche per la ricerca. Per questa ragione erano in più di un caso associate a strutture finalizzate alla ricerca. Le più celebri biblioteche dell’antichità erano quelle di Alessandria (vedi Biblioteca di Alessandria: →) e di Pergamo (→), entrambe d’età ellenistica. Nel mondo romano esistevano poi biblioteche private di cui abbiamo varie notizie attraverso le fonti letterarie. Di una in particolare possiamo farci un’idea piuttosto precisa perché è giunta fino a noi: è a Ercolano, e consiste in una stanza quadrata di 4 metri circa di lato, con un tavolo al centro e gli scaffali tutt’intorno. Lì sono stati recuperati, e in parte si è riusciti a leggerli, molti libri (cioè rotoli di papiro). A partire dall’età di Augusto nel mondo romano vennero fondate varie biblioteche pubbliche nelle maggiori città dell’Impero. Ci sono state anche conservate resti di biblioteche molto più antiche in cui per lo più erano archiviate tavolette d’argilla incise. A parte ritrovamenti in Egitto di papiri (materiale facilmente deperibile, quindi i ritrovamenti sono stati occasionali e limitati), ci sono pervenute le biblioteche di antichi palazzi del III millennio a.C. a Ebla, in Siria, e del II in Mesopotamia (migliaia di tavolette d’argilla impresse in caratteri cuneiformi), nella Creta minoica, nella Grecia micenea, e così via. Boule Alle origini la boule in Grecia era il consiglio degli anziani che assisteva i sovrani. Passò a funzioni del tutto diverse nei secoli successivi al crollo delle monarchie micenee, con uno sviluppo che non ci è possibile seguire nei dettagli perché la documentazione storica per il periodo del cosiddetto Medioevo ellenico è molto scarsa. In età classica la Boule era un organismo pubblico tra i più importanti. Nell’Atene democratica svolgeva una grande molteplicità di funzioni: strutturata nella forma di un consiglio molto numeroso (cinquecento persone), ma con articolazioni interne complesse che consentivano piena operatività, era al centro della vita politica quotidiana della polis; preparava i lavori dell’ecclesia, aveva poteri esecutivi e di controllo, e aveva anche funzioni di polizia e giudiziarie. Benché sia sempre difficile fare paragoni diretti tra le istituzioni politiche antiche e le moderne dei regimi democratici, è possibile dire che insieme con altre funzioni, la Boule aveva le funzioni che oggi sono esercitate dai Governi. Brasida Brasida è uno degli strateghi spartani più importanti nella prima fase della Guerra del Peloponneso. Fu suo il progetto di colpire gli interessi ateniesi anche in aree molto lontane dall’Attica, strategia che si dimostrò vincente, perché capace di infliggere ingenti danni ad Atene, sia pure a costo di seri rischi per Sparta. Morì nella battaglia di Anfipoli del 422 a.C., insieme con il generale ateniese che lo aveva attaccato, Cleone. La prima fase della Guerra del Peloponneso si concluse, con la pace di Nicia del 421 a.C., proprio in conseguenza di questi eventi. Calcolo degli utili Nel contesto della dottrina etica dell’utilitarismo (→), il calcolo degli utili è la valutazione delle conseguenze di una scelta in relazione a precisi parametri: il piacere e il dolore che ne conseguono. Poiché nella vita dell’uomo il piacere e il dolore sono associati, nel senso che nessuna scelta porta solo piaceri o solo dolori, ma un misto di entrambi, il calcolo degli utili serve a determinare se è eticamente saggio compiere la scelta di cui si discute. In questo calcolo ha un peso determinante la nozione di prudenza (→). Il contesto in cui venne elaborata questa dottrina, che non ci è tuttavia nota nei dettagli per la perdita dei testi originali in cui erano stati analizzati, è quello dell’Epicureismo. Caldo / Freddo Presso i primi filosofi naturalisti le nozioni di caldo (thermon) e di freddo (psycron), spesso associate a quelle di umido e di secco (→), indicano forze primarie della natura che bilanciandosi in vario modo danno luogo al ciclo delle stagioni e più in generale della nascita e della dissoluzione di tutti gli enti. Non sono quindi intesi come caratteri di un corpo (che è innanzitutto tale, poi è caldo o freddo), ma come forze che generano, in vario modo, i corpi. Nelle filosofie successive venne introdotta l’idea che si trattasse di caratteri specifici connessi a determinati corpi per natura (ad esempio il fuoco è caldo per natura). La spiegazione della natura del calore rimase uno dei problemi determinanti per la fisica antica, così come lo è stata per quella moderna. Ha assunto un’importanza centrale nello Stoicismo, in connessione con la nozione di pneuma (→) Calipso Nella mitologia greca Calipso è una ninfa che viveva nell’isola di Ogigia agli estremi confini del Mediterraneo occidentale (le descrizioni mitologiche hanno portato alcuni studiosi a proporre l’identificazione di Ogigia non con un’isola, ma con la penisola di Ceuta, di fronte a Gibilterra). Il nome Calipso significa colei che nasconde. Nelle sue peregrinazioni dopo la fine della guerra di Troia, persa la rotta per Itaca, persi tutti i compagni e le navi, giunse da lei Ulisse, naufrago. L’Odissea racconta che l’eroe visse presso di lei dieci anni, trattenuto dalla ninfa che si era innamorata di lui. Le descrizioni dei luoghi che il racconto mitologico propone sono incantevoli: in una natura incontaminata, presso boschi, sorgenti e giardini naturali, la dimora di Calipso si apriva dentro una grande grotta con molte e confortevoli sale. Nonostante l’amore di Calipso e la bellezza dei luoghi, Ulisse sognava il ritorno, e giunse a rifiutare l’offerta di Calipso, che gli propose di restare presso di lei per sempre, ottenendo così l’immortalità. Quando Ermes giunse da Calipso per portarle l’ordine di Zeus di lasciar partire Ulisse, Calipso protestò con grande dignità; tuttavia non solo lasciò partire l’eroe, ma gli diede il legname per costruire la zattera e gli indicò la rotta da seguire. Altre tradizioni vogliono che Calipso e Ulisse abbiano avuto dei figli. Callimaco Nato a Cirene intorno al 305 a.C., il poeta greco Callimaco si trasferì presto ad Alessandria, dove insegnò per alcuni anni finché non riuscì ad affermarsi presso gli ambienti di corte. Da quel momento in poi la sua figura è legata alla nascita della Biblioteca di Alessandria (→), presso cui lavorò a lungo impostandone anche i caratteri: risale al suo lavoro presso questa istituzione un catalogo ragionato in 120 libri, di fondamentale importanza per lo sviluppo successivo dell’organizzazione degli studi alessandrini, in cui era classificata tutta la produzione culturale greca precedente al III secolo a.C. L’organizzazione che Callimaco diede ai materiali della Biblioteca orientò le successive classificazioni delle opere e delle produzioni antiche per generi letterari e per sequenze storiche, sicché il suo lavoro è alle origini di quella risistemazione del patrimonio antico che gli alessandrini portarono a compimento e che costituisce il filtro attraverso cui gran parte del patrimonio culturale precedente è giunto fino a noi. Callimaco fu anche uno dei più celebri poeti e scrittori dell’antichità, al punto da essere l’autore più citato dalle fonti antiche dopo Omero. Delle sue numerosissime opere (ci viene tramandato che abbia pubblicato qualcosa come 800 opere) rimane però ben poco: l’opera più importante erano gli Aitia, una raccolta di elegie in cui “narrava” in versi molto raffinati, tipici del suo stile, antiche vicende legate alla fondazione di città, o alla nascita di tradizioni, di toponimi, di cerimonie, e così via. Quest’opera, come altre di Callimaco (che peraltro è stato anche un poeta attento alla dimensione privata dei sentimenti e delle emozioni), è espressione di quell’interesse tipico dell’età ellenistica verso la tradizione antica della Grecia, in un’epoca in cui i caratteri specifici della tradizione stavano cedendo il posto a quell’incontro tra Oriente e Occidente che ha caratterizzato l’Ellenismo. Cambiamento Vedi le voci Divenire e Movimento Campi Elisi Sono un luogo di cui si parla sia in alcuni miti, a partire da Omero, sia in alcune visioni poetiche, per lo più legate alle religioni dei misteri (Pindaro ne offre una descrizione molto celebre) sia in alcune visioni filosofiche di Platone in passi in cui sceglie di esprimersi, attraverso i personaggi dei suoi dialoghi, in forma mitica. Comunque se ne parli e ovunque li si collochi (i luoghi e le descrizioni divergono), i Campi Elisi sono sede di vita felice dopo la morte. Anzi, oltre la morte, perché i beati che li abitano conservano il corpo. In Pindaro, e in altre descrizioni poetiche, se ne parla come delle Isole dei Beati. Canone Il termine greco è kanon. Venne utilizzato probabilmente per la prima volta in un uso specifico dallo scultore Policleto che fu anche un teorico dell’arte: in uno scritto dal titolo appunto Canone proponeva alcune regole geometriche per la resa armonica (vedi lavoce Armonia: →) del corpo umano nella statuaria. Così la metà del corpo va posta nel punto di attacco delle gambe, la testa deve essere la decima parte, o l’ottava, dell’intero corpo, e così via. In Epicuro il canone è il criterio per identificare il vero e il falso (vedi Canonica: →) Canonica È la scienza del canone (→), cioè del criterio per la definizione della verità. È il termine usato da Epicuro e dagli epicurei per indicare la logica e la teoria della conoscenza, cioè quella parte della filosofia (accanto all’etica e alla fisica) che si occupa della definizione dei criteri di verità e delle forme del pensiero dell’uomo e più in generale della conoscenza. Ad esempio è nella canonica che si va alla ricerca delle ragioni per cui i sensi inducono facilmente in errore e del modo per correggere questi errori. È in questo contesto di ricerche che prende forma lo studio epicureo, su base materialista, della coscienza umana. Caos In greco chaos significa letteralmente apertura, voragine, o abisso. Nei racconti cosmogonici (vedi Teogonia →) dei poeti, ad esempio in Esiodo, il Caos è l’entità primordiale, informe e originaria, che esiste alle origini e da cui prendono forma tutti gli esseri. In età classica Platone riprese questo concetto nei suoi miti (ad esempio nel Timeo) facendo del caos originario il ricettacolo della materia informe. Lo concepisce quindi come una sorta di stato originario della materia, privo di qualsiasi forma e dunque suscettibile di assumerle tutte, cosa che avviene per opera del Demiurgo che plasma questa materia secondo il modello delle forme ideali (cioè le idee platoniche). In entrambi questi modelli mitologici dal caos originario attraverso un processo divino l’universo è divenuto un cosmo (→), cioè ha assunto la sua forma ordinata (o semi-ordinata, non essendo per Platone il mondo pienamente ordinato). Nella nozione greca di Caos quindi, oltre al senso che è rimasto in italiano di disordine, o confusione, c’è anche il senso dell’immenso spalancarsi dello spazio vuoto, e i sue concetti non sono di per sé assimilabili. Carmide Al giovane Carmide è intitolato uno dei dialoghi aporetici di Platone, il Carmide, appunto, in cui si esamina che cos’è la saggezza. È un ragazzo molto bello e brillante, che accetta di essere esaminato da Socrate e avvia con lui e Crizia un percorso dialettico. Carmide è il tipico giovane dalle buone capacità che segue Socrate nelle sue indagini filosofiche. Carneade Carneade (219-129 a.C.), vissuto circa un secolo dopo Arcesilao, è il secondo filosofo scettico dell'Accademia di mezzo. La sua figura è presentata dai contemporanei come straordinaria. Sembra che avesse una sorprendente capacità dialettica, che colpì moltissimo i Romani. Infatti nel 155 a.C. Carneade, insieme con altri filosofi greci, andò a Roma per una ambasceria. In quella occasione tenne un giorno un discorso a difesa della giustizia e, in un giorno successivo, un altro contro la giustizia. In Grecia la retorica era coltivata da secoli e sin dai tempi dei sofisti erano nell'uso questo genere di discorsi contrapposti, particolarmente curati dagli scettici perché mettevano bene in luce la relatività della conoscenza umana e soprattutto la sua incertezza. Per i Romani si trattò invece di una esperienza straordinaria, che contribuì ad accrescere il fascino che su di essi esercitava la cultura greca. Rispetto ad Arcesilao e alla precedente tradizione scettica, Carneade ha sviluppato una sorta di teoria della probabilità. Perché un giudizio possa essere vero, esso deve soddisfare certe condizioni, che Carneade esamina nei particolari, per mostrare, tuttavia, come esse non possano mai essere pienamente soddisfatte. Vi sono però diversi gradi di certezza di un giudizio, e il filosofo può costruire una teoria per definire il maggiore o minore grado di probabilità che una sua idea sia vera. Il termine greco pithanon, che traduciamo con probabilità, significa alla lettera attendibilità, persuasività. La contrapposizione delle opinioni, i discorsi contrapposti, la ricerca ed il confronto dialettico sono dunque strumenti di progressivo controllo dell'errore. A questo fine, ad esempio, nel dibattito tra le scuole filosofiche ad Atene Carneade non esitava a porsi in maniera antitetica rispetto a un avversario, e ciò allo scopo di porre in evidenza criticamente l'errore. Si tratta quindi di una interpretazione estremizzata del metodo socratico-platonico. Queste dottrine influenzarono molto la cultura romana del I secolo a.C.; così Cicerone, riprese e discusse nelle sue opere filosofiche le tesi dello scetticismo dell'Accademia. Le argomentazioni di Carneade sulla giustizia, a favore e contro, vennero da lui poi riprese nel De republica. Capriccio degli dèi Nella mitologia greca gli dèi non sono modelli di rigore morale. Personificano forze della natura o aspetti della vita psichica dell’uomo e degli animali, o consentono con i racconti delle loro gesta (i miti: →) di spiegare questo o quel comportamento della natura, o gli eventi che determinano la vita dell’uomo. Sono imprevedibili e quindi in qualche modo capricciosi, ed è quindi ovvio che i Greci temano quello che chiamano il capriccio degli dèi. Cartagine / Cartaginesi La Carthago dei Romani – Karkedon per i Greci, Qart Chadashat nella lingua dei Fenici – venne fondata probabilmente da coloni provenienti da Tiro, in Fenicia, intorno all’814 a.C., nel contesto di un processo di colonizzazione del Mediterraneo occidentale, ed in particolare delle coste africane. Rispetto alle altre città fenicie dell’Occidente, Cartagine riuscì nel corso dei due secoli successivi alla sua fondazione ad assumere il ruolo di città capofila di un vero e proprio impero marittimo, con la fondazione di numerosi centri collegati alla madrepatria da precisi rapporti di dipendenza economica e politica (in Africa stessa, in Spagna e nelle isole maggiori del Mediterraneo, la Sardegna, la Corsica e la Sicilia). Dal punto di vista militare Cartagine si serviva per lo più di mercenari, perché i suoi cittadini erano prevalentemente mercanti. La costruzione del suo impero marittimo e commerciale richiese comunque un impegno militare, che non fu fortunato fino alla fine del V secolo a.C. Quando infatti in occasioni precedenti – come la Battaglia di Imera (→), combattuta in Sicilia nel 480 a.C. – Cartagine si era scontrata con i Greci, era stata sconfitta, anche se in generale era riuscita a tenere fuori i Greci dalle proprie aree di influenza e aveva stretto accordi che evitavano la guerra con le potenze del nord, prima gli Etruschi, poi i Romani. Invece sul finire del V secolo i Cartaginesi ripresero le armi contro i Greci di Sicilia infliggendo loro serie sconfitte (Imera, Selinunte, la stessa Agrigento vennero distrutte), senza risultati però decisivi per il rafforzarsi della potenza di Siracusa. Lo scontro divenne inevitabile coi Romani nel III secolo a.C., per il controllo della Sicilia, quando i Romani nella loro espansione decisero di non fermarsi di fronte al mare e divennero una potenza marinara. Quelle che ne seguirono sono, per la storiografia romana, le cosiddette Guerre Puniche (→), al termine delle quali Cartagine venne completamente distrutta. Cartografia È l’insieme delle pratiche e delle tecniche con cui si realizzano mappe bidimensionali della superficie terrestre (vedi anche Geografia: →). Benché apparentemente lontana dalla filosofia e dai suoi problemi, la cartografia antica è invece strettamente collegata con le ricerche dei filosofi per una ragione precisa: il disegno delle terre emerse e delle coste implica una visione globale della Terra e un’idea della sua posizione rispetto agli astri, rispetto ai quali ci si orienta. La cartografia mantiene quindi lo stesso tipo di legame con la ricerca filosofica di altre pratiche che trovarono applicazione negli stessi secoli, come la scrittura alfabetica, legata allo sviluppo di determinate forme di pensiero (vedi Alfabeto: →) o la medicina o l’urbanistica: in tutte queste pratiche, e in altre assimilabili, è in opera una certa concezione dello spazio in cui viviamo, dell’uomo come ente naturale legato alle forze universali in opera in natura, della sua posizione nel cosmo. In estrema sintesi, è in opera una concezione razionale della realtà. La tradizione vuole che il primo cartografo sia stato Anassimandro, nel VI secolo a.C., nel contesto di una precisa visione della Terra come corpo posto al centro dell’universo e avente forma cilindrica. Il piano delle terre emerse sarebbe quindi la superficie superiore del cilindro, racchiusa dalle acque dell’oceano, concezione che corrisponde anche alle più antiche visioni mitiche (vedi Oceano: →). La carta di Anassimandro, come le successive, aveva funzioni pratiche, in un mondo come quello ionico fortemente esposto ai pericoli della navigazione e alle incertezze sulle distanze tra i porti. Ma rispondeva anche ad un interesse teorico, nel senso che mostrava visivamente una certa concezione della Terra. Le prime rappresentazioni fedeli della superficie terrestre, o meglio delle terre del Mediterraneo, dell’Europa e del Medio Oriente, furono ottenute molto più tardi. Fu infatti l’astronomo Tolomeo (→) che, conoscendo la dimensione della Terra (definita con buona approssimazione da Eratostene nel III secolo a.C.), e quindi il grado della sua sfericità, applicò per la prima volta lo studio matematico delle proiezioni. Uno dei problemi della cartografia era (ed è) quello di disegnare sulla superficie bidimensionale piana le terre emerse e i mari che sono collocati su una superficie tridimensionale e curva. All’epoca di Tolomeo, comunque, la cartografia aveva già fatto molti passi: al tempo di Cesare si fecero molti sforzi per raccogliere dati per la rappresentazione cartografica delle terre dell’Impero. Varrone nel 40 a.C. riferisce che in un luogo pubblico a Roma era esposta una carta murale dell’Italia. E sappiamo che Cesare si era servito di tecnici al seguito delle sue legioni per la rappresentazione delle terre su cui operava. Caso Nel linguaggio corrente oggi il termine caso indica il fortuito accadere degli eventi, che non è però considerato tale in assoluto, ma solo in relazione al fatto che, non avendo tutte le informazioni necessarie per sapere che cosa accadrà, per noi gli eventi sono casuali: accadono, e se ne prende atto senza riuscire a prevederli. Il problema filosofico connesso al termine caso è riassumibile nella seguente domanda: se avessimo tutte le informazioni che sono necessarie per prevedere un determinato evento, saremmo certi che l’evento si produrrà per una interna necessità (→) delle leggi di natura? Se manca la certezza di questa necessità, va allora esaminata la nozione di caso, termine che indica un fatto preciso: un certo evento che si è realizzato non dipende da eventi precedenti. È avvenuto, ma non c’era motivo perché avvenisse né forza che lo abbia determinato secondo necessità. Esiste in natura il caso o è solo una possibilità teorica concepita dalla mente? Le posizioni filosofiche greche sul tema sono tre: - le scuole scettiche (e tutte quelle che assumono posizioni scettiche su questo punto, senza essere scettiche su altre questioni) sospendono il giudizio, ritenendo indecidibile la questione; - l’epicureismo ammette il caso in natura, in quanto uno dei movimenti degli atomi è del tutto casuale e non dipende da movimenti precedenti né da forze necessarie (è il clinamen: →); - la maggior parte delle scuole filosofiche (dai naturalisti agli Stoici al neoplatonismo) nega l’esistenza reale del caso in natura, assumendo il principio che la necessità (→) delle leggi di natura non ammette eccezioni. Catarsi La parola italiana deriva dal greco katharsis, che significa purificazione (da kataros, puro). L’origine del termine e del concetto appartiene alla sfera delle credenze religiose e magiche: la katharsis è, nella tradizione, la purificazione rituale da una contaminazione (miasma) (rimandiamo su queste pratiche alla voce Contaminazione / Purificazione: →). Nel V secolo a.C. il termine katharsis cominciò ad essere usato nel linguaggio dei medici razionalisti (lo si ritrova negli scritti dei medici ippocratici della Scuola di Cos: →) per indicare l’evacuazione di umori patogeni, sia naturale che indotta per ragioni di cure mediche. Contemporaneamente, i Sofisti associavano la catarsi alla sfera del discorso umano, nel contesto di quegli effetti di incantesimo che Gorgia riserva alla parola. Senza che il significato magico e quello medico venissero mai meno (sono anche richiamati in vari testi filosofici, soprattutto in Platone), Aristotele nella Poetica e nella Retorica associa la catarsi alla tragedia e alla musica, per i suoi effetti che queste arti hanno sui suoi fruitori. I piani a cui questo termine viene associato (magico, medico, estetico) non sono del tutto separati e non è un caso se la parola è la stessa. Non che Aristotele intenda richiamare effetti magici o medici nel dire che la tragedia determina la catarsi delle passioni: ma nei suoi scritti la forza della dimensione estetica è sottolineata dall’uso di questo termine che evocava nei suoi lettori e ascoltatori (ed evoca in noi) un che di magico e un sapore di guarigione. Categoria La nozione di categoria (in greco kategoria) è introdotta nel linguaggio della filosofia da Aristotele, che ne tratta in due luoghi; nella Metafisica e nelle Categorie, un’opera parte dell’Organon. In effetti questa nozione aristotelica ha due volti, uno legato alla sostanza, e quindi al problema dell’essere e della identità degli enti, un altro agli strumenti del pensiero: - quanto al primo volto, le categorie sono tutti i modi a cui si può rispondere alla domanda “che cos’è?” riferita a un ente, quindi (in Aristotele) a una sostanza: sono quindi i diversi modi di essere delle sostanze; - quanto al secondo volto, le categorie sono tutti i possibili predicati di un soggetto, cioè tutto quanto è possibile dire di qualcosa. Perché il dire qualcosa di un soggetto risponda a verità, quanto diciamo (i predicati) deve corrispondere ai modi di essere reali della cosa di cui si parla. In questo senso le categorie come modi di essere delle cose devono corrispondere alle categorie come modi di pensare le cose. La lista delle categorie che compare negli scritti aristotelici, in numero di dieci, è stata poi fissata e codificata dalla tradizione, ma dal contesto non è chiaro se Aristotele considerava esaustivo questo elenco. Si tratta in ogni caso della lista dei generi (→) più generali dell’essere, cioè di nozioni irriducibili tra loro e caratterizzanti ciò che è. Le categorie aristoteliche sono dunque: - la sostanza (→) (ousia: in realtà riassume in sé le altre, perché costituisce nella sua pienezza la risposta alla domanda “che cos’è?”); - la quantità (poson); - la qualità (poion); - la relazione (pros ti); - il dove (pou); - il quando (pote); - la posizione (cheisthai); - l’avere (echein); - il fare (poiein); - il subire (paschein). Nel loro complesso, le categorie rispondono alla necessità della mente umana di comprendere il mondo reale, esterno al pensiero, attraverso il pensiero. Per far questo è necessario ridurne al minimo la complessità, raggruppando le caratteristiche delle cose in generi talmente generali, che non sia più possibile per il pensiero giungere ad un grado più alto di generalità. Va precisato che il verbo greco kategoreo alle origini aveva una significato giuridico e significava accusare, denunciare; nel IV secolo a.C. aveva assunto il significato di affermare ed è Aristotele a dargli un significato specificamente filosofico: le categorie sono ciò che viene affermato del mondo, e la loro lista costituisce una griglia al cui interno qualsiasi cosa è definibile. Causa Nella filosofia antica la nozione di causa è stata elaborata con rigore a partire da Aristotele, anche se molti dei concetti aristotelici sono già presenti nelle teorie dei naturalisti, in Platone e in Democrito. Va precisato che il termine causa nella filosofia moderna, e più in generale nella cultura a noi contemporanea, ha assunto un significato più ristretto e dato vita a problematiche diverse. Va quindi messa tra parentesi la nozione moderna per affrontare lo studio di quella antica. Il termine greco è aitia, sostantivo femminile derivato dal qualificativo aitios, che significa “artefice di...” (da questo termine è composto il termine medico italiano “eziologia”, che indica la ricerca delle cause dell’insorgere di una malattia). In Aristotele l’indagine sulle cause è di importanza centrale per comprendere il perché di un ente, e la filosofia stessa è scienza delle cause, cioè dei perché la realtà è così. Le cause su cui fare ricerca sono per Aristotele di quattro tipi diversi: - la causa materiale: in questa ricerca si indaga sulla materia (→) di cui è fatto ciascun ente (ad esempio una statua di bronzo non può esistere senza il bronzo di cui è fatta); - la causa formale: qui l’indagine si rivolge alla forma (→) specifica dell’ente, che lo fa essere ciò che è (ad esempio nell’uomo l’essere razionale); - la causa efficiente: per intendere un ente, è necessario comprendere da dove deriva, qual è stato cioè il movimento che ne ha determinato il suo specifico modo d’essere (così, ad esempio, non si comprende il figlio senza il padre); - la causa finale: qui l’indagine ha di mira uno degli aspetti tipici della ricerca filosofica aristotelica, che è convinto che ogni ente in natura abbia uno scopo e che la natura nel suo complesso vada intesa finalisticamente; così è necessario sapere qual è lo scopo di un ente per comprenderne la natura (in risposta a domande del tipo: perché è fatto così? a che serve che sia fatto così?). L’insieme delle cause ha di mira la comprensione profonda della sostanza delle cose, e in generale la teoria delle cause va quindi connessa in Aristotele alla teoria della sostanza (→). Dopo Aristotele una egualmente articolata teorie della causalità è stata elaborata dagli Stoici, che distinguono anch’essi vari tipi di cause, tutte ricondotte però a quella che essi chiamano causa sinettica, che è causa in senso produttivo. Lo scettico Sesto Empirico riferendo delle teorie degli Stoici la definisce in questo modo: sono sinettiche le cause “presenti le quali, è presente l’effetto, tolte o diminuite le quali, è tolto o diminuito l’effetto” (Ipotesi Pirroniane, III-14) Causa prima Dizione aristotelica per indicare l’oggetto della filosofia prima (→): la causa prima è Dio, in quanto atto puro che, come motore immobile (→), spiega la realtà del movimento dell’intero universo e dà un senso finalistico al Tutto. Vedi anche la voce Causa (→). L’aggettivo prima indica il fatto che non ha cause a monte di essa che la determinino, mentre è al principio della catena di cause (efficienti e finali) che spiegano per Aristotele la struttura della realtà. Va infine osservato che la stessa nozione può essere espressa dalla dizione causa ultima, se il punto di vista dal quale ci si colloca non è quello della causa stessa, ma quello del ricercatore-filosofo che inizia la ricerca sulle cause e per conseguenza parte dall’analisi della realtà sensibile, rispetto alla quale si tratta di risalire alla causa originaria, che verrà trovata, appunto, per ultima. Il problema a cui risponde la teoria aristotelica della causa prima è la conoscenza dell’origine delle cause che osserviamo in natura: conoscere scientificamente infatti per Aristotele significa innanzitutto comprendere le cause, e dietro una causa se ne scopre sempre un’altra, in un processo che non può però essere portato all’infinito. La catena deve avere un’origine in una causa che non rimanda ad altre cause, cioè ad una causa prima. Centro La nozione è geometrica (dal greco kentron, che è l’aculeo, la punta del compasso e, quindi, il centro), ma, a partire da questa dimensione è utilizzata anche in senso figurato. Come nozione geometrica, presuppone una figura finita, rispetto alla quale sia possibile calcolare le distanze di ciascuno dei punti: così il centro di una circonferenza è, per definizione, l’unico punto equidistante da ogni punto della circonferenza. Questa nozione ha un particolare significato nella cosmologia antica, in quegli autori che concepiscono l’universo finito: ad esempio in Aristotele, come nei primi filosofi naturalisti, la Terra è posta al centro dell’universo, ma non mancano le teorie astronomiche che pongono invece al centro il Sole (in particolare la teoria di Aristarco di Samo (→). La nozione di centro dell’universo è invece esplicitamente negata da quei filosofi che concepiscono l’universo infinito, come Epicuro, perché uno spazio infinito non forma alcuna figura geometrica e non può avere un centro. Poiché il centro presuppone una eguale distanza da una moltitudine di elementi, la nozione è utilizzata in senso figurato laddove si debba esprimere una forma di eguaglianza, ad esempio politica: nella concezione greca della isonomia (→), cioè dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge nei sistemi democratici, si trova riflessa l’idea che i membri della comunità politica (i polites, cioè i membri della polis, i cittadini) siano come i punti di una circonferenza rispetto al centro: a uguale distanza, e quindi in condizione di uguaglianza fra loro. Certezza Il campo di problemi a cui fa riferimento questo termine è quello della conoscenza (vedi quindi Conoscenza, Problema della: →). La certezza non è né solo sapere qualcosa, né solo la coscienza di sapere qualcosa; è anche la coscienza che quello che si sa è vero al di là di ogni possibile dubbio. La certezza implica quindi l’assenso (→) verso una verità nota. Questa certezza può avere anche un carattere negativo: può riguardare quindi la coscienza di non sapere qualcosa, e in questo senso anche uno scettico, che dubita di tutto, può dichiararsi certo di qualcosa (di qualcosa di negativo, che non sa nulla di certo). Il tema del rapporto tra certezza e scetticismo è stato oggetto di analisi approfondita soprattutto in età medioevale e nelle filosofie a noi più vicine, ma è posto già nel contesto della filosofia greca. Certezza e verità (→) sono quindi due nozioni da tenere ben distante, anche se c’è un evidente nesso tra loro: la certezza è di un soggetto del pensiero, la verità si riferisce ad un oggetto del pensiero. Chora Vedi Materia Ciclo La filosofia greca è particolarmente attenta a molti fenomeni che si ripetono ciclicamente, cioè con una piena uniformità nel tempo: ad esempio i fenomeni stagionali, o l’alternarsi del giorno e della notte, tutti fenomeni che entrano a comporre quel quadro della natura come realtà ordinata e regolata da leggi costanti che i Greci ci hanno tramandato. La regolarità dei fenomeni naturali trova il suo modello perfetto nel movimento ciclico dei cieli (→). Alla nozione di ciclo come ripetizione nel tempo fa riscontro la nozione stoica di Grande Anno (→), che presuppone che a ripetersi ciclicamente non siano determinati fenomeni nel tempo, ma il tempo (→) stesso, la cui struttura sarebbe ciclica e non lineare. Cielo A parte l’uso generico e non tecnico del termine, la nozione greca di cielo (ouranos) può essere declinata al plurale e indica realtà fisiche ben determinate (della stessa materia di cui sono fatti i corpi terrestri, come pensano Epicurei e Stoici, o di una materia diversa, come pensa Aristotele). Mentre il termine italiano cielo fa riferimento ad un insieme ottico (quel che si vede alzando gli occhi da Terra di giorno e di notte) a cui corrispondono moltissime entità fisiche del tutto diverse e lontanissime tra loro (cielo è otticamente tanto il luogo delle nuvole, a centinaia di metri sopra di noi, quanto delle stelle, distanti anni luce dalla Terra), il cielo per una parte delle scuole filosofiche greche è la parola che descrive ciascuna delle sfere cristalline che ruotano ciclicamente intorno alla Terra (vedi la voce Sistema tolemaico: →). Ciascun cielo è quindi una entità fisica a se stante. Non per tutte le scuole, però: ovviamente non c’è alcun cielo (nel senso di realtà fisica a se stante diversa dalla Terra) per quelle teorie, come quella epicurea, che concepiscono infinito l’universo e reale il vuoto. L’idea dell’esistenza di cieli come realtà fisiche trasparenti alla luce, ma solide, dipende anche dal rifiuto dell’idea che esista uno spazio vuoto (→), cioè privo di materia. Così in Aristotele, ad esempio. Nel mito, e in particolare in Esiodo, il Cielo è invece una divinità – Urano (→) – in netta contrapposizione a Gea – la Terra. I problemi filosofici e scientifici sul cielo, e più in generale sui fenomeni celesti, sono di diverso tipo. - Innanzitutto la natura dei cieli e dei corpi celesti: di che materia sono fatti, se uguale alla materia terrestre o diversa; quale forza li muove; come si sono generati; e così via. - Poi il rapporto tra la realtà fisica e la realtà divina: diverse filosofie vedono nei cieli la sede della (o delle divinità), o il luogo al di là del quale hanno vita esseri divini: si pensi alla teologia astrale di Platone, ripresa su vari punti dagli Stoici; al Dio aristotelico, che intrattiene con i cieli un preciso rapporto di amore (dei cieli verso Dio, non viceversa); e alla stessa concezione epicurea degli dèi, che vivono negli intermundia (→). - In ultimo, il rapporto tra i cieli e il destino dell’uomo: nell’antichità erano diffuse le ricerche astrologiche (vedi la voce Astrologia / Astronomia: →), compiute dagli stessi astronomi, alla ricerca di corrispondenze tra i movimenti dei cieli, e le posizioni dei corpi celesti, e il destino individuale di ciascuno, secondo la teoria che vede una diretta influenza degli astri sull’uomo (e più in generale su tutte forme di vita sulla Terra). Cinici / Scuola Cinica Quella dei Cinici è una delle Scuole socratiche (→) formatesi ad Atene e altrove dopo la morte del maestro. Il nome deriva da un ginnasio fuori Atene che si chiamava Cinosarge, cioè “cane agile”. Il primo rappresentante della scuola, e allievo diretto di Socrate è Antistene (→), ma la figura più nota è quella di Diogene di Sinope (→). La scuola fu a lungo attiva, non come organizzazione strutturata come l’Accademia, il Liceo e poi le scuole ellenistiche, ma come corrente di pensiero e soprattutto come espressione di un modello di vita. L’interesse fondamentale dei Cinici fu infatti di carattere etico. La loro filosofia proponeva uno stile di vita del tutto libero e indipendente, fondato sulla pratica costante degli esercizi filosofici (askesis: vedi la voce Esercizi spirituali: →) propri della scuola e sul più rigoroso rispetto della natura umana, considerata nei suoi aspetti più concreti, sia fisici che spirituali. L’ideale di vita proposto aveva come fine l’autosufficienza (autarkeia), che può essere ottenuta solo esercitandosi a mantenere al livello minimo (quello richiesto dalla natura fisica e spirituale dell’uomo) le proprie necessità. Il richiamo simbolico al “cane” nel nome stesso della scuola indica questa riduzione agli aspetti essenziali della vita, che in sé è libera. I Cinici poi proponevano come simbolo per le proprie scelte la figura mitica di Eracle (→), per la sua capacità di affrontare fatiche immani attraverso un duro esercizio e la piena padronanza di sé. L’insieme dei comportamenti socialmente accettati, o addirittura codificati nella legge (nomos), nella misura in cui sono contrari alla semplicità della natura sono da respingere, e vengono fatti oggetto dai Cinici di palese e ostentato disprezzo. Il Cinismo, come proposta di uno stile di vita mirante all’autosufficienza nel pieno disprezzo delle convenzioni sociali, si mantenne in vita tra alti e bassi per tutti i secoli dell’ellenismo, ed era ancora attiva nel II secolo d.C. Circe Associata a miti molto noti come quello degli Argonauti e di Ulisse, la maga Circe (figlia del Sole e dotata di poteri magici) abitava nelle narrazioni mitologiche l’isola di Eea, che gli antichi identificavano con il promontorio Circeo, sulla costa dell’Italia centrale. Personaggio inquietante per l’uso che fa dei suoi magici poteri, nell’Odissea è protagonista di uno degli incontri di Ulisse nel corso delle sue peregrinazioni. Trasforma i compagni dell’eroe in maiali, e prova a farlo anche con Ulisse che, avvertito da Ermes che gli aveva dato un’erba che vanificava la magia di Circe, resiste all’incantesimo. Costretta a trasformare nuovamente in uomini i suoi compagni, Circe accoglie Ulisse che rimane presso di lei un mese (o, secondo varie tradizioni, un anno dandogli anche un figlio). Quando l’eroe e i suoi compagni partono, Circe li avverte dei pericoli a cui vanno incontro. Ha anche un ruolo nel ciclo legato agli Argonauti, perché purifica Giasone e Medea che giungono sulla sua isola nel loro viaggio. Circolo degli Scipioni Intorno alla nobile e potente famiglia degli Scipioni appartenente alla gens Cornelia, tra le più attive al vertice dell’oligarchia senatoria romana tra il III e il II secolo, si formò all’inizio del II secolo a.C. un circolo culturale dai contorni indefiniti, ma influente sia sul piano politico che culturale, orientato in senso filo-ellenico. Il circolo si scontrò con gli ambienti tradizionalisti dell’epoca (Catone il censore attaccò in vario modo gli Scipioni, anche sul piano giudiziario), e rappresentò una delle forme di apertura del mondo romano verso la cultura greca. Fu nell’ambito di questo circolo che operarono storici greci come Polibio (→) e filosofi come lo stoico Panezio (vedi Stoicismo: →). Gli ideali politici degli Scipioni vennero poi ripresi da Cicerone nel I secolo a.C. Cirenaici Sono così chiamati i filosofi della Scuola di Cirene, così chiamata perché fiorita in questa città della Libia (Cirene era una colonia greca fondata nel VII sulla costa africana del Mediterraneo), ma fondata da Aristippo di Cirene (→) che ad Atene era stato uno degli allievi di Socrate. Quella Cirenaica è quindi una delle Scuole socratiche (→) del IV secolo a.C., che fu attiva anche in età ellenistica, ma non oltre il III secolo a.C. Il tratto tipico dei Cirenaici era l’insistenza sulla sensazione come base della conoscenza umana, e la limitazione della nostra capacità di giudizio al mondo interiore di ciascuno: l’uomo è un individuo chiuso nella propria interiorità, sicché ciascuno solo per sé può giudicare del piacere e del dolore, così come delle sensazioni, il cui carattere soggettivo è giudicato ineliminabile e insuperabile. Su queste premesse i Cirenaici hanno sostenuto un’etica del piacere immediato diversa da quella di tutte le altre scuole dell’epoca (la loro concezione del piacere ha caratteri specifici, che la differenziano da quella di Aristotele, di Epicuro, e di altri filosofi che hanno dedicato attenzione etica al piacere): unici nel panorama greco, i cirenaici hanno proposto il piacere fisico nella sua immediatezza ed essenzialità come l’obiettivo della vita etica. Fu Aristippo il giovane, un nipote del fondatore della scuola, a codificare i principi della scuola, nel cui contesto nacquero nel III secolo a.C. teorie che erano radicali per la tradizione culturale greca, come quelle di Teodoro, detto l’ateo per avere sostenuto (un caso quasi unico in Grecia) il più completo ateismo. Un tratto invece che accomunava i Cirenaici ad altre scuole, come lo Stoicismo, era la considerazione dell’uomo come cittadino del mondo, secondo la visione del cosmopolitismo (→) ellenista. Cirene La città di Cirene sorgeva sulla costa della attuale Libia su un’altura non lontana dal mare. Venne fondata da coloni dori nei primi decenni del VI secolo a.C., e dovette combattere a fondo sin dall’inizio della sua esistenza per affermarsi nell’area, stretta tra i Cartaginesi a occidente e gli Egiziani a oriente. Dopo un periodo di lotte, anche interne, riuscì ad affermarsi come ricca e splendida città greca tra il V e il IV secolo (i resti archeologici sono ancora oggi imponenti), prima di essere conquistata da Alessandro Magno ed entrare a far parte poi del regno dei Tolomei. Fu forse questo il periodo di maggiore splendore artistico e culturale, prima dell’inserimento nel mondo romano, a seguito della conquista romana dell’Egitto del I secolo a.C.. A Cirene sono legati alcuni momenti specifici della vita filosofica dell’antichità, in particolare con la cosiddetta Scuola Cirenaica (→), che qui ebbe sede nel IV secolo a.C. Città Vedi Polis Cittadino / Cittadinanza Vedi Polites / Politeia Cittadino del mondo Vedi Cosmopolitismo Civiltà della scrittura Si parla di civiltà della scrittura (→) per indicare le trasformazioni che derivarono a partire dal VII secolo a.C. dal progressivo estendersi dell’uso della scrittura alfabetica greca agli usi più diversi. Benché non sia affatto scomparsa l’oralità – e quindi la civiltà greca della scrittura sia stata comunque ancora in parte anche una civiltà dell’oralità – l’introduzione della scrittura ha avuto un’influenza - sul diritto, consentendo il passaggio da leggi tradizionali, in genere connesse al potere giudiziario delle classi nobiliari, a leggi scritte, connesse con l’istituzione di Tribunali di tipo diverso; - sulle forme della comunicazione, che passano da strutture orali come la poesia ai molti generi letterari della prosa, che non può esistere di fatto senza la scrittura; - sulle forme della ricerca scientifica, a partire dalla matematica fino ai più vari campi delle scienze, perché solo la scrittura consente la raccolta sistematica dei dati e il loro ordinamento (la sintesi della geometria greca negli Elementi di Euclide non è solo una raccolta del sapere matematico greco, ma anche una sistemazione razionale e deduttiva che presuppone la pratica della scrittura). Sono anche state elaborate teorie che ritengono che le forme del pensiero nella civiltà della scrittura siano parzialmente diverse da quelle della civiltà dell’oralità (e, sulla base di questa ipotesi, è quindi stata elaborata la tesi che nella nostra civiltà multimediale si stiano trasformando le forme del pensiero delle nuove generazioni). Classificazione delle scienze filosofiche Il termine classificazione è moderno, mentre il termine scienza applicato alla filosofia è greco (episteme: vedi Scienza: →). Sia Aristotele (e prima di lui in forma diversa Platone) che le scuole ellenistiche pongono il problema di un ordinamento delle scienze filosofiche perché ritengono che la filosofia non sia una scienza tra le altre, ma si identifichi con il complesso delle possibili conoscenze umane, nessuna esclusa. Il filosofo è lo scienziato che raccoglie in una prospettiva unitaria tutto il sapere. Quei ricercatori che, come Platone, parlano del filosofo solo come di un amico del sapere, non hanno ovviamente dato luogo a classificazioni di questo tipo, che mal si adattano ai processi sempre aperti e mai classificabili della libera ricerca dialettica; tuttavia Platone ha posto questo problema, soprattutto quando ha studiato, nell’ultima parte dei dialoghi, l’ordinamento delle idee e le gerarchie tra loro (la dialettica come forma di riunificazione del sapere e, allo stesso tempo, come conoscenza dell’articolazione del pensiero e della realtà). Altri filosofi, come Plotino, hanno rivolto tutto il loro interesse alla vita dello spirito e, pur interessati in linea di principio almeno alla bellezza del mondo sensibile, di fatto non hanno svolto indagini sulla natura, e quindi anch’essi non hanno proposto un ordinamento delle scienze filosofiche che comprendesse anche le scienze della natura. Quanto agli scettici, a loro avviso non si può parlare di scienza né per la filosofia né per alcun’altra disciplina. Va poi osservato che per tutti, nessuno escluso, la filosofia mantiene un aspetto unitario, e ogni classificazione risponde ad esigenze pratiche (ad esempio di scuola) o teoretiche (ad esempio Aristotele propone distinzioni sui principi), ma mai punta a frazionare l’unità del sapere in compartimenti tra loro non comunicanti. Avremmo forse una visione un po’ diversa della filosofia greca su questo punto se ci fossero rimaste le opere di Democrito, che ha costruito una filosofia che tratta di vari argomenti, senza che ci sia possibile ricollegarli unitariamente: le massime etiche attribuitegli non possono infatti con chiarezza essere dedotte dalla sua visione atomistica della natura e dell’uomo, per cui non è chiaro quale articolazione sistematica del sapere egli avesse, né se abbia posto e risolto il problema. In estrema sintesi, il problema della classificazione delle scienze è relativo all’incrocio di due diverse questioni: - una riguarda la struttura della realtà: è indispensabile capire qual è l’albero delle dipendenze degli enti e degli eventi gli uni dagli altri; ad esempio: è necessario capire in che cosa la felicità dipende dalla natura umana e dalla natura universale (e quindi l’etica dalla fisica e dalla soluzione del problema dell’essere); - una riguarda la struttura del pensiero e del linguaggio: è indispensabile capire come connettere logicamente le nostre conoscenze e le forme libere del pensiero e del linguaggio per capire se pensiero e linguaggio nella loro organizzazione restituiscono la corretta struttura della realtà o necessariamente la deformano. Cleante Vedi Stoicismo Clemente Alessandrino Vissuto orientativamente tra il 150 e il 215 d.C., Tito Flavio Clemente Alessandrino è uno dei massimi esponenti di quella Scuola teologica di Alessandria (→), cristiana, che era caratterizzata dallo studio teologico dei testi biblici sulla base però non tanto della tradizione culturale ebraica, quanto di quella greca. Clemente era personalmente un insegnante della tradizione greca, più attento alle pratiche dell’oralità e della scuola che alla produzione scritta, che conosceva a fondo la filosofia greca. Scrisse varie opere: il cosiddetto Protreptico ai Greci, un’esortazione al mondo culturale pagano greco perché abbracciasse il Cristianesimo; il Pedagogo, in tre libri, che conteneva una sorta di sintesi di tipo trattatistico sulla morale cristiana; e gli Stromata, una sorta di antologia su vari temi per lo più di carattere teologico, incompiuta. Nella sua opera prosegue, su base cristiana e non più ebraica, l’applicazione del metodo allegorico di interpretazione della Bibbia proposto nella prima metà del I secolo d.C. dal filosofo ebraico Filone di Alessandria (→). Cleruchia La cleruchia – da kleros, che significa lotto di terreno – è una delle forme specifiche che caratterizzarono il colonialismo e l’imperialismo ateniese. Atene infatti non aveva partecipato al vasto processo di colonizzazione delle coste tra il Mar Nero, l’Egeo e il Mediterraneo, e solo tra la fine del VI e il V secolo a.C. inviò propri uomini a colonizzare varie aree intorno all’Attica. I cleruchi erano sì coloni, ma rimanevano cittadini ateniesi, avevano una funzione per lo più militare e si mantenevano vivendo sulle terre loro assegnate da Atene a spese delle popolazioni locali. Erano quindi simili a truppe di occupazione. Così a Salamina, in Eubea, nel Chersoneso, oltre che in varie isole dell’Egeo. Clinamen È il termine latino – significa deviazione – con cui Lucrezio nel De Rerum Natura rese in latino la nozione di parenklisis, con cui Epicuro (in testi per noi perduti) aveva descritto il movimento casuale degli atomi che deviano dal proprio moto rettilineo (vedi la voce Caso: →). L’esistenza di un movimento casuale delle particelle elementari che formano i corpi consente ad Epicuro di elaborare una teoria generale sulla struttura dei corpi e dei mondi libera dalla necessità e frutto di un misto di regolarità delle leggi naturali e di caso. Questa teoria consente a sua volta di - escludere che l’universo sia determinato secondo necessità e quindi esista un destino segnato; questo significa che non c’è neppure una finalità in natura, né un dovere per i viventi che dia un senso al loro esistere e sia legge al loro agire; in polemica con gli Stoici la nozione di destino è respinta; alla propria vita il senso lo dà ciascuno di noi con le sue libere scelte; - affermare la libertà umana (→) come libero arbitrio, che trova la sua base fisica nella non determinazione assoluta degli atomi che compongono l’anima. Clistene È l’uomo politico che con le sue riforme consentì la nascita della democrazia (→) ateniese sul finire del VI secolo. Non abbiamo notizie certe della sua nascita e della sua morte, ma sappiamo che apparteneva alla nobile famiglia degli Alcmeonidi (alla quale appartennero nel V secolo a.C., per parte di madre, anche Pericle e Alcibiade), che aveva avuto una parte importante nelle vicende politiche ateniesi nei due secoli precedenti. Clistene con la famiglia poté rientrare ad Atene solo nel 510 a.C., quando il tiranno Ippia venne cacciato, e si impegnò subito nella lotta politica per la riorganizzazione della polis. Prevalse sugli avversari politici e nel 508-507 a.C. fece approvare una riforma che stentò sul momento a consolidarsi, ma a partire dal 500 si stabilizzò. Su questa base nel 462 Pericle poté poi introdurre nuove riforme che diedero il volto definitivo e stabile all’ordinamento democratico di Atene e dell’Attica; uno degli obiettivi della riforma di Clistene era quello, come scrive Aristotele, di “mischiare la popolazione” dando cittadinanza a tutti gli abitanti dell’Attica e unificando sotto Atene l’intero territorio in condizioni di isonomia (→), cioè di eguaglianza. Codro Nel mito greco Codro è il leggendario ultimo re di Atene, discendente dal dio Poseidone. Di lui si mostrava ad Atene la tomba nel punto in cui era caduto in combattimento, sulle rive dell’Ilisso, davanti ad una delle porte della città. Le circostanze della sua morte erano oggetto di narrazioni leggendarie: durante una guerra con i Peloponnesiaci, questi ultimi prima di attaccare Atene avevano cercato il responso del dio di Delfi, che aveva promesso loro la vittoria solo a patto che non avessero ucciso il re di Atene. Ma Codro seppe dell’oracolo, e decise di sacrificarsi per salvare la sua città. Non si fece riconoscere dai nemici e li combatté vestito da mendicante. In uno scontro con due nemici rimase ucciso. Atene fu salva. Colonia Il termine ha due significati diversi se utilizzato nel contesto della storia greca o di quella romana. Le colonie per i Greci erano poleis indipendenti che nascevano quando in un città greca (che poteva a sua volta essere una colonia) le condizioni economiche e produttive rendevano necessario che una parte della popolazione si trasferisse altrove. Allora gruppi di cittadini maschi sotto la guida di un “ecista” si trasferivano altrove (le aree di colonizzazione greca furono l’Egeo, la Magna Grecia e la Sicilia) e fondavano una città che manteneva sì rapporti culturali ed economici con la madrepatria, ma ne era completamente indipendente dal punto di vista politico. Un ruolo importante nel processo di colonizzazione lo ebbe l’oracolo di Delfi (→) a cui le città si rivolgevano per averne un responso sulla loro iniziativa coloniale prima di intraprenderla. Per i Romani, invece, le colonie erano fondazioni di nuove città in genere in territori da poco pacificati o ancora in via di conquista in cui si trasferivano cittadini romani che rimanevano tali: le colonie nascevano quindi come presidi militari, economici, culturali per la romanizzazione del territorio, nel contesto di una Res Publica unitaria. Colpa È uno dei temi centrali della riflessione etica sia nel mondo della poesia (dall’epica alla lirica alla tragedia, che su questo tema ha posto questioni di fondamentale importanza) sia in quello della filosofia. Oggettività e soggettività della colpa Il termine colpa può far riferimento ad una azione (un comportamento colpevole) o ad un sentimento (senso di colpa). Nel primo caso implica l’esistenza di una norma che viene trasgredita (consapevolmente o meno, come vedremo); nel secondo caso implica solo un riflesso soggettivo rispetto ad un evento (e dunque può essere percepito come colpa un evento che non ne avrebbe le caratteristiche, e può non essere percepito come tale un altro evento che le avrebbe). È opportuno ricordare che la nozione di colpa nella cultura greca arcaica può non assumere un carattere personale, ma collettivo, e può non essere legata a un valore morale ma alla contaminazione: - un uomo o una comunità può pagare per colpe non sue, ma dei propri genitori o avi, o dei propri concittadini; si è spesso detto che questo tratto della cultura antica (molto diffuso in epoca arcaica) aiutava a comprendere come mai dei giusti siano colpiti dal destino come se fossero colpevoli di qualcosa (pagano loro le colpe dei padri o dei consanguinei, o dei concittadini, cioè colpe commesse da persone a cui sono in qualche modo strettamente collegati); riflessioni di questo tipo riguardano anche le teorie della metempsicosi (→), per cui una persona paga colpe commesse in vite precedenti anche se non ne conserva alcuna memoria. - una colpa può non essere affatto una trasgressione a un norma, ma nascere solo dall’essere venuti in contatto con elementi contaminati (vedi Contaminazione: →); ci si libera dalla colpa quindi con pratiche di tipo rituale e magico, cioè con pratiche di purificazione (→). Occorre dunque distinguere - l’oggettività della colpa, cioè quel complesso di scelte, di atti e di eventi che rendono un uomo colpevole anche indipendentemente dalla propria volontà; - la soggettività della colpa, cioè quel complesso di atti che rendono un uomo colpevole in conseguenza di scelte che egli ha compiuto deliberatamente, sapendo a cosa andava incontro; un esempio di soggettività della colpa su cui nel mondo greco c’è larghissimo accordo è dato dalla hybris (→), cioè da quei comportamenti con cui un uomo va oltre i limiti imposti (dal destino, dagli dèi, dalla natura). È chiaro che solo la soggettività della colpa consente di parlare di responsabilità (→) (individuale o collettiva), ma l’oggettività della colpa espone alla pena tanto quanto la soggettività, con un meccanismo che i poeti da Esiodo a Solone vedono addirittura automatico (la pena segue, sempre, ma non necessariamente sul colpevole: può seguire sui figli o sulla città, o su altri: così in Opere e Giorni (→) di Esiodo, così nella Elegie (→) di Solone). La colpa come problema etico Il tema della colpa si connette con due problemi, uno posto soprattutto dal mito e dalla riflessione dei poeti, l’altro dai filosofi: - i poeti, e in modo diretto e molto problematico i tragici, sollevano il problema del destino (→) dell’uomo in rapporto ai suoi comportamenti: perché il giusto soffre e l’ingiusto non subisce alcun danno, come è comunemente sotto gli occhi di tutti? e cosa pensarne di tutte quelle situazioni (emblematico il caso di Egisto che vendica la morte del padre nella trilogia dell’Orestea (→) di Eschilo) in cui l’uomo si trova ad essere colpevole qualsiasi cosa faccia perché le possibilità reali tra le quali può scegliere (e non può non scegliere) implicano tutte la trasgressione a una norma? - i filosofi si sono chiesti perché un uomo che conosce il bene segue di fatto il male esponendosi così alle conseguenze della colpa; Socrate ne conclude (in accordo con una radicata corrente della cultura greca) che questo accade perché l’uomo crede di conoscere il bene, ma non lo conosce di fatto, sicché segue il male perché lo scambia per il bene (questa teoria è nota come intellettualismo etico: →); Platone elabora il mito della biga alata, imputando al cavallo nero la tendenza alla colpa, unita alla debolezza dell’auriga (quindi, fuori metafora, alla natura reale dell’anima); e così via. Questi temi sono centrali in tutta la filosofia greca, fino agli ultimi esiti in Plotino, che vede nella colpa un errore di prospettiva della coscienza). Ovviamente si può parlare di colpa solo se si sono definite le norme o se si è in presenza di qualcosa che contamina. Dunque dal punto di vista dell’etica antica il tema della colpa si connette col tema della ricerca del buono (vedi Bene →) e del puro (→). Ma non si può parlare in nessun caso di colpa quando esplicitamente si escludono norme o presenze contaminanti: - così la nozione di colpa non gioca alcun ruolo presso i sofisti, né presso quelli della prima generazione (non in Protagora a causa del suo relativismo, né in Gorgia, che “giustifica” Elena, anche se “per gioco”), né presso quelli della seconda e radicale sofistica (per i quali il nomos non ha alcun diritto di aver la meglio sulla physis: vedi nomos / physis: →); - non gioca alcun ruolo neppure presso i filosofi materialisti, ed esplicitamente in Epicuro, in cui a far da metro dell’azione sono il piacere e il dolore e quindi l’utile, ad esclusione di ogni valore oggettivo e valido indipendente dall’uomo (che, in un universo composto solo da atomi pieni e spazio vuoto non può esistere). Commedia Vedi Teatro Greco Commento Nella storia della filosofia antica il genere letterario del commento compare nell’età tardo-antica, quando i testi del periodo classico e anche quelli del periodo ellenistico (per la maggior parte precedenti di cinque o sei secoli) erano ormai dei “classici”. Il modello di questo genere letterario in filosofia è fissato per le epoche succesive da Plotino, ed esamineremo quindi le sue Eneadi per definire i caratteri del genere. Va però precisato che all’epoca di Plotino (il III secolo d.C.) il commento aveva già una storia non breve, ma non in ambito filosofico: si era infatti diffuso su temi teologici nella forma di testi a commento delle Scritture, sia in ambienti ebraici che cristiani. Tuttavia i caratteri del commento come genere letterario della filosofia sono almeno in parte diversi e originali. Il genere letterario del commento in Plotino Plotino orienta i suoi percorsi di ricerca alla luce del metodo, di derivazione socratico-platonica, che punta a penetrare nell'interiorità per portare la verità alla luce della coscienza. Questo metodo si giustifica nella cornice di filosofie che pensano che l'anima dell'uomo sia tutt'altro che chiusa in se stessa, ma piuttosto sia aperta verso le superiori realtà non sensibili: la vera casa dell'anima è altrove. Il metodo di Plotino perviene, è vero, a forme di visione intellettuali che hanno tratti mistici (l'estasi ha questo tratto, benché rimanga legata a pratiche razionali, non irrazionali), ma si fonda su un lavoro filosofico strettamente legato al dialogo con gli altri. Plotino non è un professore che fa lezione ai suoi allievi, ma un filosofo che fa ricerca e si esercita con i suoi allievi. Nel gioco dialettico (di cui rimangono tracce nelle Enneadi) l'anima penetra in se stessa utilizzando tutte le risorse a sua disposizione, compresa l'immaginazione, il gioco retorico, il richiamo delle emozioni. A compiere questo lavoro è infatti la persona integrale, non la sola mente (Plotino direbbe: l’anima nella sua pienezza) Tutto questo non avviene però come nell'età classica, completamente priva di "classici" che non fossero poetici e quindi utilizzabili solo in parte per una filosofia che si proponeva di sostituirsi alla poesia come ruolo guida per la Grecia. L'oralità socratica e platonica è veramente tale, non potendosi considerare i dialoghi platonici, che pure sono connessi con le pratiche di ricerca dell'Accademia, come "classici" già al tempo in cui furono scritti, ma come materiali di lavoro attuale. L'oralità di Plotino è invece in dialogo con gli altri filosofi attraverso la mediazione del testo di Platone (e di altri). Le lezioni di Plotino infatti sono essenzialmente commenti ai testi platonici condotti con lo stesso metodo di ricerca dialettica che in essi è descritto. Ma è cambiato qualcosa di essenziale rispetto al tempo di Platone: Plotino è convinto che in essi vi siano elementi di verità, e che si tratti di ordinare, sistemare, far ricerca completando. Plotino ha davanti a sé un testo classico. Il suo obiettivo non è la libera ricerca, come in Platone, ma la ricerca orientata dai testi verso un preciso traguardo: passare dai tanti filoni di ricerca platonici alla costruzione di un sistema filosofico (Plotino ha appreso la lezione unitaria delle grandi filosofie sistematiche dell'ellenismo) che ponga ordine sulle vie di ricerca platoniche e permetta la definizione di un modello vincente di vita filosofica (non si dimentichi che è ancora questo l'obiettivo di Plotino: la vita filosofica, come per gran parte della filosofia greca). Quello di Plotino è quindi uno dei primi commenti sistematici a testi classici. Plotino utilizza a questo fine tutta la tradizione greca. Nei suoi scritti si vede bene quanta riflessione egli abbia dedicato ad Aristotele e agli Stoici, per esempio a proposito della natura, della cui conoscenza in Platone trova meno di quanto gli interessi (benché torni all'idea che la natura non sia l'unica realtà, Plotino è pur sempre legato alle tradizioni filosofiche ellenistiche: non elabora nozioni quale quella successiva, in ambito cristiano, di creazione, ma spiega in termini unitari la natura e le sue leggi, mediante l'impianto metafisico "continuo" garantito dalla nozione di emanazione: →). Così commenta il testo di Platone soprattutto con altri testi platonici, per ricostruire una teoria unitaria, e a questo fine, quando occorre, utilizza anche altri testi, soprattutto di Aristotele e degli Stoici. Per un quadro generale dei generi letterari nell’antichità si veda la voce Generi letterari della filosofia antica (→). Composto Vedi Semplice / Composto Comunismo Nella Repubblica, descrivendo le condizioni sociali del suo Stato ideale, Platone prospetta un vero e proprio comunismo dei beni e persino delle donne e dei figli per le classi dirigenti. Il termine ha anche una valenza più ampia: con l’italiano comunismo rendiamo infatti il greco koinonia, che è in realtà riferito a qualsiasi tipo di comunanza e di parentela tra gli uomini – qualsiasi rapporto che superi l’individualismo e leghi in una qualche forma di società gli uomini. Descrive insomma il mettere in comune qualcosa. Ad esempio gli Stoici usano il termine koinonia per indicare le ragioni di fondo che portano al loro cosmopolitismo (→): koinonia indica la reale comunanza del fondamento della vita per qualsiasi uomo in qualsiasi cultura. Concetto È un pensato, l’oggetto dell’attività del pensare, che non si riferisce ad un evento specifico o ad un ente individuale ed esistente nella realtà esterna, ma ad enti mentali di natura universale (si veda su questo la voce Universale / Individuale: →). I termini greci che traduciamo con concetto sono vari, in particolare logos (→) e noema (vedi Pensiero e Nous: →). Nella filosofia greca il concetto è stato inteso in due modi diversi: - come pensiero che esprime l’essenza delle cose (vedi la voce Sostanza: →); così in Platone e in Aristotele, con due valenze diverse perché nel primo ha anche una realtà indipendente dalle cose e dalla stessa mente (le idee platoniche), che il secondo rifiuta; - come segno mentale e unico (quindi universale) espresso attraverso il linguaggio per indicare enti ed eventi individuali; lo studio dei concetti è quindi studio dei segni e in ultima analisi del linguaggio (→). Su questi temi si vedano anche le voci Nous (→) e Pensiero (→). “I problemi filosofici relativi alla nozione di concetto sono molti e riguardano non soltanto l’area del problema della conoscenza, ma anche lo studio dell’essere. Infatti: - è problematico comprendere come la mente formi i concetti, e se tutti i concetti sono formati dalla mente o ve ne siano di innati: su questo punto il problema del concetto è parte del più generale problema dell’origine delle idee (→); - la distinzione tra concetti e immagini (→) può non essere sempre agevole, perché i concetti astratti si appoggiano spesso su immagini e intrattengono con esse complessi rapporti: il problema è quindi quello di comprendere nella loro complessità e realtà i rapporti tra le immagini (individuali e concrete) e i concetti (universali e astratti); - un terzo problema riguarda la natura dei concetti: che cos’è un pensiero caratterizzato da universalità e astrazione? è solo un “fatto della mente” o possiede una realtà indipendente? possono esistere concetti senza una mente che li pensi? Queste domande legano le questioni relative alla conoscenza umana alle questioni relative all’essere di quella particolare realtà che chiamiamo pensiero (in risposta a domande del tipo: che cos’è il pensiero?); - in ultimo, quali sono i caratteri che permettono di definire la verità o la falsità di un concetto? questo problema riguarda la nozione di verità (→), cui rimandiamo” [Pancaldi 2006]. Concupiscibile Nella concezione platonica dell’anima, un ruolo importante riveste la sua dottrina delle facoltà. L’anima ne possiede tre, e si distingue quindi in anima irascibile (→), anima concupiscibile (in greco epithymeticon) e anima razionale. La parte concupiscibile è caratterizzata dall’essere per natura insaziabile di possedere: nel mito della biga alata (→) questa facoltà dell’anima è raffigurata dal cavallo nero. Le passioni umane dipendono in gran parte da questo tratto dell’anima, e ad esso si devono sia la loro forza e sia la difficoltà con cui riusciamo a gestirle. Dal punto di vista dell’organizzazione sociale, nella Repubblica Platone fa corrispondere a questa parte dell’anima le classi lavoratrici. Confilosofare Il termine greco è sumphilosophein, e lo ha usato per la prima volta Aristotele in un contesto come il seguente: “Ciascun tipo di uomini, qualunque sia per loro il senso dell’esistenza, ovvero ciò per cui per loro la vita è desiderabile, vogliono in vario modo trascorrere il tempo in compagnia degli amici. È per questo che alcuni bevono insieme, altro giocano insieme ai dadi, altri fanno ginnastica e cacciano insieme o fanno filosofia insieme (sumphilosophusin), e che trascorrono insieme le giornate, ciascuno dedito a ciò che ama più di tutto nella vita: volendo, infatti, vivere insieme con gli amici, fanno e mettono in comune le cose in cui, secondo loro, consiste la vita” (Etica Nicomachea, IX, 1172). Parlando del fare filosofia insieme, cioè del confilosofare, Aristotele usa un termine prima non attestato, ma si riferisce ad una nozione ormai tradizionale per la pratica filosofica del IV secolo a.C.: almeno dall’età dei Sofisti e di Socrate la filosofia era praticata insieme, nella città e nei ginnasi nel V secolo, sempre di più nel chiuso di istituzioni come l’Accademia e il Liceo nel IV secolo, con eccezioni importanti come quelle dei cinici, che rimangono “filosofi da strada”. Si veda sui modi di questo confilosofare la voce Dialettica (→). Conflagrazione cosmica Vedi Ekpirosis Confutazione Il termine italiano traduce il greco elenkos, che indica procedure retoriche o dialettiche, consistenti nel proporre un argomento che dimostra falsa la tesi proposta da un avversario. La dialettica che si sviluppa nella linea che unisce le aporie di Zenone alle pratiche sofistiche e a Socrate privilegia un tipo di confutazione che si basa su argomenti che si ricavano dalla stessa tesi dell’avversario: la confutazione consiste nel metterne in luce l’intima contraddittorietà. A sua volta la retorica ha messo in campo proprie procedure. Infatti le tecniche della confutazione sono studiate in genere dai filosofi greci nel contesto della retorica antica, ma Aristotele dedica alla confutazione anche uno dei suoi libri di logica, dal titolo Confutazioni sofistiche, in cui la confutazione è definita come quel tipo di sillogismo, cioè di ragionamento, che ha come conclusione una proposizione che nega un’altra conclusione, che risulta così confutata (la definizione è in Confutazioni sofistiche, I-165) Conoscenza [Problema della] Il termine greco per conoscenza è gnosis, contrapposta a ignoranza (agnosia) e a opinione (doxa). Quello della conoscenza “è uno dei problemi centrali della filosofia, perché dal modo in cui lo si imposta, dal metodo utilizzato per affrontarlo, dalla teoria della conoscenza che viene elaborata dipendono: - la risposta a domande relative alla nostra capacità effettiva di conoscenza: che cosa possiamo conoscere? entro quali limiti? su quale fondamento di certezza? e persino: che cosa significa conoscere? oppure: che cos’è il pensiero? - la risposta a domande relative alla natura e al senso della realtà: che rapporto c’è tra il pensiero e le cose, tra il pensiero e l’essere? come è possibile che la realtà (e in particolare la realtà della materia, dei corpi) sia pensata, pur appartenendo ad una sfera diversa dalla mente e dal suo mondo interiore? Il problema della conoscenza incrocia, di fatto, tutti i problemi della filosofia (ed è pertanto impossibile proporre in breve un elenco dei temi affrontati) perché qualsiasi sia il problema studiato esso è, appunto, studiato, rientra cioè in un universo al cui centro è la mente, la soggettività di un uomo che pensa. Da questa soggettività, dalla sfera del pensiero, non possiamo mai uscire, ed è quindi impossibile una assoluta “oggettività”: se c’è conoscenza, c’è qualcuno che conosce e qualcosa che è conosciuto (possono esistere, anche se non ne abbiamo esperienza, pensieri senza un soggetto che li pensi? possono esistere idee assolute, la cui esistenza non dipende da un soggetto che le pensa?). Il problema della conoscenza è quindi a monte di ogni altro. In estrema sintesi, e a titolo di esemplificazione, la dizione “problema della conoscenza”, al singolare, rimanda ad una costellazione di problemi che vanno visti come sue articolazioni, tra cui: - il problema dell’origine delle idee (→) (da dove derivano le nostre idee?) - il problema della natura del pensiero (→) come dimensione della realtà diversa dalla materia (di che cosa è fatto il pensiero? ha una natura indipendente dall’universo materiale?) - il problema delle forme del pensiero (che rapporto c’è tra la sfera della conoscenza sensibile, la sfera dell’immaginazione, la sfera del pensiero astratto, concettuale? Che valore hanno altre forme di pensiero, come l’intuizione intellettuale? e in generale: come si passa da una percezione sensibile a un concetto astratto?) - quale rapporto c’è tra la sfera delle emozioni e delle passioni e quella della conoscenza? quale ruolo gioca il pensiero per simboli, per immagini, in questo rapporto? - è possibile pensare senza parole? e in che misura, in che forma? e più in generale: che rapporto c’è tra la sfera del pensiero e quella del linguaggio (→) (o dei linguaggi) in cui si esprime? i linguaggi condizionano il pensiero?” [Pancaldi 2006]. Conoscenza intellettiva Vedi le voci Intelletto, Logos e Nous Conoscenza sensibile Vedi le voci Sensi, Sensibilità ed Esperienza Conosci te stesso! Motto delfico (Gnothi sauton: era scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi), indica una delle norme più importanti dell’etica tradizionale greca: la necessità per l’uomo di conoscere i propri limiti e di non superarli per non incorrere nella hybris e nella collera degli dèi. Il motto con Socrate assume un significato nuovo: l’invito etico all’analisi della propria coscienza, alla ricerca in sé dei principi verso cui orientare la propria esistenza. Il motto quindi invita alla assunzione della responsabilità delle scelte sulla base della centralità e indipendenza della propria coscienza. Consiglio degli anziani Nella società omerica il potere del basileus (→) non è mai assoluto né isolato, ma è sempre accompagnato dalla necessità di rispettare le tradizioni, le themistes (→) (cioè le norme del diritto di antichissima origine) e anche il potere dei capi di ciascun oikos (→), cioè delle famiglie di cui si compone il popolo. Compare quindi spesso un consiglio che affianca il basileus, ed è composto dagli “anziani”, cioè i capi delle più importanti famiglie. Questa struttura di tipo aristocratico si ritrova poi nelle costituzioni delle poleis in età storica, come una delle articolazioni in cui si struttura il potere reale, spesso con funzioni giudiziarie. Persino nelle democrazie, dove il potere è per principio nelle mani dei cittadini riuniti in assemblea, sussistono istituzioni che ereditano alcuni dei poteri degli antichi consigli degli anziani: ad esempio ad Atene una istituzione di questo tipo è l’Areopago (→). Va poi chiarito che per anziani non si intende necessariamente persone molto avanti negli anni, quanto piuttosto persone sulla cui saggezza si può contare, e che quindi godono della stima dei loro pari. Contaminazione / Purificazione In greco la contaminazione è il miasma, la purificazione è la kathasis (da cui catarsi: →). Non si tratta di nozioni dal significato prevalentemente etico ma, benché connesse spesso con atti che hanno in sé un significato etico, sono piuttosto nozioni legate alla sfera del sacro. Credenze di questo tipo dovevano essere molto radicate nella cultura – non solo popolare, ma anche delle classi elevate – di epoche molto antiche: le troviamo fortemente presenti in Omero. Si mantennero poi anche nei secoli successivi, e ancora in epoca classica hanno un significato per gli scrittori dell’epoca, e giocano un ruolo non del tutto marginale persino nelle riflessioni di tipo religioso di Platone. Ci si può contaminare compiendo atti come seppellire i morti, o violando un giuramento, o entrando nello spazio sacro a una divinità senza rispettarne le regole, o infrangendo vari divieti di tipo rituale e magico, o anche soltanto entrando in contatto con persone a loro volta contaminate. Può accadere non solo ad una persona singola, ma anche ad una città di essere contaminata e di avere quindi bisogno di una purificazione. Un caso importante è quello dell’uccisione di un congiunto, anche involontaria. In tutte queste situazioni si parla di oggettività della colpa (→), perché la contaminazione è del tutto indipendente dall’effettiva colpa individuale, dalle intenzioni di chi ha agito. Se contaminazione c’è stata, anche per ragioni eticamente o politicamente valide, è indispensabile la purificazione, che non è un atto di natura interiore e non implica partecipazione personale, ma è un rito: in questo senso si parla di riti di purificazione per indicare quel complesso di pratiche, a metà tra la magia e il rito religioso, che consentono di eliminare la contaminazione. Possono essere impure (cioè contaminate) persone, cose, luoghi; la katharsis consente di farle tornare pure, cioè non contaminate. Contemplazione Il termine greco theoria, da cui theoretikos bios, cioè vita contemplativa o vita teoretica (contrapposta a vita pratica) è stato tradotto dai romani con contemplatio, termine che in origine a Roma indicava l’osservazione degli uccelli in determinati settori del cielo per trarne gli auspici da parte dell’augure, per poi indicare l’atto della mente che “vede” con chiarezza un’idea vera nella pura sfera del pensiero. Anche il greco theoria, che da Aristotele in poi indica i contenuti della pura sfera del pensiero, aveva alle origini un significato legato al sacro (indicava l’ambasceria che le poleis inviavano ai giochi panellenici in onore di un dio). Vedere oltre il visibile La nozione filosofica di theoria, cioè di contemplazione, implica il riconoscimento di un fatto, che la realtà dell’esperienza ci restituisce soltanto la superficie del mondo, mentre se vogliamo accedere alla verità dobbiamo penetrare questa apparenza (→), per così dire attraversandola, e muoverci col pensiero verso le strutture reali del mondo, che rimangono nascoste ai nostri sensi. Non necessariamente queste strutture devono essere concepite come appartenenti al mondo del puro pensiero secondo il modello platonico e, in parte aristotelico. Infatti la struttura fisica della realtà secondo le scuole epicurea e stoica è materiale: lo sono gli atomi dell’epicureismo, lo è il pneuma stoico, ma la mente non può conoscere né gli uni né gli altri se non passando attraverso la pura sfera del pensiero, perché solo attraverso questa è possibile interpretare la realtà sensibile come prodotto di quella struttura. Che si tratti quindi di una verità appartenente alla pura sfera del pensiero (come in Platone e, entro certi limiti, anche in Aristotele), o che il pensiero sia solo lo strumento per pensarla (come in Epicuro), o il piano della mente e quello della materia siano all’origine la stessa realtà e quindi siano il prodotto della stessa energia (come negli Stoici), la theoria (contemplazione) è comunque l’atto di una mente pensante che “vede” in sé, e non nel mondo esterno, la verità (su di sé e sul mondo esterno). In Plotino e nella successiva tradizione neoplatonica la contemplazione implica un ribaltamento della direzione dello sguardo della mente che, rientrando in se stessa e ripercorrendo a ritroso il cammino dell’emanazione, ritrova in sé la radice dell’Uno. Theoria ed eudaimonia Un tratto caratteristico della contemplazione – la visione intellettuale di una verità – così come è stata concepita dalle filosofie antiche è poi il legame tra il puro pensiero e un particolare vissuto emotivo: in genere le scuole filosofiche antiche associano alla contemplazione la felicità, intesa come eudaimonia (→), cioè il piacere che la mente ricava da se stessa e dalla propria attività pensante, e non dal mondo esterno. La contemplazione non è quindi solo un conoscere, ma anche un fare esperienza della pienezza della mente. Il saggio, in qualsiasi situazione della vita, sa elevarsi (raccogliendosi nel suo mondo interiore) alla sfera del pensiero e vivere felice in essa. Continuo Il termine greco che traduciamo con continuo è synekes, utilizzato in matematica ma anche in senso fisico da Aristotele, che nella Fisica ne dà la seguente definizione: continuo è “ciò che è divisibile in parti sempre divisibili” (Fisica, VI, 2). Il contesto è quello della infinita divisibilità (→) dei corpi negata dagli atomisti e ammessa da Aristotele che rifiuta la nozione di atomo (che non ha una grandezza continua nel senso aristotelico perché non è divisibile) come particella elementare. Su questo punto forse Aristotele riprendeva nozioni già presenti in Anassagora, come mostrerebbe il suo fr. 3 Diels. Abbiamo richiamato la nozione di continuo in Aristotele perché questo filosofo ne dà una definizione puntuale. Ma di continuo parla anche Parmenide (fr. 8 Diels), e quindi la nozione e il problema rimandano alle origini della filosofia. Va inoltre segnalato che il termine è usato in un senso meno tecnico, per indicare realtà contigue, cioè cose i cui limiti si toccano, formando così una certa unità (così ad esempio Aristotele in Metafisica XI-12) Contraddizione Letteralmente “dire contro” (antiphasis): due discorsi sullo stesso oggetto che dicono qualcosa di opposto. Uno dei due non può essere vero (e non in tutti i casi è detto che sia vero l’altro). Per esempio una persona si contraddice quando esprime opinioni diverse sullo stesso argomento. L’opinione A ben guardare, questa forma di contraddizione è comunissima ed è tipica dell’opinione che, semplicemente, cambia non essendo di per sé stabile come la verità. Questo tema nella filosofia greca è sviluppato a partire da Parmenide, che fa della opinione (doxa: →) una via di ricerca contrapposta alla via della verità. Su questa base il tema si sviluppa a lungo, assumendo un’importanza centrale nei sofisti che se ne servono per mostrare l’inconsistenza della pretesa di verità oggettiva della filosofia, essendo le opinioni tutte vere nel momento in cui sono espresse (se realmente corrispondono a una convinzione o a un vissuto interiore), ma non necessariamente dopo o prima, o per altri uomini, secondo il celebre principio di Protagora espresso dalla formula “L’uomo è la misura di tute le cose” (→). La contraddizione apparente: le possibilità del linguaggio e i caratteri della realtà Eraclito aveva però dato una diversa versione della contraddizione del discorso, facendone una sfida per l’intelletto, come se volesse svegliare le menti altrimenti “dormienti”, come quelle dei suoi concittadini. Nei suoi brevi aforismi contrappone discorsi (ad esempio, l’acqua del mare è vitale per i pesci e mortale per gli uomini) che sono solo apparentemente in contraddizione, perché i discorsi contrapposti non si riferiscono allo stesso oggetto. Nell’esempio del mare lo schema è: una stessa realtà (l’acqua del mare) è detta in due modi opposti (vitale e mortale) in riferimento a esseri viventi diversi (i pesci e l’uomo). Questo tipo di contraddizione propria del discorso è perfettamente compatibile con la verità, ed esprime non soltanto una delle possibilità del linguaggio, ma anche un carattere della realtà, che è fatta di enti, ma anche di eventi il cui “segno” dipende dai caratteri degli enti che vi sono implicati. Così per la lira, per cui Eraclito parla di armonia discordante: il linguaggio sottolinea una contraddizione apparente, cioè una opposizione di discorsi che appaiono inconciliabili, ma che sono in realtà perfettamente conciliabili ed anzi capaci di descrivere nella sua pienezza la realtà perché in effetti le corde della lira devono essere poste in tensione perché ne derivi l’armonia musicale. Questa intrinseca capacità della contraddizione linguistica di esprimere un tratto conflittuale della realtà è sfruttato a fondo da quei filosofi che hanno utilizzato l’aforisma per l’esposizione di temi filosofici (ad esempio, oltre ad Eraclito, anche Epicuro con le sue sentenze, Marco Aurelio, e altri). Il principio di non contraddizione Se invece la contraddizione linguistica si riferisce ad uno stesso oggetto, e due caratteri contrapposti e inconciliabili tra loro vengono predicati nello stesso senso e nello stesso momento, allora almeno uno dei due caratteri non può essere vero. L’uno infatti esclude l’altro. La prima formulazione di questo principio, senza che come tale venga però espressamente definito, è in Parmenide, che fa notare che ogni affermazione che implica l’esistenza del nulla è in sé contraddittoria perché il nulla non può esistere restando nulla (o, se si preferisce, la dizione “il nonessere è...” è logicamente contraddittoria). È poi stato Aristotele a formulare in modo esplicito questo principio in un celebre passo del IV libro della Metafisica: “È impossibile che uno stesso attributo appartenga e non appartenga ad una medesima cosa, nello stesso tempo e secondo lo stesso senso”. Contrari Nei primi filosofi naturalisti i contrari (in greco enantios) sono le forze della natura che, contrapponendosi e bilanciandosi, danno vita a tutti gli enti naturali. Il contesto è quello della concezione della natura come un insieme di forze in continua trasformazione, in cui la stabilità è solo un momento di un processo, a volte considerato ciclico, come in Anassimandro (almeno secondo alcuni interpreti) e in Empedocle. Poiché tra i contrari i filosofi naturalisti vedono equilibrio dinamico, questa nozione è connessa a quella di Dike (→), cioè di giustizia come equilibrio delle forze. Da un punto di vista logico le nozioni di contrario (enantios) e di opposto (antikeimenos, da anti, di fronte, e keimai, io sono posto) sono esaminate da Aristotele in Categorie, 10. Convenzione / Convenzionalista Benché i termini siano di origine latina (conventio è la riunione, ma anche l’accordo), i concetti di convenzione e di concezione convenzionalista sono comunemente presente nelle discussioni tra i filosofi greci, per affermarle o negarle, in relazione soprattutto - al linguaggio, nel contesto del problema dell’origine e della natura del linguaggio (la concezione convenzionalista sostiene che la base del linguaggio umano è l’accordo tra gli uomini storicamente affermatosi, generazione dopo generazione, sul significato delle parole e sulla loro organizzazione nella frase); - alla legge, nel contesto del problema del fondamento e dell’origine delle norme di tipo etico, economico, politico, e così via (la concezione convenzionalista della legge propone di considerarla frutto di accordo tra i cittadini, anch’esso storicamente determinatosi: quest’ultima nozione divenne importante nel contesto del rapporto Nomos/ Physis sollevato dai Sofisti). Oggi si parla in generale di convenzione tutte le volte che l’oggetto del discorso (il linguaggio, la legge o altro) è considerato non avere valore in sé né fondamento oggettivo nella realtà, ma solo nell’accordo, esplicito o tacito, tra gli uomini. Se la convenzione nasce in tempi lunghi e si prolunga generazione dopo generazione, è facile perdere coscienza del carattere convenzionalista dell’oggetto studiato e attribuirgli un valore o una realtà oggettiva che in sé non ha. Così scuole filosofiche come quelle materialiste, nonché la Sofistica e lo Scetticismo, hanno condotto un’opera di disvelamento della natura convenzionalista di molti dei tratti importanti delle regole che presiedono alla comunicazione e alla convivenza umana. Convincere / Convinzione È una delle finalità del discorso umano, studiata in termini diversi in tutta l’antichità. Il potere di convinzione del discorso sembra sia stato studiato con particolare attenzione in Sicilia alla metà del V secolo a.C. da Corace e Tisia, giuristi attivi in un periodo in cui, in conseguenza di cambi di regime politico nell’epoca della tirannia, si ebbero in Sicilia numerosi processi per ottenere la restituzione di beni confiscati. Probabilmente fu in questo contesto che Gorgia da Lentini si formò. Furono poi i sofisti dell’età di Gorgia e di Protagora i primi a porre le basi delle discipline della comunicazione che studiano le forme del discorso finalizzate a convincere, cioè a far passare dalla propria parte nei tribunali le giurie e nelle assemblee i cittadini al momento del voto. Platone pose al centro del suo interesse queste tecniche del discorso, da posizioni fortemente polemiche contro i sofisti. Aristotele codificò nei suoi libri sulla Retorica le regole della comunicazione verbale finalizzate ad esercitare un potere di convinzione. Si veda su questo punto la voce Retorica (→). Coraggio Il termine greco che traduciamo con coraggio è andreia, che originariamente era riferito alla arete (→) del guerriero, o meglio al tratto tipico dell’uomo (aner) che in quanto cittadino combatte quando serve e deve quindi essere coraggioso. Dopo il V secolo andreia passò sempre di più a indicare invece uno dei tratti interiori della arete. Il tema del coraggio è rilevante per l’etica antica perché pone in questione il ruolo della razionalità rispetto alle passioni: come deve comportarsi un uomo, in quanto essere razionale, di fronte a situazioni che implicano rischi anche gravi? Sono in gioco temi come la razionalità umana di fronte a situazioni complesse, ma anche temi come il senso della vita e della morte, della dignità personale, e così via. Platone affronta esplicitamente questo argomento nel IV Libro della Repubblica, dove il coraggio è definito come “l’opinione retta e conforme alla legge su ciò che si deve e su ciò che non si deve temere” (Repubblica, IV-430): si osservi che si tratta di una opinione, non di una conoscenza certa, e che in essa è implicata la polis e non solo l’individuo, come è evidente dal richiamo alla legge (un esempio tipico di atti di coraggio o di codardia premiati o sanzionati dalla legge è quello delle azioni militari in tempo di guerra, in cui il rischio della morte o di ferite gravi è sempre presente). C’è dunque sul tema del coraggio sia un aspetto etico che uno politico, nel contesto della ricerca della verità sulla arete. Aristotele riprende il tema del coraggio nel suo esame delle virtù etiche condotto nell’Etica Nicomachea (vi dedica i paragrafi 6-7 del Libro III), definendolo come il giusto mezzo (→) tra paura e temerarietà. In Aristotele è chiaro che questa virtù mette in valore la paura come passione nel considerarla un campanello d’allarme che non va sottovalutato, ma neppure amplificato: la paura va ascoltata ed esaminata con razionalità, fino a determinare in concreto, situazione per situazione (Aristotele si riferisce esplicitamente alla guerra), fino a che punto agire con coraggio non sfoci nell’eccesso della temerarietà, che è comportamento non conforme alla natura di un essere razionale, così come non lo è l’eccesso di paura. Il tema del coraggio è ripreso anche in età ellenistica, ad esempio da Epicuro che all’inizio della Lettera a Meneceo ricorda che i giovani hanno bisogno di coraggio per guardare al loro avvenire. Coribanti Sono figure del mito non presenti nella tradizione più antica, ma solo a partire dal VI secolo a.C. L’origine è frigia: i coribanti sono nove e formano il corteo di Cibele, dea anatolica della fecondità e della natura selvaggia (non lontana quindi da Dioniso). “Ai Coribanti era attribuita l’invenzione di un tipo particolare di musica orgiastica, accompagnata dal suono di strumenti a fiato e soprattutto del timpano, che produceva un effetto di stordimento e di estasi: era eseguita da danzatori armati che, nel parossismo della danza, si infliggevano a vicenda mutilazioni e ferite; fu praticata in Grecia e a Roma, e aveva valore di cerimonia purificatrice e di omaggio a Cibele” (Antichità classica 2000, p. 331) Corpo Il termine corpo (in greco soma) è riferito dalla filosofia antica a qualsiasi ente materiale che cada sotto i sensi, indipendentemente dalla sua composizione e dalla sua struttura. Aristotele ne dà una definizione che è generalmente accolta, perché riprende la tradizione ed è legata alla comune percezione delle cose: chiamiamo corpo “ciò che ha estensione in ogni direzione” (Fisica, III-5), cioè qualsiasi ente che abbia grandezza e quindi si estenda in altezza, larghezza e profondità. I problemi filosofici che riguardano i corpi in generale sono gli stessi problemi generali della fisica descritti nella voce Struttura della materia (→), alla quale rimandiamo: l’origine, la composizione, le leggi fisiche che ne governano le trasformazioni interne e il movimento nello spazio. Il corpo e la vita individuale e cosmica Una distinzione importante tra i corpi riguarda la vita: alcuni corpi sono viventi, altri appaiono privi di vita o perché non l’hanno mai avuta, o perché l’hanno perduta dopo essere stati viventi. I problemi filosofici su questi temi sono quelli della Vita (→), alla cui voce rimandiamo: innanzitutto l’identità stessa della vita (la risposta alla domanda “che cos’è?”), poi la sua origine e le leggi che la governano in relazione al processo che dalla generazione conduce alla corruzione. Né va dimenticato che diversi filosofi greci hanno concepito vivente, nella sua totalità, l’universo stesso: si veda, ad esempio la nozione di Anima del Mondo (→), in cui il Mondo è esso stesso considerato un unico corpo in cui tutte le parti sono collegate tra loro come in un organismo vivente. Il corpo e l’anima dell’uomo Un particolare corpo vivente – ma anch’esso a tutti gli effetti un corpo, sottoposto alle stessi leggi fisiche e biologiche di qualsiasi altro – è il corpo umano. Oltre alle questioni fisiche e biologiche generali, in specifico il tema filosofico del corpo per l’uomo rimanda al problema del suo rapporto con l’anima, che assume vari aspetti: - innanzitutto un aspetto che riguarda la struttura dell’uomo: qual è il rapporto tra il corpo e l’anima nell’uomo? come si passa dalle facoltà dell’uno alle facoltà dell’altra, e viceversa? - in secondo luogo un aspetto che riguarda la vita: quella del corpo è la stessa vita dell’anima? se sì, l’anima non può vivere senza il corpo, se no, sono possibili teorie sulla sopravvivenza dell’anima dopo la morte del corpo (si vedano le voci Anima e Immortalità: →); - in terzo luogo un aspetto che riguarda l’etica: poiché il corpo e l’anima hanno passioni specifiche, come deve essere organizzata la vita interna dell’uomo, nelle sue relazioni tra anima e corpo? quale gerarchia stabilire? Si osservi che quest’ultimo è un tema etico (coinvolgendo tutti i principali problemi di questa disciplina, quali la felicità, la libertà, il rapporto tra ragione e passione, e così via), ma anche politico, perché l’organizzazione della città è rivolta al benessere dei corpi così come delle anime, essendo l’uomo una unità inscindibile dei due elementi, per difficile che sia intendere filosoficamente questa unità. Va ricordato che la maniera abituale di pensare e di vivere dei Greci dava molto valore al corpo, a cui si dedicava grande attenzione: ad esempio con la frequenza abituale dei ginnasi, con l’esaltazione delle virtù sportive e della bellezza fisica. La concezione platonica del corpo come prigione dell’anima (espressa soprattutto nel Fedone, e anche nel Fedro in un contesto diverso, ma assente in altri dialoghi o addirittura contraddetta, come avviene nel Simposio) è sì legata ad antiche tradizioni (la tesi è presente nei Pitagorici e implicita nelle teorie della metempsicosi), ma non certo dominante nella cultura greca, né in quella filosofica né in quella espressa per noi dalle tradizioni letterarie e figurative. Corteo dionisiaco Nei riti dionisiaci (→) il corteo era una sorta di processione tumultuosa rituale i cui protagonisti, nel mito, erano Satiri (→), Menadi (→) e anche Ninfe (→), sicché nelle forme di culto storicamente attestate le donne che partecipavano ai cortei dionisiaci reali portavano maschere associate a queste figure. Quando si parla di corteo dionisiaco quindi ci si può riferire sia al mito e ai suoi racconti, in cui il dio Dioniso (→) è abitualmente accompagnato da queste figure, sia alla realtà storica, perché i riti officiati dalle città in epoca storica prevedevano specifici rituali che richiamavano i racconti mitici. Cos [Scuola di] Cos è un’isola delle Sporadi meridionali nei pressi della costa dell’Asia Minore, tra Cnido e Alicarnasso. Abitata da tempi remoti, fu un centro miceneo e poi dorico. In epoca arcaica e classica ebbe complessi rapporti con l’Impero Persiano e le due potenze rivali di Sparta e di Atene, e fece di tutto per mantenere la propria indipendenza. Qui sorse nel V secolo a.C. una celebre scuola medica, il cui più importante rappresentante fu Ippocrate, che rinnovò in senso razionalista le tradizioni mediche già presenti da tempo nell’isola. La Scuola di Cos si caratterizzò per un approccio razionale alla malattia e alle pratiche mediche, depurate dalle tradizioni religiose e dalle pratiche della medicina dei templi (vedi ad esempio la voce Incubazione: →). Il cosiddetto Corpus Hippocraticum è un insieme di scritti riferiti ad Ippocrate ma in realtà opera di molti medici della scuola, che hanno gettato le basi della medicina scientifica greca (gli scritti del Corpus vennero riuniti nel contesto del lavoro storico-filologico della Biblioteca di Alessandria (→), in età ellenistica). Va osservato che negli stessi decenni in cui nella Scuola di Cos operò Ippocrate (la seconda metà del V secolo a.C.) si andava diffondendo in Grecia il culto di Asclepio, con cui riprendeva forza la medicina a base non scientifica ma religiosa. Cosa Il termine è estremamente e volutamente generico, indicando non un elemento specifico della realtà, ma qualsiasi ente che abbia carattere di realtà o sia concepito poterlo avere. La parola italiana cosa traduce il latino res, senza però assumerne la connotazione di realtà sostanziale che il termine latino in qualche modo evoca (va ricordato che in contesti latini legati alla filosofia aristotelica res è spesso traducibile con sostanza). Coscienza Il termine coscienza (in greco synesis, o sueidesis) non ha nella filosofia greca lo stesso rilievo che ha in quella successiva (già a partire dall’età di Seneca, che utilizza il termine conscientia). “In filosofia è usato in due accezioni diverse, strettamente connesse tra loro: - designa la fonte del sentimento del bene e del male (coscienza morale) ed è quindi al centro della riflessione etica); - si riferisce all’interiorità dell’uomo, la sfera spirituale della vita, in quanto dotata di consapevolezza del mondo esterno e di sé (coscienza come sapere di sé e dell’altro), ed è quindi al centro di ogni riflessione sulla conoscenza. Il problema centrale è intendere la natura della coscienza, tema che apre a una costellazione di vie di ricerca: - poiché la coscienza appartiene alla nostra vita interiore ma è legata all’esteriorità delle cose, delle persone, delle relazioni, si tratta di comprendere come si legano interiorità ed esteriorità, mente e corpo, la sfera del mondo interiore e quella del mondo esterno; - poiché la coscienza non è sempre chiara a se stessa, si tratta di comprendere per quali vie possiamo meglio divenire consapevoli a noi stessi (il nostro io è un continente da noi stessi assai poco esplorato); - poiché nella coscienza troviamo le ragioni del bene e del male, la guida per l’azione, i principi spirituali che ci elevano rispetto al mondo dell’inorganico, si tratta di comprendere qual è la fonte (o le fonti) della nostra coscienza (Dio? la natura? o cosa?)” [Pancaldi 2006] Cosmo Questo termine (in greco kosmos) venne introdotto in ambienti pitagorici per indicare l’universo ordinato e governato da leggi immutabili di cui la Terra è parte. La parola kosmos significa di per sé ordine, e il termine venne applicato all’universo fisico proprio per la sua caratterizzazione ordinata (i Pitagorici sottolineavano l’aspetto matematico di questo ordine). Il concetto in realtà non è soltanto scientifico, né nella filosofia delle origini, né nella filosofia successiva (ad esempio in Platone o negli Stoici), perché l’ordine del cosmo veniva sentito come espressione di un superiore ordine divino (vedi Cieli: →). Soltanto alcune scuole hanno proposto una visione esclusivamente scientifica del cosmo, pur ammettendo che gli dèi ne facciano parte (così Aristotele ed Epicuro, ad esempio). Il Kosmos da alcune scuole veniva contrapposto per la sua perfezione alla disordinata esperienza umana. Così in Platone; ma non certo nei fisici, dai primi filosofi naturalisti ai pluralisti e ai materialisti, e neppure nello Stoicismo, tutte scuole che non riconoscevano alcuna differenza tra l’ordine del cosmo e l’ordine della realtà umana. Le tradizioni fondamentali sono quindi due nella filosofia greca: - chi separa l’ordine del cosmo e il disordine umano (Platone, con alle spalle varie tendenze della mitologia tradizionale greca e delle religioni dei misteri: →); - chi non riconosce alcun disordine (se non apparente) nel mondo umano e cerca le regole dell’ordine universale (quasi tutte le altre correnti del pensiero greco, neoplatonismo compreso), non necessariamente uguali per la Terra e i Cieli. Una posizione intermedia è quella di Aristotele, che riconosce la perfezione dei Cieli e il loro ordine eterno, ma non attribuisce la stessa caratteristica alla Terra e al mondo dell’uomo, che ha caratteri in parte ordinati, in parte disordinati, e quindi non perfettamente definibili in termini razionali (e infatti le discipline pratiche e poietiche non hanno lo stesso rigore teoretico). La nozione filosofica di cosmo va naturalmente contrapposta a quella poetica e mitica di caos (→), che nei miti cosmogonici assume la veste della pura potenzialità da cui tutto emerge. Cosmogonia È il racconto mitologico della formazione dell’universo. Il termine nasce da kosmos, che indica il mondo ordinato contrapposto al Caos originario, unito alla radice gen (o gon), che richiama la nascita (dalla stessa radice nascono il verbo italiano generare e il sostantivo generazione). Le cosmogonie greche sono quindi racconti mitologici sulla nascita del mondo ordinato, nella forma che conosciamo, a partire da qualcosa di diverso, come il Caos primordiale. Le cosmogonie implicano quindi anche le teogonie, cioè i racconti mitologici sulla nascita degli dèi, esse stesse abitualmente associate dalla religione greca, nelle sue varie tradizioni, alla natura. Oltre a quella celebre di Esiodo (si veda la voce Teogonia: →), ci sono state tramandate, o ne abbiamo notizie indirette, varie altre, tra cui una orfica. In nessuna cosmologia greca l’origine dell’universo dipende da un atto di creazione o prevede divinità preesistenti. Poiché poemi cosmogonici e racconti mitologici di questa natura erano diffusi da secoli (o, nel caso dell’Egitto e della Mesopotamia, millenni) nelle aree dell’Oriente con cui i Greci erano in contatto, le cosmogonie greche richiamano in molti punti tradizioni dell’Oriente, anche se in genere rivisitati con grande originalità. Cosmologia È lo studio scientifico del kosmos (→), cioè dell’universo fisico (vedi Astronomia: →). I problemi della cosmologia sono quelli relativi alla natura della Terra (→) e alla sua posizione nel cosmo, e quelli relativi ai Cieli (→), alle cui voci rimandiamo. Va sottolineato che questo studio scientifico – che mise capo nell’antichità all’opera di Tolomeo (→) che avrebbe poi dominato la scena fino al Seicento europeo, molto dopo l’opera di Copernico – attinse in Grecia a diverse tradizioni antichissime: - ai racconti cosmogonici dei primi poeti, che configuravano uno schema di interpretazione dell’universo in chiave religiosa che influì non poco anche sulle elaborazione scientifiche successive; - alle osservazioni astronomiche che i popoli orientali compivano da due millenni prima dei Greci. A parte gli aspetti propriamente scientifici della questione cosmologica, va sottolineato che la filosofia greca ha impostato la maggior parte dei problemi, di qualsiasi ordine e tipo essi siano, tenendo conto del loro posto nell’ottica del Tutto; anzi, la filosofia greca si caratterizza proprio, in gran parte, per questo legame tra il particolare di cui si parla e la sfera del cosmo, dell’universo ordinato di cui tutti siamo parte. Cosmopolitismo Il termine richiama le parole greche kosmos, qui nel senso di mondo, e polites, che significa cittadino. Fu Diogene il Cinico (→), a quanto sappiamo, a utilizzare per primo questo termine: a chi gli domandava quale fosse la sua patria rispondeva di essere “cittadino del mondo” (in greco kosmopolites). La nozione è complessa. Da un lato essere cittadini del mondo significava avere reciso il legame identitario con la propria polis, che per un uomo dell’età classica era invece uno dei tratti distintivi della persona; in questo senso il cosmopolitismo è proprio dell’età ellenistica in diretta contrapposizione con i secoli precedenti. C’era poi un significato più generale, sottolineato soprattutto dagli Stoici, che della nozione di cosmopolitismo fecero una sorta di bandiera a favore dell’umanità: non importa essere cittadini di una città o dell’altra, o essere schiavi o nobili, o Greci o Barbari; importa essere uomini ed essere riconosciuti dagli altri, come uomini, e alla propria umanità universale, quindi alla propria ragione, ispirare la propria vita. Costituzione Il termine greco che traduciamo con costituzione, politeia, ha un campo semantico in realtà più vasto: si veda in merito la voce Polites / Politeia (→). Se usato in senso ristretto, il termine indica semplicemente il complesso delle leggi che ciascuna polis si dava, indipendentemente dalle altre. Ci viene tramandato che Aristotele raccolse un gran numero di queste costituzioni, ma dell’intera raccolta a noi è giunta soltanto quella di Atene. Le leggi definivano innanzitutto il regime politico secondo cui era retta la polis, e quindi indicavano con leggi specifiche chi era da considerarsi cittadino e chi no, determinando per ciascuno specifici diritti e doveri. A partire da Platone, e poi soprattutto con Aristotele, si affermò una tripartizione delle forme costituzionali divenuta in seguito canonica: monarchia, aristocrazia, politia, a seconda che il potere sia concentrato nelle mani di uno solo (monarchia), oppure di una élite dirigente (aristocrazia) o da tutti coloro che nella polis sono in possesso dello status giuridico di cittadino (politia, che in questa classificazione aristotelica corrisponde alla forma di governo che oggi chiamiamo democrazia). Aristotele ha studiato le caratteristiche proprie di ciascun tipo di governo, mettendone in luce pregi e difetti. In particolare ha osservato che per ciascuno dei tre tipi esiste una forma costituzionale degenerata: la monarchia può degenerare in tirannia, l'aristocrazia in oligarchia e la politia in democrazia (oggi diremmo in demagogia), intesa negativamente come il governo della moltitudine, priva di effettiva capacità politica. Questa degenerazione si verifica quando i governanti - siano essi uno, pochi o molti - non svolgono la loro azione ponendosi come obiettivo il bene dello Stato, ma usano il loro potere per i loro interessi. Nella Politica così scrive: "La tirannide è infatti una monarchia che persegue l'interesse del monarca, l'oligarchia quello dei ricchi, la democrazia poi l'interesse dei poveri: al vantaggio della comunità non bada nessuna di queste". Crisippo Vedi Stoicismo Crizia Uomo politico, filosofo e poeta ateniese (460 circa – 403 a.C), era un aristocratico di tendenze oligarchiche radicali. Discepolo di Socrate, ma anche legato ai circoli sofisti attivi nell’Atene degli anni della Guerra del Peloponneso, fu implicato nel processo delle Erme (→) con Alcibiade nel 415 a.C. Al culmine della sua carriera politica fu uno dei capi più in vista dei Trenta Tiranni (→), e in qualche modo l’ispiratore delle politiche più repressive e filospartane. Morì nel 403 combattendo contro i democratici. Della sua vasta produzione – ha scritto opere filosofiche in prosa, elegie politiche, opere teatrali – rimangono soltanto scarsi frammenti (dalla tragedia Piritoo, dal dramma satiresco Sisifo, e da altre opere), improntati ad un forte radicalismo sofista. È quindi da considerarsi uno degli esponenti della seconda sofistica, cioè la sofistica radicale (→) che aveva abbandonato il moderatismo politico della prma generazione dei sofisti. Crono Nella mitologia greca Crono (Kronos) è uno degli dèi primordiali, e ha un ruolo essenziale nei miti cosmogonici: vedi Teogonia (→). Le origini del suo culto sono pre-elleniche, probabilmente anatoliche. A Roma venne identificato con Saturno. Cronografia / Cronologia La cronologia (da chronos, tempo, e logos, discorso) è la descrizione degli eventi nella loro successione nel tempo. I logografi e gli storici greci, ed anche altri studiosi, hanno cominciato a porre il problema della cronologia degli eventi storici a partire dal V secolo, utilizzando varie liste di cui si conosceva a periodicità come metro per fissarne la sequenza: intorno al IV secolo cominciò ad essere utilizzata la sequenza delle Olimpiadi (→). Il più antico testo pervenutoci che rispetti una rigorosa cronologia è il Marmo Pario (→). Chi pose il problema della cronologia in termini scientifici fu lo scienziato Eratostene di Cirene (→) nel III secolo a.C. in un’opera intitolata Cronografia (e cronografi in Grecia si dissero gli autori di questo genere di opere). Sulla base delle tradizioni storiografiche antiche e delle indicazioni della cronografia scientifica, lo storico Diodoro Siculo (→) nella sua Biblioteca storica propose una cronologia comparata tra la storia romana e quella greca, la prima fondata sulle liste dei consoli, la seconda sulla sequenza delle Olimpiadi e le liste degli arconti ateniesi. Dal punto di vista della storia della filosofia le questioni riguardanti la cronografia sono rilevanti per due ragioni, una teorica, l’altra pratica: - la questione teorica riguarda l’interpretazione del tempo che è legata alla logica della successione cronologica; su questo punto rimandiamo alla voce Tempo (→), ricordando qui soltanto che il processo di ordinamento della cronologia in sede storica fa parte di quel generale movimento del pensiero greco che tenta di porre ordine su qualsiasi aspetto della realtà (da questo punto di vista le questioni di cronografia non a caso sono viste in parallelo a quelle riguardanti la geografia (→) da studiosi come Eratostene, prima richiamato); - la questione pratica riguarda la cronologia della sequenza dei filosofi e delle scuole, che venne a poco a poco sviluppandosi soprattutto in ambienti alessandrini; la nozione stessa di storia della filosofia è legata anche a questo tipo di studi (vedi la voce Storia della filosofia: →). Crotone Crotone è una delle più antiche città della Magna Grecia, di cui tuttavia rimangono tracce archeologiche estremamente scarse, che non rendono ragione della potenza e della ricchezza che in alcuni momenti della sua storia la città raggiunse (il santuario di Era Lacinia a Capo Colonna, di cui resta assai poco, conservava pitture celebri in tutta l’Ellade, opera di Zeusi, e statue di oro massiccio). Venne fondata intorno al 710 a.C. da coloni per lo più Achei provenienti da varie località della Grecia e in tutta la sua storia dovette sempre combattere contro città nemiche per lo più greche esse stesse, come Sibari a nord e Locri a sud. Nel 510 a C. riuscì ad annientare Sibari, e divenne per alcuni decenni la città egemone della Magna Grecia. Fu in questo contesto di lotte per la supremazia che il ceto aristocratico di Crotone trasse vantaggio dalla presenza di Pitagora che nel corso del VI secolo a.C. visse in questa città e vi fondò la sua scuola. Furono poi le vicende politiche interne a determinare la ribellione contro la scuola. Il complesso di queste vicende non ebbe però seguito nei secoli successivi. La città non resse il confronto con l’espansionismo di Siracusa prima e di Roma dopo. Nel 194 a.C. l’antica potenza di Crotone era svanita, e anche l’antica consistenza demografica, se i Romani furono indotti a trarvi una loro colonia. Ctonio In greco la parola chthon indica la terra e il mondo sotto la terra e l’aggettivo ctonio significa quindi per lo più sotterraneo, riferito in genere a culti rivolti alle potenze degli Inferi e per i morti. Ctonio è anche, simbolicamente, il mondo delle piante, perché affondano le loro radici nella terra e sono quindi in qualche modo collegati con le potenze degli Inferi. Diversi miti collegati con la semina del grano nel terreno e la sua nascita come pianta dopo un periodo passato sottoterra sono connessi con culti di tipo ctonio. Culto eroico Vedi Eroi Cultura orale Non dobbiamo concepire la cultura orale soltanto come il periodo della storia dell’uomo precedente la scrittura. La ragione è questa, che l’oralità ha accompagnato l’uomo in tutta la sua storia, e di cultura orale si parla anche per i nostri giorni: nella storia la civiltà della scrittura (e oggi della multimedialità) ha accompagnato e non sostituito la cultura orale. Anzi, oggi si parla di nuova oralità in relazione al fatto che i mezzi audiovisivi, i telefoni cellulari e Internet integrano sì parola scritta, immagini e oralità, ma creano anche nuovi sviluppi per l’oralità stessa. Tuttavia nelle epoche della storia dell’uomo in cui non c’erano tecnologie della scrittura – o in cui c’erano ma venivano utilizzate soltanto per determinati e specifici scopi (ad esempio nel mondo Miceneo, dove la scrittura veniva utilizzata soprattutto per l’amministrazione della vita economia e militare dei Palazzi) – l’oralità aveva caratteri diversi da quelli che conosciamo oggi, perché doveva servire anche agli scopi per cui oggi utilizziamo la scrittura. Le culture orali dell’antichità ovviamente non ci sono note direttamente, ma soltanto attraverso, per così dire, lo specchio della scrittura e delle immagini (restituite dagli scavi archeologici) giunte sino a noi. Per esempio, non sappiamo con precisione come si siano formate nel contesto della cultura orale dell’epoca i canti che poi entrarono a comporre l’Iliade e l’Odissea, ma sappiamo molto dell’oralità dai due poemi stessi. Per esempio sappiamo che gli aedi (→) erano una corporazione di cantori che accompagnava col canto la poesia in determinate occasioni, perché questa situazione ci viene descritta nei due poemi. Uno dei tratti tipici dell’oralità è il fatto che le tradizioni possono tramandarsi soltanto attraverso la memoria. Poiché la poesia è più adatta della prosa alla memorizzazione, è alla poesia che vengono affidati i racconti di natura religiosa e sapienziale, nonché le tradizioni che educano le nuove generazioni e tramandano i valori del passato. Per questo si dice, con Platone, che i poeti sono stati i “maestri della Grecia”. Perché questo possa accadere, i racconti devono essere noti, spesso ripetuti davanti ad un pubblico o in privato, e costruiti sulla base di moduli che si ripetono costanti. Così, per esempio, gli epiteti che accompagnano in maniera costante gli eroi e gli dèi, servono a renderli riconoscibili (in Omero Achille è “piè veloce”, Afrodite è “dalle belle chiome”, Elena è “dalle bianche braccia”, e così via) e a favorire la memorizzazione. Questa maniera “formulare” di trasmettere le tradizioni consente di rinforzare le pratiche e i valori in cui la comunità si riconosce. A questo stesso mondo appartengono i detti e i proverbi, che si ripetono con moduli di tipo poetico anche nel corso della normale conversazione, utilizzando le rime. Nel campo della filosofia, l’oralità ha accompagnato la scrittura per tutta l’antichità. Anzi, è la scrittura ad avere in moltissimi casi accompagnato l’oralità, perché un numero elevatissimo di opere filosofiche sono state composte in seguito a pratiche di lavoro in comune. Nel caso di Platone, i suoi dialoghi (→) mimano l’oralità e ricostruiscono una sorta di “oralità scritta”, attraverso un raffinato procedimento letterario. Ma anche opere come quelle di Aristotele o di Plotino sono legate all’oralità, e più esattamente a varie forme di comunicazione tipiche delle loro pratiche di insegnamento. In ogni caso, nell’antichità la filosofia era innanzitutto una pratica comunitaria, sia che venissero utilizzate le tecniche della dialettica (→), sia che i metodi fossero altri. Non che manchino esempi di lavoro individuale e di scrittura slegata dall’oralità (ad esempio la trattatistica, di cui però ci rimangono i testi quasi esclusivamente per il mondo romano,. Ma il tratto distintivo della filosofia antica è la pratica in comune del discorso filosofico e della vita filosofica (vedi la voce Confilosofare: →). Deduzione Il termine moderno deduzione indica il passaggio da una verità universale nota a una verità particolare che è ricavabile dalla prima attraverso un ragionamento. Poiché è il sillogismo in Aristotele lo strumento tecnico per compiere una deduzione in maniera logicamente corretta, rimandiamo alla voce Sillogismo (→) per la concezione aristotelica della deduzione. Quella che oggi chiamiamo deduzione corrisponde al sillogismo aristotelico, e sylloghismos è in effetti il termine greco che traduciamo, a seconda del contesto, con deduzione o con sillogismo o con ragionamento. Va sottolineato che la deduzione è il procedimento inverso rispetto all’induzione (→), che consente il passaggio da conoscenze particolari a conoscenze universali. Dèi / Divino A proposito degli dèi greci e del divino uno dei massimi studiosi francesi della religione ellenica scrive così: “L’uomo greco impiega alternativamente le parole dio, dèi, divino, o demone, demonico, all’interno della stessa frase come se si trattasse di vocaboli per lui molto simili, se non sinonimi. Personalmente, non so che cosa siano gli dèi o il divino. Le parole dei Greci sono per me un dato di fatto; e gli dèi – di cui essi sentono la presenza o l’intervento - sono un dato di fatto per loro” (Rudhardt 1986, p. 13). In effetti nella religione greca non c’era alcuna teologia fissata una volta per tutte, così come non c’era una vera e propria casta sacerdotale (vedi la voce Diotima →). C’erano soltanto i racconti dei poeti che fissavano nei canti le tradizioni orali antiche e ne proponevano di nuove, in genere come varianti delle esistenti. Ma nessun greco a quanto pare sentiva il bisogno di una teologia che definisse dogmaticamente una serie di articoli di fede: gli dèi erano esseri superiori all’umano di cui si avvertiva la presenza in natura, perché qualsiasi evento naturale era riportato, in un modo o nell’altro, all’azione della sfera del divino. In nessun modo si trattava di presenze soprannaturali: gli dèi si identificavano con la natura al punto che il cielo è Urano, se una persona si innamora in lei è presente Afrodite, nella tempesta c’è l’azione diretta di Poseidone, e nel fulmine quella di Zeus. E così via. La sfera del divino e quella dell’umano sono entrambe naturali: fino all’età degli eroi (l’epoca dei poemi omerici) le due sfere si incontravano spesso e gli eroi erano in contatto con gli dèi e le dee, e non erano rari i casi di amori da cui nascevano comuni mortali (come Enea, figlio del troiano Anchise e della dea Afrodite). Nelle età successive questo rapporto si affievolisce e diventa meno diretto, più mediato dai sacrifici e dai riti. Accanto alle divinità propriamente dette, la mitologia conosce anche una vastissima schiera di esseri di natura divina (ad esempio Satiri, Menadi, Ninfe, Demoni, e così via) legati in genere a un particolare dio di cui formano la corte o con cui sono in più stretto rapporto. Delio Questa località della Beozia, al confine con l’Attica, era così chiamata perché vi era un importante tempio dedicato ad Apollo Delio. Qui si combatté una battaglia nei primi anni della Guerra del Peloponneso: era il 424 a.C. e gli Ateniesi comandati da Ippocrate furono sconfitti dai Beoti comandati da Pagonda. Delfi Città della Grecia sul versante meridionale del monte Parnaso, nella Focide, Delfi era uno dei luoghi sacri più importanti dell’intero mondo ellenico perché vi sorgeva un antichissimo santuario che in età arcaica era sede di un oracolo di Apollo. La zona era caratterizzata da frequenti movimenti tellurici, da varie fonti che sgorgavano dal terreno (la più nota è la fonte Castalia) e da esalazioni che lasciavano pensare ad attività ctonie (→), in qualche modo connesse con la presenza del sacro. A entrare in trance e a ricevere l’oracolo del dio era una donna, la Pizia. Ma ad interpretare gli oracoli e a consegnarli a chi si era rivolto al santuario erano i sacerdoti, e la forma del responso era poetica, oscura, e spesso di ambigua lettura. A Delfi si rivolgevano i singoli, ma anche le città prima di una guerra o prima della fondazione di una nuova colonia, o per averne l’approvazione alle proprie leggi, o per altre ragioni. In tutta l’età della colonizzazione Delfi ebbe un ruolo importante nel guidare questo impetuoso movimento migratorio, protrattosi per secoli. Va precisato che a partire dall’età arcaica, e soprattutto in età classica, il santuario di Delfi acquisì carattere panellenico e quindi, per così dire, al di sopra delle parti. Aveva però una caratterizzazione di tipo aristocratico e conservatore. Quanto alla guida del processo di colonizzazione, va ricordato che il dio a cui ci si rivolgeva era chiamato Apollo archegeta, termine che possiamo rendere con l’espressione colui che presiede alle fondazioni. Demagogia / Demagogo Composto dal sostantivo demos (popolo) e dal verbo ago (guido), il termine demagogo nella tradizione greca si riferisce a qualsiasi uomo politico, o semplicemente oratore di fronte all’Assemblea dei cittadini, che sappia guidare il popolo, cioè convincerlo indirizzandone la volontà politica. Di per sé, quindi, la dizione non ha alcun carattere spregiativo. Ma Aristotele indicò nei demagoghi i responsabili della degenerazione della democrazia che, divenuta demagogia, entra in crisi e muore a favore di altri regimi come l’oligarchia e la tirannide. Per l’insieme delle forme di governo si veda la voce Costituzione (→). Demetra Dea della terra, la sua figura è ben distinta da quella di Gaia, la Terra-Madre primordiale. Demetra è piuttosto associata al ciclo delle stagioni che garantiscono la fertilità della terra, e in particolare è associata al grano, che viene seminato in autunno e rimane a lungo sotto terra prima di riemergere come spiga e dare il suo frutto. Questo movimento ciclico delle stagioni e della fertilità è simboleggiato dal mito che lega Demetra alla figlia Persefone. Quest’ultima mentre raccoglieva un narciso o un giglio venne rapita nelle profondità della terra e trascinata da Ade negli Inferi. Divenne sua sposa, senza che mai la madre accettasse la perdita della figlia. Demetra la cercò invano per giorni e notti, finché non le fu rivelata la verità. Decise allora di abdicare al suo ruolo divino e di vivere sulla terra, abbandonate le case degli dèi sull’Olimpo. Ma questo significava l’infertilità del suolo, e Zeus dovette intervenire. Si giunse a un compromesso: Persefone sarebbe rimasta dall’autunno all’inverno presso gli Inferi, come divinità moglie di Ade; sarebbe invece tornata presso la madre tutte le primavere, nuovamente dea dell’Olimpo. Il culto di Demetra aveva il suo centro ad Eleusi (→) e in Sicilia, e i simboli di questa dea erano la spiga di grano, il narciso, il papavero. Demiurgo Il termine demiourgos in greco indica l’artigiano (i latini traducono faber). Nel mito cosmologico narrato da Platone nel Timeo il Demiurgo è il dio-artigiano che ha plasmato il mondo forgiando la materia amorfa preesistente sulla base del modello offerto dalle idee (vedi la voce Modello: →). Non è un creatore, perché il suo ruolo è quello di plasmare la chora (vedi la voce Materia: →) dandole una forma. Il suo ruolo è quello di un artigiano dotato di piena intelligenza delle idee, che agisce con consapevolezza avendo del tutto chiaro il fine ultimo che è la realizzazione, nei limiti del possibile, dell’idea di Bene nel mondo sensibile (cioè nell’universo fisico). È gerarchicamente superiore all’Anima del Mondo e alle altre anime perché esse nascono a causa della sua attività plasmatrice dell’universo. Ha quindi un ruolo intermedio tra la sfera del sensibile e quella dell’intelligibile, tra l’universo fisico nel tempo e la sfera eterna delle Idee. Quello platonico del Timeo è tuttavia un racconto, un mito. Non è una teoria filosofica elaborata attraverso argomentazioni, e la sua concezione del Demiurgo non è quindi direttamente paragonabile ad altre concezioni filosofiche del divino (ad esempio il Dio di Aristotele). Di fatto mentre altre parti dello stesso mito ebbero maggior fortuna (ad esempio la teoria dei solidi regolari: →), la figura del Demiurgo non ebbe grande seguito. Ripresa negli ambienti del platonismo dei primi secoli dell’era cristiana, non ebbe però un ruolo nel neoplatonismo da Plotino in avanti. Democrazia Composto da demos (popolo) e kratos (potere), il termine democrazia (demokratia) può essere inteso in vari modi connettendo le parole popolo e potere: ad esempio la democrazia può essere definita come potere del popolo, cioè esercitato dal popolo o in nome del popolo (le due cose possono essere quasi del tutto diverse) oppure può essere definita come potere esercitato a vantaggio del popolo. Oggi intorno al termine democrazia un’intera letteratura ne discute i caratteri. Per i Greci le cose erano più semplici: democrazia era uno dei tipi di costituzione che si affermarono nella Grecia al passaggio tra l’età acaica e quella classica, in particolar modo ad Atene, il cui modello costituzionale democratico del V e IV secolo a.C. è per noi un po’ il paradigma della democrazia antica (anche perché è quello che conosciamo meglio). Quel che caratterizzava la democrazia ateniese era il fatto che il cuore del potere politico (ma anche giudiziario) era l’Assemblea (→) dei cittadini, e cioè degli Ateniesi maschi, adulti, nati da persone che a loro volta erano cittadini. Oggi per un sistema di questo tipo parliamo di democrazia diretta per distinguerla dalla nostra democrazia rappresentativa, che i Greci non conoscevano: il potere veniva esercitato infatti di persona dai cittadini attraverso la partecipazione ai lavori dell’Assemblea e degli altri organi costituzionali. Nel nostro sistema, invece, il potere reale è nelle mani di rappresentanti eletti dai cittadini (da qui la dizione democrazia rappresentativa). Al termine della vita realmente indipendente delle poleis greche, quando ormai la loro identità politica indipendente era compromessa per la dominazione macedone, Aristotele identificò la democrazia come potere di tutti in contrapposizione al potere di uno (monarchia: →)) o di pochi (oligarchia: →), proponendo una classificazione che divenne poi canonica. Ciascuno di questi regimi politici aveva una propria possibile degenerazione, e per la democrazia Aristotele propose quella che oggi chiamiamo demagogia (→). Naturalmente la vita politica e giudiziaria di una polis delle dimensioni di Atene prevedeva una complessa articolazione di organi e vari tipi di controlli e di bilanciamento dei poteri tra i vari organi (fermo restando il principio che, in ultimo, il potere reale era nelle mani dell’Assemblea). Demone Nei racconti del mito il demone (in greco daimon) è un essere afferente alla sfera del divino che in qualche modo interferisce nelle vicende dell’uomo, positivamente o negativamente. Così in Omero e in Esiodo sono detti demoni le forze divine “dispensatrici” di destino per gli uomini. Nelle religioni dei misteri, da quel che traspare dalle poche testimonianze sicure (tutte non molto antiche), l’anima stessa dell’uomo è un demone di natura vicina a quella divina che si incarna nel ciclo delle vite e delle purificazioni (vedi Metempsicosi: →). Il tema ritorna in Platone, che in due punti importanti della sua opera cita i demoni (nel contesto di discorsi affini a quelli del mito, ma con significato filosofico): - nell’Apologia Socrate parla di un demone che è solito fermarlo quando sta per dire qualcosa di sbagliato o sta per commettere o subire un male (una sorta di voce della coscienza, dunque); - nel Simposio Eros è detto demone, cioè un essere intermedio tra l’umano e il divino, mediatore tra la sfera della vita terrena e quella superiore e divina a cui l’anima anela. Come si vede, al termine demone non è connessa un’immagine negativa. Ma nel folklore, cioè nei racconti popolari, sappiamo che esistevano già in età arcaica racconti su demoni pericolosi, o terrificanti, o legati al mondo dei morti con influenza negativa sull’uomo. E a mano a mano che si va verso l’età ellenistica la connotazione demonica tende a diventare negativa. Tuttavia nello Stoicismo e in Plotino compare l’idea che esistano esseri con affetti e sentimenti non troppo dissimili da quelli umani (Plotino li descrive dotati di corpi aerei e ignei). In molte tombe etrusche e, in parallelo, di varie altre civiltà i demoni sono rappresentati come guide delle anime dei morti. E in generale la sfera dei demoni è intermedia e mediatrice tra l’umano e il divino, tra la vita e la realtà dell’oltretomba. Demonico L’aggettivo demonico rimanda a demone (→), ma è riferito a persone, non a demoni. Ad esempio Alcibiade chiama demonico Socrate nel suo discorso che chiude il Simposio platonico (Simposio, 219). Il senso è questo: ci sono persone che hanno qualcosa di diverso e non dominabile, esercitano un fascino e un influsso magnetico, al di fuori della norma. È come se un demone agisse in loro, o come se essi stessi fossero dei demoni. La sfera del demonico è quindi una esperienza reale, concreta: descrive particolari stati di innamoramento, o di fascinazione, o di esaltazione di tipo erotico o d’altra natura. Demos Traduciamo abitualmente questo termine con popolo, ma il significato è in realtà più ristretto: demos è sì il popolo, ma intendendo con questo termine soltanto l’insieme dei cittadini aventi diritti politici (quindi maschi, adulti, nati da cittadini a loro volta con diritti politici). Nella storia greca è costante il conflitto con gli aristoi (→), conflitto che ha determinato il sorgere di diversi tipi di costituzione. Va ricordato anche un altro significato del termine, che abitualmente è indicato dall’italiano demo: il greco demos indica infatti non soltanto il popolo, ma anche i luoghi in cui esso abita; così demi sono detti i villaggi, o le comunità locali. Nella costituzione democratica ateniese i demi sono le articolazioni territoriali di base dell’organizzazione politica, e ciascun cittadino è associato ad un demo. Definizione Il problema della definizione (in greco horismos) come strumento discorsivo il cui scopo è la comprensione di un termine o l’identificazione della natura di un ente nasce in modo esplicito in ambiente sofista, nel contesto della loro filosofia del linguaggio. Ad esempio è nel contesto di questo genere di studi che va inquadrato il lavoro di Prodico (→) sui sinonimi. Nella dialettica socratica quello della ricerca di una precisa definizione è una preoccupazione costante, espressa dalle domande ricorrenti “che cos’è?”, oppure “che cosa intendi per…?” e così via. Il problema viene specificato da Platone con diverse strategie, e la dialettica diairetica (→) presentata nel Sofista è uno dei modi per la soluzione. Dare una definizione di un termine riferito ad una sostanza significa per Aristotele esaminarne le cause e identificarne l’essenza, cioè gli elementi costitutivi. Più esattamente, una corretta definizione di un ente ne individua il genere prossimo e la differenza specifica (→). Demostene Uomo politico di primo piano ad Atene e oratore greco tra i massimi dell’antichità, Demostene nacque ad Atene nel 384 a.C. e si guadagnò da vivere nei primi anni come logografo, per poi impegnarsi nella politica attiva per tutta la sua vita. Ad Atene divenne il capo del partito antimacedone, e condusse dure battaglie politiche contro il partito macedone, vincendole sul piano della politica interna. Benché Demostene abbia svolto un’intensa attività diplomatica, coronata da notevoli successi, nel tentativo di contrastare la potenza macedone, alla fine questa scelta politica risultò perdente: Atene e l’intera Grecia non riuscirono di fatto a contrapporsi in modo efficace alla Macedonia di Filippo II che con la battaglia di Cheronea del 338 a.C. riuscì a imporsi, anche se la resistenza organizzata rapidamente riuscì a salvare l’Attica e Atene dall’invasione. Mantenuto nell’ombra il suo ruolo antimacedone negli anni di Alessandro Magno, alla sua morte fu Demostene a organizzare la ripresa delle ostilità in senso antimacedone, ma la guerra che ne seguì non ottenne gli esiti sperati. Nel 322 a.C per sfuggire ai sicari macedoni si suicidò presso il tempio di Poseidone nell’isola di Calauria. Grandissimo oratore, di lui restano memorabili orazioni politiche (ad esempio le Filippiche). Desiderio La parola greca per desiderio è epythimia, la cui radice è la stessa di thymos, cioè il cuore, l’organo della vita e dell’appetire. I problemi filosofici I problemi connessi a questa nozione sono di due generi distinti: - problemi sulla natura dei desideri e sulla loro origine: qual è la loro origine nel corpo e nell’anima? perché desideriamo? che cosa accade nel nostro corpo e nella nostra anima se li respingiamo o se li assecondiamo? è possibile tracciare una classificazione ordinata delle tipologie dei desideri? - problemi sul modo di comportarsi rispetto ai desideri: esaminando il problema con razionalità, i desideri vanno soddisfatti? in quali casi? quali criteri un essere razionale come l’uomo utilizza per scegliere comportamenti eticamente corretti rispetto ai propri desideri? quali conseguenze per sé e per gli altri ha la scelta di soddisfare o di non soddisfare i desideri? Le discipline filosofiche interessate all’elaborazione di una teoria del desiderio sono quindi almeno due: la fisica e la disciplina che studia l’identità dell’anima, perché è nella base fisica dell’uomo che va cercata la radice del desiderare così come nella identità della sua anima; e l’etica, perché un essere razionale come l’uomo non può non prendere razionalmente posizione sui propri desideri, e scegliere di conseguenza. Le teorie Nella filosofia greca qualsiasi riflessione di tipo etico ha affrontato i problemi legati alla nozione di desiderio. Ferma restando una costante – cioè l’indicazione di procedere con razionalità – le scuole filosofiche greche hanno fornito un vasto campionario di teorie in risposta ai problemi posti. Platone ha indicato nelle specifiche facoltà dell’anima la radice del desiderio, in particolare nell’anima concupiscibile (→), che è a tutti gli effetti un’anima desiderante, ed anche in modo per lo più eccessivo. Va tenuta a freno. Una specifica analisi è condotta nel Simposio, soprattutto nel discorso di Socrate-Diotima (→), in cui il desiderio è considerato figlio della mancanza: si desidera ciò che non si possiede, e quindi il desiderio è, innanzitutto, desiderio di possesso (in qualche modo è desiderio di completamento della propria identità: si veda il discorso di Aristofane: →). In Aristotele la nozione di desiderio si lega a quella di appetito (orexis), nel senso che l’anima dell’uomo è mossa da ciò che è appetibile: in quanto tale, l’anima lo desidera (l’analisi è svolta nel dettaglio in Sull’anima, 3-10). Una analisi specifica della nozione di desiderio è anche in Epicuro, che nella Lettera a Meneceo ne elenca tipologie nettamente diverse tra loro, per ciascuna delle quali è eticamente corretto compiere scelte specifiche e appropriate. Si devono dunque distinguere - i desideri naturali e necessari, che vanno soddisfatti (ed è per lo più facile farlo) perché corrispondono a precise esigenze del nostro corpo e della nostra anima, per natura; di questo tipo sono ad esempio la fame e la sete; - i desideri naturali, ma non necessari, cioè quelli che dipendono dalla natura, ma non soddisfarli non porta alcun male: ad esempio il mangiare cose che ci piacciono piuttosto che cibi che non ci piacciono, ma sono egualmente utili al benessere del corpo; l’indicazione di Epicuro è di soddisfarli solo se il calcolo degli utili (→) è favorevole, cioè se i vantaggi che si ottengono nel soddisfarli sono superiori agli svantaggi; l’intera sfera dell’eros rientra in questa tipologia; - i desideri vani, cioè quelli che non sono naturali ma sono indotti dalla società o da abitudini; il consiglio di Epicuro è di non soddisfarli, ma di abituarsi a non desiderare affatto ciò che non è utile al corpo o all’anima. Questa complessa teoria dei desideri è caratteristica dell’etica epicurea, che si presenta come una filosofia che ha di mira l’indicazione di precise condotte di vita. Destino / Fato La nozione tradizionale greca di destino o di fato (in greco heimarmene) è espressa dalla figura mitica della Moira (→). Il tema è stato trattato con grande profondità dai poeti: ad esempio è centrale in molti passaggi dell’Iliade e dell’Odissea, ed è oggetto specifico di riflessione nei poeti tragici, perché l’eroe sulla scena spesso è rappresentato combattere contro il destino, pur sapendo che non ha possibilità di successo. In filosofia il tema percorre un po’ tutta la filosofia dell’età arcaica e classica, in parallelo alla riflessione poetica, e diviene oggetto di un dibattito tecnicamente molto complesso presso le scuole ellenistiche, perché l’Epicureismo esplicitamente lo nega, e lo Stoicismo esplicitamente lo afferma. Le ragioni della negazione epicurea riposano sulla concezione fisica dell’universo: in un mondo in cui il movimento degli atomi, sia pur raramente, è casuale (vedi la voce Clinamen: →) non può esserci un destino ineluttabile e necessario iscritto nella natura e nella vita dell’uomo. Il futuro non è prevedibile rispetto al passato perché tra passato e futuro può intervenire il caso. Gli Stoici invece concepiscono l’universo regolato con perfetta razionalità dal Logos, escludono che ci sia alcuna forma di causalità e ritengono che la posizione di ciascun ente nel cosmo, uomo compreso, sia esattamente quella che la razionalità universale impone. Dunque la vita di ogni ente, uomo compreso, è regolata dal destino, la cui nozione, in definitiva, coincide con quella di provvidenza (→). Il saggio accetta la propria posizione nel cosmo proprio perché la comprende razionalmente, per quanto i dettagli possano sfuggirgli. Va sottolineato che lo Stoicismo non ha assunto però una posizione fatalista: il fato non è infatti visto come un imperscrutabile ordine del mondo che assegna a ciascuno dall’esterno la sua sorte, per alcuni fortunata per altri sfortunata (vedi la voce Fortuna: →), ma come l’espressione stessa della razionale necessità naturale alla quale l’uomo dà il proprio contributo. A chi polemizzava contro questa nozione stoica dicendo che, di fronte ad una malattia grave non avrebbe senso chiamare un medico, perché se è destino che l’uomo guarisca guarirà, altrimenti morirà, gli Stoici antichi rispondevano che il destino si attua anche chiamando il medico, perché questa scelta dell’uomo entra nel gioco degli eventi. Deucalione e Pirra A queste due figure della mitologia greca è legata una delle molte narrazioni sul diluvio universale. Deucalione è figlio di Prometeo e Pirra è figlia di Epimeteo, fratello di Prometeo, e della sua sposa Pandora. Deucalione e Pirra, divenuti sposi, avevano fama presso gli dèi di essere persone che ispiravano a giustizia la loro vita, in un mondo di persone molto corrotte. A causa di questa corruzione Zeus decise di distruggere tutto il genere umano tranne loro due. Prometeo consigliò loro di costruire una grande cassa che potesse galleggiare sulle acque, sicché quando Zeus fece piovere per nove giorni e nove notti, e le acque salirono uccidendo tutti, e del genere umano solo Deucalione e Pirra poterono salvarsi. Terminato il diluvio, Zeus inviò loro Ermes perché esprimessero un desiderio da esaudire. Essi chiesero che il mondo fosse ripopolato da uomini, e Zeus ordinò loro di gettare dietro le spalle le ossa della loro madre. L’ordine appariva quasi sacrilego, ma Deucalione ebbe un’intuizione: Zeus si riferiva alle ossa della Madre Terra, cioè alle pietre, e quindi entrambi presero a gettare delle pietre dietro le loro spalle. Così il genere umano rinacque e la Terra fu nuovamente popolata: dalle pietre gettate da Deucalione nascevano maschi, da quelle gettate da Pirra nascevano le donne. Così la loro discendenza fu molto grande. Diade La diade, in greco dyas (duo è il numero due), è la realtà duale, scissa: il termine esprime quindi il principio della differenza già a partire dalla tradizione pitagorica, che trova un eco nelle dottrine non scritte di Platone, in cui la diade è il principio della separatezza e quindi, implicitamente, del male. Questa nozione diviene filosoficamente centrale nel neoplatonismo, perché Plotino la attribuisce alla seconda ipostasi, l’Intelletto, che è quella forma del pensiero eterno dell’Uno in cui l’identità dell’Uno con sé cede il posto alla differenza nel pensiero tra il pensare e il pensato, e quindi a quella relazione tra soggetto e oggetto che è tipica della coscienza (è per questa sua natura scissa, diadica, che la coscienza ha difficoltà a tornare alla radice dell’Essere nell’Uno, e l’anima deve intraprendere una lunga via di ricerca per raggiungere l’estasi). Diadochi Il termine significa successori, e si riferisce ai generali di Alessandro Magno (morto nel 323 a.C.) che gli succedettero nell’impero, combattendo tra loro per dividersene le spoglie. L’età dei diadochi va dalla morte di Alessandro Magno, avvenuta nel 323 a.C., allo stabilizzarsi delle realtà politico-territoriali emerse dalle loro lotte: dopo il 281 a.C, dall’impero unitario di Alessandro erano emersi tre regni: quello degli Antigonidi con al centro la Macedonia, quello dei Tolomei d’Egitto, quello dei Seleucidi in Asia. La generazione dei successori dei diadochi, con cui la situaizone politica si stabilizzò fino alla conquista romana (tra il II e il I secolo a.C. a seconda delle zone), venne indicata già dalla storiografia antica con il termine epigoni, che significa discendenti. Dialettica Il termine deriva dalle parole greche dia, che significa tra, e logos che significa (in questo caso) discorso. Il verbo lego significa io dico, parlo, e dialegomai significa discuto. Già gli antichi osservavano che il termine dialettica (dialektike) non è usato dai filosofi greci con lo stesso significato. Come per molti altri termini filosofici, tuttavia, questi diversi usi hanno delle connessioni tra loro, sicché, se non è possibile una definizione univoca della dialettica, è però possibile una storia della dialettica: è possibile cioè seguire i diversi usi che i filosofi hanno dato a questo termine nel contesto generale della loro filosofia studiando le ragioni di quella particolare accezione e la linea di derivazione di quel particolare uso. Oggi si è soliti distinguere tre diversi usi generali del termine dialettica nella filosofia antica: - un uso retorico: la dialettica come tecnica di argomentazione e quindi metodo di persuasione (come è in Zenone e nei Sofisti) o anche soltanto di esposizione filosofica (come è in molti dialoghi platonici in cui si chiede ad un filosofo se preferisce esporre le sue idee dialogando o mediante un discorso continuo); - un uso filosofico soggettivo o intersoggettivo: la dialettica come tecnica del dialogo che consente attraverso procedure rigorose (diverse da filosofo a filosofo, molte e complesse in Platone) la definizione di metodi di ricerca e di pratiche di esercizi filosofici; - un uso filosofico oggettivo: la dialettica come forma del pensiero, studio della articolazione delle idee nella loro unità e nelle loro distinzioni reali, e dunque non solo metodo, ma scienza (quale sia in concreto questa scienza, e quindi quale sia la dialettica reale delle idee, dipende dalle posizioni filosofiche delle varie scuole). In quest'ultimo uso, la dialettica tende a identificarsi con la filosofia stessa, ed anzi esplicitamente in diversi passi di Platone e degli Stoici il termine dialettica è solo un altro modo per dire filosofia come scienza del pensiero e dell'essere (qualunque sia il metodo utilizzato per ottenere questa scienza e per esporla) e dialettico è detto il filosofo in quanto conduce una vita di ricerca e di contemplazione della verità. Un tratto è comune ai diversi usi: la dialettica è sempre connessa ad una certa immagine della filosofia ed è correlata allo stile di vita filosofica e alle convinzioni profonde su chi sia in realtà il filosofo, sulla sua identità. Sicché una storia della dialettica antica è inevitabilmente anche una storia dell'immagine di sé che i filosofi hanno avuto e una storia degli stili di vita che ciascun filosofo e ciascuna scuola propongono. Dialettica diairetica Il termine diairesis, che rendiamo con diairesi, o dialettica diairetica, indica una modalità specifica di ragionamento dialettico che Platone descrive nel Fedro e di cui dà almeno un esempio specifico nel Sofista. Consiste nel partire da una idea generale e giungere a definizioni specifiche ricavate da essa attraverso un processo molto articolato di successive suddivisioni, ad albero: data un’idea, si enunciano due suoi caratteri; di ciascuno di essi se ne enunciano due più specifici, e così via fino alla precisa identificazione della definizione voluta, non più di una idea generale, ma di una realtà particolare. Il movimento dialettico discendente – dall’universale al particolare – così descritto è parte del più complesso movimento dialettico di unificazione e distinzione (→) che consente la effettiva presa della mente sulla realtà (delle idee come delle cose). Dialetti e lingua panellenica Vedi Greco Dialogo / Dialogo platonico È, letteralmente, il discorso che si svolge tra due persone (in greco dia significa tra e logos qui va inteso come discorso). Per gli aspetti filosofici del termine e il campo problematico in cui questi devono essere esaminati rimandiamo alla voce Dialettica (→). Dialogo però è anche un genere letterario tipico, anche se non esclusivo, della filosofia che si è imposto a partire da Platone come uno dei principali modelli di scrittura filosofica. Il dialogo, fissato una volta per tutte da Platone, appartiene a quei generi letterari che alla loro prima apparizione risplendono nella pienezza della loro maturità, come è accaduto nel mondo greco anche con l'epica. Ma l'Iliade e l'Odissea hanno alle loro spalle secoli di tradizioni orali e una riconosciuta e rispettata corporazione di aedi che hanno saputo mantenere per generazioni la propria identità. I dialoghi platonici cos'hanno alle spalle? Nulla di secolare e di così strutturato: hanno alle spalle la dialettica socratica e il modello filosofico sofista, i discorsi politici e giudiziari, la retorica molto ben studiata del tempo, il teatro, i mimi, la concreta esperienza della ricerca filosofica mai solitaria, il lavorio continuo della dialettica come metodo di ricerca effettivamente utilizzato, le tradizioni dei racconti. È molto e allo stesso tempo poco. Molto, perché ciascuno di questi elementi spiega in effetti questo o quel carattere della forma letteraria del dialogo platonico; poco perché il dialogo al suo apparire è già maturo. La storia interna al genere è per noi tutta storia della produzione platonica, e non si può oggettivamente sostenere che i primi dialoghi non siano già maturi nella loro forma e nella sicurezza della costruzione (ad esempio uno dei capolavori platonici sia dal punto letterario che filosofico è il Protagora, che è quasi unanimemente considerato precedente ai dialoghi della maturità). È necessario tenere presente che, dal punto di vista filosofico, i dialoghi platonici sono innanzitutto una forma di comunicazione. Infatti, mentre della dialettica socratica - come poi di quella platonica e di quella aristotelica - è possibile dire che si tratta di un metodo della ricerca filosofica, della forma scritta che la dialettica assume non si può sostenere lo stesso. Anche se, certo, un elemento della ricerca permane anche nella scrittura: la dialettica non può operare senza il mezzo della comunicazione e non possiamo pensare che la scrittura dei dialoghi - che deve avere impegnato Platone per anni e anni, e con continuità, qualunque sia stato il metodo seguito nella composizione - sia soltanto la registrazione di una ricerca svolta, in comunità o individualmente. Comunque, più di un rapporto tra la scrittura e la ricerca dialettica dovette esserci presso l'Accademia: - perché la scrittura dovette implicare una rielaborazione personale e individuale del lavoro dialettico effettivamente svolto (e in questo senso la riflessione platonica non ha caratteri diversi da altre forme di riflessione indipendenti dalla dialettica che troviamo in altri filosofi); - perché i dialoghi platonici non poterono non essere uno degli strumenti per la comunicazione interna alla comunità dell'Accademia, che conduceva dialetticamente (non c'è però ragione di pensare che non fossero praticati altri metodi in connessione diretta o indiretta con la dialettica) le sue ricerche. Vediamo dunque alcuni caratteri formali dei dialoghi platonici, intesi come forme della comunicazione filosofica che intrattengono diversi tipi di rapporto con la prassi della ricerca: - sono inseriti di regola in una scenografia, non priva di significato ed anzi spesso allusiva: Platone se ne serve per definire lo sfondo, ed è di regola una definizione di significato filosofico; non tenerne conto, limita spesso la comprensibilità del dialogo; - la struttura letteraria prevede personaggi caratterizzati come figure nella pienezza della loro personalità, non semplici maschere, in coerenza con la concezione filosofica della dialettica che è metodo fondato sul dialogo tra persone che mettono in gioco la loro persona nella integrità della vita (sentimenti, persino la fisicità dei rapporti, emozioni, riflessioni, diverse forme di pensiero, fino alle più alte astrazioni); - le forme di pensiero implicate sono con grande libertà richiamate continuamente nella loro multiforme varietà, sicché il dialogo si manifesta come forma neutra rispetto ad esse, permettendo che tutte siano veicolate; ad esempio, in uno stesso dialogo si trovano strettamente intrecciate analisi teoriche fondate su distinzioni concettuali, continui richiami all'esperienza quotidiana, molti tipi di pensiero per immagini, narrazioni che richiamano la realtà, racconti che rimandano al mondo del mito, descrizioni della vita interiore sino alle vette della contemplazione, e così via; sicché una delle chiavi del successo del dialogo in tutti i tempi (tranne il nostro, che ne fa poco uso) è la sua versatilità, derivante dalla sua neutralità rispetto alle forme di pensiero, che possono dunque essere veicolate liberamente in questa forma (non è possibile fare altrettanto con l'aforisma, o la lettera dottrinale o il trattato); - non prevedono l’intervento diretto dell’autore (Platone non compare mai) prestandosi così a una molteplicità di percorsi a più attori (al contrario della forma del trattato: anche se naturalmente questo non significa che non vi sia un autore, un filosofo al lavoro); - la dialettica come metodo di ricerca è descritta senza l'ansia di "restare in tema", ma aprendo continuamente scenari nuovi introdotti dall'uno o dall'altro interlocutore; la forma letteraria del dialogo permette di dare unità formale all'insieme caratterizzandosi quindi come elemento unificante dei percorsi; e poiché la dialettica vive della ricchezza degli approfondimenti ed è sempre ricerca aperta, questo carattere della forma dialogica si rivela prezioso; - in ultimo, il dialogo comunica per iscritto gli elementi dell'oralità dialettica non mediante la trascrizione di quanto detto, ma la sua trasposizione in una forma letteraria coerente con la scrittura; il dialogo può essere quindi uno strumento efficace per la comunicazione dialettica perché rispetta le regole della scrittura, traducendo in esse quelle dell'oralità. È quindi necessaria una nuova traduzione all'oralità, quando il lettore si accosta al testo: a lui è richiesto uno sforzo di immaginazione in alcuni casi decisivo, perché questa forma di scrittura, richiamando la vita (e dunque l'unità nella coscienza di tutti gli elementi che la compongono, dalle emozioni alle più alte sfere del pensiero), richiede l'opera di ricostruzione della vita nella pienezza dei suoi rimandi. Il ruolo dell'immaginazione come strumento di lettura dei testi ne viene esaltato. Per un quadro di sintesi dei generi letterari nella filosofia dell’antichità vedi la voce Generi letterari della filosofia antica: →) Dialoghi aporetici Sono così chiamati i primi dialoghi di Platone, il cui personaggio principale è Socrate. La loro specifica caratteristica è che si concludono, dopo complesse indagini dialettiche, senza mettere capo ad una specifica teoria sulle questioni trattate. In questi dialoghi aporetici (così chiamati con riferimento alla nozione di aporia: →), cioè ragionamento che lascia incerti) Socrate con i suoi interlocutori va alla ricerca della definizione di un concetto (mediante la risposta alla domanda "Che cos'è…?") senza che sia possibile giungere a una conclusione univoca. Si tratta dunque di dialoghi, e quindi di ricerche filosofiche, la cui conclusione è aperta. Dialoghi d’amore Sono così chiamati i dialoghi che, soprattutto in età rinascimentale, vennero scritti su temi legati all’amore. Il contesto era spesso il commento al Simposio di Platone, o ad una tradizione filosofica precedente, per lo più neoplatonica. Il tema dell’amore vi era affrontato sotto due aspetti: - per la sua forza sull’animo umano e i suoi effetti psicologici; - per il suo ruolo cosmico o religioso (il contesto è per lo più cristiano). Dianoia / Dianoetico Il termine greco dianoia è utilizzato nel linguaggio filosofico come parola anche italiana (da qui l’aggettivo dianoetico, in greco dianoetikos) e indica la ragione discorsiva, cioè la facoltà della mente che giunge a conclusioni a seguito di catene di ragionamenti. La dianoia va quindi distinta - dalla conoscenza sensibile (aisthesis) e dall’opinione (doxa), che possono essere la base di conoscenze più o meno ben fondate, ma in sé non hanno caratteri di razionalità e sono spesso forme di conoscenza imprecise e oscure (che l’analisi razionale mira a chiarire); - dalla contemplazione intuitiva della verità, la noesis, che consente alla mente di conoscere una verità con immediatezza e non attraverso catene di ragionamenti come la dianoia, che in sé è ragione discorsiva. Su questi termini e nozioni rimandiamo alla voce Nous (→) Questi termini hanno un uso anche in etica. Nell’Etica Nicomachea (I-13, VI-3) Aristotele propone una distinzione tra virtù etiche e virtù dianoetiche: le prime sono proprie della parte dell’anima che è razionale solo in quanto, e se, obbedisce alla ragione (ad esempio controllando le passioni); le seconde sono le virtù proprie della parte razionale dell’anima (e quindi sono dianoetiche virtù come la saggezza, la sapienza e così via). Diatriba La diatribe è un tipo di dialogo di cui si sono serviti soprattutto i Cinici. Rispetto al dialogo platonico, ha caratteristiche specifiche, pur trattandosi in ogni modo di un dialogo (→) steso per iscritto tra più interlocutori: - ha prevalentemente carattere etico; - lo stile è mordace, crudo: una forma ironica e sarcastico di conflitto dialettico che mira a mettere in luce le carenze etiche dell’avversario; - è breve, intenso, per lo più parodistico e fortemente polemico. Nella tarda antichità il genere venne molto utilizzato, ma perse i caratteri mordaci e parodistici, per divenire un breve dialogo su temi etici in cui si confrontano posizioni diverse, con realismo. Diels Hermann Diels (1848-1922) è il filologo tedesco, professore all’Università di Berlino, che nel 1903 pubblicò la raccolta dei Fragmente der Vorsokratiker (frammenti dei presocratici), cioè la raccolta dei testi pervenutici dei primi filosofi e delle testimonianze su di loro. Un suo allievo, W. Kranz, ne curò una nuova edizione, apparsa nel 1964. Si veda anche la voce Presocratici (→). Differenza / Differenza reale Per descrivere le implicazione teoriche del concetto espresso da questo termine (in greco diaphora), e il campo problematico in cui ci si muove, va richiamato il suo opposto, cioè identità (→), che indica gli elementi che consentono di esprimere l’individualità di un evento o di un ente (reale o mentale): così l’identità di una persona è definita dall’insieme dei caratteri specifici che la individuano rispetto alle altre, l’identità di un ente qualsiasi è definita dalla risposta alla domanda “che cosa è?”, l’identità di un concetto o di un termine è espresso dalla sua definizione, e così via. Dati due eventi o due enti – intendendo per ente tutto ciò che in qualche modo appartiene ad una qualsiasi sfera del reale ed è qualcosa: cose, parole, immagini, pensieri, e così via – chiamiamo differenza quell’insieme di elementi che escludono che si tratti dello stesso ente. La differenza quindi va definita rispetto all’identità di ciascuno. Ma mentre l’identità definisce il carattere proprio di ciascun ente, il concetto di differenza non definisce affatto un loro carattere: è invece il frutto di un confronto, una volta stabilita una relazione tra i due (sono soprattutto Aristotele e gli Stoici a portare avanti questo genere di studi in sede logica e metafisica). La differenza è quindi sempre una nozione astratta, perché astrae dall’identità di due enti un carattere che è presente in uno e non nell’altro. Poiché la realtà di cui facciamo esperienza è composta da enti differenti tra loro, lo studio delle differenze consente di individuare concetti con cui la mente mira a porre ordine sulla realtà, comprendendola nella sfera del pensiero. In questo senso la dialettica platonica nella misura in cui va a caccia dell’identità e della differenza tra le idee, o le classificazioni aristoteliche per genere e specie, sono costruzioni teoriche che mirano a porre ordine tra le differenze reali degli enti. A parte questioni specifiche, i problemi di fondo della filosofia greca in ordine alla differenza tra gli enti sono due: - da dove trae origine l’enorme differenza degli esseri di cui facciamo esperienza nell’osservazione della natura? è il problema dell’arché (→) dei primi filosofi naturalisti, reimpostato in modo originale dai filosofi pluralisti, da Platone, da Aristotele, e dalle altre scuole filosofiche dell’antichità; - Parmenide pone il problema di come sia possibile che l’Essere sia in se stesso differente da sé, come appare per il fatto che gli enti sono molteplici, e risponde negando la realtà del movimento e della differenza stessa; tutta la metafisica e la fisica dopo Parmenide affronta questo problema, e nessun filosofo greco successivo si allontana dal principio parmenideo che nulla può nascere dal nulla e che l’essere non può finire nel nulla. Va poi sottolineato che le differenze tra gli enti nella filosofia greca sono concepite secondo almeno tre modelli diversi: - differenze di tipo qualitativo: ad esempio le omeomerie di Anassagora si differenziano per qualità, e così enti come le cose e le idee in Platone; differenze di questo tipo sono drasticamente negate da altri filosofi, ad esempio dai materialisti e dallo Stoicismo; - differenze di tipo quantitativo: ad esempio le differenze tra gli esseri per il materialismo nascono soltanto da differenze nel peso, nella forma e nella posizione degli atomi; - differenze di energia: qualitative e quantitative insieme, ma generate da un processo che è di tipo spirituale, come è il caso della differenza degli enti in Plotino: l’emanazione (→) genera differenze qualitative che si prolungano in differenze quantitatative (è in questo ambito che va inquadrato il problema della differenza tra soggetto e oggetto all’interno della coscienza umana, in sé scissa per Plotino: vedi la voce Soggetto/Oggetto: →). Differenza specifica Vedi Genere e specie Dike Poiché concepivano vivente la natura, e immaginavano gli dèi con tratti umani, i Greci hanno sentito un profondo rapporto tra l’uomo e l’universo. Questo è particolarmente visibile nella concezione arcaica della giustizia (in greco díke), che accomuna in un unico ordine l’universo delle cose naturali e la città degli uomini. La comunità umana raccolta in società e gli elementi naturali ordinati in un universo armonico sono concepiti nella tradizione arcaica come se uno stesso ordine supremo presiedesse ad entrambi. La giustizia come equilibrio degli elementi Nel mito Dike è una potenza personale divina, associata a Zeus: è una divinità. Infatti, la giustizia come equilibrio degli elementi è garantita dal dio supremo, che ha assegnato a ciascuna potenza naturale il suo campo d’azione ed i suoi limiti, ponendo fine al conflitto primordiale. Dike è dunque l’ordine cosmico, l’equilibrio degli elementi che, se infranto, deve essere ristabilito mediante l’intervento di Zeus. Eraclito esprime questo concetto dicendo che il Sole non devierà dal suo corso perché, se volesse farlo, Dike glielo impedirebbe. La giustizia come realtà naturale è dunque l’ordine stesso della natura, l’equilibrio tra le forze che compongono l’universo. In questa visione del mondo, la giustizia non deve essere intesa come il prevalere del bene sul male. Nella cultura greca questa concezione si svilupperà solo più tardi. Alle origini Dike si presenta come il bilanciarsi delle forze naturali (è l’ordine dei contrari: il caldo dell’estate e il freddo dell’inverno, il clima secco e la pioggia, l’alternanza ciclica della notte e del giorno, e così via). La vita in natura è possibile perché nessuno degli elementi prevale, ma ciascuno è bilanciato dagli altri. Nella concezione greca arcaica la giustizia è il presupposto della stessa natura e della vita. Il mondo è giusto, cioè in equilibrio dinamico, perché le forze contrapposte tornano a bilanciarsi tutte le volte che la necessità naturale porta al prevalere di una sulle altre. La giustizia come ordine sociale Allo stesso modo, Dike viene invocata quando l’ordine sociale viene infranto. Il delitto, l’inganno, il furto generano disordine nella società e aprono un conflitto tra le sue componenti. L’equilibrio è distrutto e, amministrando la giustizia, deve essere ristabilito. Già in età arcaica l’assemblea degli uomini liberi, guidata dai giudici – la nobiltà custode delle antiche leggi – si raccoglie per comporre la lite nata tra i cittadini, per essere essi, o uno di essi, andati oltre i limiti assegnati a ciascuno. Le forze in contrasto si confrontano, mettendo in campo le loro ragioni. Poi i giudici emettono la sentenza, che restaura Dike nei suoi diritti e compone la lite con la riparazione del torto subìto. La sentenza è pronunciata rispettando le antiche leggi, le themistes (→), le sentenze della tradizione, le norme cioè che i nobili tramandano di padre in figlio e che vengono ritenute di origine divina: non l’uomo, ma Zeus stesso ponendo ordine nel cosmo ha dato le leggi, le themistes, all’uomo. Esse vanno rispettate, perché infrangerle significa lacerare l’equilibrio delle forze cosmiche: un’intera città, ammonisce il poeta Esiodo – e il legislatore Solone ripete con lui – può pagare le conseguenze dell’ingiustizia commessa da un solo uomo. Una sola Dike domina sugli uomini e sulle cose La natura è dunque piena di dèi, è il luogo dei conflitti delle forze composti dalla legge di Zeus, è la madre Terra (in greco Gaia) che nutre gli uomini e li fa vivere secondo le sue leggi: un’unica giustizia, un unico ordine domina sugli uomini e sulle cose. Vita sociale nel cosmo umano e vita naturale nell’universo si rispecchiano in armonia. Per la cultura greca arcaica la legge che domina la natura delle cose non è diversa da quella che deve dominare la città degli uomini, perché entrambi – il cosmo naturale e la città – sono regolati dall’ordine di Zeus. L’uomo non deve fare le leggi, ma solo conoscere quelle che sono iscritte nella natura. Per questo è così importante l’assemblea degli uomini liberi, al cui cospetto si decide la giustizia e si compone la lite sorta tra i cittadini: là gli anziani pronunciano la sentenza ricordando la legge tradizionale, a cui tutti – dal primo all’ultimo dei cittadini – sono sottomessi. Dal IV secolo a.C. all’ellenismo Il tema della giustizia è stato molto dibattuto in ambiente sofista, nel V secolo a.C., ma non ci sono rimasti i testi esemplari di questo dibattito (che avviene nel contesto della questione ddel rapporto tra nomos e physis: →). A riprenderlo è Platone che, oltre che trattarne nel Gorgia, pone il tema della giustizia al centro di una lunga indagine dialettica nei primi libri della Repubblica, e su di essa costruisce la stessa idea di Stato che poi viene sviluppata nel resto dell’opera, in parallelo allo sviluppo della visione dell’anima umana. Dopo avere ripreso le posizioni sofiste (vedi la voce Trasimaco: →), al termine del percorso dialettico Platone sostiene che la giustizia è, parallelamente, nell’uomo l’armonica disposizione della parti dell’anima, nello Stato l’armonia delle classi sociali (che corrispondono alle parti dell’anima). Si ha infatti giustizia quando ciascuna parte dell’anima compie ciò che le compete e resta nei limiti di ciò che le è proprio, e così per ciascun uomo in società. Anche Aristotele propone una approfondite analisi alla giustizia, in particolare nel Libro V dell’Etica Nicomachea, che le è interamente dedicato. La considera come virtù etica che include in sé tutte le altre, studiandone anche l’applicazione sul piano sociale e politico. Svalutata da Epicuro, che ne nega il carattere di assolutezza e la circoscrive ai patti che gli uomini sottoscrivono tra loro, la giustizia è invece nuovamente considerata una virtù dagli Stoici, che la definiscono come la scienza capace di assegnare a ciascuno ciò che merita (il contesto è quello tipicamente stoico dell’identificazione tra virtù e conoscenza). Dilemma Dal greco dis (due volte) e lemma (proposizione): il dilemma (il termine greco è identico: dilemma) è quindi una proposizione doppia, cioè un discorso che dà luogo a necessarie contraddizioni interne ed è insolubile, perché presenta due sole possibilità alternative che si implicano però a vicenda. Il termine è tardo, e si riferiva a ragionamenti insolubili – autentici paradossi (→) – su cui insistevano soprattutto gli Stoici nelle loro esposizione della logica. Dimostrazione Va distinta nettamente dalla argomentazione (→). La dimostrazione (in greco apodeixis) è il percorso razionale che mostra la correttezza logica di una proposizione: in Aristotele è il sillogismo scientifico (→) che parte da premesse vere. Il modello è fissato nel mondo greco dagli Elementi di Euclide, in cui ciascuna proposizione è “dimostrata” sulla base della deduzione logica da proposizioni precedenti, in completa assenza di salti logici. Non è quindi possibile alcuna dimostrazione se non si dispone di proposizioni di partenza che siano certamente valide dal punto di vista logico, funzione che nella geometria euclidea è svolta dagli assiomi e dalle definizioni. Poiché si svolge sul piano puramente logico, il processo dimostrativo persegue obiettivi di coerenza logica e di certezza rispetto alle origini della dimostrazione. Se questo significhi la possibilità che la dimostrazione metta capo alla verità riguardo ad aspetti del mondo reale, dipende dal fatto che si disponga o meno di punti di partenza certi che riguardino aspetti del mondo reale, e non siano puramente logici. Così Aristotele ha ritenuto che le scienze teoretiche (al contrario di quelle pratiche e poietiche) siano oggetto di dimostrazione perché partono da principi certi non solo sul piano della verità logica, ma anche sul piano della descrizione teorica della realtà. A parte questa tesi di Aristotele, il modello delle scienze dimostrative dell’antichità rimase la geometria. Dio, dèi, divino Né la mitologia tradizionale greca con i suoi riti privati e pubblici, né le religioni dei misteri, né la filosofia greca hanno mai avuto l’obiettivo di elaborare argomenti e teorie a sostegno di una religione. In questo senso la filosofia greca si distingue in modo netto dalla filosofia medioevale (che è cristiana, o ebraica, o islamica, e non è mai priva di una connotazione religiosa). Le teorie Tuttavia molti filosofi hanno teorizzato l’esistenza di un dio o di molti dèi, o di una sfera del divino: - ad un solo dio accenna, in frammenti però per noi isolati, Senofane, mentre un chiaro monoteismo è in Aristotele, nel contesto però di una complessa concezione della sfera del divino (anche Aristotele, come abitualmente fanno gli scrittori greci, parla degli dèi, del divino, e così via); - lo stesso Senofane mette in guardia contro l’antropomorfismo, e posizioni molto dubitative sulla possibilità di avere notizie certe sugli dèi sono state proposte dai sofisti e dagli scettici delle età successive; - il platonismo mette capo ad una sorta di teologia astrale, e nei miti platonici gli déi hanno un peso preponderante; quanto questo prefiguri posizioni politeiste, e quanto sia soltanto discorso metaforico, è difficile dire (ad esempio, che cosa si nasconde dal punto di vista teoretico dietro la figura narrativa del Demiurgo nel Timeo?); sta di fatto che forme di politeismo (anche sulla base della teologia astrale platonica) sono state accolte da alcuni degli Stoici; politeista è invece con chiarezza l’Epicureismo, che dà degli dèi una delle poche versioni coerentemente materialista; - a parte le tendenze politeiste di alcuni stoici in qualche momento della loro lunga storia, lo Stoicismo nel suo nucleo teorico è vicino al monoteismo come lo è il neoplatonismo di Plotino; entrambi però attribuiscono a questo ente originario e divino (il Logos, l’Uno) caratteri divini in un senso molto diverso dal monoteismo, perché quest’ultimo parla di un Dio come persona, e questo non si può dire né del Logos stoico né dell’Uno di Plotino; le loro concezioni sono però certamente filosofie del divino, come lo è in fondo il platonismo stesso, al di là del mito. Va poi osservato che per molte filosofie antiche l’anima dell’uomo è in qualche modo legata al mondo divino, o perché ne fa parte (così in Empedocle, ad esempio; nei miti platonici; nella concezione che Plotino propone dell’anima; e così via), o perché aspira a farne parte (ad esempio nella concezione platonica della psyché). I problemi I problemi che i filosofi hanno posto su dio (o sugli dèi, o sul divino) sono di diverso tipo: - innanzitutto hanno posto la domanda sulla possibilità di saperne alcunché, fatto non scontato per nessuno dei filosofi tranne che per Epicuro, che considera del tutto evidente l’esistenza degli dèi (ma le ragioni a sostegno di questa tesi non sono chiare perché i testi epicurei che ne trattano non sono giunti sino a noi); - in secondo luogo il problema della natura del mondo divino rispetto al mondo fisico (la filosofia antica ha concepito questo rapporto in modo molto stretto, o addirittura diretto, in vari modi: hanno un rapporto “fisico” con l’universo materiale il dio di Aristotele, il Logos stoico, l’Uno di Plotino; e gli dèi di Epicuro ne fanno in tutto e per tutto parte); - in terzo luogo i filosofi hanno posto la domanda sul rapporto tra la sfera divina e i valori etici, rapporto affermato da alcuni (Platone, Stoici, Plotino) e negato da altri (Aristotele, Epicuro, se non, in entrambi i casi, come modelli di vita felice). Diodoro Siculo Storico greco, Diodoro Siculo deve il suo appellativo alla nascita in Sicilia, avvenuta intorno al 90 a.C. (la morte è collocabile intorno al 20 a.C.). Abbiamo scarse notizie della sua vita, ma sappiamo che viaggiò molto: fu a Roma, in varie località europee e asiatiche, ad Alessandria. È la classica figura dell’intellettuale cosmopolita della sua epoca, influenzato dallo Stoicismo, che scrive nella koine per un pubblico di qualsiasi etnia. È autore di una Biblioteca storica in 40 libri (a parte estratti e riassunti proposti da autori successivi, ci rimangono solo i libri I-V e XI-XX). Si tratta di una storia universale dalle origini fino all’età di Cesare, scritta con l’obiettivo di proporre un modello di storia universale, adatto al lettore di qualsiasi parte del vasto mondo ellenistico e romano. A questo scopo, la cronologia è proposta in forma parallela (la serie delle olimpiadi, gli arconti di Atene, le liste consolari romane) in modo da far emergere la contemporaneità di eventi in aree lontane. A parte i meriti storiografici intrinseci dell’opera di Diodoro, la sua Biblioteca storica è anche una fonte per noi importante di informazioni, perché è costruita utilizzando materiali di storici precedenti le cui opere sono per noi perdute. Diogene di Sinope Quella di Diogene di Sinope è una delle figure più singolari dell’intera storia della filosofia greca. Di lui abbiamo pochissimi scritti, ma un gran numero di narrazioni legate a episodi della sua vita: è come se questo filosofo avesse voluto insegnare con l’esempio, più che con la parola. Nato e vissuto a Sinope circa tra il 413 e il 323 a.C., appartenne alla Scuola Cinica (→), di cui fu una delle personalità di maggior interesse e celebrità. Non si occupò, a quanto sappiamo, di questioni logiche e di ricerca scientifica, ma si concentrò interamente sull’etica. I suoi atteggiamenti fortemente anticonformisti e la sua dichiarata avversione per le convenzioni sociali derivavano da una precisa scelta di vita che Diogene condivideva con gli altri membri della scuola cinica: la scelta di mirare alla piena autosufficienza come condizione prima per la vita libera. Non si pensi però a uno stile di vita insofferente nei confronti delle regole e delle esigenze della vita: Diogene insisteva sulla pratica degli esercizi (askesis) per fortificare il proprio corpo e il proprio animo, e rendere la persona integrale capace di vivere libera in un mondo che libero è molto poco (da un punto di vista politico, ma anche sociale, religioso, e così via). Sono le regole sociali, non quelle imposte dalla natura, l’obiettivo polemico. Diogene Laerzio Non conosciamo praticamente nulla della biografia, e persino della identità di questo scrittore e storico della filosofia (persino l’origine del soprannome Laerzio è oscura) che tuttavia ha avuto un’importanza fondamentale nel trasmettere alla posterità una notevole quantità di informazioni sui filosofi antichi. Era di lingua e cultura greca, ed è vissuto nel III secolo d.C., quando ormai i filosofi dell’antichità greca erano dei “classici”. Ha scritto un’opera che ci è pervenuta, nota col titolo Vite dei filosofi (il titolo completo in realtà è Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi). I filosofi di cui propone una sintesi sulla vita, le opere (spesso con lunghe citazioni, o riportando intere brevi opere) e le dottrine, sono 84. La raccolta ha inizio con i sette sapienti e si conclude con Epicuro. L’opera di Diogene Laerzio non si segnala per profondità di pensiero e per particolari capacità di interpretazione critica, o per sistematicità. Ma è affidabile, ed è quindi per noi preziosa come fonte di informazioni, anche perché l’autore attinge ad un vasto repertorio di fonti dossografiche per noi perdute (vedi Dossografia: →). Dione di Siracusa Strettamente imparentato con il tiranno Dionisio il Vecchio di Siracusa, Dione ne divenne anche consigliere. Era nato intorno al 410 a.C., e la sua ascesa politica continuò sotto il successore, Dionisio II, che salì al potere nel 367 a.C. A quella data già da un ventennio Dione era in stretti rapporti con Platone, che aveva conosciuto nel corso del primo viaggio che il filosofo aveva compiuto in Magna Grecia e in Sicilia nel 388 a.C. Nel 366 convinse Dionisio a invitare nuovamente Platone, che ebbe quindi modo di fare un secondo viaggio a Siracusa. Ma la situazione politica si complicò, Dione cadde in disgrazia e dovette lasciare l’isola per il Peloponneso prima, e Atene dopo, dove trovò in Platone e nell’Accademia un ambiente a lui favorevole. Nel 361 a.C., nuovamente invitato a Siracusa, Platone tornò per la terza volta, e rischiò di persona nel tentativo di difendere l’amico Dione, ancora in esilio, senza peraltro ottenere alcun successo. Pochi anni dopo, nel 357 a.C., mentre Dionisio II era in Italia Dione tentò con successo il rientro in armi a Siracusa, sostenuto anche dai Cartaginesi. Divenuto a sua volta una sorta di tiranno sempre meno democratico, non riuscì a realizzare il modello politico platonico e cadde vittima di una congiura, guidata dall’accademico Callippo, nel 354 a.C. Dionigi di Alicarnasso Retore e storico greco, visse nel I secolo a.C. Della sua vita abbiamo scarse informazioni, ma sappiamo che conobbe a fondo le istituzioni e i documenti antichi della storia di Roma, che propose nella sua opera dal titolo Antichità romane, in 20 libri (ne rimangono i primi 10). Sulla scia di Polibio (→), Dionigi ha di mira la presentazione delle istituzioni romane al cosmopolita mondo ellenistico di lingua greca, e a questo scopo ripropone nella sua opera notizie tratte da antichi annalisti e da opere antiquarie di Varrone. La sua storia, che va dalle origini alla prima guerra punica, è quindi per gli storici moderni una preziosa fonte che completa la trattazione di Livio, soprattutto per quel che riguarda la formazione delle istituzioni e della legislazione di Roma, di cui Dionigi era fervido ammiratore (considera i Latini una popolazione affine ai Greci). Dionisie Erano due feste in onore del dio Dioniso (→) che ad Atene venivano celebrate una nel cuore dell’inverno (Piccole Dionisie), l’altra all’inizio della primavera (Grandi Dionisie). Erano dunque feste che aprivano e chiudevano il periodo invernale, sacro al dio. Le più importanti erano le Grandi Dionisie, nel corso delle quali venivano rappresentate le nuove tragedie (→). Nel corso delle Piccole Dionisie (dette anche Dionisie rustiche) le rappresentazioni tragiche venivano replicate nei demi dell’Attica. A partire dal 488-487 a.C. in occasione delle Grandi Dionisie venivano rappresentate anche le commedie (→). Dionisio di Siracusa È il nome di due dei tiranni di Siracusa, tra il V e il IV secolo a.C., Dionisio il Vecchio e il figlio Dionisio il Giovane (o Dionisio II). Dionisio il Vecchio (circa 430 – 367 a.C.) divenne tiranno di Siracusa, la città in cui era nato, in circostanze drammatiche, quando il pericolo cartaginese era quanto mai concreto: era il 405, e l’anno precedente i Cartaginesi avevano investito in forze l’isola ed erano riusciti a distruggere Imera, Selinunte e soprattutto la ricca e potente Agrigento, i cui abitanti si erano dispersi in altre città greche dell’isola. La politica di Dionisio fu di immediato rafforzamento militare, con l’appoggio delle classi popolari che furono fortemente favorite con precisi provvedimenti interni. In pochi anni fu in condizione di contrattaccare e guidò una serie di campagne militare che non solo costrinsero i Cartaginesi a ripiegare in Sicilia sui loro possedimenti dell’estremità occidentale dell’isola (la situazione si stabilizzò con la pace del 392 a.C.), ma gli consentirono anche di estendere la sua influenza su una vasta area della Magna Grecia. La Sicilia di Dionisio il Vecchio è quella in cui Platone compì il suo primo viaggio nel 388 a.C.: una città all’apogeo della propria forza, che si proponeva come polo di aggregazione per i Greci in Sicilia e nella Magna Grecia. Una forza tuttavia precaria, perché le città greche non si assoggettarono né sull’isola né sulle coste ioniche al programma politico dei siracusani, fatto che diede la possibilità ai Cartaginesi di riprendere una politica militare espansiva. Morto Dioniso il Vecchio nel 367 a.C. proprio nel corso di un nuovo conflitto coi Cartaginesi, divenne tiranno il figlio Dionisio II, che fino a quel momento era in realtà stato tenuto ai margini del potere reale dal padre. Personalità meno brillante, preferì cambiare drasticamente politica rispetto alle mire espansive della Siracusa dei decenni precedenti e chiuse il conflitto con Cartagine e con gli altri nemici con un compromesso, dando spazio politico al nipote Dione. Nel corso di un viaggio di Platone a Siracusa, dove era stato chiamato da Dione, questi cadde in disgrazia e dovette riparare in Grecia. Platone non poté far molto per l’amico siciliano, neppure con un terzo viaggio di poco successivo. Nel 357 a.C. Dione rientrò in armi, mentre Dionisio II si trovava in Italia e riuscì per alcuni anni a prendere nelle sue mani il potere, prima di cadere vittima di una congiura nel 354. Dioniso poté così rientrare a Siracusa, ma fu definitivamente spodestato da Timoleonte. Passò gli ultimi anni della sua vita a Corinto, dove morì negli anni di Alessandro Magno. Dioniso Dioniso è un dio originario della Tracia, quindi di una regione dai Greci considerata semibarbara, conosciuto anche da Omero ma relegato in disparte, ai margini del mondo olimpico, per le sue caratteristiche. Omero ed Esiodo, infatti, hanno rielaborato le credenze del loro tempo alla luce della loro visione del mondo umano e divino. “Vi sono fondate ragioni di supporre che i poeti epici fingessero di non conoscere, o riducessero al minimo, le numerose credenze e pratiche esistenti ai loro tempi. (...) [Essi le esclusero] dai loro poemi, come esclusero molte altre cose considerate barbare da essi e dal loro pubblico di classe elevata. I poeti epici rappresentano non una vita religiosa completamente staccata dalle credenze tradizionali, ma una selezione di quelle credenze – scegliendo quelle in armonia con una civiltà aristocratica e militare, come Esiodo offre una scelta adatta a una civiltà agricola” [Dodds 1951, pp. 86-87]. Dioniso è in effetti poco in armonia con l’etica eroica. È il dio della natura incontaminata, delle foreste sui monti, dell’ebbrezza, del vino, delle forze vitali e profonde della natura che nell’uomo si esprimono nelle passioni sfrenate, liberate dal controllo che la società impone con le sue leggi e i suoi costumi. È una divinità che originariamente non richiedeva un culto pubblico, officiato dai capifamiglia e dai magistrati delle città, ma un rapporto personale e diretto tra l’uomo e il dio, profondo fino ad avvertire la presenza della divinità dentro di sé. In particolare le donne riservavano a questo dio un culto vissuto con toni molto intensi: un culto orgiastico, esagitato ed inquietante, primordiale, associato alla musica dei tamburelli e dei flauti e alla danza sfrenata che prevedeva il venir meno, durante i riti, di tutte le regole sociali, di ogni freno alle passioni. Col tempo, anche questa divinità venne accolta nel pantheon delle divinità olimpiche, ma le forme del culto assunsero allora toni più moderati, compatibili con la vita sociale della città. A Dioniso, in Atene, si dedicavano feste particolari (dette Dionisie: →), ed a questo dio è collegata l’origine della tragedia, uno spettacolo teatrale vissuto dai Greci come una forma d’arte e al tempo stesso di culto, in onore appunto di Dioniso. Alle origini del culto, le donne invasate dal dio si lanciavano in danze sfrenate e scomposte; nella tragedia, invece, il loro scomposto agitarsi diviene la danza del coro, ordinata, anche se permeata da forte passionalità. Il fatto che questo dio irrazionale sia stato accolto tra le divinità a cui la città tributava un culto ufficiale mostra come i Greci sentissero divine anche le potenze dell’irrazionale che avvertivano nell’intimo della loro vita interiore e con esse desiderassero stabilire un rapporto compatibile con la dimensione pubblica, necessaria alla vita sociale. Il culto di Dioniso era legato a due sfere culturali: - la sfera della musica e della danza; - la sfera del vino che dà un’ebrezza, appunto, dionisiaca. “Dioniso trae il suo potere dal suo strumento, dal suono insinuante del flauto il quale ovviamente esclude il canto e la poesia. Dioniso celebra il suo rito unicamente con la musica la quale viene esaltata attraverso la danza. Dioniso infatti viene quasi sempre raffigurato danzante quasi a rappresentare le forze primigenie messe in moto dalla potenza del suono” (Fubini 1968, p. 36) Il corteo dionisiaco, che nelle selve accompagna il dio nel canto e nell’ebbrezza – fino a produrre una identificazione tra i seguaci e il dio stesso, una sorta di incantesimo mistico in cui la coscienza individuale si apre alla dimensione del divino -, è formato da varie figure: i satiri e i sileni, e soprattutto le baccanti, o menadi. Queste ultime sono figure femminili – a cui le donne reali si ispirano nei loro riti – rappresentate nude o coperte con veli leggeri, il capo incoronato di edera, abbandonate ad una danza frenetica al suono del flauto o dei tamburelli. Personificano gli spiriti orgiastici della natura. Diotima Sacerdotessa di Mantinea, ma verosimilmente creazione platonica e non personaggio storico, è l’anziana sapiente di cui Socrate riferisce il discorso che dice di avere ascoltato da lei molti anni prima, da giovane. La trama del suo discorso è tipicamente platonica. L’opera in cui la sua figura e il suo discorso sono presentate è il Simposio di Platone, alla cui voce rimandiamo. Diritto greco Se col termine generale diritto intendiamo l’insieme delle istituzioni giuridiche che i Greci si sono dati nel corso della loro storia, va subito detto che lo stato delle nostre conoscenze in materia è notevolmente lacunoso. Non essendo mai esistita una struttura politica unitaria dei Greci, non è mai neppure esistito un corpus di leggi codificate uguale per tutte le aree: - in età storica ciascuna polis aveva le proprie istituzioni pubbliche – la propria politeia (→), cioè una costituzione che definiva le norme del diritto pubblico –, ma noi conosciamo nei dettagli soltanto le leggi di Atene, e non egualmente bene per tutti i periodi della sua storia; - ciascuna polis aveva poi le proprie norme di diritto privato, delle quali abbiamo scarse notizie precise per vari periodi e per vaste aree. Quando compare la prima documentazione scritta dopo il cosiddetto Medioevo Ellenico, tutte le norme del diritto greco erano ancora tramandate oralmente: sono le themistes, cioè le sentenze che i giudici applicano di volta in volta inevitabilmente con un grado alto di discrezionalità, come è ovvio per norme non codificate per iscritto, ma poggiate su una tradizione che poteva di volta in volta essere rivisitata. La lontana origine le themistes era ritenuta divina. Intorno al VII a.C. soprattutto nel mondo coloniale, ma anche nella Grecia continentale, avvenne il passaggio alla scrittura, che nel caso del diritto implicava una codificazione rigorosa: si trattava di passare dal magma delle themistes, non codificate né ordinate, ma sempre ripetute come fonte del diritto, a un corpus scritto definito analiticamente in modo preciso e ordinato. Per far questo divenne indispensabile l’opera di legislatori (→), di cui per molte poleis ci sono stati tramandati i nomi (a volte semileggendari, come Licurgo a Sparta). Il contesto politico in cui avvenne il passaggio alla codificazione scritta fu quello del conflitto tra la classe degli aristoi (→) e il demos, il cui potere tendeva sempre di più ad affermarsi. Poiché l’amministrazione della giustizia, come del resto l’intera vita politica, era tradizionalmente nelle mani del ceto nobiliare, il passaggio dalle tradizioni orali alle norme scritte comportò una netta vittoria del demos. Parallelamente, si ebbe un passaggio graduale nella stessa amministrazione della giustizia: ad esempio ad Atene tra il VII e il V secolo a.C. il potere giudiziario venne sempre più gestito dalla città nel suo complesso piuttosto che dagli aristocratici: l’antico tribunale dell’Areopago (→), pur mantenendo alcune prerogative, passò gran parte delle sue competenze ai tribunali popolari (si veda la voce Eliea: →). Diritto naturale È questa una nozione che avrà un’importanza notevole nella filosofia del diritto dal Seicento in poi, ma i termini della questione così come furono impostati dai teorici politici moderni sono diversi dai termini in cui la impostarono i Greci. Ci occuperemo qui solo del dibattito su questo tema nel mondo greco – e in quello romano che, da Cicerone a Seneca, ed oltre, lo reimpostò adattandolo alle situazione della Repubblica e dell’Impero senza però mutarne i caratteri filosofici di fondo. Il problema in filosofia venne posto in termini espliciti in età sofista con la contrapposizione tra nomos e physis (vedi quindi la voce Nomos / Physis: →), cioè tra le leggi della città e le leggi che la natura dà all’uomo per ordinare la propria vita. La sofistica radicale sostenne che il diritto naturale, cioè le leggi stesse della natura umana, giustificano il comportamento individuale e collettivo degli uomini: dunque la legge della città (il nomos) contrapponendosi a questi comportamenti devia rispetto alla natura. Il diritto naturale in questo senso altro non è che l’utile che, “per natura”, ciascuno persegue. Anche Aristotele, in fondo, giustifica con argomenti simili il diritto naturale come base della vita individuale e collettiva, ma cambia del tutto il senso di questa giustificazione rispetto ai sofisti radicali. Infatti, il diritto altro non è che “ciò che produce e custodisce per la comunità politica la felicità e le sue componenti” (Etica Nicomachea, V-1), e quindi la finalità del diritto è la stessa finalità della natura. Ma, al contrario dei Sofisti, Aristotele osserva che la polis, e quindi la sua legge, nasce sulla base di una esigenza naturale di “felicità”, poiché per natura l’uomo è un animale sociale; e tuttavia la polis è una costruzione umana, non naturale. Le sue leggi sono quindi storicamente determinate e diverse a seconda delle situazioni storico-politiche, ma il loro fondamento è migliore quando riposa sulla natura stessa. La contrapposizione tra nomos e physis è quindi respinta. La scuola stoica ha poi esaltato in massimo grado questo concetto, perché vede nella natura la perfetta espressione della razionalità del Logos. Nulla che sia “per natura” può quindi essere diverso da quel che è, ed è perfetto, per quanto l’uomo possa avere difficoltà a comprendere nei singoli casi questa necessaria perfezione. La natura è quindi il fondamento del diritto. Discorso Il termine greco è logos, che ha però significati diversi e stratificati, alcuni dei quali dovremo adesso discutere (per gli altri rimandiamo alla voce Logos: →). Va innanzitutto detto che la stessa filosofia è discorso (si veda la distinzione tra filosofia come discorso e filosofia come pratica nella vice Filosofia: →). Ora, che cos’è un discorso? Innanzitutto è una pratica linguistica, un pratica cioè che utilizza un linguaggio (→). È un parlare, uno scrivere, un comunicare attraverso segni. Il contenuto che viene comunicato di per sé non è discorsivo, essendo il discorso una pratica, un modo per esprimere e comunicare qualcosa che non è né il linguaggio né il discorso. Dir qualcosa significa certo dire (discorso), ma anche dire qualcosa che è appunto qualcosa, non il discorso stesso. Nasce quindi il problema del rapporto tra il discorso e il suo contenuto. Un diverso significato del termine Logos è pensiero, ragione. Il collegamento nella stessa parola che la lingua greca propone è tutt’altro che casuale ed esteriore, perché il contenuto che comunichiamo attraverso il discorso è comunque un pensiero, anche quando si tratti del racconto di un evento o della descrizione di un oggetto materiale. In quanto ne parliamo, lo stiamo pensando. Pensiero e discorso dunque non si confondono, ma certo nella comunicazione si legano. Questo vale anche nel caso del discorso interiore, cioè delle pratiche linguistiche che rivolgiamo a noi stessi nel pensare: i pensieri non sono segni, le parole e le immagini sì, ma noi pensiamo in parole e immagini. Dunque il legame tra il pensiero e il discorso è a monte della comunicazione verbale, o scritta, o iconica. Nasce nell’atto stesso del pensare. Questo significa che il pensiero stesso ha una natura discorsiva? che esiste una sintassi del pensiero (una articolazione delle idee, un loro strutturarsi) come esiste una sintassi del linguaggio? Il tema è stato affrontato a fondo. Ecco qualche esempio: - i sofisti hanno studiato le forme del linguaggio che costituiscono l’intelaiatura dei pensieri, convinti che nel linguaggio più che nel pensiero (giudicato incapace di giungere alla verità, seppure una verità esiste) sta la vera forza di persuasione – che è quel che conta nell’arte del discorso; - Socrate ha utilizzato il linguaggio come strada per la ricerca della verità, ponendo incessantemente domande sulle parole (“che cosa intendi?”, “che cos’è?”); - Platone ha studiato l’architettura linguistica del pensiero umano, cioè delle idee, nella convinzione che esse ci parlino di un mondo diverso, perfetto ed eterno; - Aristotele ha studiato le regole del discorso (nella Retorica) e del pensiero (nell’Organon, il primo compiuto testo di logica dell’occidente) separatamente, ma ha riconosciuto la natura linguistica e quindi discorsiva del pensiero umano. Così, in altra forma, soprattutto gli Stoici. Altre scuole hanno costruito pratiche di vivisezione, per così dire, del linguaggio, ottenendo effetti dirompenti e (potenzialmente) eversivi sul piano sociale: così i Megarici e i Cinici, tra le scuole socratiche, o gli scettici. Se vogliamo esprimere in sintesi il nucleo teorico centrale del problema filosofico del discorso, possiamo porre le seguenti domande: - a parte i problemi di comunicazione, la struttura del pensiero è linguistica e quindi discorsiva? - la struttura della realtà è linguistica? Ecco un confronto utile per intendere intuitivamente il problema: per i Pitagorici e per Platone la struttura della realtà fisica è linguistica, e il suo linguaggio è la matematica (e, per Platone, lo sono anche le idee); per gli epicurei la struttura della realtà non è linguistica, essendo frutto del casuale aggregarsi e disgregarsi degli atomi. Dunque, il linguaggio umano per i Pitagorici e per Platone può “ripetere” la struttura della realtà; per Epicuro è convenzione, rimanda alla realtà, non ne riflette in sé la struttura (per la semplice ragione che una struttura fissa e invariabile non esiste). Discorso (Genere letterario del) Il genere letterario del discorso è per lo più presente nelle opere filosofiche greche (e anche in altri tipi di opere) all’interno della loro struttura complessiva che utilizza anche altri generi. Ad esempio nel Simposio di Platone ciascuno dei personaggi principali tiene un discorso. Le regole di questo genere di discorsi dovevano essere al tempo di Platone già codificate, perché da un secolo la retorica se ne occupava. E discorsi di vario tipo erano già stati inseriti in opere storiografiche: ad esempio Tucidide riporta nelle sue Storie un certo numero di discorsi che non erano certo, nella stesura per iscritto, identici a quelli effettivamente pronunciati dagli uomini politici a cui sono attribuiti; dovevano però esserne un’immagine rigorosa, se uno storico rigoroso come Tucidide li inserisce. Il discorso come unità compiuta nella forma dell’oralità era del resto di importanza capitale in una società basata sulle scelte collettive come quella greca: era un intervento orale di fronte ad un pubblico per ottenere un preciso effetto, che di volta in volta era di persuasione (nei tribunali, nelle assemblee), di celebrazione o di commemorazione (nelle feste), e così via. Questo genere letterario, benché appartenente in linea di principio al registro dell’oralità, aveva singolari rapporti con la forma scritta: nel caso dei discorsi riferiti da Platone o da Tucidide, per tornare a esempi celebri, si trattava di stesure per iscritto di testi orali che erano stati effettivamente pronunciati, o avrebbero potuto esserlo, da persone diverse dall’autore del testo scritto; nel caso dei discorsi che gli accusatori e gli accusati dovevano tenere personalmente in tribunale (quel che oggi fanno i Pubblici Ministeri e gli avvocati), si trattava di testi che nascevano per iscritto, stesi da parte di professionisti di questo genere di scrittura (vedi la voce Logografi: →), per essere poi pronunciati da altri. Ad occuparsi delle regola per la stesura dei discorsi erano stati sin dal V secolo a.C. gli esperti di diritto, e da allora in poi tutti gli studiosi di retorica, alla cui voce rimandiamo (→). Discorso breve / Discorso lungo Sono due forme del dialogo filosofico (→) attestate nei testi di Platone e di altri autori, che corrispondono a pratiche tipiche dell’oralità greca in filosofia. Il discorso breve è condotto attraverso domande e risposte, in genere con uno dei due interlocutori che domanda e l’altro che risponde; è quindi un dialogo guidato in cui chi pone le domande costruisce attraverso di esse un percorso di ricerca. Il discorso lungo è una esposizione argomentata di un tesi filosofica di un certa ampiezza, in cui non si può parlare di un dialogo vero e proprio perché l’azione è nettamente distinta: c’è un filosofo che parla e un altro, o altri, che ascoltano (e parleranno dopo, al loro turno). Naturalmente queste due tecniche di discorso possono incrociarsi o susseguirsi, da sole o con le molte altre che formano il complesso delle pratiche dialettiche in uso nell’antichità (vedi la voce Dialettica: →) Ditirambo Il dithyrambos è una delle antiche forme della poesia lirica corale greca. Canto in onore del dio Dioniso (→), accompagnato dalla musica dell’aulos e da danze di tipo dionisiaco, poteva avere anche un carattere dialogato, tra il corifeo e il coro. Aristotele nella Poetica sostiene che la stessa tragedia sarebbe nata per un’evoluzione di questo genere letterario. Divenire Il termine (in greco è il verbo ghignesthai) indica uno dei temi centrali della ricerca filosofica greca sull’essere: lo studio dell’identità degli enti nel loro perenne movimento (→) di generazione e corruzione (→) e della natura nel suo complesso (vedi la voce physis: →). Sul tema del divenire è possibile sintetizzare il campo problematico intorno a quattro gruppi di questioni filosofiche. La superficie instabile dell’esperienza e la realtà profonda delle leggi costanti L’esperienza ci dice che qualsiasi ente e qualsiasi evento è soggetto al tempo e si trasforma, incessantemente; non abbiamo notizia di alcun ente dell’universo fisico che non sia soggetto al divenire né di alcun evento che non passi: in che senso è possibile allora dire che le cose e gli eventi sono? sembrerebbe che il loro essere sia instabile, eppure la natura ha leggi costanti, e l’instabilità si rivela agli occhi dello scienziato (già agli occhi di un naturalista del VI secolo a.C., come a quelli di uno scienziato del XXI secolo) regolata da leggi nascoste e profonde: quali? L’origine dei corpi nell’universo fisico Se l’esperienza dice che tutto diviene, è possibile però supporre che a fondamento dei corpi in perenne divenire nell’universo fisico vi siano enti che non divengono affatto, ma che – pur soggetti al tempo – ci sono sempre stati e restano uguali a se stessi pur nel gioco continuo della generazione e della corruzione dei corpi: per esempio potrebbero esistere particelle estremamente piccole che costituirebbero i “mattoni” di qualsiasi corpo: in questo caso sarebbero i corpi a divenire, non i mattoni. Esistono particelle di questo tipo, capaci di sfidare il divenire, o anch’essere hanno avuto un’origine? Se sì, da dove e quando hanno avuto origine? cosa c’era prima? Se tra l’essere e il non-essere avviene un passaggio nel tempo che chiamiamo divenire, significa che il nonessere esiste? Se ciascun ente di cui possiamo fare esperienza è soggetto al divenire, il tempo (→) è la cifra costante dell’universo; dunque ciascun ente che diviene è esso stesso il prodotto di un precedente divenire; allora l’essere di ciascuna cosa è soggetta al tempo: l’ente ora è, ora non è: che significa allora il termine essere? che cosa significa che qualcosa non c’è? L’esserci (ora) e il non-esserci (ieri o domani) sembrano parte di un flusso, di un continuo, che li comprende entrambi, ma questo è difficile da spiegare senza ammettere l’esistenza del non-essere, il che sembra una contraddizione logica di non poco conto: è come dire che il nulla esiste; ma, se esiste, è qualcosa, non nulla. Come si esce da questa contraddizione? Questi temi sono parte del problema dell’essere (→), che da Parmenide in poi è al centro dell’attenzione in filosofia. Realtà e verità degli enti senza tempo né divenire Non abbiamo esperienza di enti che non siano soggetti nel tempo al divenire, ma possiamo pensare enti di questo tipo. Così accade nella matematica (→), e in specifico nella geometria (→), che per l’antichità offriva il modello insuperato di costruzione razionale su enti indipendenti dal tempo, valida in sé e non in rapporto all’esperienza. Ora, enti di questo tipo, non soggetti al divenire, sono pensabili; esistono certamente nella mente dell’uomo, che però è soggetta al tempo. Hanno anche una effettiva realtà indipendente dalla mente? Questo pone in questione le nozioni di verità (→) e di realtà (→): che cosa significa dire che è vero che la somma degli angoli interni di un triangolo è equivalente a due retti indipendentemente dal tempo e quindi dal divenire? è reale un triangolo indipendente dal tempo e dal divenire, o è reale solo il concetto che la mente ne costruisce? Divinazione Vedi Mantica Divisibile / Indivisibile In Platone la nozione di indivisibile si applica alle idee, individuate nella loro elementare semplicità (le idee sono prive di parti) attraverso l’analisi e la scomposizione dialettica. In una delle concezioni dell’anima studiate nel Fedone compare inoltre la nozione di indivisibilità applicata all’anima, e viene utilizzata come una argomentazione dialettica a favore della sua immortalità. Aristotele considera indivisibile, perché semplice, l’oggetto della conoscenza di tipo noetico, contrapposto alla complessità strutturale degli oggetti della conoscenza dianoetica (→). In entrambe queste concezioni - indivisibile è ciò che è semplice (→); - divisibile è ciò che è composto di parti (→). Essendo la divisibilità un carattere di ciò che è composto, appartiene in realtà ciò che è già diviso benché le sue parti siano tra loro legate. Questa concezione è applicata alla realtà fisica dai materialisti, in primo luogo da Democrito (le cui teorie atomiste Aristotele discute per negarle), poi da Epicuro. Più esattamente, è applicata non ai corpi, ma alle particelle che li compongono. I corpi sono infatti considerati dei composti, e quindi divisibili, mentre le loro componenti ultime, gli atomi (→), sono delle realtà semplici non composte di parti, e quindi sono indivisibili. Il dibattito sulla struttura della materia (→), e quindi sulla divisibilità all’infinito dei corpi, si protrasse per tutta l’età ellenistica. Dogma / Dogmatico Il termine greco dogma significa dottrina, o anche insegnamento. Ha la stessa radice di doxa (opinione) e di dokeo, che significa credere. Dogmaticos è detto quindi in riferimento a quelli che credono. A usarlo in senso positivo sono soprattutto gli Epicurei e gli Stoici, che ritengono che il saggio debba dar credito, e quindi credere, ciò che la ragione insegna (dunque ciascuna delle due scuole lo riferisce alle proprie teorie). Il termine è usato in senso negativo dagli Scettici in relazione alle altre scuole ellenistiche, con significato negativo, perché l’adesione alle teorie delle varie scuole da parte degli adepti è considerata ingiustificata razionalmente, viste le ragioni a favore dello scetticismo, cioè dell’impossibilità di concludere con certezza rispetto a qualsiasi verità. Dolore Contrapposto a piacere (→), il termine dolore (in greco lype) esprime uno stato fisico o fisicopsichico di sofferenza che non necessariamente è legato al male (→), se il male è inteso come carattere qualitativamente negativo dell’essere e dell’esistere degli enti dotati di sensibilità (questa nozione si estende quindi anche agli animali e, nell’ipotesi che esista, anche a qualsiasi altra forma di vita cosciente e senziente non animale e non umana). Infatti la sofferenza di per sé è uno stato fisiologico indispensabile alla vita, e come tale non può essere considerato un male, anche se il vivente prova dolore. Le due nozioni non sono sovrapponibili. Tuttavia l’esperienza del dolore ha sollecitato sia nel mondo dei poeti che in quello dei filosofi interrogativi angoscianti sul senso dell’esistere (→), perché in moltissimi casi il dolore ha un aspetto che appare del tutto “gratuito” e ingiustificato. Il punto è che nessun essere vivente nasce per avere scelto di nascere, e la sofferenza del vivente richiede quindi una spiegazione e rimanda all’interrogativo di fondo sul senso dell’essere (→) qui ed ora a soffrire: la domanda “perché devo soffrire?” può essere un altro modo per chiedere “perché sono nato? perché esisto?”. La filosofia greca, concordemente, ritiene il dolore un fatto del tutto naturale, e come tale da accettare se inevitabile, da fuggire se evitabile. Le scuole ellenistiche considerarono la fuga dal dolore evitabile un obiettivo etico primario, uno dei volti della felicità. E una notevole parte delle loro dottrine mira a dare indicazioni precise e operative a questo scopo (si pensi al Quadrifarmaco epicureo, in cui si sostiene che il dolore è “facile da evitare”). Presso gli Stoici passioni di questo tipo vanno tenute strettamente sotto controllo: in questo senso l’apatia (→) e l’atarassia (→) sono l’obiettivo finale di precisi esercizi spirituali (→) in grado di proteggere l’uomo dalle conseguenze negative del dolore, anche di quello inevitabile. Anzi, di per sé il dolore fisico è un esempio delle realtà eticamente indifferenti (→). Dormienti In Eraclito e in altri filosofi i dormienti sono le persone che, al contrario del filosofo, non hanno coscienza della vera realtà delle cose e degli eventi umani. In questa propettiva la filosofia è intesa come risveglio, atto con cui la coscienza si eleva dalla penombra oscura dell’ignoranza alla luce della chiara visione intellettuale. Dominio di sé Sono gli stoici a indicare nella enkrateia, che traduciamo con dominio di sé, uno degli obiettivi della vita morale. Per la verità, la nozione è assai più generale e fa parte della comune maniera di sentire greca: l’uomo libero è innanzitutto un uomo in grado di governare se stesso. E chi non sa governare se stesso, è sospetto che voglia governare gli altri dedicandosi alla vita politica (il tema è platonico: ad esempio nel suo discorso che chiude il Simposio Alcibiade dice di non sapere governare se stesso pur aspirando ad un alto ruolo politico in città, e parla di Socrate – maschera della filosofia stessa come dell’uomo che lo costringe a riflettere su questo). Il termine dominio implica una gerarchia all’interno stesso dell’uomo: una parte di sé comanda, l’altra (o le altre) obbedisce (o si allineano gerarchicamente). Così in Platone e in Aristotele, e negli Stoici, in cui la parte razionale dell’anima deve predominare sulle altre. Tuttavia il dominio di sé è raccomandato anche, per ragioni pratiche, da chi simili gerarchie non le istituisce affatto: essenzialmente perché conviene, perché è utile alla vita libera e felice (così presso gli Scettici e gli Epicurei, ad esempio). Dossografia Composto dal sostantivo doxa (opinione) e dal verbo grapho (scrivo), il termine dossografia designa l’opera degli studiosi alessandrini e romani che, a fini di studio o didattici, o per altre ragioni, composero opere il cui scopo era raccogliere informazioni di vario tipo sui filosofi: notizie biografiche, dati sulle opere, sintesi sulle loro “opinioni”. In qualche caso le opere dei dossografi (doxographos) dovevano essere materiali di studio, o manuali per la formazione filosofica dei giovani nelle scuole Una fonte importante per i dossografi successivi dovette probabilmente essere l’opera Dottrine dei fisici di Teofrasto (→), in 16 libri, composta alla fine del III secolo a.C., di cui ci rimangono frammenti (alcuni lunghi). Sei secoli dopo, un testo dossografico importante che ci è stata tramandato si intitola Vite dei filosofi, opera di Diogene Laerzio (→). Il fatto che i dossografi raccogliessero in modo più o meno organico e sistematico le “opinioni” dei filosofi non deve lasciar pensare che la filosofia fosse per loro ridotta a opinione. L’obiettivo dei dossografi era diverso: era quello di orientarsi tra le tradizioni e le scuole della filosofia. Essendo per lo più di epoca tarda rispetto ai filosofi di cui trattano, la loro attendibilità dipende dalle loro fonti, per noi per lo più perdute, e spesso un’opera dossografica era la fonte delle successive. I filologi hanno posto l’obiettivo di identificare le fonti e le possibili derivazioni di un testo da un altro. Su questo si veda la voce Storia della filosofia (→) Dottrine non scritte Nella VII Lettera di Platone (la cui autenticità gli studiosi ritengono molto probabile, anche se non del tutto certa) Platone fa riferimento a sue dottrine che ritiene non possano essere divulgate per iscritto perché possono essere comprese solo dopo un lungo e personale esercizio dialettico. Dichiara quindi che non esisterà mai un suo scritto su questi argomenti. In vari luoghi Aristotele stesso ne accenna, presentando le dottrine non scritte come una sorta di teoria sui principi che avrebbe consentito a Platone di costruire una architettura teorica in cui inquadrare ogni aspetto della realtà, idee comprese: tutto sarebbe deducibile dall’Uno (→) come principio originario e dalla Diade (→). Ovviamente, in quanto si tratta di dottrine non scritte, non possediamo testimonianze di prima mano su di esse. Le testimonianze, compresa quella platonica della VII Lettera, sono indirette. Sappiamo però che Platone le considerava dottrine non facilmente comprensibili, che richiedevano una esercitazione dialettica specifica. Nulla dunque di riconducibile a una dottrina dal valore puramente intellettuale: l’intera personalità del filosofo era in gioco nell’accostarsi ad essa. L’importanza di queste dottrine non scritte nel complesso delle dottrine platoniche è oggetto di discussione tra gli studiosi. Si va da chi le considera pure esercitazioni dialettiche, o percorsi di ricerca destinati alla cerchia ristretta dei filosofi ai gradi più alti della propria formazione, a chi le considera così importanti da fare delle dottrine non scritte il paradigma sulla cui base interpretare l’opera platonica nel suo complesso (in Italia tra gli storici della filosofia antica sono Giovanni Reale e la sua scuola a insistere su quest’ultima posizione). Dovere In filosofia la nozione di dovere (dal latino debere, in greco kathekon) come necessità etica è stata introdotta dallo Stoicismo, ricollegandola storicamente all’invito socratico di elevare la propria coscienza del bene e del male. Un’etica del dovere così come è intesa dagli Stoici presuppone che la vita dell’uomo abbia un senso nell’ordine della vita universale, e che l’individui occupi un posto in quest’ordine che è unico e irripetibile. C’è una razionalità nel Tutto, sia se visto nella complessità delle sue articolazioni, sia se visto nella specificità di ogni sua singola parte. L’uomo è una di queste parti, nell’intreccio delle relazioni con altre parti, e dovere è, semplicemente, essere se stessi; chi è dunque l’uomo? È un ente razionale che occupa un posto che non si è dato da solo nell’ordine del Tutto. È se stesso se rispetta questa sua natura, il che implica il dovere di far prevalere la propria razionalità, accettare la propria posizione e il proprio destino, comprenderne la positività in ordine al Tutto, controllare le passioni che inevitabilmente farebbero deviare la coscienze da questa razionale comprensione di sé. Detto questo va precisato che il termine greco che abitualmente rendiamo in italiano con dovere, kathekon, è privo di alcune delle connotazioni che associamo al dovere. Infatti per gli Stoici il kathekon è, innanzitutto, il comportamento appropriato ad una terminata situazione, la funzione specifica dell’uomo nel posto che occupa nell’universo. Il dovere non è quindi in alcun modo al di sopra della realtà fisica, in una sfera interiore staccata (una sorta di coscienza morale al di sopra della natura): e infatti chi compie il proprio dovere, nell’accezione storica del termine, segue semplicemente al meglio la propria natura (fisica e mentale). Gli Stoici definiscono kathortoma le funzioni che un uomo svolge al meglio nell’adempimento del proprio dovere, cioè di quello che la propria natura nella posizione che si occupa impone. Le teorie stoiche sul dovere non sono accolte da altre scuole: ad esempio l’epicureismo ritiene che l’uomo sia libero da qualsiasi dovere e sia piuttosto l’utile il metro per la vita etica. In questo senso ad un’etica del dovere può contrapporsi un’etica dell’utile. Doxa Opposta ad episteme, che traduciamo con scienza (→) o con conoscenza scientifica, la doxa è l’opinione, cioè la conoscenza fondata su basi insicure. Non che sia certo che la doxa induca l’uomo in errore: una opinione può essere vera (da Platone in poi si è sottolineato questo punto), ma non per questo smette di essere doxa, perché è sì vera, ma non si è in grado di distinguerla con certezza dalle opinioni false, perché le opinioni sono tutte fondate su basi incerte. Il problema della doxa è stato posto con chiarezza dalla filosofia delle origini, e in modo particolarmente radicale nel Poema sulla Natura di Parmenide, dove la via della verità (aletheia: →) è contrapposta alla via dell’opinione (doxa) per due ragioni: - perché la via della verità è ben fondata (riposa sulla ragione umana) mentre quella dell’opinione non lo è (è fondata sulla insicura esperienza); - perché la via dell’opinione implica necessariamente l’esistenza del non-essere, impossibile ad ammettersi per la ragione perché ci parla della molteplicità degli enti, del loro cambiamento, della loro nascita e morte, e così via, tutte cose che implicano appunto l’esistenza del non-essere. Anche Eraclito, per ragioni diverse, critica con durezza chi si affida alla doxa. Questo tema percorre un po’ tutta la filosofia greca, perché l’obiettivo comune è passare dal piano dell’opinione al piano della verità. Ma non per tutti è possibile: - non lo è in nessun caso per i Sofisti, che tuttavia studiano con la massima cura il mondo della doxa, che è quello in cui viviamo (lo aveva del resto fatto già Parmenide); e non lo è per le varie scuole scettiche dell’antichità (Pirrone e i suoi allievi, l’Accademia di mezzo, gli scettici dell’età tardo-antica), anche se per alcune di queste scuole c’è una possibile gradazione di probabilità tra le varie opinioni, perché alcune possono essere più vicine al vero di altre, ed è importante da un punto di vista pratico identificare quali; - lo è parzialmente per la maggior parte degli altri filosofi: Platone ammette una vera scienza soltanto per la sfera dell’intellegibile, mentre condanna ad una conoscenza approssimativa, e quindi alla sfera dell’opinione, l’intero mondo dell’esperienza; Aristotele ritiene che tutte le scienze pratiche e poietiche si possano fondare solo su opinioni, ed elabora una sorta di gradazione di opinioni, dalle migliori alle peggiori, enunciando la nozione di endossa (→) e proponendo nei Topici una logica dell’opinione (vedi la voce Sillogismo dialettico: →); gli Stoici parlano di sospensione del giudizio (epoche: →) in un numero rilevante di casi; e così via. Lo studio della doxa non è quindi affatto considerato secondario e inutile o vano; al contrario, nella convinzione che spesso non si possa vivere che entro una cornice di opinioni, i filosofi hanno dedicato grande attenzione a questo studio. Fermo restando che, ove possibile, l’obiettivo rimane la scienza, cioè la conoscenza ben fondata, fedele ai principi della ragione (per quanto diversamente essi siano stati intesi questi principi nel corso delle ricerche tra i primi filosofi e, sette/otto secoli dopo, l’ultima grande visione della ragione umana elaborata nel mondo antico, quella di Plotino). Dramma satiresco Vedi Teatro Greco Dualismo / Monismo Sono termini moderni (entrambi introdotti nella terminologia filosofica nel corso del Settecento) che designano in termini molto generici posizioni contrapposte rispetto alla nozione di realtà (→): - sono dualiste quelle teorie che separano, in modo debole o forte, almeno due diversi tipi di realtà; - sono moniste quelle teorie che considerano qualsiasi realtà individuale o universale, materiale o mentale, appartenente ad un unico Tutto, sulla base di un legame, o di una rete di legami, che le uniscono. Quasi tutte le filosofie greche sono moniste (vedi la voce Uno: →). Compare una forma di dualismo in Platone che separa in modo netto le realtà che afferiscono al mondo materiale e sensibile e le realtà che compongono il mondo intellegibile (le idee eterne e la sfera del divino). Ma Platone ha cercato per varie vie di stabilire dei ponti tra le due sfere della realtà, ad esempio col mito del Demiurgo (→) o con le nozioni di imitazione (→) e di partecipazione (→), o con la figura di Eros come demone che collega l’umano e il divino (vedi la voce Simposio: →). Anche il suo dualismo quindi è in realtà debole e non radicale. Dubbio Traduciamo con dubbio il termine greco aporia, che ha anche un diretto corrispettivo in italiano (vedi la voce Aporia). Infatti il verbo aporein significa essere incerto. Il dubbio è quindi l’atteggiamento spirituale di chi, di fronte a una scelta da prendere, o a un ragionamento complesso, non sa che via prendere e, per così dire, si ferma. Ma il dubbio in quanto tale è anche il motore della ricerca, perché la coscienza del proprio stato di “non sapere” favorisce l’attività volta al superamento del dubbio (perché lo si vive come inaccettabile). Ecclesia Il termine greco Ecclesia indicava in età classica l’Assemblea popolare (→) che costituiva il cuore dei sistemi politici retti secondo una costituzione democratica (per un quadro generale delle istituzioni democratiche vedi la voce Democrazia: →). L’Assemblea però esisteva anche in altri sistemi politici, Sparta compresa, con minori poteri e varie strategie di accesso. Nell’Atene del periodo classico, le cui istituzioni conosciamo meglio rispetto ad altre poleis in cui l’Ecclesia aveva un ruolo centrale, avevano diritto (e dovere) di partecipare all’assemblea tutti gli Ateniesi che avessero diritti politici – i polites (→), cioè i cittadini a pieno titolo -, e chi partecipava alle riunioni (non infrequenti) riceveva una indennità, in modo che la partecipazione fosse resa possibile anche per gli strati con minori disponibilità economiche (essere presenti ai lavori dell’Ecclesia implicava la perdita di un numero non piccolo di giornate di lavoro l’anno). Si votava per alzata di mano o per acclamazione, solo in casi rari e previsti dalla legge a scrutinio segreto. Ad Atene il luogo di riunione era dapprima l’agora, poi ci si riuniva al colle della Pnice, poi al Teatro di Dioniso e al Pireo (dopo la metà del IV secolo). Anche quando le città greche persero di fatto la loro autonomia politica, l’Ecclesia si mantenne in vita con poteri diversi. Ad Atene vi partecipava un numero minore di cittadini, e non si riceveva più alcuna indennità per la partecipazione ai lavori, sicché l’elemento più popolare era di fatto escluso. Ecista Il termine greco è oikistes, che potremmo tradurre con fondatore (oikos è la casa, il luogo in cui si vive). In età storica, l’ecista è l’uomo (in genere un nobile) che guidava la comunità degli uomini che lasciavano la madrepatria per fondare una colonia (→), cioè una nuova polis. In genere poi queste figure erano, nei secoli, oggetto dei culti che nel mondo ellenico erano riservato agli eroi. Molte città la cui fondazione si perdeva nella notte dei tempi narravano miti di fondazione in cui l’ecista era un dio o un eroe della mitologia, rappresentandolo in genere nelle monete e riservando a questa figura un culto locale. Eclettismo Posizione filosofica che consiste nel tentare la sintesi di una molteplicità di teorie. Le filosofie eclettiche, quindi, non hanno una propria fisionomia definita rispetto alle altre, ma tentano di trarre da esse gli elementi comuni. Si parla di filosofie eclettiche, tuttavia, quando questo tentativo di conciliazione non è svolto soltanto, come spesso è avvenuto nella storia della filosofia, su due linee di pensiero, ma su molte, senza porsi sino in fondo il problema di una loro compiuta conciliazione in una nuova teoria organica. È eclettica ad esempio la filosofia di Cicerone, più interessato alla definizione di principi pratici per l'azione che alle dispute teoretiche tra le scuole. Nell'uso dei termini eclettismo/eclettico è spesso presente una sfumatura negativa, critica: si sottintende una effettiva mancanza di rigore teoretico, a favore di altri interessi (etici, ad esempio). Va comunque chiarito che, pur essendo presente il termine e il concetto nella filosofia greca (è Diogene Laerzio a parlare di eklektike airesis), è soprattutto la storiografica filosofica moderna ad averlo usato in senso specifico. Economia Di una scienza economica in senso proprio, la filosofia greca non si è di fatto occupata. Ma molte riflessioni di tipo economico sono presenti in percorsi di ricerca o in teorie di tipo etico e politico. Il termine però è greco: oikonomia è, etimologicamente, la legge che governa la famiglia, quindi la casa. L’ambito è quello delle relazioni interne alla famiglia, relazioni di potere (ad esempio tra padrone e schiavi) e parentali (tra l’uomo e la donna, tra l’uomo e i figli). Aristotele, che è il filosofo che ha dedicato più attenzione a questi temi, ne tratta in Politica I-3. Platone nella Repubblica descrivendo lo Stato ideale ne tratta non diffusamente a proposito della classe dei lavoratori. Edipo Personaggio della mitologia greca le cui vicende sono portate sulla scena da Sofocle in due tragedie, Edipo re e Edipo a Colono. Nel mito è figlio di Laio, re di Tebe, e della regina Giocasta. Un oracolo convince Laio ad esporre il bambino appena nato, che viene trovato e allevato come proprio figlio dal re Polibo e dalla moglie. Divenuto adulto, si reca a Delfi per sapere chi sono i suoi veri genitori e riceve una terribile profezia: egli ucciderà suo padre e sposerà sua madre (ma non gli viene rivelata la loro identità né quella dei suoi genitori). Fuggendo da questo terribile oracolo, ad un incrocio incontra un uomo con cui viene a lite e lo uccide. Giunto a Tebe, scopre che la città è dominata da una Sfinge che non fa passare i viaggiatori e li uccide se non rispondono ad un indovinello. Edipo risponde, uccide la Sfinge e quindi i tebani, grati per averli liberati dalla Sfinge, lo invocano come re. Sposa così la regina, rimasta vedova, e da lei ha diversi figli, tra cui Antigone. In tarda età scopre che l’uomo ucciso era suo padre e la regina di Tebe sua madre. Abbandona Tebe e in una atmosfera sacrale è poi accolto dagli dèi nell’aldilà. Quello di Edipo, e poi di sua figlia Antigone, è per la filosofia uno dei miti più importanti. Edipo re Titolo di una tragedia di Sofocle. L’Edipo re è la tragedia forse più nota di Sofocle, collocabile al centro della sua attività intorno al 425 a.C. L’opera fa parte del ciclo tebano e narra di come Edipo, re di Tebe, venga gradualmente a conoscenza della verità sul suo passato e sulla sua identità, e di come arrivi a punirsi crudelmente per ciò che, pur inconsapevolmente, ha commesso. Edipo è stato eletto re di Tebe dopo aver risolto l’enigma della Sfinge, liberando la città dalla sua oppressione. Ma ora sulla città incombe un’altra terribile sciagura, la peste. Incalzato dai sudditi, Edipo, considerato il più sapiente degli uomini, invia il cognato Creonte presso l’oracolo di Delfi per comprendere le cause dell’epidemia. La risposta del dio è che la città è contaminata perché l’assassino di Laio, il vecchio re di Tebe, di cui Edipo ha sposato la moglie Giocasta, è ancora vivo e libero. Edipo, per trovare il colpevole, proclama un bando che prevede l’esilio per l’uccisore di Laio e per chi lo sta aiutando, nascondendolo. Edipo si rivolge poi all’indovino Tiresia affinché gli sveli l’identità dell’assassino. Tiresia inizialmente tace scatenando la collera di Edipo, ma poi decide di rivelare la terribile verità: fu lo stesso Edipo ad uccidere Laio e a sposarne la moglie. Edipo, incredulo e convinto della propria innocenza, accusa Tiresia e Creonte di congiurare contro di lui per sottrargli il trono. Ma intanto il dubbio si è impadronito della sua anima. L’indovino, allontanandosi, profetizza che il futuro svelerà che Edipo ha sposato la sua stessa madre, è fratello dei suoi stessi figli e che entro la fine del giorno sarà scoperto e se ne andrà vagabondo e cieco in terra straniera. Interviene Giocasta a calmare gli animi, e a suggerire ad Edipo di non ascoltare nessuna profezia; anche a Laio, infatti, era stato predetto che sarebbe stato ucciso da suo figlio, e proprio per questa profezia il re aveva fatto esporre il figlio avuto da Giocasta su un’alta montagna con i piedi legati da una fune. I suoi assassini si erano poi rivelati essere dei banditi che Laio aveva incontrato sulla strada per Delfi. A questo punto Edipo ricorda e racconta a Giocasta la propria storia. Edipo era stato cresciuto dal re di Corinto Polibo, di cui credeva di essere figlio, ma, dopo aver interrogato l’oracolo di Apollo che non ne aveva svelato i veri natali, aveva scoperto il suo futuro: avrebbe ucciso il padre e sarebbe divenuto il marito della propria madre. Per sfuggire a questo tremendo destino, Edipo fuggì da Corinto e proprio lungo la strada aveva incontrato un uomo che lo aveva offeso, e per questo lo aveva colpito a morte. Edipo inizia ora a chiedersi se le parole di Tiresia non corrispondano al vero: è forse proprio lui ad aver ucciso Laio? La volontà di continuare le indagini per conoscere la verità spinge Edipo a convocare il servo di Laio. Nel frattempo giunge da Corinto un messo che annuncia che il re Polibo è morto e quindi Edipo si sente liberato dal dubbio di aver ucciso il padre. La profezia ancora una volta sarebbe errata. Ma quanto alla profezia riguardante la madre con cui Edipo avrebbe generato dei figli? Il messo afferma che a questo riguardo non c’è alcun pericolo in quanto i sovrani di Corinto non sono i veri genitori di Edipo, essendo questi stato adottato da loro. Anzi era stato proprio il messo ad aver avuto in consegna il bambino da chi lo avrebbe dovuto abbandonare sul monte Citerone. La verità appare in tutto il suo orrore a Giocasta, mentre Edipo ancora non comprende, anzi pensa che Giocasta rifiuti solamente il fatto di aver sposato un uomo dalle origini così oscure e incerte. La verità deve fare il suo corso e Edipo vuole sapere. Arriva finalmente il servo di Laio che Edipo interroga in modo pressante. Il messo di Corinto lo riconosce e il servo racconta di aver ricevuto da Laio l’ordine di uccidere suo figlio e di non aver eseguito il comando per pietà, affidando il bambino ad un pastore diretto a Corinto. La verità è completamente svelata: Edipo capisce in tutto il suo orrore ciò che è accaduto, la tremenda macchia che grava su di lui, sulla madre-moglie, sui figli-fratelli. Edipo, re amato, diventa un individuo mostruoso, colpevole anche se involontariamente di atti tremendi. Giocasta si suicida impiccandosi e Edipo decide di punirsi accecandosi. Con le orbite grondanti di sangue, Edipo appare per l’ultima volta per affidare, con dolore, le figlie a Creonte e poi andarsene. Edonismo Il termine italiano deriva da hedone, che significa piacere (la radice hed- indica sia la gioia sia la piacevolezza). L’edonismo è quindi proprio di qualsiasi dottrina etica che ponga il piacere come elemento importante per la felicità umana e per la pienezza della vita. Ma cosa debba intendersi per piacere (→), e quale rapporto vi sia tra il piacere e la felicità (→), è oggetto di discussione tra le scuole filosofiche greche, alcune delle quali rifiutano in modo molto netto l’edonismo (ad esempio il platonismo), mentre altre lo accettano (dopo la Scuola Cirenaica, la più netta tra le scuole ellenistiche su questo tema è l’epicureismo), o lo discutono con evidente interesse (ad esempio Aristotele, e gli stessi Stoici, per i quali, per il suo legame con le passioni, va comunque tenuto sotto stretto controllo). Il punto è che, proprio per il suo rapporto con le passioni (→), ricade sotto l’indagine generale che i Greci hanno dedicato a questo tema, e non c’è scuola filosofica, per edonista che sia (ad esempio la Cirenaica) che non metta in guardia dalle conseguenze non volute di una concezione edonista della vita. Ad esempio, per l’epicureismo queste conseguenze vanno calcolate, mediante un preciso calcolo degli utili (così Epicuro nella celebre Lettera a Meneceo, o Lettera sulla felicità) Educazione Vedi Paideia e Pedagogia Efesto Figlio di Era, associato alle tecniche e in particolare al controllo del fuoco e alla lavorazione dei metalli, è zoppo e su questa malformazione si raccontavano varie storie per spiegarla, tutte in qualche modo legate a sofferenze dell’infanzia o della giovinezza e a difficili rapporti con Era (e con Zeus). Appartiene comunque al gruppo centrale degli dèi olimpi, ed è lo sposo di Afrodite (ed amante di varie altre bellissime dee). In quanto padrone delle tecniche del fuoco e dei metalli, è un dio potente, dalle cui fucine escono prodotti mervigliosi dell’arte della lavorazione dei metalli. Presiede anche ai Vulcani e alla loro attività. Efialte e Oto Vedi Giganti Egemonico Traduciamo con egemonico il termine greco hegemonikon, utilizzato dagli Stoici per indicare la sfera razionale superiore dell’uomo, scintilla del Logos universale, che ha il compito di guidare ogni azione e ogni pensiero dell’uomo, in quanto essere razionale. Questa scintilla razionale in noi è, fisicamente, pneuma purissimo, e da esso si dipartono le facoltà della mente (percepire, assentire, ragionare, deliberare, e così via). Se usato in senso assoluto, hegemonicon è quindi il Logos stesso, come supremo reggitore e vita stessa dell’universo. Egitto Per un greco o per un romano l’Egitto – abitato da popolazioni di stirpe camitica – era già una terra antichissima, perché la sua civiltà si era formata nel corso del IV millennio a.C. e già dopo il 3.100 a.C. circa era nato un solo regno sotto la prima delle 31 dinastie che lo governarono sino all’epoca di Cesare, quando perse la sua autonomia e fu inglobato nell’Impero Romano. Gli elementi della cultura egiziana che ci sembra importante richiamare ai fini dello studio della filosofia antica sono tre: - la scrittura geroglifica, che rappresentò una delle prime forme di scrittura dell’umanità e pose l’avvio di quel processo di passaggio dall’oralità alla civiltà della scrittura (→) che per il mondo ellenico si realizzò a partire dall’VIII secolo a.C.; - la religione, che concepiva la vita dell’anima oltre la morte e quindi una identità personale indipendente dal corpo; - le conoscenze scientifiche, in particolare nel campo della matematica e della geometria, nonché nel settore astronomico, che furono in parte la base su cui lavorarono i matematici e gli scienziati greci. Ekpyrosis Traduciamo con conflagrazione il termine greco ekpyrosis, che indica – letteralmente – la fine del mondo. È questa una tesi tipicamente stoica, sulla base probabilmente di un’eco eraclitea, che si basa (fortemente radicalizzandola) sulla teoria della ciclicità del tempo piuttosto comune nella filosofia greca (vedi la voce Tempo: →): l’universo nel quale viviamo ha un inizio e una fine, per ampio che sia lo scorrere del tempo; ma la fine di questo universo coincide con la nascita di un nuovo universo, che si ripeterà eguale a questo, perché non ci può essere modificazione in ciò che è in sé compiuto e perfetto. L’universo muore incendiandosi: l’elemento del fuoco prende il sopravvento e distrugge tutto, ma allo stesso tempo il fuoco genera un nuovo universo. Essendo il tempo circolare, da sempre e per sempre gli universi nascono e muoiono con la ekpyrosis. Elea / Eleatismo La colonia di Elea, stabilita dai Focesi a sud di Pestum in Campania alla metà del VI secolo a.C. su un precedente insediamento degli Enotri, sulla rotta commerciale che dall’Oriente portava verso Marsiglia, sorgeva su un territorio in cui la presenza greca era già consolidata, tra la costa, l’entroterra e le isole campane. Era in stretti rapporti mercantili con Atene, e quando l’area campana entrò nella sfera di influenza di Roma, fu alleata (III secolo a.C.) per poi divenire municipio romano (I secolo a.C.) col nome di Velia. Dal punto di vista fisico, sorgeva su un promontorio aperto sul mare, che dava quindi luogo a due porti. La città decadde nell’età tardo antica quando questi porti cominciarono a insabbiarsi. Oggi quello che era un promontorio è interrato, e della città antica restano notevoli testimonianze archeologiche, tra cui la celebre Porta Rosa, con l’unico esempio in Magna Grecia di volta a tutto sesto di età classica (i resti archeologici della città antica risalgono per lo più al IV secolo a.C.). La Porta Rosa potrebbe essere quella che Parmenide descrive nel Proemio del suo Poema sulla natura, anche se sulla esatta topografia dei luoghi parmenidei si sono fatte varie ipotesi. Poiché Parmenide (→) visse a Elea, e così il suo allievo Zenone (→), la scuola filosofica che fa riferimento alle tesi di Parmenide sull’Essere è detta, già dalle fonti antiche, eleatica, benché i continuatori come Melisso (→) non abbiano avuto rapporti diretti con Elea. Poiché i principi della scuola sono già fissati con Parmenide, il termine eleatismo indica innanzitutto la filosofia di Parmenide. Ma Zenone, per quanto riguarda il metodo, e Melisso, su alcuni aspetti non certo secondari della teoria filosofica, hanno apportato contributi di notevole rilievo; se eleatismo è quindi la filosofia di Parmenide, i metodi e le teorie dei suoi successori vanno inquadrate unitariamente in questo ambito teorico. In effetti, se seguiamo in maniera imprecisa la storia della scuola per carenza di fonti, possiamo invece senz’altro seguire il ruolo che l’eleatismo ha avuto nello sviluppo della successiva storia della filosofia, perché il principio parmenideo che l’essere non nasce dal nulla e non perisce nel nulla rimane un assioma per tutto lo sviluppo del pensiero greco: lo rispettano i pluralisti tentando vie diverse per conciliare l’immodificabilità dell’essere con il divenire delle cose e della vita; lo studiano con vari gradi di approfondimento sia Platone che Aristotele; lo rispettano le scuole ellenistiche, e così via. Elegia È uno dei tipici componimenti poetici della tradizione greca, sia arcaica che classica (in età successiva il carattere dell’elegia subì sostanziali modifiche, riprese poi nel mondo latino). L’origine è ionica, e ionico il dialetto in cui abitualmente si componeva. Aveva anche un carattere privato, ma ai fini dello sviluppo della cultura filosofica particolarmente importante è l’elegia politica, a fini quindi pubblici, di cui i componimenti poetici di Solone (→) sono un modello. La funzione politica a cui l’elegia era finalizzata era duplice: serviva ad esortare verso determinati valori della comunità, oppure a polemizzare contro i nemici di determinati valori (interni o esterni che fossero). Elemento Il termine greco è stoicheion, plurale stoicheia. Il termine italiano elementi deriva dal latino elementa, introdotto da Lucrezio e poi accettato da Cicerone che lo usò proprio per descrivere la teoria di Empedocle (che usa anche il termine radici, rizomata). La nozione però è precedente, e nasce in fondo con lo stesso Talete, la cui acqua va intesa appunto come elemento originario della natura che, trasformandosi, ha dato origine a tutte le cose. Il concetto di elemento è legato a tutte quelle concezioni filosofiche greche che ritengono che la natura abbia (o derivi da) parti originarie eterne e immutabili e che la complessa formazione di tutte le cose sia originata da mattoni fondamentali (pochi o molti che siano: ad esempio quattro per Empedocle, moltissimi per Anassagora, sotto un certo aspetto solo uno per Democrito, i cui atomi non si differenziano per qualità). In quest’ottica, Platone ritenne, contro i filosofi naturalisti, che i veri elementi non siano qualcosa di materiale: sono piuttosto le idee sul cui modello sono plasmate le cose e gli stessi esseri viventi e l’uomo (o, secondo una diversa teoria, sono le specifiche idee di cui un determinato ente partecipa). In alcuni filosofi gli elementi, che costituiscono comunque i “mattoni” o i principi generatori delle cose, non sono però eterni e originari, ma sono anch’essi qualcosa che si è prodotto. Il termine è anche utilizzato in senso più generico per indicare le parti fondamentali di una dottrina: questo spiega il titolo Elementi per indicare l’opera geometrica di Euclide. Elena Nella mitologia greca è la celebre bellissima donna per la quale scoppia la guerra di Troia. Sono moltissimi i racconti che la riguardano e diverse le tradizioni sulla sua generazione (per lo più è detta figlia di Zeus, ma è una donna mortale), sui suoi parenti e sulle sue figlie. Una tradizione la vuole resa immortale da Apollo, e sorgevano in effetti santuari in suo onore. La vicenda più celebre che la riguarda è legata al suo matrimonio con Menelao, re di Sparta, e alle vicende del celebre giudizio di Paride. Questi era uno dei figli di Priamo, re di Troia, e venne incaricato da Zeus di decidere della contesa che era nata tra Atena, Era e Afrodite: alle nozze di Teti e Peleo, a cui parteciparono anche gli dèi, Eris gettò tra i convitati un pomo d’oro, destinato alla più bella fra le dee (Eris è la dea della discordia). Le tre dee la vollero per sé e quando fu il momento per Paride di decidere, tentarono tutte di corromperlo con dei doni: Atena gli promise la saggezza e la vittoria in guerra, Era il dominio su tutta l’Asia, Afrodite l’amore della donna più bella, Elena. Paride assegnò la vittoria ad Afrodite, e partì per Sparta, dove fu accolto con tutti gli onori. Ma rapì Elena e la portò con sé a Troia. Da qui la guerra. I racconti della vita di Elena dopo la presa di Troia divergono, ma per lo più la dicono nuovamente fedele sposa di Menelao. Nella storia della filosofia la sua figura è legata a un celebre Encomio di Elena scritto da Gorgia da Lentini in cui si argomenta a favore della sua innocenza con tesi che sono molto interessanti per la filosofia del linguaggio e per la concezione greca della responsabilità e della colpa. Elena (Euripide) Titolo di una tragedia di Euripide. Venne scritta nel 412 a.C., quando si stava ormai delineando il crollo della potenza ateniese. E infatti Elena, causa della guerra di Troia, diventa in quest’opera un mero fantasma. È il caso diventa un vero protagonista. Intanto, chi è Elena? E’ la donna più bella del mondo, figlia di Zeus, trasformatosi in cigno per sedurre Leda, moglie di Tindaro, re di Sparta. Secondo un’altra versione, invece, Leda avrebbe solo custodito l’uovo da cui sarebbe nata Elena. La ragazza è ormai giunta in età da marito e il padre, per evitare possibili inimicizie, fa giurare a tutti i pretendenti che avrebbero aiutato il futuro marito della figlia se questa gli fosse stata sottratta. La gara indetta per decidere chi avrebbe sposato Elena vede vincitore Menelao, fratello di Agamennone. Ma un giorno Elena fugge via con Paride, figlio di Priamo, re di Troia e tutti i greci accorrono in aiuto di Menelao. Questa l’origine della guerra di Troia. La tragedia di Euripide si discosta proprio in questo punto: era davvero Elena la donna che era partita con Paride? Già Gorgia, nell’Encomio di Elena, aveva sostenuto che la donna non era colpevole di quanto avvenuto perché o vittima del caso, o degli dèi, o costretta con violenza o con la persuasione delle parole o vittima di Eros. In tutti i casi, dunque, Elena non poteva ritenersi colpevole di nulla. Euripide sostiene, sulla scia di Stesicoro, che la protagonista non sia partita per Troia con Paride, ma sia invece rimasta ad attenderlo, fedele. Il dio Ermes aveva nascosto Elena presso il re Proteo in Egitto, e con Paride sarebbe partito, invece, un fantasma con le sembianze della donna. La guerra di Troia sarebbe stata perciò scatenata da un fantasma. Quando il re Proteo muore, il fratello Teoclimeno vuole sposare Elena che però rifiuta, rimanendo fedele alla memoria di Menelao. Arriva un messaggero che informa Elena che il marito è morto in una tempesta mentre faceva ritorno a casa, ma la donna si chiede se la notizia sia attendibile. Menelao è sì naufragato, ma non è morto, ed è sbarcato in Egitto con il fantasma di Elena; arrivato al palazzo di Teoclimeno, Menelao incontra la moglie, incredulo perché convinto di averla lasciata insieme al suo equipaggio. Il riconoscimento si fa difficile perché anche Elena, da parte sua, crede che il marito sia morto. Alla fine i due capiscono la verità e decidono di fuggire, aiutati dalla sacerdotessa Teonoe, sorella di Teoclimeno. Elena dice al re di aver saputo della morte del marito, e di accettare quindi la proposta di nuove nozze non prima però di aver celebrato una cerimonia funebre per il marito su una nave in mare aperto, come da tradizione greca. Teoclimeno fornisce quindi ad Elena una nave con equipaggio, e la donna insieme a Menelao riesce a fuggire. Teoclimeno, informato dell’accaduto da un messaggero, è fuori di sé e vorrebbe vendicarsi sulla sorella. Ma intervengono i Dioscuri che riescono a placare l’ira del re. Eleusi Località greca, nei pressi di Atene, dove sorgeva un santuario presso cui si svolgevano i cosiddetti Misteri eleusini, tra i più importanti e famosi del mondo antico. Questo culto è antichissimo, sembra addirittura pre-ellenico. Una via sacra univa Atene al Santuario di Demetra (→) (dea della terra, in particolare del grano, e quindi dea della fertilità); essa veniva percorsa dai fedeli, provenienti da tutta la Grecia (si trattava quindi, come i giochi olimpici, di una tradizione panellenica). I misteri si svolgevano all'inizio di autunno e duravano una settimana. Questo culto implicava una forte partecipazione emotiva e una esperienza diretta del sacro. Il rito si svolgeva di notte, alla luce della Luna e delle fiaccole, in una atmosfera di forte suggestione, a giudicare dalle narrazioni tramandateci. Nel corso di queste cerimonie notturne il fedele entrava in diretto rapporto col dio, ne sentiva in sé la presenza. Ai Misteri potevano partecipare tutti coloro che parlavano greco e non si fossero macchiati di delitti che implicavano contaminazione (come omicidi o sacrilegi). Potevano dunque partecipare non solo gli uomini liberi, ma anche le donne e gli schiavi, e gli stranieri che parlassero il greco. Si trattava dunque di uno degli strumenti tipici delle popolazioni greche per caratterizzare la propria identità culturale. Visto il carattere panellenico di Eleusi, il fatto che i Misteri avessero la loro sede in un santuario controllato da Atene fu per molto tempo un segno della potenza e dell’importanza di questa città nel contesto delle poleis greche. Abbiamo alcune notizie sui complessi rituali che si praticavano nel corso della settimana sacra in autunno, preceduti in primavera da riti che si svolgevano in un sobborgo di Atene e avevano lo scopo di una purificazione preliminare. I riti prevedevano bagni rituali nel mare greco e in alcuni fiumi dei dintorni di Atene, cerimonie di purificazione, sacre rappresentazioni, l’uso di determinati abiti e simboli, cerimonie miranti alla purificazione e alla preparazione all’incontro con la divinità, in una atmosfera emotiva molto intensa, in attesa di una rivelazione che avveniva nel segreto del tempio e non poteva essere comunicata all’esterno in alcun modo. Migliaia di persone tutti gli anni potevano così, entro la cornice strutturata e controllata del rito, partecipare alla esperienza collettiva e individuale del rapporto con il divino: entrare da protagonisti nella sfera del sacro. I Misteri eleusini erano connessi a riti della fertilità, di cui Demetra era depositaria, ma erano anche esperienze rituali del dolore e della rinascita: nel mito infatti Persefone, figlia della dea Demetra, era stata rapita da Ade, dio degli Inferi, e lungamente cercata dalla madre disperata, il cui dolore veniva rievocato nel corso dei Misteri, prima di giungere alla riparazione del torto subito con il matrimonio tra Ade e Persefone. I Misteri eleusini possono essere per alcuni tratti accostati ai culti dionisiaci, con cui condividevano l’esperienza diretta dell’incontro personale con la divinità nel corso della cerimonia collettiva. Eliea Insieme con l’Ecclesia (→), cioè l’Assemblea popolare, e la Boule (→), è l’istituzione di democrazia diretta più importante del sistema politico ateniese in campo giudiziario. È il tribunale popolare ateniese nato al tempo delle riforme di Solone (inizio VI secolo a.C.), ma gli storici sono in dubbio sulle sue precise attribuzioni per il VI secolo (presumibilmente operava come corte d’appello). Dopo le riforme di Efialte e di Pericle, divenne un tribunale di prima istanza e parte delle competenze dell’Areopago le vennero trasferite (ma non i processi per omicidio): i giudici erano 6.000 cittadini scelti tutti gli anni tra quanti avevano più di trent’anni, e a partire dalla metà del V secolo ricevevano una indennità. Il tribunale operava diviso in varie corti. Sulla organizzazione giudiziaria ateniese vedi la voce Diritto greco (→). Eliocentrismo / Geocentrismo Con la dizione eliocentrismo oggi ci si riferisce alle teorie proposte nell’antichità da Eraclide Pontico (→) e Aristarco di Samo (→), diverse fra loro, che considerano l’universo fisico come una realtà compatta e finita con il Sole (elio-) al centro (-centrismo). Geocentrismo è il termine moderno con cui si indicano le teorie cosmologiche, prevalenti nell’antichità, che considerano l’universo una realtà compatta e finita, formata dalla Terra (geo-) posta al centro (-centrismo) e dai cieli che le ruotano intorno. Sul problema cosmologico a cui queste teorie fanno riferimento vedi le voci Cieli e Cosmologia (→). Va osservato che sia l’eliocentrismo che il geocentrismo sono teorie che considerano l’universo finito. In una teoria fisica come quella del materialismo antico (l’atomismo di Democrito e di Epicuro) che considera l’universo infinito nello spazio e nel tempo non può esserci alcun centro. Elios Vedi Sole Elleni / Ellade Vedi Greci Ellenico / Ellenistico L’aggettivo ellenistico, entrato in uso nell’Ottocento, si distingue dall’aggettivo ellenico, in uso già nella Grecia antica, perché il primo si riferisce alla storia e alla cultura dell’Ellenismo (→), mentre il secondo indica gli aspetti tipici della cultura greca dei periodi arcaico e classico (→), quando la civiltà ellenica non aveva ancora dato vita a quella vasta aggregazione cultuale di elementi greci e orientali che va sotto il nome di ellenismo. Per i Greci l’Ellade (Hellas) era tutto il territorio abitato dai Greci, ovunque sorgessero le loro città, non solo nella Grecia continentale e nelle isole dell’Egeo. La nozione è squisitamente culturale, più che geografica o politica. Ellenismo Nel XIX secolo lo storico J.D. Droysen propose il termine ellenismo per indicare il periodo della storia antica del Mediterraneo e del Medio Oriente successivo alla conquista dell’Egitto e di vaste regioni dell’Asia da parte di Alessandro Magno. Quest’epoca venne caratterizzata dalla fusione di elementi culturali ellenici con elementi culturali orientali. Questa fusione diede vita alla cultura politica dei cosiddetti Regni ellenistici, fondati dai successori di Alessandro Magno che si divisero in seguito a dure lotte i territori da lui conquistati. Dal punto di vista della cultura filosofica e scientifica l’ellenismo è caratterizzato da nuove forme di organizzazione della ricerca e da una attenzione al passato diversa da quella che si era avuta in età arcaica e classica: - la ricerca filosofica si struttura in scuole concepite come istituzioni con una propria complessa struttura e gerarchia interna, con finalità anche didattiche (vedi la voce Scuole ellenistiche: →); non mancano però modelli diversi di filosofia “popolare”, come è il caso della Scuola Cinica (vedi la voce Cinici: →) - la ricerca scientifica si specializza nei vari rami, dalla medicina alla matematica, alla fisica, e così via, in istituzioni specifiche in vari casi finanziate dai governi dei regni presso cui sorgono: le istituzioni più importanti sorgono presso le Biblioteche di Pergamo (→) e di Alessandria, con annesso il Museo (→); però non mancano studiosi che operano in modo indipendente, anche se in genere in rapporto col potere politico locale, come è il caso di Archimede di Siracusa (→); - presso queste istituzioni (soprattutto presso la Biblioteca di Alessandria e il Museo, ma anche a Pergamo) si svolge anche un accurato lavoro filologico di sistemazione e catalogazione della produzione delle epoche precedenti: nascono le classificazioni dei generi letterari, si sistema il sapere grammaticale in forma ordinata, si stabiliscono cronologie e successioni di poeti, filosofi, e così via, in un lavoro di ordinamento del materiale antico che ormai appare come appartenente ad un periodo concluso rispetto al presente; - la lingua che viene utilizzata per questo lavoro e per la stesura delle opere nuove è la cosiddetta koine (→), cioè la forma che prese il greco quando divenne la lingua colta di un vastissimo territorio tra il Mediterraneo e l’Oriente, presso popolazioni diverse ciascuna delle quali aveva la propria lingua (anche a Roma il ceto dirigente abitualmente leggeva e parlava il greco). Emanazione Il termine greco è proeinai, che in filosofia acquisisce un significato tecnico in Plotino (e nei suoi immediati predecessori a noi però assai poco noti). È il processo che spiega come sia possibile che dall’Uno, che è a fondamento dell’essere di ogni ente, si produca l’effettivo dispiegarsi degli enti eterni e di quelli soggetti al tempo. Restando coerente al principio greco che l’essere non può mai derivare dal nulla, Plotino concepisce l’emanazione come un atto di generazione e di progressiva differenziazione (vedi Differenza: →) con cui la vita dell’Uno si prolunga nell’essere di enti eterni da lui posti come diversi da sé, ma espressione di sé. A cascata, da questi la vita (e quindi l’essere) fluisce ponendo altri enti fino alle sue più lontane manifestazioni; così è inteso l’essere degli enti materiali in cui le differenze qualitative tra gli enti eterni (che Plotino chiama ipostasi: →) si sono prolungate fino a generare differenze quantitative, tipiche della materia. L’Uno è energia pura, semplice, che emana se stesso diversificandosi in forme via via più lontane da sé, ed è questa energia a spiegare l’essere e la vita di ogni cosa (nulla quindi è senza questo legame – flusso di energia, vita - con l’Uno). L’emanazione non è un processo di creazione, benché a volte questa parola si trovi nei testi di Plotino (ma in un senso diverso da quello della filosofia cristiana), perché non implica nessun passaggio dal nulla all’essere: l’essere degli enti eterni e di quelli temporali non nasce dal nulla, ma fluisce dall’Uno. Sono gli enti temporali (non quelli eterni) nella loro individualità a nascere e a morire, non l’energia vivente dell’Uno che costituisce il loro essere. Dunque, nascita e morte, e con loro la materia e i corpi, riposano su basi solidissime perché eterne, ma in sé hanno ben poca realtà, perché passano. E hanno quindi ben poca importanza, come manifestazioni superficiali e mobili di qualcosa di molto profondo e stabile che, vivendo eternamente al di fuori del tempo, in esse si esprime nel tempo emanando se stesso. Detto questo va però precisato che proeinai non è il termine maggiormente utilizzato per indicare il processo che dall’Uno porta alle altre ipostasi e alla natura materiale e spirituale soggetta al tempo. Più spesso Plotino utilizza proodos, che traduciamo con processione: tutto ciò che esiste procede dall’Uno, anche se è altro da Lui, e quindi della sua energia vive. Tuttavia nella storia della filosofia e nel neoplatonismo successivo prevale il termine emanazione, che ha quindi finito per imporsi nella tradizione successiva. Emozioni Vedi Passioni Empirico Vedi Esperienza Encomi e apologie Sono due generi letterari tipici della filosofia antica, ma anche di altri settori della vita culturale, come il diritto, la religione, la politica. L’apologia (dal greco apologhia, che significa difesa) ad Atene era il discorso, in un processo, che l’accusato aveva il diritto di tenere a propria difesa di fronte ai giudici (questi discorsi erano in genere scritti però da specialisti, anche se pronunciati dall’accusato: si veda la voce Logografi. →). È un genere letterario importante per la filosofia perché Platone ha scritto la celebre Apologia di Socrate, un discorso che in realtà è lontano dai modelli giudiziari dell’epoca ed è costruito da Platone anni dopo la morte di Socrate probabilmente per proporre una certa interpretazione della figura del maestro. È quindi un unicum nella storia della filosofia antica. Come genere letterario ha il carattere di un discorso – quindi sul registro dell’oralità, ma non del dialogo (benché nell’Apologia di Socrate vi sia un breve dialogo) – costruito come riflessione su episodi che vengono narrati, in uno stile pacato e semplice (che tuttavia nasconde complessità filosofiche di non piccolo momento) Di testi dal titolo Apologia di Socrate (per lo più non pervenutici) ne sono state scritte molte altre nell’antichità, anche diversi secoli dopo la morte del maestro. L’apologia in genere divenne un genere letterario, non più filosofico ma retorico, e apologisti furono chiamati gli scrittori cristiani che, nei primi secoli d.C. scrissero a difesa della nuova religione. Nell’antichità poi il genere ha avuto cultori in vari altri campi non filosofici, come la politica. Quanto all’encomio (in greco enkomion), è affine all’apologia, ma ha un’origine poetica: la parola enkomion significa infatti canto per una festa, e lo si eseguiva in occasioni di banchetti o di processioni, in genere per celebrare vittorie ai giochi panellenici o in altre occasioni di festa. Nel V secolo a.C. Gorgia trasformò il genere in un gioco retorico in prosa, ma con caratteri che richiamavano la poesia (ad esempio nell’Encomio di Elena), e così si affermò in età successive (ne composero, ad esempio, altri retori come Isocrate, o scrittori come Senofonte, o in età successiva letterati dalla vena satirica come Luciano). Degli encomi, o elogi, sono esistite quindi due forme: - discorsi seri in lode di qualcuno (divenne un genere molto frequentato nel mondo politico romano); - discorsi semiseri, sospesi tra serietà di fondo e leggerezza scherzosa nello stile e nel contenuto. Gli elogi del Simposio platonico (tra i più importanti di questo genere letterario per la filosofia) appartengono tutti a questo secondo genere – tanto quelli rivolti ad Eros quanto quello rivolto a Socrate da Alcibiade -, ma questo non esclude affatto un contenuto serio. Anzi, nella leggerezza del gioco (→) si rivelano i molti volti dell’Eros come della filosofia. Per un quadro generale dei generi letterari dell’antichità in filosofia si veda la voce Generi letterari della filosofia antica (→). Endossa Termine greco utilizzato da Aristotele per indicare le "opinioni ben fondate", cioè le convinzioni largamente condivise o particolarmente autorevoli, in quanto fondate sull'esperienza e la saggezza di persone di valore. Sulla loro base non è possibile costruire dimostrazioni certe (si tratta pur sempre di opinioni, e non di principi certamente veri), ma è comunque possibile costruire una visione etica del mondo ben fondata. Ente Dal termine latino-medioevale ens che a sua volta traduce il greco on (participio presente neutro sostantivato del verbo einai, essere), l’ente è ciò che è: ciò che sul piano della realtà esiste e ha una modalità d’essere che gli è propria in modo da essere identificabile individualmente. Ciascun ente infatti ha il carattere dell’individualità. Precisiamo che non stiamo descrivendo la teoria specifica di una scuola, ma il significato corrente della parola ente nei testi della filosofia greca. Mentre al singolare ente e essere non sono sinonimi, al plurale lo sono: negli scritti filosofici si trova al plurale sia la dizione enti che esseri. In entrambi i casi ci si riferisce a singoli enti in numero superiore ad uno. Nella nozione di ente entrano in gioco due concetti che non sono sovrapponibili: - la nozione di essere (→), perché l’ente è qualcosa e non è nulla; - la nozione di esistenza (→), perché l’ente esiste in una qualche forma di realtà. Della nozione di ente facciamo esperienza continua perché nel significato filosofico comune nei testi greci sono enti tutte le cose intorno a noi e noi stessi. Siamo enti per il solo fatto che siamo qualcosa, e per il fatto che esistiamo, cioè che ci siamo, qui e ora. Detto questo, i problemi filosofici sono ancora da definire e da esaminare. Infatti - non è per nulla chiaro che cosa sia l’individualità di un ente, in un mondo in cui tutto è in relazione con tutto e in cui ogni corpo è composto di parti; come si può considerare, ad esempio, individuale in senso assoluto un qualsiasi ente vivente sulla Terra, se non sopravviverebbe senza l’aria (o l’acqua se è un animale marino)? e inoltre, se un singolo ente della Terra è individuale, lo è anche la Terra nel suo complesso? - non è ancora chiaro quali parti siano necessarie per definire l’individualità di un ente: secondo un celebre esempio, se ad un sacco di grano ne togliamo alcuni chicchi, è ancora un sacco di grano; quanti è possibile toglierne, o aggiungerne, perché rimanga un sacco di grano? è il celebre argomento del sorite (→); - inoltre vanno chiarite le cause che hanno determinato l’essere e l’esistere di ciascun ente, problema che rimanda alla nozione di causa (→). Oltre a questi problemi, la nozione di ente condivide con le nozioni di essere (→) e di esistenza (→) un notevole numero di problemi filosofici, per i quali rimandiamo a queste voci. Entimema Con il termine entymema (dal verbo entymeomai, che significa riflettere, trarre conclusioni) Aristotele intende una forma di ragionamento (cioè di sillogismo: →) che parte da premesse che sono soltanto probabili; le conseguenze non potranno che essere a loro volta probabili: ad esempio, se si sostiene una cosa probabile come “Tutti i sapienti sono persone virtuose”, poiché Socrate è una persona sapiente se ne può concludere che “Socrate è virtuoso”, ma solo in modo probabile. L’entimema è quindi un ragionamento tipico del procedimento retorico, non adatto alla esposizione della scienza. Aristotele poi usa lo stesso termine entimema anche per indicare sillogismi scientifici, cioè basati su premesse certe, che tuttavia vengono sottintese. Si tratta quindi di una forma abbreviata di ragionamento: ad esempio, la frase “Quell’uomo ha la febbre, quindi non è in buona salute” è un ragionamento corretto, ma esposto in forma breve perché la premessa maggiore (che dovrebbe essere una frase del tipo “La febbre è in tutti i casi segno di una malattia”) è sottintesa. Entusiasmo In greco entheos è colui che è ispirato da un dio. In senso generale, l’entusiasmo (in greco enthousiasmos) è quindi uno stato psichico caratterizzato da esaltazione, o soltanto emotivamente molto intenso. In specifico, nella tradizione greca il termine indica lo stato di esaltazione che deriva dalla presenza in sé della divinità, come avviene in certe forme di trance o nei culti dionisiaci. È inteso in senso positivo o negativo a seconda che si avverta in sé la presenza di un dio o di un demone, presenza cercata perché benevola o da cui liberarsi perché malvagia (in questo senso sono interpretate alcune malattie, la cui cura passa attraverso determinate pratiche rituali). In Platone l’entusiasmo è lo stato in cui si trova il poeta ispirato, che non sa rendere ragione di ciò che dice perché in lui parla un dio o una Musa. Nei neoplatonici il termine è utilizzato per indicare lo stato in cui si trova l'uomo che progredisce sulla via dell'estasi. Epaminonda Insieme con Pelopida, anch’egli uomo politico e capo militare tebano, Epaminonda (vissuto dal 418 circa al 362 a.C.) fu l’artefice del breve periodo di egemonia tebana sulla Grecia prima della complessiva crisi del mondo ellenico di fronte alla Macedonia di Filippo II. Nella battaglia di Leuttra del 371 a.C. fu infatti Epaminonda a guidare i Tebani e a sconfiggere gli Spartani in quella che fu l’ultimo loro tentativo di imporsi sulla Grecia dopo la Guerra del Peloponneso. L’egemonia tebana ebbe poi termine con la battaglia di Mantinea del 362, in cui lo stesso Epaminonda trovò la morte. Tebe, senza la guida di Pelopida (già morto) e di Epaminonda non riuscì più a imporsi benché la battaglia si fosse chiusa senza un chiaro vincitore sul campo e quindi tutti i giochi fossero ancora aperti. A parte la pur importante dimensione politica, Epaminonda è celebre per le innovazioni tattiche, geniali ed efficaci per l’epoca, introdotte sui campi di battaglia: è sua l’idea del cosiddetto ordine obliquo, un tipo di schieramento degli uomini in battaglia che dava un ruolo offensivo di primaria importanza all’ala sinistra. Filippo II di Macedonia visse da giovane nella Tebe di Epanimonda, e con lui si formò; le innovazioni tattiche e strategiche che egli introdusse nell’esercito macedone (ma anche le sue riforme in politica) sono in parte uno sviluppo di quanto aveva visto in opera in gioventù. Epicureismo La ricchissima produzione letteraria di Epicuro, il fondatore della Scuola Epicurea, è andata quasi totalmente perduta. I documenti diretti che ci sono pervenuti costituiscono solo una piccola parte di quella che sappiamo essere stata una vastissima opera. Possediamo comunque tre lettere dottrinali, indirizzate A Erodoto (sulla fisica e sulla teoria della conoscenza), A Pitocle (sui fenomeni atmosferici) e A Meneceo (sull'etica), che costituiscono una summa dottrinale del suo pensiero. Queste lettere sono state conservate, assieme ad un gruppo di massime e altre brevi opere, da Diogene Laerzio che le ha riportate nel suo Vite dei Filosofi. Ci sono pervenute poi altre lettere, questa volta di carattere privato - di cui una alla madre -, un gruppo di Massime ritrovate nel 1888 nella Biblioteca Vaticana, e infine alcuni papiri rinvenuti ad Ercolano, che riportano importanti frammenti dell'opera maggiore di Epicuro, Sulla natura. Nonostante la scarsità dei documenti, si è potuto ricostruire la dottrina epicurea, da una parte attraverso la testimonianza di autori avversari della sua scuola, dall'altra grazie alle opere di scrittori appartenenti al circolo epicureo. Costoro, dei quali il più illustre è sicuramente il poeta latino Lucrezio, ci hanno riportato il il complesso della filosofia epicurea mantenendo una notevole aderenza al pensiero del maestro; la scuola infatti, a differenza ad esempio di quella stoica, non si è mai discostata in maniera sostanziale dall'insegnamento del suo fondatore. Di Epicuro abbiamo scarse notizie anche dal punto di vista biografico. Diogene Laerzio ci riporta alcuni dati che però non sono sufficienti per tracciare un profilo ampio e completo della sua figura. Sappiamo che nasce nel 341 a.C. a Samo. Il padre vi si era trasferito come colono ma, essendo cittadino ateniese di nascita, anche Epicuro lo è. Secondo la tradizione ha come maestri un platonico e un democriteo, ma egli si dichiara autodidatta. Nel 323 si reca ad Atene per il servizio militare e vi rimane per circa due anni. Si trasferisce poi nell'isola di Lesbo dove comincia ad insegnare, ma ben presto è costretto a passare in Asia Minore, probabilmente per motivi politici, anche se le poche informazioni che abbiamo ce lo mostrano sempre estraneo alla vita politica. Qui intorno ad Epicuro si forma nel 309 il primo gruppo di seguaci, ma solo alcuni anni dopo, nel 306, egli fonda ad Atene la sua scuola, detta il Giardino, dal luogo dove i discepoli e il maestro si intrattengono - appunto un edificio e un giardino - immersi nella campagna e lontani dal caos cittadino. Quella di Epicuro sembra essere, più che una scuola, una comunità in cui maestro e discepoli si raccolgono non già nella pratica degli studi e nella ricerca comune, ma nell'apprendimento e nella conversazione di una dottrina, nell'osservanza di una regola di vita, nell'esercizio di una vicendevole amicizia. La scuola epicurea si caratterizza quindi come una comunità unita non solo da un comune pensiero ma anche da un profondo senso dell'amicizia (cui Epicuro attribuirà una funzione fondamentale per la vita dell'uomo); tuttavia, nonostante questo carattere privato e quasi familiare, essa è organizzata secondo una precisa struttura gerarchica: vi è una scala progressiva che procede per gradi sempre maggiori di avanzamento. Un altro particolare piuttosto interessante è che appartengono alla scuola epicurea anche donne e schiavi. La scuola epicurea in Atene sopravvive diversi secoli e comunità epicuree sono attive in molte città greche. L'epicureismo si diffonde poi anche nel mondo latino. Nel I secolo a.C. ne troviamo testimonianza ad Ercolano. Qui si viene infatti formando, per opera dell'epicureo Filodemo di Gadara, una scuola che in realtà si avvicina di più ad un circolo intellettuale di carattere comunque prettamente aristocratico. È in questo ambito che si colloca la figura di Lucrezio. Le notizie che abbiamo sulla vita di Lucrezio sono limitatissime. Sappiamo con certezza che nasce nel 97 a.C.: sarebbe impazzito dopo aver ingerito un filtro d' amore, e si sarebbe poi tolto la vita all'età di 44 anni, nel 53 a.C. Su questa presunta follia si è discusso a lungo. Il suo poema De rerum natura si propone di presentare e divulgare la dottrina filosofica di Epicuro. Lucrezio sembra occuparsi non tanto della parte etica - più familiare e accessibile anche alle classi meno colte - ma di quella più difficile e ostica dell'epicureismo: la fisica (intesa secondo la concezione antica e quindi estesa anche ai fenomeni meteorologici, ecc.). In Lucrezio tutto questo diventa - quasi paradossalmente - poesia, una poesia che racchiude spesso una fortissima carica emotiva e passionale. Nel De rerum natura Epicuro viene rappresentato come lo scopritore della verità, come il salvatore del genere umano, il liberatore dell'umanità dall'ignoranza e dalla superstizione. Dell'opera, certamente incompleta, ci rimangono soltanto sei libri. Dopo Lucrezio l’epicureismo ebbe ancora un certo seguito nella società greca e romana, ma più come tendenza della cultura che come scuola a sé. Non vi furono però più figure di primo piano. Epicuro Vedi Epicureismo Epilessia A questa malattia, che in Grecia era chiamata morbo sacro ed era associata a interventi della sfera del divino, è dedicato uno scritto specifico nel Corpus Hyppocraticum (→). Vi si dà una spiegazione in termini scientifici delle sue cause e delle sue manifestazioni esteriori negando il rapporto con la sfera del divino e riconducendola a cause del tutto legate alle leggi della natura. In filosofia l’analisi che presso la Scuola di Cos i medici ippocratici condussero su questa malattia è considerata una espressione radicale della visione laica e scientifica della medicina, che si ispirava al razionalismo tipico del periodo. Va però ricordato che le credenze di tipo religioso su questa come su altre malattie non vennero meno nella cultura antica. Epimeteo Nel mito, Epimeteo (il cui nome significa non previdente: letteralmente colui che sa dopo) è fratello di Prometeo (il cui nome significa previdente: letteralmente colui che sa prima). Figlio del titano Giapeto e di Asia, benché abbiano altri fratelli forma coppia con Prometeo, di cui è l’esatta antitesi. È quindi una figura anch’essa associata, come Prometeo, alle origini dell’umanità e della sua civilizzazione. Ma in versione negativa: per punire Prometeo, Zeus invia a Epimeteo Pandora come sua sposa, e questi la accetta nonostante sia stato avvertito dal fratello di non farlo. Si rende così responsabile delle disgrazie dell’umanità: per il racconto di questo mito vedi la voce Pandora (→). Epimeteo è co-protagonista di un importante mito filosofico narrato nel Protagora platonico (vedi la voce Protagora: →) Epinicio È un componimento lirico greco (vedi Lirica: →) finalizzato alla celebrazione del vincitore di una delle gare panelleniche (vedi Panellenico: →). Data l’importanza di queste gare sportive e del prestigio che la città del vincitore ne riceveva, gli epinici erano un momento delle molto sentite celebrazioni che attendevano il vincitore al ritorno in patria. Composti su commissione, erano cantati da un coro e richiamavano, oltre all’evento da celebrare, i miti legati alla famiglia del vincitore o alla città. La definizione del genere risale al poeta Simonide (→), e celebri epinici sono anche quelli di Pindaro (→). Episteme Vedi Scienza Epitteto Vedi Stoicismo Epoche Termine greco che significa letteralmente sospensione. Viene utilizzato dagli Stoici per indicare la sospensione del giudizio di verità in tutti i casi in cui ci si trova di fronte a qualcosa di non comprensibile. La dottrina stoica non dice che l’assenso (→) non va dato; dice solo che non ci sono ancora gli elementi per darlo, e quindi il giudizio va sospeso in attesa che ulteriori indagini e ricerche chiariscano. La dottrina storica dell’epoche è quindi espressione di quella che oggi chiameremmo prudenza scientifica. Ma già nei primi anni della formulazione delle teorie stoiche la nozione di epoche venne estesa da altre scuole in direzione dello scetticismo: ad esempio Arcesilao di Pitane (→), scolarca della cosiddetta Accademia di mezzo a cui diede un indirizzo scettico, sostenne che non fosse possibile concedere l’assenso a nessuna verità, per cui l’epoche doveva riguardare ogni giudizio. Gli scettici delle età successive, come Sesto Empirico (→), ripresero questa nozione e la applicarono alla loro visione scettica anche su temi etici. Sostennero che per ciascuna di quelle che le altre scuole filosofiche consideravano verità era possibile costruire convincenti ragionamenti a favore e contro, per cui la ragione discorsiva dell’uomo è costretta a non dare l’assenso a nessuna verità: l’epoche porta all’aphasia, il silenzio (→) degli Scettici. Epos È il termine greco per indicare la poesia epica, cioè i componimenti poetici e musicali che riguardano le antiche storie degli dèi e degli eroi, il cui modello sono per noi l’Iliade e l’Odissea. Benché nell’epos trovino posto elementi del folkore (→), ad esempio nel racconto che nell’Odissea Ulisse fa ai Feaci sugli incontri avvenuti nel corso delle peregrinazioni legate al suo viaggio di ritorno da Troia, di fatto l’epos non appartiene interamente al genere della cultura popolare, anche se si rivolge in effetti a tutti e delle tradizioni popolari riprende molto, perché i poeti epici hanno fortemente selezionato i materiali della cultura popolare (i racconti, i “miti”) dando loro una certa coerenza (poetica, ma anche religiosa) e abbandonando per lo più gli aspetti magici. Nella sua Poetica Aristotele accosta del resto l’epos alla tragedia su due aspetti: la serietà dei temi trattati e la narrazione culturalmente elevata del mito. Equilibrio / Disequilibrio L’immagine della natura che emerge da diverse filosofie naturaliste del VI e del V secolo a.C., nonché da quelle elleniste (in particolare dall’Epicureismo e dallo Stoicismo) è legata al gioco delle forze che si bilanciano in modo dinamico. In estrema sintesi, ciascun ente e ciascun evento, pur concepiti e spiegati in modo diverso da queste filosofie, in tutte sono il prodotto instabile e in perenne mutamento del conflitto tra forze. Nel punto di equilibrio un ente prende forma, nel momento del disequilibrio delle forze l’ente muta. Ad esempio per i filosofi naturalisti e per i materialisti è il gioco tra equilibrio e disequilibrio delle forze a determinare la vita degli enti; ad esempio per Empedocle l’equilibrio nasce e ha termine per l’azione di forze cosmiche contrapposte a cui vengono attribuiti nomi divini (come Afrodite e Neikos: →) che agiscono sui quattro elementi (aria, acqua, terra, fuoco) di per sé inerti; per il materialismo epicureo sono i movimenti contrapposti e in parte casuali degli atomi; e così via. Eracle Tra gli eroi greci – figure umane, ma in stretto contatto con il mondo degli dèi – Eracle è uno dei più popolari, e il complesso delle vicende che lo vedono protagonista si arricchisce, secolo dopo secolo, fino alla tarda antichità. La vitalità di questa figura sta in alcune caratteristiche, che la resero capace anche di attrarre l’interesse dei filosofi: oltre ad aneddoti di rilievo filosofico che lo riguardano (come il celebre “Eracle al bivio” su cui riflette il sofista Prodico di Ceo: →), Eracle è anche una delle figure che i Cinici prendevano a modello perché incarnava il loro ideale di autosufficienza. La prima di queste caratteristiche è la sua capacità di affrontare lotte e fatiche immani: tradizionali sono le “dodici fatiche” in seguito alle quali venne accolto tra le divinità e ottenne l’immortalità (e quindi il culto, variamente diffuso tra la Grecia e la Magna Grecia). La seconda caratteristica è la sua fortissima volontà, che lo portava ad accettare qualsiasi sacrificio per ottenere i suoi obiettivi. Eracle incarnava in effetti ideali aristocratici che i Greci apprezzavano molto (ed era un uomo, non un dio, benché alla fine delle sue fatiche sia stato accolto fra gli immortali): la passione per l’avventura individuale, la capacità di soffrire per i propri obiettivi e di prepararsi per essere capaci di ottenerli, l’inestinguibile volontà di superamento dei propri limiti. Eracle al bivio Vedi Prodico Eraclide Pontico Nato intorno al 390 a.C. ad Eraclea Pontica, dove morì nel 310 circa, Eraclide Pontico visse però gli anni centrali della sua vita ad Atene, presso l’Accademia, di cui fu anche scolarca nel corso del terzo viaggio di Platone a Siracusa. Un decennio dopo la morte di Platone, tornò a Eraclea Pontica, dove fondò una scuola. Benché si sia occupato, come altri accademici, di una molteplicità di ricerche filosofiche (dalla geometria alla retorica, dalla cosmologia alla politica) e sia anche stato autore di romanzi (oggi perduti), Eraclide Pontico deve la sua fama ad una ipotesi cosmologica originale (vedi la voce Eliocentrismo), diversa da quella elaborata da Eudosso di Cnido (→) negli stessi anni all’Accademia: Eraclide sostiene che Mercurio e venere ruotano intorno al Sole, e che ciascun pianeta è un mondo a se stante, formato di terra e d’aria. Questa teoria cosmologica venne citata da Copernico che considerò Eraclide Pontico un suo predecessore. Eratostene di Cirene Scienziato greco, Eratostene nacque a Cirene intorno al 280 e morì ad Alessandria d’Egitto intorno al 195 a.C. Nel periodo della sua formazione fu allievo della scuola stoica di Zenone ad Atene, ma anche dell’Accademia di Arcesilao e del Liceo, poi divenne direttore della Biblioteca di Alessandria come successore di Apollonio Rodio. La sua opera scientifica si è indirizzata in quattro campi diversi: - in astronomia il risultato di maggiore importanza da lui ottenuto fu la misurazione quasi esatta della circonferenza terrestre, ottenuto con un metodo geometrico su base astronomica; - in geografia Eratostene fu il primo a proporre una carta geografica delle terre emerse in cui i mari erano tutti collegati tra loro (il che consentiva di proporre una nuova teoria per le maree) e la superficie terrestre veniva rappresentata mediante un reticolo di meridiani e di paralleli; l’opera geografica in cui erano raccolti i suoi studi era la Geografia, in tre libri; - in matematica propose metodi originali per il calcolo, e l’opera matematica più importante ha per titolo Sulle medie proporzionali; - nel campo della cronologia, Eratostene è l’autore di un’opera, Cronografie, in cui pone le basi scientifiche per la cronologia (→) storica. Come altri studiosi alessandrini, Eratostene aveva interessi enciclopedici, e scrisse opere di storia letteraria, di mitologia ed altro. Ma tutte le sue opere, salvo frammenti, sono perdute. Erinni Divinità primordiali, nella Teogonia (→) di Esiodo le Erinni sono figlie di Urano, più esattamente del suo sangue caduto sulla terra al momento del ferimento da parte di Crono. Il loro numero, originariamente indefinito, venne poi fissato in tre. Sono raffigurate come esseri femminili terribili, alate, coi capelli intrecciati a serpenti, le mani che tengono fruste o altri strumenti con cui possono torturare le loro vittime. Il loro nome significa letteralmente “le irate”, anche se è nell’uso anche un nome dal significato opposto, cioè Eumenidi, “le benevole”, usato per lusingarle (ma Eschilo nell’omonima tragedia racconta una storia diversa: vedi la trama dell’Orestea: →). La ragione della loro ira è soprattutto l’assassinio di un parente: le Erinni perseguitano il colpevole implacabilmente, con la stessa implacabilità della Moira, senza che neppure gli dèi, neppure Zeus, abbiamo la possibilità di intervenire. Sono quindi divinità terribili, ma protettrici dell’ordine sociale. Fanno parte di una arcaica concezione della giustizia, e in questo senso sono associate a Dike (→) come custodi dell’ordine cosmico. Erissimaco Figlio di un medico e medico egli stesso molto noto nell’Atene della fine del V secolo a.C., legato alle tradizioni mediche e filosofiche dei naturalisti, è un personaggio del Simposio di Platone, in cui pronuncia un discorso che riprende teorie di alcuni di essi come Eraclito ed Empedocle. Citato in altri dialoghi platonici (Protagora e Fedro), è presentato come uno stimato professionista, misurato nei toni e ben padrone di sé (la sera del simposio platonico sta lontano dagli eccessi e va via presto, finiti i discorsi), ma perfettamente a suo agio nell’ambiente del simposio, a cui si accosta con spirito sereno. Il discorso di Erissimaco nel Simposio platonico Erissimaco dà inizio al suo discorso accettando la distinzione tra le due forma d’amore proposte da Pausania (→). Prosegue però non tanto sviluppando questo tema, quanto mostrando come Eros intervenga in tutti i campi con una funzione di bilanciamento tra contrari, che richiama le filosofie naturalistiche (e in specifico Eraclito, Empedocle e Anassagora). Erissimaco pone al centro del suo discorso la sua arte medica, mostrando come sia la salute del corpo sia quella dell’anima dipendano dall’armonia tra i contrari, garantita proprio da Eros. C’è quindi un troppo anche nell’amore, che va evitato. Torna qui il discorso dei due Eros, perché l’Eros Pandemio tende all’eccesso e va controllato. Eristica Dal verbo erizo (che significa contendo, disputo) l’eristica è l’arte del dialogare con l’obiettivo di far prevalere la propria tesi su quelle degli altri con qualsiasi mezzo a disposizione, indipendentemente dal fatto che gli argomenti utilizzati siano validi o meno, veri o falsi, coerenti o contraddittori. È quindi un’arte legata al dominio degli altri attraverso la parola, e per nulla uno strumento di ricerca in comune della verità. Coerentemente, va contrapposta nettamente ad un’altra arte del dialogare, cioè la dialettica, che ha di mira la ricerca della verità. (→) Diogene Laerzio (→) chiama eristici per antonomasia i filosofi della scuola megarica (vedi Megarici: →), perché utilizzavano il linguaggio in modo da sottolinearne l’ambiguità e la possibilità di attribuire alle parole, e più in generale al discorso, significati diversi. L’eristica in questo senso non è contrapposta alla dialettica, ma è solo l’arte di argomentare in modo da sfruttare tutte le potenzialità del linguaggio. Ermafrodito La mitologia greca conosce diverse figure insieme maschili e femminili, e il termine ermafrodito è genericamente utilizzato per indicarle (esiste però anche un figlio di Afrodite e di Ermes in cui il termine è utilizzato come nome proprio). La figura dell’ermafrodito compare in un passo importante dio Platone, di complessa interpretazione. Nel discorso che il personaggio-Aristofane pronuncia nel Simposio platonico la figura dell’ermafrodito è richiamata per indicare la natura originaria dell’uomo, in cui il maschile e il femminile non si sono ancora differenziati (lo saranno a causa di una colpa commessa contro gli dèi: la differenza di genere è quindi una punizione voluta da Zeus, anche se nel mito aristofanesco la punizione consiste piuttosto nell’essere divisi da se stessi). Erme Nella Grecia del periodo classico le erme erano pilastrini sormontati dal volto del dio Ermes (da qui il nome) che si ponevano in segno di augurio e protezione in luoghi particolari (davanti le case, ai crocicchi stradali, ai confini tra le proprietà) perché Ermes era il dio che proteggeva sia i viandanti che la proprietà. In epoche successive e a Roma divennero un elemento puramente ornamentale, e al volto del dio si sostituì il ritratto di personaggi famosi. Ma in età classica il valore religioso delle erme, e il loro significato di protezione, era molto vivo. Va tenuto conto di questo per valutare l’impressione che fece ad Atene nel 416 a.C. la scoperta che, prima della spedizione navale contro Siracusa (si era al tempo della Guerra del Peloponneso), un gran numero delle erme cittadine erano state sistematicamente mutilate. Nei processi che seguirono venne accusato anche Alcibiade (→). A quanto sembra l’iniziativa era stata presa da un gruppo di aristocratici che intendevano impedire la partenza della spedizione in Sicilia. A soffiare sul fuoco furono ambienti democratici, perché l’episodio (che venne collegato ad altri gesti sacrileghi) apparve legato ai circoli antidemocratici. L’episodio nel suo complesso segnala il clima estremamente teso nell’Atene di quegli anni, subito prima della disfatta contro Siracusa e degli altri episodi che portarono alla sconfitta nella Guerra del Peloponneso e agli episodi di violenza politica interna connessa che ne seguirono (vedi Guerra del Peloponneso: →). Erodoto Erodoto (vissuto approssimativamente tra il 484 e il 430 a.C.) è originario di Alicarnasso, città della Caria (regione ai confini del mondo greco), da famiglia greca imparentata con uomini di stirpe caria. Sin da giovane, quindi, sebbene allevato nella cultura greca, dovette conoscere a fondo il mondo dei cosiddetti "barbari", che nella sua opera descriverà poi con grande interesse e con acuto spirito di osservazione. Spinto da circostanze politiche, ma anche dalla propria curiosità e animato dal desiderio di osservare di persona i paesi di cui intendeva scrivere la storia, viaggiò a lungo in Oriente e in Occidente: Egitto, Mesopotamia, Macedonia, e così via. Ebbe poi un rapporto privilegiato con Atene, città in cui ritornò diverse volte, e soprattutto con Pericle, con cui intrattenne rapporti di amicizia. Quando questi volle fondare la colonia panellenica di Turi nel 444-443, in Italia meridionale, Erodoto - insieme con diversi altri intellettuali della cerchia periclea - vi si recò collaborando alla fondazione (nelle Storie egli parla di sé come Erodoto di Turi). Erodoto è erede dello spirito ionico di osservazione e di ricerca, ma anche di quella tradizione marinara dalla quale derivano i poemi omerici. Le sue Storie sono scritte in prosa, come richiedeva la cultura del suo tempo, lontana dalla poesia di tipo omerico - ormai arcaica per i Greci del V secolo ma rispondono a uno scopo analogo. Esse trattano delle guerre persiane, il grande scontro tra il mondo greco e a quello persiano. Erodoto decide di scrivere perché con il tempo non vada perduta la memoria degli avvenimenti accaduti e delle gesta grandiose degli uomini: che esse non rimangano senza gloria. Già dalle fonti antiche Erodoto è considerato, secondo un'espressione di Cicerone, il "padre della storia". Con questo non si deve intendere che nessuno prima di lui in Grecia abbia composto narrazioni riguardanti gli avvenimenti del passato o contemporanei, o le storie tramandate dei popoli. C'erano stati infatti i cosiddetti logografi (→), narratori di logoi, le storie riguardanti questo o quel popolo, questa o quella città. Erodoto però rinnova profondamente questa tradizione, inserendo le singole narrazioni, i logoi, in un contesto unitario, che dà senso a ciascuna nell'ordine generale del divenire storico. È questo sguardo complessivo - unito alla personale minuziosa ricerca delle informazioni e alla loro verifica - la profonda novità: ciascun avvenimento è interpretato alla luce del movimento complessivo della storia che unisce popoli e nazioni. Eroe In epoca Micenea, e l’eco di queste antiche tradizioni era ancora fortemente presente nella tradizione culturale dell’età arcaica, gli eroi erano figure a metà strada tra l’umano e il divino, perché erano figli di un dio e una donna (o di una dea e un uomo), oppure perché erano uomini divinizzati e resi immortali per intervento di un dio, come accadde ad Eracle (→). In genere agli eroi si riservava un culto specifico, per lo più presso il luogo della loro sepoltura, dove sorgeva l’heroion, un tempietto presso cui si svolgevano riti per lo più ctoni. La funzione di questi eroi era di tipo molto diverso a seconda della loro figura. Per lo più era legata ai racconti mitici di fondazione, con cui ciascuna comunità faceva risalire a un eroe la propria origine (eroe eponimo), oppure alle origini di determinate popolazioni (l’eroe in questo caso era venerato come un antenato comune), oppure di determinati riti o istituzioni civili, economiche, o sportive (le Olimpiadi erano fatte risalire ad esempio ad Eracle). Nell’epos gli eroi hanno un rapporto particolare e diretto con gli dèi, con cui sono in contatto spesso attraverso la parola e la presenza diretta. Eros Il termine eros, che traduciamo con amore, ma è presente anche in italiano, si riferisce nel mondo greco ad una specifica divinità del mito, e allo stesso tempo a varie forme di amore e di sessualità. Nel mito Nella mitologia greca, e quindi in specifico nell’epos (vedi la Teogonia di Esiodo: →), Eros è un dio primordiale, che emerge dal Caos all’inizio del processo di generazione di tutti gli esseri. È una divinità cosmica, connessa al ciclo delle generazioni e responsabile della coesione del tutto. Lega tra loro le diverse componenti del Cosmo con legami d’amore, inteso alle origini non come un sentimento, ma come una forza che spinge alla generazione. Invece presso i poeti lirici e tragici, Eros è il dio associato sì alla generazione, ma anche e soprattutto all’amore come passione, come forza che si impadronisce di uomini e donne e li domina: una delle possenti forze della natura di cui chi si innamora fa esperienza non sempre felice. In altri racconti mitici la sua origine è diversa, ma un po’ in tutti è associato ad Afrodite (spesso è detto suo figlio). La raffigurazione come fanciullo che gioca è tarda, del periodo ellenistico, quando il carattere duro e dominante di Eros cominciò a cedere il posto a narrazioni poetiche più lievi (per esempio nella favola ellenistica di Amore e Psiche: →). L’associazione con l’arco e la freccia è invece più antica: Eros incendia i cuori, colpisce con le frecce chi vuole. In epoca arcaica e classica nella figura di Eros si rispecchiamo quindi due esperienze: - l’esperienza dei legami cosmici, che tengono unito il cosmo in tutte le sue componenti umane e divine; - l’esperienza intima e personale dell’innamoramento, nella sua dimensione misteriosa e irrazionale, in cui i Greci hanno riconosciuto un tratto legato alla sfera del divino. “Le unioni di Cielo e Terra restano paradigmatiche. Nel piacere come nella procreazione, l’amore congiunge gli uomini all’azione delle potenze divine che hanno assicurato la nascita e la formazione del mondo e che – presenti in ogni angolo dell’universo – contribuiscono ancora oggi a conservarlo in tutto il suo essere. L’amore ha il potere di donare all’uomo il sentimento di partecipazione alla vita divina del cosmo e ai suoi ritmi” (Rudhardt 1986, p. 48) Sulla complessità dei suoi rapporti con Afrodite, e quindi sul suo ruolo, vedi la voce Afrodite. Nella filosofia La figura di Eros, tra quelle della mitologia, è centrale in diversi luoghi della filosofia antica, secondo concezioni molto diverse tra loro. Citiamo alcuni esempi: - ha un ruolo cosmico in filosofie come quella di Empedocle (nella forma della philia, cioè dell’amicizia, che è la forza che unifica ciascuno dei quattro elementi cosmici, l’acqua l’aria, la terra e il fuoco) e di Aristotele (è la forza che muove i Cieli verso il motore immobile); - ha un ruolo cosmico e insieme psichico in Platone, che nel Simposio elabora vari miti, tra cui uno “narrato” dalla sacerdotessa Diotima secondo quanto riferisce Socrate, in cui Eros è un demone mediatore tra l’umano e il divino, e quindi passione che lega le anime e le indirizza verso il superiore mondo della Bellezza. Plotino poi sviluppa in una direzione originale i racconti mitici di Platone offrendo una prospettiva per l’Eros che sarà fatta propria dalle filosofie cristiane medioevali, che vedranno nell’amore una delle relazioni fondamentali tra Dio e l’uomo (o meglio tra creatore e creatura). I problemi filosofici Diversi problemi filosofici sono connessi alla figura di Eros, in modo sia diretto (riguardo all’amore e al desiderio sessuale come forza universale legata alla vita che spinge alla generazione) sia indiretto, attraverso le immagini del mito. Il problema centrale nasce dal fatto che Eros incarna una precisa forza della natura (la potenza della sfera sessuale e la forza fisica e psichica che porta ai molti fenomeni dell’innamoramento) che è legata alla nascita della vita, ma anche al ciclo della vita, e quindi alla morte. Chiedersi da dove derivi la potenza di Eros significa quindi porsi i più alti interrogativi sulla vita e sulla morte, compresi quelli relativi al senso di tutto questo. Inoltre Eros, in quanto forza, appartiene al regno della natura e lega l’anima e non solo il corpo in una rete di passioni che la dominano: forza dominante, appare però anche forza liberante, perché spinge l’anima verso sentieri che altrimenti non batterebbe. Da dove deriva questa doppia tentenza, dominante e liberante? Errore Nelle teorie della conoscenza e in logica l’errore (in greco pseudos) indica una proposizione falsa, o meglio il giudizio errato su una proposizione; in etica è un comportamento che non risponde ai princìpi etici accolti come modello. Nell'ambito della filosofia l'errore è inteso in diversi modi, accomunati dal fatto che ci si trova comunque in presenza di un'idea, di un giudizio, di una proposizione, o comunque di una forma del pensiero e/o della sua espressione in cui vi è una contraddizione che è insuperabile, almeno senza modificare gli elementi di ciò di cui si parla. Ma che cosa debba intendersi per errore, dipende naturalmente da che cosa i filosofi intendono per verità (→). Uno dei problemi affrontati in filosofia è lo studio della genesi degli errori. Se ne occupano diversi filosofi (Platone mette a tema questa ricerca nel Sofista, Aristotele nel IV Libro della Metafisica, Epicuro e gli Stoici nelle loro opere logiche, e così via). Il tema è al centro dell’attenzione anche delle scuole socratiche, soprattutto della Scuola Megarica, e delle varie correnti dello scetticismo. Il problema affrontato ha molti aspetti: - si tratta innanzitutto di capire che cosa sia l’errore, come lo si riconosca, quale facoltà dell’uomo sia implicata nella sua produzione; - si tratta poi di capire come imparare dagli errori, e come volgerli a scopi utili all’uomo, sia sul terreno del giudizio sulla verità, sia sul terreno dei comportamenti. Va in ultimo ricordato che Aristotele indica nell’essere vero o falso (pseudos) uno dei quattro significati dell’essere (Metafisica, IV, 64 e VI, 4)) Eschilo Nato ad Eleusi intorno a 525 a.C., Eschilo apparteneva ad una nobile famiglia e visse ad Atene negli anni cruciali della nascita e del consolidarsi della democrazia. Forse legato ai misteri eleusini (ma nella sua opera questo tratto non appare), accettò gli sviluppi della democrazia ateniese e ne riflesse nelle sue tragedie i valori. Sappiamo che partecipò alle più importanti battaglie delle Guerre Persiane (combatté a Maratona nel 490 a.C., a Salamina nel 480, a Platea nel 479) e che ottenne i primi riconoscimenti per la sua arte drammatica soltanto nel 485, cioè intorno ai quarant’anni, come si ricava dai dati della stele nota come Marmo Pario (→). Fu due volte in Sicilia, alla corte del tiranno Ierone di Siracusa, dove sembra sia entrato in contatto con i circoli pitagorici. Nel corso del suo ultimo viaggio nell’isola morì a Gela, nel 456 o 455 a.C. È stato uno dei massimi tragediografi di ogni tempo, e della sua vastissima produzione (probabilmente superiore alle settanta opere) ce ne rimangono solo sette. Una di queste, l’Orestea (→), è l’unica trilogia completa che ci sia rimasta dell’intera produzione tragica antica. Le altre tragedie giunte fino a noi sono Le supplici, Prometeo incatenato, I Persiani e I Sette contro Tebe. Abbiamo anche in certo numero di frammenti di altre tragedie e di alcuni drammi satireschi (vedi la voce Teatro greco). Riportò 13 volte la vittoria nelle rappresentazioni tragiche (vedi la voce Teatro greco: →). Risale ad Eschilo l’accentuazione del ruolo del dialogo tra i personaggi rispetto al coro. E fu probabilmente lui a fissare in modo definitivo per il V secolo a.C. la struttura delle tragedie. Esempio L’esempio (in greco paradeigma) è per Aristotele “una induzione apparente o retorica che muove da un enunciato particolare passando attraverso un enunciato generale in cui la prima premessa viene generalizzata” [Abbagnano 1998] Nei testi filosofici gli esempi sono usati abitualmente, tanto nella filosofia antica quanto in quelle successive, come una forma di esposizione di nozioni filosofiche e di argomentazione di una tesi. L’esempio chiarisce e aiuta la comprensione perché costruisce un ponte tra il caso particolare e l’universale o tra casi analoghi. Sotto lo stesso termine esempio – che spesso è una narrazione o una indicazione testuale o di un dato d’esperienza o di altro dato individuale – si indicano però due distinte operazioni della mente: - chiamiamo infatti esempio il caso particolare di una teoria universale: l’operazione mentale in gioco è il passaggio tra l’universale e il particolare, tra il concetto e la cosa, e dunque tra il piano intellettivo e quelli della sensibilità e dell’immaginazione (la mente passa così dal concreto all’astratto); - chiamiamo egualmente esempio l’analogia, cioè il passaggio da un concetto ad un altro concetto, o da un dato a un altro; l’operazione mentale che viene richiesta in questo caso è diversa, perché si tratta di passare attraverso un elemento comune da un elemento all’altro della stessa sfera di pensiero, d’esperienza, d’immaginazione, o intellettiva che sia, o di incrociare i piani tenendoli insieme quando l’analogia lo richiede perché il caso esaminato tiene insieme i vari piani (la mente in questo caso resta nell’ambito in cui si trovava prima dell’esempio, concreto o astratto che fosse questo ambito precedente). Esercizi spirituali Le scuole ellenistiche indicavano nella pratica dell’askesis, cioè dell’esercizio costante e continuo del proprio spirito, lo strumento chiave per una vita felice. Il principio base è dato dal fatto che la vita umana è considerata da queste scuole positivamente, ma non ingenuamente: il dolore e l’errore sono in agguato ogni momento, ed eventi positivi e negativi si susseguono, in piccola parte sotto il nostro controllo, in una parte molto maggiore del tutto al di fuori. Semplicemente, non dominiamo il corso del mondo, ma ci siamo dentro, subendone le vicende che si snodano nell’orizzonte degli eventi. Dominiamo però noi stessi, o meglio possiamo dominare noi stessi, in modo da inquadrare gli eventi nel loro corretto contesto e valutarli quindi correttamente. Le scuole ellenistiche si dividono su quale sia questo giusto contesto (Epicurei e Stoici si affidano a una precisa scienza della natura e della mente, diversa per le due scuole, gli Scettici negano ogni scienza e quindi ogni possibilità di valutare positivamente e negativamente il mondo, e così via), ma tutte concordano sul fatto che bisogna imparare a valutare correttamente (o non valutare affatto, cosa anche più difficile). Gli esercizi spirituali (askesis) sono pratiche, spesso quotidiane, per imparare a farlo e tenersi in continuo allenamento: che qualsiasi cosa accada – davvero qualsiasi, senza eccezioni, anche la più terribile – ci trovi pronti. Ad esempio per gli stoici “l’atto filosofico non si situa solo nell’ordine della conoscenza, ma nell’ordine del “Sé” e dell’essere: è un progresso che ci fa essere più pienamente, che ci rende migliori. È una conversione che sconvolge la vita intera, che cambia l’essere di colui che la compie. Lo fa passare dallo stato di una vita inautentica, oscurata dall’incoscienza, allo stato di una vita autentica, dove l’uomo raggiunge la coscienza di sé, la visione esatta del mondo, la pace e la libertà interiori. Per tutte le scuole filosofiche, la principale causa di sofferenza, di disordine, di incoscienza, per l’uomo, è costituita dalle passioni: desideri disordinati, timori esagerati. Il dominio della cura, delle preoccupazioni, gli impedisce di vivere veramente. La filosofia appare dunque in primo luogo come una terapia delle passioni (…). Ogni scuola ha il metodo terapeutico suo proprio, ma tutte collegano questa terapia a una trasformazione profonda della maniera di vedere e di essere dell’individuo. Gli esercizi spirituali avranno precisamente lo scopo di realizzare tale trasformazione” (Hadot 2002, pp. 31-32). La nozione di askesis gioca un ruolo tutto particolare nella filosofia dei Cinici (→), che concepiscono la vita stessa come un costante esercizio per imparare ad essere se stessi qualsiasi cosa accada, e associano al continuo esercitarsi una particolare fatica (in greco ponos) del vivere, che rende però liberi. Esiodo Esiodo, il secondo poeta epico di cui ci siano rimaste le opere dopo Omero, è vissuto nella Beozia dell’VIII-VII secolo a.C.. Non abbiamo dati certi sulla sua vita a parte quelli che si desumono dalle sue opere, in cui a volte fa accenni autobiografici. Dice il proprio nome e racconta qualche evento, e questa è già di per sé una novità rispetto ai cantori della tradizione omerica, in cui il poeta non parla mai di se stesso. La famiglia era originaria di Cuma, in Asia Minore, e il padre si era poi stabilito ad Ascra dove presumibilmente il poeta nacque. La tradizione vuole che sia morto ad Ascra e sia stato sepolto ad Orcomeno. Di lui sappiamo ancora che era un rapsodo e che adottò per le sue opere la lingua dei poemi omerici, lo ionico letterario. Partecipò a gare poetiche e una volta vinse un premio a Calcide in Eubea. Di lui ci rimangono la Teogonia (→) e Opere e giorni (→), un’opera dedicata alla vita dei campi e alle pratiche di coltivazione, nonché alle regole di condotta da tenersi. Al contrario di Omero, che è espressione della vita eroica e militare, nonché del mondo dei viaggi in mare, Esiodo è espressione del mondo contadino. Esistenza Dal latino ex-sistere, “venir fuori”, “mostrarsi”. Riferita a un ente, l’esistenza è il fatto che un ente c’è. Benché intuitivamente il termine designi una nozione di immediata evidenza (l’esistenza è il carattere generale di tutto ciò che, semplicemente, c’è), è molto dibattuta la questione della definizione filosofica di esistenza, perché - l’esistere implica sempre un essere in altro (ciò che c’è, è in un mondo, non in se stesso: è se stesso in un mondo) ed è dunque difficile comprendere che cosa significhi che qualcosa esiste, visto che l’esistenza sembra non essere un fatto assoluto, ma relativo al Tutto di cui ciò che esiste è parte (ci sono dunque diversi gradi di esistenza? uno riferito a ciascun ente, uno al Tutto? ma l’esistenza può avere dei gradi?); - l’esistenza (o la non esistenza) è un fatto, ma è difficile comprendere quale ne sia il senso; questo tema si connette al più generale problema del senso dell’essere, nel contesto del problema dell’essere (→). Va precisato che questi problemi sono presenti nella filosofia greca, ma rientrano nelle complesse questioni riguardanti l’essere. Una specifica problematica dell’esistenza separata da quella dell’essere è in filosofia posteriore al pensiero greco. Esoterico / Essoterico Vedi Acroamatico Esperienza Il termine greco è empeiria, da cui l’aggettivo italiano empirico. Il significato del termine Chiamiamo esperienza l’insieme delle conoscenze del mondo esterno ed interno che manteniamo nella mente mediante la memoria: in questo senso chiamiamo conoscenza empirica un’informazione acquisita attraverso i sensi in contrapposizione ad altri tipi di conoscenze (ad esempio quella puramente razionale della geometria, almeno nel modello fissato dagli Elementi di Euclide (→): secondo questo modello non si ricorre mai a conoscenze empiriche per le definizioni e le dimostrazioni, ma solo per le visualizzazione grafiche). In questo stesso senso diciamo esperta una persona, quando ha accumulato molta esperienza (va sottolineato che l’esperienza senza memoria (→) e senza riflessione (→) non genera questo tipo di accumulo). Come si vede dal termine esperto, l’acquisizione di informazioni dal mondo esterno o interno richiede una elaborazione tutta interna, perché ciascuna informazione va connessa con quelle che il soggetto conoscente già possiede. A titolo di esempio, si prenda il caso di una esperienza fatta per la prima volta ed una invece che si è ripetuta diverse volte: la prima volta una esperienza può richiedere una riconversione globale delle proprie convinzioni e del proprio sapere, e provocare ritorni emotivi forti, per la mancanza di abitudine (è solo un esempio e non si può generalizzare: si possono pensare controesempi, in cui è la ripetizione di esperienze, positive o negative, a generare ritorni emotivi forti, in presenza o meno del fenomeno dell’abitudine). Dunque: - ciascuna esperienza si lega nell’interiorità della mente ad altre esperienze, e questo accade in molti modi; - ciascuna esperienza ha un suo tono emotivo, e non è mai priva di legami con la sfera delle emozioni. Per conseguenza non si può parlare di esperienza solo sotto il profilo della conoscenza: ogni esperienza richiede alla mente pensante un impegno in termini di elaborazione sia cognitiva che emotiva. I problemi filosofici Nella filosofia greca la nozione di esperienza è stata al centro della ricerca filosofica sin dalle origini, in particolare a partire da Eraclito e Parmenide, e tutte le scuole filosofiche successive e i singoli pensatori hanno preso posizione e svolto in questo campo specifiche ricerche. I problemi esaminati dai filosofi antichi in estrema sintesi riguardano: - i modi in cui si forma l’esperienza attraverso i sensi e in cui la mente sistema ciascuna esperienza in rapporto alle altre; ad esempio: se gli oggetti d’esperienza sono materiali, come avviene il passaggio alla formazione di una immagine mentale, non essendo quest’ultima di carattere materiale, pur riferendosi ad un corpo materiale? - il rapporto tra conoscenza empirica e conoscenza intellettiva (vedi Intelletto: →), ad esempio in problemi del tipo: come si passa da una conoscenza empirica, sempre individuale, ad una intellettiva, sempre generale? oppure: nel caso, molto comune, che le informazioni empiriche contraddicano le conoscenze intellettive, e viceversa, a quale facoltà della mente concedere l’assenso? ai sensi o all’intelletto? - molti filosofi (da Parmenide agli scettici, ma non solo: anche in Platone ad esempio c’è un problema di questo tipo) hanno messo in dubbio la capacità dei sensi di restituirci una immagine attendibile del mondo esterno e interno, perché la conoscenza sensibile è sempre e inevitabilmente soggettiva (perché è sempre un soggetto a conoscere un oggetto, restando comunque soggetto) e parziale (del mondo abbiamo sempre una esperienza limitata nel tempo e nello spazio, e non abbiamo esperienza dell’estremamente piccolo): ci si può fidare di quanto ci dice? il mondo è realmente come sembra? - anche se si ritiene di potersi fidare delle informazioni dei nostri sensi, resta il fatto che l’esperienza stessa dice che è molto facile sbagliarsi, per poi correggersi (celebre l’esempio del bastone che appare spezzato se è a metà nell’acqua, o del pilastro quadrato che appare tondo se visto da lontano); in casi come questo il problema è dunque duplice: qual è la causa dell’errore (→)? è sempre possibile accorgersene e, se sì, è sempre possibile correggerlo? Essenza Il termine è di origine latina, essentia, con cui gli scrittori romani traducono l’espressione greca ti estin, che letteralmente significa che cos’è. E proprio questo indica innanzitutto il termine essenza: la risposta alla celebre domanda socratica “Che cos’è?” L’essenza è quindi l’elemento qualificante (o l’insieme degli elementi qualificanti) l’oggetto del nostro studio: è quel che lo identifica. Nella filosofia il termine ha finito con l’essere usato come sinonimo del termine sostanza (→), anche a causa del rilievo che la teoria della sostanza ha avuto nella filosofia di Aristotele. Ma mentre quello di sostanza è concetto tipicamente aristotelico (nel mondo greco: dal Medioevo in poi ha vita del tutto indipendente), quello di essenza è più generale, perché ammette risposte molto diverse da quelle aristoteliche alla domanda “che cos’è?”. Potremmo quindi dire che mentre sostanza è un termine tecnico della filosofia aristotelica, e non è utilizzato dalle scuole che non accolgono la sua teoria della sostanza (ad esempio le scuole ellenistiche), quello di essenza è invece utilizzato perché corrisponde ad una esigenza generale della filosofia: definire e identificare l’oggetto del discorso. Ma non è esattamente così: l’espressione greca ti esti, che cos’è, non è un termine tecnico in nessun modo, se non in quanto richiama l’essere. È quindi quest’ultimo termine ad avere una storia nella filosofia greca: essenza è piuttosto un termine latino, la cui storia rimanda al Medioevo piuttosto che al mondo greco. Essere Questo termine – in greco einai – ha diversi significati e una storia complessa nella lingua greca. Nei testi filosofici greci i vari significati del termine sono: - come verbo sostantivato (l’uso è per la prima volta in Parmenide), indica il Tutto: non l’insieme di tutte le cose, cioè degli enti, ma il Tutto inteso come unità, che Parmenide considera indivisibile e immutabile; il concetto è quindi simile e allo stesso tempo diverso rispetto ad altri termini (come il Logos degli Stoici, l’Uno di Plotino) utilizzati da quei filosofi che considerano la realtà come un Tutto; - come verbo che indica identità in una definizione o come copula, ed ha quindi un uso puramente logico-linguistico che non rimanda a una qualche forma di realtà; - come verbo usato come sinonimo di esistere (vedi la voce Esistenza: →): la dizione “c’è” riferita a un soggetto dice che l’ente indicato come soggetto esiste; - come verbo che indica il carattere proprio di un ente in riferimento alla sua essenza, ad esempio nella ricorrente domanda “che cos’è?” (per chiarire con un esempio: in questo uso del verbo essere, l’Uno di Plotino è al di là dell’essere, perché lo genera, e non si identifica con esso, mentre se indica il Tutto, come nel primo dei significati che abbiamo indicato, è attribuibile all’Uno). Questo sul significato del termine. Quanto ai problemi filosofici connessi con questo termine, rimandiamo alla voce Essere [Problema dell’] (→). Essere [Problema dell’] Sotto questa dizione unitaria si raccoglie un amplissimo numero di problemi centrali della filosofia: sotto un certo aspetto ogni problema della filosofia, qualunque esso sia, ha una dimensione relativa all’essere dell’oggetto studiato. Non è quindi possibile proporre un elenco dei problemi, perché per essere completo dovrebbe comprendere tutti i problemi trattati dalla filosofia, studiati sotto il versante della domanda relativa all’essere dell’oggetto studiato. In senso ristretto, il problema dell’essere riguarda: - la definizione dell’identità di ciascun ente (cosa, azione, evento, pensiero, e così via) in risposta alla domanda “che cos’è?” in quanto domanda distinta da altre come “a che cosa serve?”, “di cosa è fatto?”, “a cosa rimanda?” e simili; - la ricerca sull’origine dell’essere, a partire dal senso stesso di questa complessa domanda (può infatti essere concepito qualcosa che non sia essere da cui l’essere derivi? se non può, che cosa significa che l’essere è eterno?); - la definizione del significato dell’essere in quanto tale (e quindi dell’essere nella sua differenza rispetto al nulla: →); non quindi dell’essere di questa o quella realtà in relazione ad altre realtà, ma dell’essere in assoluto, in risposta a domande del tipo: che cosa significa che qualcosa c’è? che differenza c’è tra l’essere e l’esistere? come possono essere comprese relativamente all’essere in quanto tale le realtà passate che non sono più e le future che non sono ancora? o, più radicalmente, perché c’è qualcosa piuttosto che nulla? - la definizione del senso dell’essere, dunque del valore, della finalità, delle ragioni che vi stanno dietro, e così via. Il problema assume per l’uomo una radicalità tutta particolare perché ogni domanda sull’essere è implicitamente una domanda sul suo essere, dunque su se stesso (“chi sono?”, “chi è il mio io?”), sul senso della propria vita (“qual è il senso del mio esserci, di quel che mi accade, delle mie azioni?”), e così via. Detto questo, va chiarito perché parliamo del problema dell’essere al singolare, come se dessimo per scontato che sia uno, quando invece nell’esaminare il problema abbiamo parlato di più esseri. L’uso del singolare è però giustificato, perché la domanda su un comune denominatore tra tutti gli esseri si pone qualsiasi sia la concezione dell’essere che assumiamo. È in effetti stessa la nozione di essere ad essere al centro del problema. Esseri Vedi Enti Estasi La parola ekstasis in greco significa spostamento, ma anche agitazione. In vari indirizzi religiosi dei primi secoli dopo Cristo, soprattutto alessandrini, venne usata per indicare una trasformazione della capacità di conoscenza dell’anima operata da Dio che la mette in grado di entrare in immediata comunicazione con Lui. Fu Plotino a darle un significato non religioso ma filosofico e a usarla in senso tecnico. L’estasi divenne l’identificazione totale – caratterizzata da entusiasmo (→) – tra l’anima individuale e l’Uno. Ora, poiché la coscienza implica la separazione tra il soggetto che conosce e l’oggetto conosciuto (vedi la voce Soggetto / Oggetto: →), l’estasi implica una forma di conoscenza diversa che non utilizzi questa separazione: questa facoltà dell’uomo umano è una forma particolarmente fine di intuizione (→) intellettuale e implica la conversione completa della direzione del nostro sguardo interiore e di tutta la nostra vita emotiva. Estetica Il termine è moderno anche se è coniato sulla base di una parola greca (aisthesis è la sensazione): nasce nel contesto della filosofia tedesca del Settecento per indicare la disciplina che studia i problemi filosofici connessi - con la bellezza (→), alla ricerca innanzitutto di una definizione concettualmente chiara del bello, e anche del significato della bellezza in natura; - con la percezione umana della bellezza nel contesto delle facoltà di conoscenza dell’uomo (da qui la scelta del termine estetica che riprende il greco aisthesis, come scienza della percezione del bello); - con la natura dell’arte (→) e dell’opera d’arte (→) rispetto al complesso delle attività dell’uomo che esprimono e definiscono la realtà (in particolare la scienza, la religione e la filosofia stessa). Tutto questo per il Settecento europeo. Quando nacque, i teorici che proposero il termine estetica e ne studiarono i problemi ritennero di avere fondato una nuova disciplina filosofica. Tuttavia, benché senza l’unità sistematica che ci si propose nel Settecento, tutti i singoli problemi filosofici a cui faceva riferimento la nuova disciplina avevano una lunga storia a partire dai primi filosofi, ma in contesti diversi (la teoria della conoscenza, la metafisica, lo studio filosofico delle singole arti, come la scultura, la musica o la tragedia, e così via). Si parla quindi di estetica anche per la filosofia antica, medioevale e moderna, ma va appunto precisato che sia il termine sia l’unità del tema sono settecenteschi: per un filosofo greco, ad esempio, i problemi filosofici sulla bellezza erano un tema legato al problema dell’essere, mentre lo studio delle arti era per lo più specifico delle singole arti e, se aveva unità, era di tipo pedagogico (quali arti educano e quali hanno effetti negativi sulla paideia? è questo ad esempio il taglio con cui Platone studia il teatro e la musica nella Repubblica), oppure legato al complesso delle discipline poietiche (così in Aristotele). Etere In greco aither. Il significato originario del termine è generico: indica qualsiasi sostanza molto fine (come nell’aggettivo italiano etereo), sicché in Empedocle è utilizzato come sinonimo di aria e in Anassagora di fuoco. A utilizzarlo in un senso tecnico è invece Aristotele, che aveva il problema di scegliere un termine che indicasse l’elemento di cui sono composti i cieli, che riteneva diverso dai quattro di cui sono composti gli enti del mondo sublunare (cioè l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco). L’etere è dunque concepito come elemento materiale sì, ma con caratteristiche del tutto diverse dalla materia sublunare: è incorruttibile e inalterabile. Questa nozione, nel contesto di una cosmologia quasi del tutto diversa da quella aristotelica, venne poi ripresa dagli Stoici, che fecero dell’etere la matrice degli astri di fuoco, in primo luogo del Sole. Ritornava così presso di loro l’equivalenza tra etere e fuoco. Eternità / Eterno I termini greci per eternità ed eterno sono rispettivamente aion e aidios (o aionos), ed è frequente l’uso di aei, che significa eternamente. Questi termini non fanno riferimento ad una realtà senza tempo, ma ad una senza inizio né fine: una realtà che dura sempre nel tempo. In questo senso sono abitualmente utilizzati dai filosofi greci, anche dagli Stoici che concepiscono il tempo ciclico (vedi la voce Grande Anno: →). In Platone e nel neoplatonismo si pone però la questione dell’esistenza di realtà senza tempo, che hanno cioè una forma d’esistenza indipendente dal tempo, o non temporale. È vero che tutte le realtà che conosciamo sono sottoposte al dominio del tempo, ma - è un problema aperto capire che cosa vi sia all’origine del tempo, cosa lo determini e lo orienti; - il tempo caratterizza ogni ente ed evento, ma è possibile applicare questa nozione anche al Tutto? - abbiamo esperienza di enti mentali (ad esempio gli enti matematici) per i quali il tempo non ha alcun significato: ad essi è attribuibile la nozione di realtà? In questo campo problematico hanno operato Platone, che ha considerato indipendenti dal tempo le idee (a partire da quelle matematiche), e Plotino che considera indipendente dal tempo la natura dell’Uno e delle ipostasi che eternamente da lui emanano. Eterno ritorno Vadi Grande Anno Etica Il termine deriva dal greco ethos che significa comportamento, costume. È presente nel lessico filosofico fin da Aristotele per indicare il settore della filosofia che si occupa dei princìpi mediante cui vengono valutati gli atti umani, i comportamenti e le scelte. Per il mondo greco si è soliti distinguere tra l’etica come disciplina descrittiva, che si propone di individuare i caratteri, le cause e le conseguenze del comportamento, e l’etica come disciplina normativa, che intende stabilire i criteri in base ai quali distinguere ciò che è bene da ciò che è male, identificando il senso esatto di questi termini e i fini dell’azione. I problemi fondamentali dell’etica riguardano l’oggettività e i fondamenti dei principi-guida per l’azione umana, come il bene e il male; ma fanno parte dell’etica filosofica anche tutti i principi e i concetti che entrano in gioco nelle azioni umane e nella responsabilità che ne consegue (ad esempio la libertà, la giustizia, l’eguaglianza, e così via). Nelle teorie di vari filosofi greci la distinzione tra temi etici e metafisici, pur essendo abitualmente proposta, è sfumata piuttosto che netta, perché l’etica è spesso concepita come un aspetto dell’indagine filosofica sulla realtà, derivando i principi-guida per l’azione dalla costituzione stessa della natura e dell’uomo, o dall’ordine universale del mondo. In questione è comunque la natura umana, concepita come fonte prima di domande etiche. Varie scuole filosofiche dell’antichità hanno negato la possibilità di una lettura del mondo in chiave di valori e posto altrove rispetto ai valori il criterio per l’azione dell’uomo (così, ad esempio le scuole cirenaica, cinica, epicurea, e lo stesso aristotelismo, che lega l’etica in modo diretto ai caratteri della natura umana). Altre hanno invece proposto, nel contesto di teorie diverse tra loro, un preciso rimando tra etica e valori oggettivi (il termine è moderno, ma descrive in termini a noi più familiari le complesse teorie etiche di Platone o di scuole come lo Stoicismo). Nella filosofia ellenistica l’etica è abitualmente intesa come una delle tre parti in cui si compone il discorso filosofico (le altre sono la logica e la fisica). Va precisato che nella cultura filosofica greca c’era largo accordo sul fatto che la vita felice, o la felicità per usare un termine un po’ più astratto (eudaimonia), sia l’obiettivo dell’etica. Rispetto all’eudaimonia il problema etico consiste nel determinare i modi in cui questo obiettivo può essere raggiunto. Questo implica la necessità di distinguere felicità e piacere, felicità e libertà, e così via, cioè identificare e precisare l’obiettivo di una vita etica rispetto al complesso delle nozioni filosofiche che le sono connesse, in una articolazione concettuale chiara. Mentre oggi distinguiamo in modo chiaro l’etica e la politica, i Greci tendevano ad accostarle, perché la vita felice si realizza in concreto nella comunità degli uomini, e quindi gli aspetti politici della vita sono necessariamente implicati nella ricerca della felicità. È vero che alcune scuole sottolineano la radicale individualità del mondo etico (così alcune scuole ellenistiche, come la cinica e l’epicurea), ma solo la cinica si è posta esplicitamente come filosofia che rifiuta la società politica e le sue leggi: l’epicurea si limita a valutare come la società “privata” della comunità di amici sia indispensabile, mentre la società politica in quanto tale può portare lontano dalla vita felice, e ne diffida; ma non ha mai preso posizione rifiutandola, limitandosi a consigliare agli adepti della scuola di non impegnarsi direttamente nei conflitti politici. Un chiaro legame tra etica e politica è invece in Aristotele, che vede queste due discipline nel contesto di un unico quadro teorico. Etnografia Oggi è la disciplina che studia le culture, gli usi e i costumi dei diversi popoli, anche in relazione al mondo dei valori che ciascuno riconosce come fondamentali. Nel mondo greco non furono pochi gli intellettuali che ebbero interesse allo studio delle culture delle popolazioni non greche, che in gran numero circondavano la Grecia continentale e le colonie. L’interesse di tipo etnografico è molto evidente, ad esempio, in Erodoto che descrive analiticamente storie, miti, credenze, abitudini, leggi, delle popolazioni la cui storia si è intrecciata con quella dei Greci. L’interesse etnografico ha avuto un rilievo non marginale nel dibattito filosofico dell’antichità perché la consapevolezza della notevole diversità dei costumi ha posto in questione la nozione stessa di legge (vedi Nomos: →) dal punto di vista del diritto e del suo rapporto con le tradizioni: il dibattito è quello sulla relatività del nomos in rapporto alla physis e sull’esistenza di valori politici e morali oggettivi e immutabili (vedi Nomos / Physis: →). Se popoli diversi sono convinti di essere nel giusto rispettando le proprie tradizioni, e se queste tradizioni sono a volte duramente rifiutate dagli altri popoli, ci si chiede se esista una universalità di giudizio in merito a queste tematiche, o se la sfera dell’etica non dipenda piuttosto da convenzioni e tradizioni. Eubea L’Eubea è un’isola che affianca a occidente l’Attica, e questa vicinanza geografica ne ha segnato la storia. Abitata da popolazioni di stirpe ionica, come l’Attica, era fortemente specializzata nella produzione ceramica e in altre forme assimilabili di artigianato. La città principale, dopo serie rivalità con altre, divenne Calcide, che ebbe anche una notevole attività nel processo di colonizzazione. Nel 506 a.C. passò sotto il controllo politico di Atene, ma con forti resistenze, che portarono a varie ribellioni. Gli Ateniesi la controllavano attraverso migliaia di loro cleruchi (vedi la voce Cleruchia: →), e di fatto la cultura attica finì per avere il sopravvento, senza però che i caratteri specifici dell’Eubea venissero mai meno. Alla metà del V secolo a.C. passò, come il resto della Grecia, sotto il controllo macedone e nel 146 a.C. divenne territorio romano. Ma in età imperiale l’antica vitalità era perduta, e vaste zone dell’isola rimasero addirittura spopolate. Euclide Conosciamo assai poco della vita di Euclide, uno dei massimi matematici dell’antichità, autore di un testo divenuto canonico per il contenuto e il metodo, gli Elementi (il titolo greco è Stoicheia), in cui il sapere matematico della sua epoca è raccolto, sistematizzato e presentato con un rigore logico scientificamente ineccepibile. Sappiamo però che ha operato nel contesto della Biblioteca di Alessandria, o comunque nella Alessandria dell’epoca di Tolomeo I, all’inizio del III secolo a.C. Ci restano anche sue opere minori di carattere matematico e fisico, come l’Ottica e la Catottrica, in cui studia i fenomeni luminosi utilizzando la sua geometria; i Fenomeni, che descrivono su base geometrica la sfera celeste; un’opera di teoria matematica sulla musica dal titolo Katome kanonos, e altre di cui ci rimangono frammenti o ci sono pervenute non nell’originale greco ma in traduzione araba medioevale. Eubulide di Mileto Vissuto alla metà del IV secolo a.C., Eubulide di Mileto fu uno degli esponenti più in vista della Scuola di Megara (→), dopo il fondatore Euclide di Megara. Conosciamo assai poco la sua vita e la sua produzione, ma sappiamo che risale al suo insegnamento e alla sua ricerca la svolta impressa all’indirizzo metodologico della scuola: dalla dialettica di tipo socratico a forme di ragionamento vicine alla tradizione degli Eleati. Diogene Laerzio, che riporta diverse notizie su questo filosofo, riporta anche sette ragionamenti paradossali, che mostrano le difficoltà della ragione umana nella comprensione della realtà così come appare. Celebri sono il paradosso del mentitore (→) e il sorite (→), alle cui voci rimandiamo. Eudaimonia Vedi Felicità Eudosso di Cnido Matematico e filosofo del IV secolo a.C., Eudosso di Cnido nacque intorno al 400 a.C e morì intorno al 347 (entrambe le date sono congetturali). Si formò probabilmente negli ambienti pitagorici della Magna Grecia, fu in rapporti con Archita a Taranto e poi con Platone ad Atene, dove visse a lungo lavorando presso l’Accademia, forse reggendola durante il secondo viaggio di Platone a Siracusa. Non è però possibile considerate senz’altro Eudosso un accademico, perché non accettò mai i fondamenti della filosofia platonica e assunse sempre posizioni diverse, ad esempio sul piacere e sulla stessa teoria delle idee. Fu però certamente all’interno dell’Accademia una voce molto ascoltata: la voce di un maestro, la cui specializzazione matematica era chiara. Ci sono pervenuti solo frammenti delle sue opere; però il V libro degli Elementi di Euclide dovrebbe essere stato ricavato dai suoi trattati matematici, e questo consente di ricostruirne almeno i temi. La sua opera dovette comunque essere importante nella catena di elaborazioni teoriche che portarono la matematica greca al vertice raggiunto un secolo più tardi da Euclide. Nel periodo in cui operò presso l’Accademia Eudosso elaborò una teoria cosmologica, a base matematica, molto originale che consentiva di descrivere matematicamente in modo rigoroso il movimento dei Cieli. Fu questa descrizione matematico-cosmologica la teoria scientifica che Aristotele utilizzò per la propria teoria fisico-metafisica dei Cieli. Eudosso si occupò di molte altre questioni (medicina, geografia, oratoria) e soprattutto di etica, proponendo una teoria del piacere che Aristotele discute nel Libro X dell’Etica Nicomachea. Euridice Nella mitologia greca è una ninfa driade, ossia delle querce. Sposò Orfeo (→). Un giorno, cercando di scappare dalle mire del pastore Aristeo, venne morsa da un serpente velenoso e morì. Orfeo la seguì nell’Ade e le sue suppliche per riportare in vita la sua amata vennero ascoltate ad una condizione: egli non avrebbe dovuto mai voltarsi a guardare la sposa finché entrambi non fossero usciti dall’Ade. Ma Orfeo, sulla soglia, si voltò a guardarla ed Euridice venne nuovamente rapita dalle profondità infernali. Euripide Terzo dei grandi tragici ateniesi del V secolo a.C., nacque a Salamina intorno al 485, ed ebbe presto un primo successo come poeta tragico nel 441 a.C.; non ebbe però mai il notevole consenso degli altri due tragici (conseguì solo altre tre vittorie). Sono abbastanza pochi i dati sicuri sulla sua vita; un certo numero di informazioni proviene infatti dagli autori di commedie che, al contrario di Sofocle che non venne attaccato, lo attaccarono spesso e con durezza (pratica, del resto, comune per la Commedia antica verso personaggi della cultura: si ricordi l’attacco comico di Aristofane a Socrate nelle Nuvole: →). Ormai anziano, lasciò Atene nel 408 a.C. per la Tessaglia e la Macedonia, e qui fu ospite del re Archelao presso la cui capitale, la città di Pella, morì nel 406. Giunta ad Atene la notizia della sua morte, Sofocle lo commemorò alle Grandi Dionisie (→) dello stesso anno. Pur avendo vissuto quasi tutta la vita ad Atene, non partecipò attivamente alla vita politica e in qualche modo si distaccò dai suoi stessi concittadini se - come vuole una tradizione di scarso valore storico, ma significativa - componeva le sue opere all’interno di una grotta aperta sul mare, in isolamento. Eppure nella sua opera le inquietudini della sua età e la crisi di Atene dopo l’età periclea si riflettono con evidenza. Mantenne però stretti contatti con almeno alcuni dei circoli culturali della città e fu profondamente influenzato dalla sofistica. Le ultime sue opere, tra cui una divenuta poi tra le più celebri, le Baccanti, vennero rappresentate postume da un figlio, anch’egli tragediografo. Scrisse (ma il numero è controverso) 88 opere; di lui ci rimangono 17 tragedie e un dramma satiresco (l’unico pervenutoci integrale dell’intera produzione del V secolo a.C.). Ecco i titoli: Alcesti, Medea, Ippolito, Ecuba, Andromaca, Eraclidi, Le supplici, Eracle, Troiane, Elettra, Elena, Ifigenia in Tauride, Ione, Fenicie, Oreste, Ifigenia in Aulide, Baccanti. L’intera sua produzione pervenutaci risale al periodo della sua maturità e della sua vecchiaia, tra il 438 (Alcesti) e le ultime rappresentate postume. Euthymia Il termine euthymia – che in greco significa letteralmente benessere dell’animo, quindi gioia, serenità – è entrato nel lessico filosofico con Democrito, autore di un perduto scritto Peri euthymias (frammento A167 e testimonianze B3-4 Diels). Il benessere dell’animo nasce dalla capacità di distinguere i vari piaceri e di scegliere tra loro opportunamente. La nozione è ripresa dagli Stoici (Arnim, III) in rapporto alla gioia: l’euthymia è il benessere dell’animo che deriva dal disinteresse per ogni cosa, separata dalla terpris, che è la gioia di chi gode dei propri beni, e dalla sophrosyne (→), che è la saggezza che rende liberi e felici. Evidenza “Il termine ricorre nel contesto del problema della conoscenza e indica il fatto che una verità appare tale alla mente senza che vi sia la necessità di una dimostrazione. Il problema dell’evidenza è dato dal fatto che essa può nascondere un errore o un inganno: l’evidenza può rivelarsi un’illusione. In filosofia quindi l’evidenza può essere accolta come un criterio per il riconoscimento della verità se, e solo se, si riesce a costruire una teoria della conoscenza umana che ne giustifichi le condizioni, i limiti, i fondamenti” [Pancaldi 2006]. Evoluzione Il termine è ottocentesco, ma la nozione era presente in alcune scuole filosofiche dell’antichità. A partire da Darwin, che lo applica alla biologia, il termine evoluzione indica l’insieme dei processi biologici che hanno consentito e consentono la trasformazione continua delle specie viventi. Nella filosofia antica hanno assunto una posizione che oggi chiameremmo evoluzionista soprattutto gli atomisti, ma i dettagli della loro teoria sull’origine delle specie viventi non ci sono note per la perdita delle loro opere maggiori (c’è però una chiara descrizione in Lucrezio). Falaride Abbiamo notizie limitate su Falaride, oggetto più di narrazioni semileggendarie che storiche. Sappiamo però che fu tiranno ad Agrigento tra il 570 e il 554 a.C., anno in cui una sollevazione popolare lo depose e lo uccise. Era un immigrato, forse da Creta, ma non conosciamo le vicende che lo portarono ad Agrigento, e in posizione tale da riuscire a prendere il potere come tiranno. Il suo nome è legato a molte narrazioni di comportamento crudele. La tradizione vuole che abbia fatto costruire da un artigiano ateniese, Perillo, un toro di bronzo, in cui veniva rinchiusi i condannati destinati a morire tra i tormenti (si racconta che il suo costruttore sia stato il primo ad essere ucciso in questo modo): un fuoco acceso sotto l’animale di bronzo provocava le urla di sofferenza del condannato, che dall’esterno venivano percepite come muggiti del toro. La figura di Falaride, connessa a episodi di efferatezza e crudeltà gratuita, fu tra quelle che finirono per associare alla tirannide (→) un significato negativo, che alle origini non aveva. Fama In una civiltà dell’onore (→) e della vergogna come quella omerica, la fama era decisiva, perché indicava che cosa di un eroe si diceva presso i suoi simili e presso le generazioni future. Anche in età storica e presso i romani questo tema continuò ad essere una preoccupazione costante, anche se non come in Omero. A Roma la Fama (così in latino) era divinizzata, ma andava intesa in un senso diverso: era la personificazione della voce pubblica. Virgilio la immagina fornita di un gran numero di occhi per vedere e di bocche per parlare, e la vede spostarsi continuamente da un posto all’altro. Ovidio la vede in un palazzo di bronzo con molte aperture in cui le voci entrano tenui ed escono amplificate. Famiglia La concezione greca della famiglia è legata alla nozione di oikos (o oikia), una dizione che non ha un preciso corrispettivo in italiano perché indica sia la casa, sia la famiglia che la abita, sia il patrimonio (da cui il termine economia), sia la casata a cui tutti i membri della famiglia appartengono. Questo insieme di nozioni riunito in una parola si spiega col fatto che la famiglia in Grecia era in effetti una unità sia di affetti che economica, centrata su una ereditarietà che aveva nella linea maschile il suo fulcro. L’uomo a capo della famiglia aveva molto potere, ma i figli erano liberi dalla sua autorità una volta raggiunta la maggiore età. La condizione delle donne era invece nettamente subordinata (si cita spesso a questo proposito un’affermazione di Senofonte che nei Memorabili scrive che i figli maschi si educano e le femmine si custodiscono). In qualche modo l’affermarsi del potere politico della polis in Grecia sottrasse potere (e a Sparta anche alcuni ruoli) alla famiglia, liberando i cittadini da vincoli privati e attribuendo ad essi un ruolo pubblico. Anche per questa ragione la famiglia entra nella riflessione dei filosofi in relazione a temi di natura politica: sia Platone che Aristotele, ad esempio, ne trattano in contesti politici (Platone nella Repubblica, dove sostiene tesi estreme come la comunanza delle donne, e Aristotele nella Politica in cui considera la famiglia come una società naturale). Nelle scuole filosofiche ellenistiche la riflessione sulla famiglia diviene meno puntuale, perché prevalgono altre caratterizzazioni di tipo sociale, come la comunità degli amici presso gli epicurei, pur continuando le famiglie a svolgere un ruolo sociale importante (e a Roma anche più marcato che in Grecia). Fato Vedi Destino Fedro Fedro, giovane e brillante, è un allievo di Socrate. Amante dei discorsi, appassionato di filosofia, da lui prende il nome uno dei più importanti dialoghi della maturità di Platone, il Fedro appunto, in cui è ripresa in un contesto diverso rispetto al Simposio la teoria platonica dell’Eros. È Socrate a convertirlo dalla retorica alla filosofia. Il discorso di Fedro nel Simposio platonico Fedro è anche un personaggio del Simposio di Platone. In questo dialogo tiene il primo dei discorsi sul dio Eros svolgendolo in chiave mitologica. Fedro, richiamando diversi poeti, mostra come Eros sia un dio dei primordi, antichissimo, a cui si deve tutto quel che di positivo e armonico ha caratterizzato la vita degli dèi successivi e degli uomini. L’amore di cui si parla supera la morte, e chi ama (sia esso l’amante o l’amato) è disposto ad affrontarla come è facile vedere da alcuni esempi mitologici che Fedro analizza, mostrando come alcuni di essi siano più graditi agli dèi di altri. Felicità Di per sé la felicità (in greco eudaimonia) è una condizione dell’animo, dunque un fatto psicologico. Ma nella concezione greca dell’esistenza umana la nozione si colora, presso i filosofi, di connotazioni fortemente legate alla libertà e alla razionalità, quindi a caratteri diversi dai fatti psicologici. Il significato del termine Questo dipende dal fatto che la natura umana è concepita caratterizzata da due elementi: - la padronanza di sé, che implica il controllo delle passioni e quindi la libertà (→), connessa con la nozione, anche giuridica, di responsabilità (→); - la razionalità, che è sentita dai Greci come il tratto più proprio dell’uomo (per i rapporti tra razionalità e felicità vedi anche la voce Contemplazione: →). L’idea di fondo è che un essere razionale libero, cioè padrone di sé e capace di controllare le proprie passioni nell’autonomia interiore del proprio io, è per ciò stesso felice. Per intendere questo concetto va ricordato che l’eudaimonia non viene fatta dipendere da circostanze esterne sulle quali l’uomo non ha il controllo. Non che in Grecia non esista anche questa nozione, ma è espressa da un altro termine e fa riferimento ad una esperienza diversa dalla eudaimonia: in greco l’uomo che è fortunato e ha soldi e ricchezze è olbios (termine che i romani traducono con felix) e non eudaimon (termine che i romani traducono con beatus). L’elemento che distingue i due concetti è il fatto che fortuna e ricchezze dipendono poco dall’io e molto dalle circostanze del mondo esterno, non solo assai poco controllabili ma anche mutevoli con rapidità, mentre l’eudaimonia dipende in gran parte dall’io piuttosto che dalle circostanze esterne. Ricorre anche un altro termine, euthymia, nel senso di benessere: in Democrito è il bene supremo, negli Stoici un altro modo per dire atarassia (→). Le teorie Che la ricerca dell’eudaimonia sia un obiettivo della vita umana, è cosa per i filosofi greci ovvia. Sono tutti d’accordo. Ma poiché l’eudaimonia è legata alla pienezza di sé e alla realizzazione della propria natura umana razionale – del proprio sé –, tutto dipende da come i filosofi interpretano questa pienezza e questo sé. Per esemplificare scegliamo due casi estremi: - per la filosofia di Epicuro l’uomo è, anima e corpo, un aggregato di atomi; la pienezza di sé è il pieno possesso delle risorse che servono al corpo e all’anima (benessere del corpo e tranquillità dell’anima); l’uomo è libero e perfettamente felice se questa pienezza è raggiunta, in accordo con la sua razionalità, che gli insegna che questa, e non altra, è la natura umana; eudaimonia e piacere (che è una condizione fisica e psicologica di pienezza) coincidono, perché l’uomo è eudaimon quando non gli manca niente (la teoria dice, con pieno ottimismo metafisico che ha pochi eguali nella storia della filosofia, che se nulla ci manca automaticamente proviamo piacere percependo la nostra esistenza); - per la filosofia di Plotino l’uomo è, anima e corpo, emanazione dell’Uno attraverso vie estremamente complesse, che mettono capo a due distinte forme d’esistenza per il corpo e per l’anima; questa differenza fa sì che il corpo non abbia la possibilità di ricollegarsi alle sue radici nell’Uno, possibilità che invece l’anima ha; l’eudaimonia è quindi raggiungibile realizzando il proprio io, che non è affatto completo – mai e in nessun caso –, ma è un frammento emanato dall’Uno; per essere completo, e quindi felice, è quindi ovvio cosa deve fare: ricongiungersi all’Uno e così completarsi. I problemi filosofici Come si vede da questi esempi, un obiettivo comune, cioè l’eudaimonia, può dar luogo a teorie del tutto diverse. Il problema filosofico della felicità in Grecia non è mai in alcun modo problema della giustificazione teorica di questa esigenza che l’uomo sente (essere felice). Il problema non si pone, è un fatto, ed è accettato come tale. Si pone invece il problema della ricerca dell’eudaimonia (essere beatus è l’obiettivo, non essere felix, direbbe un romano) e questo problema è impostato dai diversi filosofi in rapporto alla propria concezione della natura dell’uomo in rapporto alla natura del Tutto. Ci sono due costanti nelle teorie greche sull’argomento: - il legame tra libertà (interiore: quella esteriore conta poco) e felicità; - la necessità di tenere sotto controllo le passioni (sui modi le teorie divergono: dando loro spazio in modo che trovino libero sfogo, oppure ponendole in equilibrio, oppure rendendo l’io indipendente da esse). Fenici Antica popolazione semitica originariamente (II millennio a.C.) stanziatasi nella fascia costiera, grosso modo, dell’attuale Libano, era caratterizzata da una specifica vocazione marittima e mercantile: in età storica città e scali fenici punteggiavano tutto il Mediterraneo soprattutto orientale, ormai lontano dalle basi di partenza. In occidente la loro città più importante era Cartagine che, a partire dal III secolo a.C. entrò in rotta di collisione con i Romani e ne uscì distrutta. Ma già nel V secolo a.C. i Cartaginesi erano entrati in conflitto coi Greci in Sicilia. Ai fini dello sviluppo della cultura classica greca e romana e della filosofia antica, i Fenici sono da richiamare soprattutto perché da loro i Greci presero l’alfabeto, che adottarono con modifiche (vedi Alfabeto: →) Fenomeno Dal greco phainomenon (che i Romani traducono con species) il fenomeno è ciò che appare: dunque i fenomeni sono connessi stabilmente al piano dell’apparenza (→), fatto che implica - il richiamo ad un osservatore (perché qualcosa appaia, è necessario che ci sia qualcuno a cui appaia); - il richiamo ad una realtà che si mostra nel fenomeno (ma non è detto che si mostri interamente né in modo corretto). Questo doppio richiamo chiarisce qual è il fulcro dei diversi problemi filosofici connessi al termine fenomeno: è il fatto che la mente nella sua indagine razionale non può accontentarsi dei fenomeni, cioè del piano di ciò che appare (dell’apparenza), ma deve tentare di comprendere il piano della realtà di ciò che appare, che potrebbe essere qualcosa di diverso da come appare. Ad esempio, per gli atomisti i fenomeni della natura non ci danno alcuna informazione diretta sul fatto che ciò che appare (le immagini dei corpi) hanno alla loro base la struttura atomica della materia; occorre un ragionamento per passare dai fenomeni visibili delle cose alla loro struttura nascosta agli occhi (perché troppo piccola) che invece si rivela alla mente. Il termine fenomeno è utilizzato già da Anassagora e poi da Platone (che lo usa nel senso di cose apparenti, la cui realtà è instabile e vuota), ma acquisisce il suo significato tecnico a partire da Aristotele ed Epicuro, che lo usano soprattutto per indicare ciò che ci si mostra di realtà difficili da intendere come i fenomeni celesti (il riferimento è ai fenomeni del Sole, della Luna, dei Cieli, ma anche ai fenomeni atmosferici). Negli scritti degli Scettici il termine fenomeno indica invece il piano della realtà a cui restare fedeli, perché l’unico concreto alla luce della nostra esperienza possibile, al contrario del piano dei concetti che sono concepiti come ricostruzioni sempre soggette al dubbio: ad esempio Sesto Empirico scrive che lo scetticismo oppone “i fenomeni ai concetti in tutti i modi possibili” (Ipotiposi, I, 5) Figura Figura è “il termine della retorica che indica determinate forme del discorso utilizzate a diversi fini espressivi. In questo senso si parla di figure retoriche per la metafora, la metonimia, e moltissime altre, studiate e classificate già a partire dalla retorica antica e poi dalla linguistica moderna. In filosofia le figure retoriche costituiscono un campo di studio molto vasto, per la diversità dei problemi che sono ad esse connessi: - problemi retorici ed estetici, in relazione alle condizioni del loro uso e ai loro effetti; - problemi linguistici e cognitivi, in questioni del tipo: quale legame vi è tra ciascuna figura e i processi di formazione del linguaggio e del pensiero? - problemi legati allo studio dell’essere, in questioni del tipo: determinate figure (tra le più importanti vi è la metafora) sono in grado di esprimere compiutamente determinate forme dell’essere delle cose e della natura del pensiero in modo migliore del linguaggio proprio?” [Pancaldi 2006] Nella logica aristotelica le figure (skema) sono le quattro forme nate dalla posizione dei termini all’interno dell’inferenza sillogistica (rimandiamo quindi su quest’uso del termine alla voce Sillogismo: →). Filantropia Il termine greco philantropia significa letteralmente amicizia per l’uomo, e non fa riferimento all’amicizia tra persone che si conoscono, o che sono legate da rapporti affettivi positivi di qualsiasi tipo, ma all’amicizia di qualsiasi uomo verso qualsiasi altro. A mettere a tema questo tratto delle relazione umane nel mondo antico furono soprattutto gli Stoici, anche se nel tardo epicureismo era comunque presente: negli Stoici il tema si lega alla nozione di cosmopolitismo (→), perché il cittadino del mondo considera suoi concittadini gli uomini ovunque siano a qualunque etnia o religiose appartengano. Filippo II di Macedonia Sovrano del Regno di Macedonia dal 359 fino alla morte, avvenuta nel 336 a.C., Filippo II era nato intorno al 382 a.C. e riuscì a divenire re superando resistenze interne. Aveva avuto una solida preparazione politica e militare perché era stato educato da Epaminonda (→) a Tebe, e rientrato in patria si dedicò subito alla riforma radicale delle pratiche militari macedoni. Risale agli inizi del suo regno la scelta di organizzare l’esercito in falangi, e fu lui a elaborare nuove tecniche di assedio e nuovi armamenti. In politica interna il suo ruolo fu quello del costruttore della potenza macedone ponendo le basi per l’unità tra le diverse fazioni e per la riorganizzazione del regno che sotto di lui acquisì una potenza e una coesione che prima non aveva. In poco più di vent’anni di regno, Filippo II riuscì a estendere la sua influenza su tutta la Grecia: l’evento decisivo fu la battaglia di Cheronea del 338 a.C., con cui le città greche alleatesi tra loro in funzione antimacedone furono sconfitte (tra esse Atene e Tebe, le due maggiori dell’epoca). Stava preparando una spedizione contro la Persia, proponendosi come guida di tutti i Greci contro i Persiani, quando venne ucciso nel corso di un attentato. Suo successore fu il figlio Alessandro Magno (→). Filologia / Filologi Col termine filologia (dai termini greci philein, amare, e logos, discorso: i filologi sono quindi, letteralmente, “coloro che amano il discorso”) si intende lo studio scientifico delle opere scritte che cominciò ad affermarsi come una necessità professionale dei bibliotecari quando, nel III secolo a.C., nacquero le grandi istituzioni di conservazione del patrimonio librario dei secoli precedenti, in particolare le Biblioteche di Alessandria e di Pergamo. Qui i conservatori di questo immenso patrimonio di testi scritti (oggi difficile da quantificare, ma comunque nell’ordine di decine e centinaia di migliaia di “libri”, cioè i rotoli di papiro o i testi in altri supporti) si trovarono davanti al problema di dare un ordine rigoroso al materiale: gli antichi testi giungevano loro in versioni spesso diverse le une dalle altre (diverse per l’ordine dei libri, per singole parole, o per intere parti), sicché era necessario definire quella che oggi chiameremmo una “edizione critica” dei testi, cioè una edizione che determinasse una volta per tutte in modo scientificamente attendibile la corretta lezione dei testi e il loro ordinamento. Soprattutto ad Alessandria e a Pergamo si operò con criteri rigorosi, e i filologi proposero in effetti un tale numero di edizioni critiche delle opere dei secoli precedenti che è possibile affermare che ancora oggi noi leggiamo i classici nella veste che ad essi diedero i filologi ellenisti. Va precisato che la filologia ha a che fare con diversi ordini di problemi per definire i principi scientifici sulla cui base operare: - problemi di ordine storico e testuale: gli antichi testi giungevano in diverse varianti, frutto di sedimentazioni storiche, di trascrizioni, di aggiunte, di interpolazioni, di revisioni degli stessi autori, e così via; occorreva quindi stabilire principi che consentissero di contestualizzare storicamente un testo, nel momento della sua composizione, ma anche nella tradizione successiva, quando i testi erano stati rivisti da persone diverse dall’autore; - problemi di ordine filosofico: i testi scritti sono una delle forme in cui si trasmette il pensiero, e questo avviene attraverso il linguaggio, in una sua forma diversa dall’oralità; per interpretare gli antichi testi in modo corretto occorreva disporre di una interpretazione rigorosa della natura del linguaggio (ad esempio: nasce da convenzione come vogliono gli studiosi di Alessandria, o da processi naturali, come vogliono gli studiosi di Pergamo? si vedano su questo punto la voce Analogisti, Anomalisti, Filosofia del linguaggio: →) - problemi di ordine linguistico e grammaticale: a seconda delle tesi filosofiche sulla natura del linguaggio, ai filologi si presentano possibilità diverse per affrontare le questioni linguistiche specifiche dei testi: occorre infatti interpretare il senso delle parole quando nei secoli il loro significato ha slittamenti importanti (ad esempio i termini omerici sono spesso diversi, o sono usati con un significato diverso, rispetto a quelli della lingua greca dell’età classica o dell’età ellenistica); e occorre inoltre disporre di regole grammaticali che consentano di intendere la struttura della lingua, per definire il senso dei testi scritti Filone di Alessandria Filosofo ebreo vissuto approssimativamente tra il 20 a.C e il 50 d.C., apparteneva a quella vasta comunità di Ebrei ellenizzati che da secoli risiedeva ad Alessandria d’Egitto (→). Con lui ebbe inizio il processo che, nei secoli, portò la cultura greca e quella biblica ad avvicinarsi, fatto che consentì ai filosofi cristiani successivi di utilizzare le categorie teoriche elaborate dai Greci per intendere la Bibbia. Filone pubblicò in effetti vari commenti a libri della Bibbia che andavano in questa direzione, seguendo due linee maestre: - l’interpretazione allegorica (vedi Allegoria: →) e non letterale delle Sacre Scritture, che avrebbe avuto un larghissimo seguito nel Medioevo, che consiste nel leggere il testo sacro alla ricerca di un significato nascosto; - l’applicazione di concetti, termini e nozioni filosofiche elaborate dai Greci in ambiti del tutto diversi (ad esempio da Platone e dal neopitagorismo) come base per l’interpretazione allegorica delle Sacre Scritture (ad esempio attraverso una sorta di lettura in parallelo del Timeo e della Genesi). Le sue opere più importanti sono proprio i commenti ai testi sacri: Commento allegorico alle sante Leggi, sui capitoli 2-3 della Genesi, Sul decalogo, Sulle leggi particolari, Sulla migrazione di Abramo, e così via. Meno importanti sono opere filosofiche in senso proprio, come Sulla provvidenza e Sulla eternità del mondo. La sua opera ebbe continuatori diretti ad Alessandria soprattutto in ambienti cristiani, con la cosiddetta Scuola teologica di Alessandria (→). Filone di Larissa Filosofo greco attivo tra il II e il I secolo a.C., fu scolarca dell’Accademia (→) nel 110-109 a.C. A causa degli eventi politici del periodo, dovette trasferirsi a Roma, dove ebbe come allievo anche Cicerone. Appartenne alla fase della cosiddetta Accademia “nuova” e sostenne una forma moderata di scetticismo, abbandonando la tesi tipica dell’Accademia “di mezzo” sulla necessaria sospensione di ogni giudizio, accentuando la tendenza, già presente nella scuola, ad ammettere una gradazione nella validità delle opinioni. Questa moderazione rese possibile a Filone la costruzione di una teoria etica, non basata su certezze e verità riconosciute come tali, ma su opinioni ritenuti sufficientemente probabili per guidare l’azione. Filosofia / Filosofo Una tradizione riferita da Cicerone (I secolo a.C.) e Diogene Laerzio (III secolo d.C.) vuole che il termine filosofia sia di origine pitagorica. Diogene Laerzio però fa riferimento come propria fonte ad un filosofo della cerchia di Platone, Eraclide Pontico, e non è escluso che il riferimento a Pitagora vada inteso come identificazione da parte di Platone di una linea di pensiero antica, da lui ripresa. In effetti che cosa si debba intendere per filosofia in senso proprio e non generico è solo la tradizione filosofica a dirlo. Fino al V secolo il termine ha significati generici: riferito a Solone vale sapiente, ed Erodoto usa il termine filosofo come equivalente di saggio, sapiente. Negli stessi anni i Sofisti chiamano filosofia il loro insegnamento, che in gran parte ha aspetti retorici e letterari, oltre che (nel senso successivo del termine) filosofici. Etimologicamente filosofia significa amore della sapienza (philein è un verbo che traduciamo con amare, essere amico di, e sophia significa sapienza), e il suo significato tecnico si consolida a partire dal IV secolo a.C., quando l’attività dei filosofi comincia ad organizzarsi in scuole che operano in modo strutturato e stabile. Ma i confini disciplinari sono labili, e quando Aristotele intende trattare di temi che oggi consideriamo specifici della filosofia (ad esempio del tema dell’essere e delle cause originarie della realtà) non usa solo il termine filosofia, ma parla di filosofia prima, e di filosofia seconda per indicare la fisica. In età ellenistica la filosofia è intesa in due modi diversi e complementari, che vanno visti in un unico quadro d’insieme: - filosofia come discorso: è un sapere discorsivo, cioè un discorso razionale sul mondo che comprende vari aspetti (indicativamente tre: la logica, la fisica, l’etica); - filosofia come arte del vivere: è un sapere pratico, cioè una applicazione del discorso filosofico alle esigenze della vita sia materiale che spirituale dell’uomo. Il filosofo non è più quindi, come per Platone, soltanto amico della sapienza, ma possiede sia la sapienza come insieme di conoscenze vere sul mondo sia la saggezza come insieme di norme da seguire per una vita libera e felice. In età ellenistica è però anche sempre stata viva la tradizione scettica, in scuole diverse (Pirrone e i suoi allievi, la media Accademia, poi gli scettici dei secoli successivi), in cui la filosofia mantiene il carattere di arte del vivere, ma non quello di sapere discorsivo, impossibile da padroneggiare per gli scettici, sicché le norme etiche discendono non da un sapere, ma dalla certezza di non sapere. Sul finire della tradizione filosofica dei Greci, con Plotino, la filosofia mantiene ancora i tratti tipici dell’ellenismo, ma apre ad una dimensione contemplativa nuova, sicché il discorso razionale punta, in unione con l’arte del vivere, all’estasi, che mantiene quindi un carattere legato alla razionalità, sia pure superata da un atto di intuizione. Finalismo Il finalismo è la scienza dei fini (in greco il fine, nel senso di scopo, è telos, da cui il termine teleologia introdotto nel linguaggio della filosofia moderna nel Settecento), cioè lo studio filosofico delle finalità della natura, dei suoi scopi ultimi. A porre l'accento sul finalismo come uno dei modi di studiare la natura al fine di comprenderne il senso è Aristotele; questa prospettiva è invece rifiutata da altre scuole filosofiche antiche, che negano che la natura sia dotata di fini propri (per esempio le dottrine atomistiche). Il finalismo è una possibile risposta a problemi del tipo: - qual è il senso delle cose, della natura, della vita umana? il finalismo trova questo senso in un fine, che può essere interno alla natura o alla vita (come il ciclo cosmico dell’essere, teorizzato dagli Stoici) o esterno all’universo fisico anche se non alla Natura (come il Dio aristotelico); - come spiegare gli organismi viventi, in cui ogni parte sembra rispondere ad un progetto complessivo ed avere una precisa funzione, un fine? come spiegare il fatto che in natura tutto sembra avere uno scopo? il finalismo non segue la via di una spiegazione in termini di causa / effetto (→), come risultante dell’azione di forze meccaniche che non implicano un’intelligenza nella o sulla natura, ma nei termini del rapporto mezzo / fine (vedi: →), che implica che la natura sia governata da una intelligenza (comunque la si intenda). Fine Vedi Finalismo e Mezzo / Fine Finito Il termine greco per indicare il limite è peras (e il contrario è apeiron: →); il finito è peperasmenon. Nella cultura greca, e quindi anche nella filosofia, l’orientamento prevalente è stato quello di considerare il finito come sinonimo di completo: qualcosa che è compiutamente un tutto, a cui non manca nulla. Per questa ragione molti filosofi greci (quasi tutti, con l’eccezione di Melisso e di Epicuro) concepiscono l’universo fisico come una realtà finita e ben delimitata nello spazio da precise dimensioni e distanze. Il tema ha anche una rilevanza per la storia dell’estetica: poiché una parte prevalente della filosofia antica considera la bellezza un prodotto dell’armonia (→) tra le parti di un corpo (o tra i rapporti sonori nella musica, cromatici nella pittura, e così via), ciò che è bello è anche finito, perché solo nel finito possono darsi proporzioni armoniche e relazioni matematicamente definibili in modo compiuto. Nei filosofi che considerano l’infinito come realtà, e anche come realtà bella (così ad esempio in Plotino), necessariamente la nozione di bellezza deve cambiare. Poiché i problemi di fondo sul finito sono gli stessi che per l’infinito, rimandiamo alla voce Infinito (→) la trattazione di questo tema. Fisica Nella filosofia greca la phisike è la ricerca filosofica sulla physis (→), cioè sulla natura vista come abbiamo precisato nella voce specifica a cui rimandiamo. Quindi il termine si riferisce - a quella che oggi chiamiamo scienza della natura, al fine di identificare le leggi che la regolano; - a quella che oggi chiamiamo filosofia della natura, al fine di identificarne l’origine e le caratteristiche qualitative delle sue componenti (materiali o spirituali che siano) e del Tutto che essa compone. Le due ricerche non erano distinte nel mondo greco, e la stessa distinzione delle opere aristoteliche in una Fisica e in una Metafisica riguarda l’organizzazione redazionale dei suoi scritti, perché i temi si prolungano nelle sue opere dedicate alla physis in modo continuo. Presso le scuole ellenistiche il termine phisike designa l’intero complesso di ricerche, unitariamente costruite in modo organico, che riguardano l’universo fisico, uomo compreso. Va sottolineato che gli altri due ambiti della ricerca delle scuole ellenistiche – la logica e l’etica – sono sì viste come discipline filosofiche separate, ma solo per ragioni di organizzazione degli studi e delle ricerche, non perché riguardino enti diversi. Qualsiasi disciplina filosofica, infatti, studia per le scuole ellenistiche il Tutto, la differenza riguarda solo l’angolazione da cui si effettua questo studio. Flauto Vedi Aulos Forma / Materia Questa coppia di concetti è tipicamente aristotelica, se usata in senso tecnico come caratterizzante la sostanza (→). Il termine che traduciamo con materia (→), alla cui voce rimandiamo, è in Aristotele hyle. Il termine filosofico italiano forma (→) dipende dal termine latino forma, con cui gli scrittori e i filosofi romani tradussero due termini greci entrambi usati da Aristotele: - eidos, cioè idea (→); - morphe, che è un sinonimo di eidos usato in senso ristretto da Aristotele. Negli scritti aristotelici la formula che unisce forma e materia è espressa sia dalla coppia hyle e morphe, sia da hyle e eidos. Non si dà mai una materia senza forma, né una forma senza materia, per cui le due nozioni sono separabili rispetto alla realtà della cosa soltanto attraverso un atto della mente: atto necessario, tuttavia, perché la stessa materia può assumere più forme, e quelle di materia e di forma sono nozioni radicalmente diverse. Aristotele chiama sinolo (→) l’unità della materia e della forma, cioè la realtà unitaria dell’ente studiato. Fortuna Il termine greco è tyche, che significa fortuna nel senso di sorte, caso. In Omero non compare come divinità, ma ha un ruolo non marginale in Esiodo e soprattutto nell’evoluzione della religiosità ellenistica, in sincretismo con altre divinità orientali come Iside. In quest’epoca in Oriente era rappresentata come dea sotto figura femminile protettrice delle città – raffigurava la loro buona sorte, in senso augurale. Va ricordato che il termine fortuna in italiano ha una valenza positiva, e il termine sfortuna una negativa; ma la parola tyche (e la fortuna dei latini) ha entrambi i significati: è la sorte, positiva o negativa, sempre imperscrutabile perché gli uomini non conoscono il loro futuro. Il tema è quindi vicino a quello di termini come caso (→) e destino (→), ai quali rimandiamo per gli aspetti filosofici. Va però segnalato il fatto che Aristotele distingue la fortuna dal caso, attribuendo la fortuna soltanto all’uomo perché la lega alla libertà (non può essere fortunata o sfortunata una pietra: solo per similitudine possiamo dire fortunata quella di un altare che riceve onori e sfortunata quella ai piedi dell’altare perché sul pavimento viene calpestata: così in Fisica, II-6) Frammenti Col termine frammenti indichiamo per la filosofia antica il vasto complesso di parti - a volte ampie, a volte della lunghezza di una citazione, a volte di una sola riga o di poche parole – dei testi antichi perduti. Questi frammenti sono giunti sino a noi attraverso percorsi non sempre lineari. Li abbiamo perché un autore di cui ci è rimasta l’opera li riporta, a volte citando esplicitamente, a volte indicando genericamente l’autore. Poiché nel mondo antico non esistevano né diritti d’autore né la possibilità di difendere la propria produzione scritta da interpolazioni, cattive trascrizioni e simili, i filologi hanno dovuto compiere un raffinato lavoro di analisi nel tentativo (in molti casi puramente congetturale) di identificare con esattezza il testo del filosofo citato (già capire, in assenza delle virgolette che noi oggi usiamo, dove comincia e dove finisce una citazione è un problema filologico che può dare problemi non sempre risolvibili con certezza). Inoltre vari scrittori non prendono la citazione dall’originale, ma sappiamo che stavano utilizzando testi che a loro volta citavano, per noi perduti. Per le questioni filologiche vedi la voce Filologia (→). Le principali raccolte di frammenti di opere filosofiche dell’antichità riguardano i Presocratici (per questa dizione vedi la relativa voce: →), le Scuole socratiche cosiddette minori, Epicuro e l’epicureismo, lo Stoicismo. Fulmine È uno dei fenomeni naturali e “celesti” su cui l’attenzione dei filosofi si è soffermata non solo per i suoi risvolti naturalistici (spiegarne l’origine e i caratteri fisici), ma anche per discuterne il significato religioso: il fulmine era infatti associato a Zeus, e quindi all’intervento divino sulla natura e sull’uomo (l’esperienza di fulmini che colpiscono persone e case, portando incendi e la morte, potrebbe essere stata forse una delle esperienze di base per una lettura divina del fenomeno). C’è davvero una realtà divina dietro questo tipo di fenomeni? Una celebre analisi in chiave scientifica e atomistica è nella Lettera a Pitocle di Epicuro dedicata ai fenomeni celesti. Fuoco Quando i filosofi greci parlano di fuoco, non dobbiamo intendere questo termine solo in riferimento alle esperienze della fiamma, ad esempio in un camino o nella legna accesa in una cucina (esperienza allora tanto comune quanto oggi quella delle fiamme del gas in una cucina dei nostri tempi). Le esperienze possibili Nei testi antichi compaiono infatti anche altre esperienze: le più importanti sono quelle della lava incandescente (che lasciava pensare che il cuore stesso della Terra fosse infuocato) e degli astri del cielo, il cui fuoco inesauribile era ben difficile da spiegare (ad esempio: che cosa brucia nel Sole? se quel fuoco è dello stesso tipo di quelli che si possono accendere sulla Terra, perché il Sole non si consuma?). Inoltre, poiché i corpi dell’uomo e di molti animali sono caldi, il fuoco evidentemente trova spazio anche nella formazione e nel mantenimento della vita. È ovvio che rintracciare una identità comune tra tutte queste esperienze si sia rivelato molto difficile. E tuttavia i filosofi Greci hanno cercato di farlo, nel tentativo di legare insieme i Cieli e la Terra, tra loro e con la vita stessa dell’uomo. La presenza del fuoco sia nei Cieli che sulla Terra ha fatto sì che i problemi filosofici connessi col fuoco siano di due tipi diversi: - da un lato i problemi dell’arché e della struttura della materia, alla ricerca del principio originario che genera il movimento della natura; - dall’altro il problema cosmologico sulla materia di cui sono fatti gli astri e di cui è fatta la Terra. Le teorie Tra le teorie che pongono il fuoco come elemento originario, un posto particolare spetta a quella di Eraclito, che lo considera (in frammenti per la verità di complessa interpretazione) come l’arche da cui ogni cosa trae origine e movimento. Questa teoria è stata poi ampiamente sviluppata dagli Stoici, che fanno del fuoco l’energia vitale del cosmo, connessa con il Logos, da cui tutto trae vita, senso e ordine. E nel fuoco ha termine il “grande anno” con cui si conclude un ciclo di vita dell’universo, prima di una nuova origine (vedi Ekpirosis: →). Nelle teorie di altri filosofi naturalisti il fuoco è un elemento come lo sono anche l’aria, l’acqua e la terra. Nella visione dell’universo di Aristotele, al contrario di quella degli Stoici (che su questo punto, a differenza di molti altri, concorda con quella di Epicuro), la materia di cui sono fatti i cieli (etere, o quinta essenza) è del tutto diversa da quella di cui è fatto il mondo sublunare, e quindi il fuoco di cui facciamo esperienza sulla Terra non ha la stessa natura del fuoco degli astri. Il fuoco poi nei racconti mitologici è associato al primo processo di civilizzazione e alla conquista umana delle tecniche, e a portare i primi semi di fuoco agli uomini è Prometeo (→), in un mito molto celebre. Gea o Gaia In Esiodo è la prima delle divinità che emergono dal Caos primordiale, e da essa vengono generate direttamente un gran numero delle prime divinità. Nell’ordine definitivo assunto dall’universo con la generazione degli dèi olimpi - la generazione di Zeus e dei suoi fratelli – Gea non svolge più alcun ruolo. La dea della Terra è ormai Demetra, associata alla potenza fecondatrice dei campi, e quindi alle messi. Anzi, l’eventuale attività di Gea appare un pericolo per l’ordine di Zeus. Oggi col nome Gaia si indica anche una ipotesi scientifica nata alla fine del XX secolo che considera il pianeta Terra come una unità sul modello degli organismi biologici. Gelone Tiranno dapprima di Gela, poi di Siracusa, Gelone nacque a Gela intorno al 540 e morì a Siracusa nel 478 a.C. Divenne tiranno a Gela nel 491 a.C. alla morte del tiranno precedente, approfittando del suo ruolo di comandante della cavalleria. Affidò poi la città al fratello Ierone e si impadronì di Siracusa, che sotto la sua tirannia divenne una delle più popolose, ricche e potenti tra le città greche dell’occidente. Dedicò particolare cura all’esercito e quando nel 480 i Cartaginesi attaccarono Imera, alleatosi con gli agrigentini li sconfisse imponendo quindi la supremazia dell’elemento greco su quasi tutta la Sicilia, relegando i Cartaginesi nelle loro basi dell’estremità occidentale dell’isola. Alla sua morte i Siracusani gli tributarono un culto eroico (→). Generazione e corruzione I termini greci corrispondenti a generazione e corruzione sono genesis e phtora, e li proponiamo associati (come del resto lo erano presso i Greci) perché nel movimento complessivo della vita descrivono il ciclo che compie un vivente dal concepimento alla nascita, dalla vita alla morte. Compaiono quindi abitualmente associati nelle opere filosofiche greche. In Aristotele la generazione e la corruzione vanno nettamente distinti dal semplice movimento – in greco kinesis – perché con quest’ultimo la sostanza di un ente non muta, mentre muta con la generazione (che genera una nuova sostanza) e con la corruzione (che la distrugge). A parte le ricerche biologiche specialistiche (come quelle aristoteliche), i problemi filosofici associati alle nozioni di generazione e di corruzione sono quelli relativi alla nozione di vita (→), alla quale rimandiamo. Infatti la nascita e la morte non sono neppure descrivibili se non nel contesto del fenomeno della vita, della quale tuttavia è difficile dare una precisa descrizione filosofica (a partire dalla domanda cruciale: che cos’è la vita?, fino ai problemi sul senso del movimento che lega generazione e corruzione, cioè nascita e morte). Genere e specie In Aristotele la definizione di un ente – cioè la pratica discorsiva che attraverso il linguaggio verbale lo descrive nella sua essenza – ha di mira l’identificazione della verità dell’oggetto studiato. Questo obiettivo si raggiunge se si riesce a identificare la differenza tra l’ente studiato e gli altri dello stesso genere, in modo da identificarne la specie (in questo senso Aristotele parla di differenza specifica): per esempio se l’oggetto di studio è un animale bipede, il genere è il fatto di essere animale, la specie l’essere bipede (esistono animali di altre specie, per esempio i quadrupedi). Aristotele chiarisce la nozione di differenza specifica con questo esempio in Metafisica VII-12. Naturalmente la definizione può essere più o meno analitica e precisa; il procedimento consiste - nel passare da generi primi a generi prossimi, cioè da nozioni universali di grado più elevato a nozioni sempre universali, ma di grado meno elevato, - fino a identificare la differenza nella specie (differenza specifica), determinata con precisione crescente. Questo metodo è applicato da Aristotele alle sue classificazioni, ad esempio degli animali, in modo che dall’universale di grado più generale (l’essere tutti animali) si passi alle specificazioni proprie di ciascun animale in un ordine specifico decrescente. Genere prossimo Vedi Genere e specie Generi letterari della filosofia antica La dizione genere letterario indica ciascuna forma di composizione in quanto caratterizzata da tratti specifici. Le prime classificazioni risalgono a Platone e ad Aristotele, e la codificazione divenuta poi canonica per il mondo greco si deve poi agli Stoici, ai Peripatetici dell’età ellenistica e ai filologi alessandrini. I criteri di fondo per la classificazione sono due: il contenuto (ad esempio: tragedia o commedia) e la forma (ad esempio: poesia epica, romanzo in prosa). Se applicato alla storia della filosofia, lo studio dei generi letterari consente di chiarire le caratteristiche specifiche di ciascun genere, e di evitare quindi molti equivoci che nascono dal fatto che determinati caratteri di un genere vengano scambiati per qualcosa di diverso, attribuendo loro un significato filosofico che in realtà non hanno. Ad esempio, nel genere letterario del dialogo l’autore non necessariamente espone le proprie tesi attraverso un solo personaggio, ed è quindi difficile in un dialogo identificare con precisione, tra le diverse discusse, qual è la tesi dell’autore. Oppure nel genere letterario della meditazione filosofica le tesi esposte appartengono in genere alla scuola a cui l’autore appartiene, e lo specifico apporto dello scrittore è nella riflessione tra quelle tesi e la sua esperienza di vita, interiore ed esteriore, sicché nessuna delle sue affermazioni deve mai essere intesa come compiuta, essendo tutte parte di un processo meditativo che può cambiare di segno in un successivo passaggio: quelle che appaiono a una prima lettura contraddizioni non lo sono affatto, se si intende il genere letterario dell’opera che si sta esaminando. Per queste ragioni nello studio dei testi filosofici è indispensabile chiarire sempre bene, e tenerne conto di, qual è il genere letterario del testo. Specialismi a parte, i generi letterari della filosofia antica sono classificabili, con diverse varianti, secondo il seguente schema (li indichiamo nella sequenza storica in cui ciascun genere si consolida): - Aforismi (→) - Sentenze (→) - Poemi filosofici (→) - Trattati (→) - Encomi e apologie (→) - Dialoghi (→) - Racconti filosofici e aneddoti (→) - Lettere dottrinali (→) - Meditazione filosofica (→) - Diatriba (→) - Commento (→) Va poi ricordato che di moltissimi testi filosofici dell’antichità abbiamo solo frammenti (→), tanto che gli studiosi suppongono che avremmo un’immagine ben diversa della storia della filosofia antica se i testi fossero giunti sino a noi (per citare solo un esempio, il corpus di scritti di Democrito, interamente perduto tranne frammenti, potrebbe essere stato tanto ampio quanto quello di un Platone o di un Aristotele). Di molti testi non consociamo neppure il genere letterario e questo rende controversa l’interpretazione dei frammenti pervenutici. Geocentrismo È il termine moderno con cui si indicano le teorie cosmologiche, prevalenti nell’antichità, che considerano l’universo una realtà compatta e finita, formata dalla Terra (geo-) posta al centro (centrismo) e dai cieli che le ruotano intorno. Vedi su questo punto le voci Cieli e Cosmologia (→). Va osservato che il geocentrismo, come l’eliocentrismo (→), è una teoria che considera l’universo finito. Infatti in una teoria fisica come quella del materialismo antico (l’atomismo di Democrito e di Epicuro) che considera l’universo infinito nello spazio e nel tempo non può esserci alcun centro. Geografia Dai termini greci Gea che significa Terra e graphia che significa descrizione, la geografia già nell’antichità è stata concepita come la disciplina scientifica che descrive la superficie terrestre nelle sue forme e nei suoi spazi. Scienza descrittiva per eccellenza, ha però un notevole significato per la filosofia per le ragioni chiarite nella voce Cartografia (→), alla quale rimandiamo. Benché sia nata come disciplina a se stante, codificata nei suoi metodi e nel suo ambito tematico soltanto in età alessandrina, quindi dopo il pieno sviluppo della filosofia dell’età arcaica e di quella classica, la geografia antica si è arricchita dei contributi dei filosofi, da Anassimandro (che sembra abbia fornito il primo disegno su tavola delle terre emerse) sino ad Aristotele ed oltre. La geografia antica mirava a due distinti obiettivi: - fornire indicazioni pratiche per il movimento sulla terra e sul mare; - fornire una corretta descrizione teorica della Terra, dal doppio punto di vista della sua superficie e della sua posizione nel cosmo (non sorprende quindi se l’astronomo che fornì una sintesi matematica dell’astronomia antica, Tolomeo (→), sia la stessa persona che ha fornito la sintesi delle conoscenze geografiche di tutta l’antichità). Geometria Vedi Matematica Giardino Nella filosofia dell’età ellenistica il termine giardino (in greco kepos) era associato all’Epicureismo, perché la scuola (e abitazione) di Epicuro sorgeva in una casa ad Atene circondata da un giardino. L’immagine rimanda a scene di serenità di vita che sono in effetti tipiche dello stile epicureo. Va però ricordato che quello del giardino, o del bosco ai margini della città, è un tema ricorrente nella filosofia antica: al Liceo d’abitudine si faceva filosofia all’aperto, passeggiando (da cui il termini Peripatetici per indicare i filosofi della scuola), e sia il Liceo che l’Accademia sorgevano in edifici circondati da giardini. In una celebre raffigurazione dell’Accademia, Platone con i suoi allievi e compagni di ricerca filosofica sono raffigurati in un giardino, in conversazione all’ombra di un albero (è un mosaico, noto come La vita nell’Accademia di Platone, risale al I secolo a.C. ed è oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli). Il tema è quindi ricorrente, e richiama un tratto specifico della vita all’aperto, in sintonia con la natura (peraltro antropizzata, perché tale è un giardino), una sintonia che varie scuole filosofiche hanno raccomandato. Giganti Nelle lotte dei primordi, i Giganti sono figure divine nate da Gea. Di dimensione smisurata e forza immensa, si contrappongono agli dèi olimpi e li costringono alla lotta. In quanto dèi avrebbero dovuto essere immortali, ma è invece decreto del destino che possano morire se colpiti contemporaneamente da un dio e da un mortale. Nelle lotte tra gli dèi olimpi e i giganti ha quindi un ruolo di primo piano l’eroe Eracle (mortale, poi accolto tra gli dèi immortali), che colpisce vari giganti con le sue frecce mentre questi sono colpiti da Zeus con i suoi fulmini o da altri dèi. Alla fine la vittoria arride agli dèi olimpi e i giganti vengono uccisi Gioco Il termine gioco (in greco paidia) riferito alla filosofia o a pratiche con essa connesse è presente in vari testi filosofici antichi. Ad esempio Gorgia lo usa per l’Encomio di Elena e Platone in un passo iniziale del Parmenide fa pronunciare all’anziano maestro queste celebri parole: “Allora Parmenide disse: "Devo dunque obbedire. Certo mi sembra di essere nelle condizioni del cavallo di Ibico che, forte corridore, ma vecchio, sul punto di scendere in gara legato al carro trepidava per ciò che stava per affrontare; il poeta, paragonandolo a se stesso diceva: anch’io, contro la mia volontà così vecchio sono costretto ad affrontare l'amore. Io stesso, ripensando a questo racconto, sento una grande paura per come possa alla mia età attraversare un così vasto mare di parole. Tuttavia devo accontentarvi anche perché, come dice Zenone, siamo tra noi. Dunque, da dove cominciamo? Quale ipotesi poniamo per prima? O forse preferite, visto che dobbiamo giocare un gioco molto difficile, che cominci dalla mia ipotesi dell’Uno in sé, per verificare quali siano le conseguenze che derivano dall’affermazione che l’Uno è Uno e da quella che non lo è?" (Platone, Parmenide, 137b) Per intendere la nozione di gioco che questi testi richiamano occorre considerare che sia le pratiche sofiste che la dialettica socratica e platonica mantengono rapporti con la cultura greca della gara, che in Grecia non era solo legata allo sport e alla poesia, ma era anche un normale modo di concepire le attività piacevoli nella sfera della cultura (vedi la voce Dionisie: →). In un suo studio sulla funzione del gioco nelle civiltà umane lo storico olandese Johann Huizinga ha ricordato che “il punto di vista agonistico del filosofo (...) ha ricondotto la filosofia alla sua sfera primordiale e originaria, radicata in ogni cultura primitiva" [Huizinga 1939, p. 4; al tema delle Forme ludiche della filosofia ha poi dedicato il Capitolo 9 di questo suo studio]. Nella filosofia antica il gioco è quindi legato, secondo Huizinga, ad antiche pratiche ludiche proprie della cultura dei popoli già agli albori del processo di civilizzazione. Un tratto del piacere ludico sarebbe quindi proprio delle molte forme di sfida e di gara che la filosofia antica ci ha consegnato nella sua tradizione, soprattutto nell’arco temporale che va dai filosofi naturalisti a Platone. Il gioco è una forma importante di elevazione della vita materiale alla sfera della spiritualità. Vi si esprime una esigenza insopprimibile dell’animo umano. Il tema del gioco è divenuto centrale nella filosofia romantica e in quella del XX secolo, ma in termini diversi dalla nozione greca. Ginnasio In Grecia i ginnasi (da gymnazein, un verbo che indicava la pratica tipicamente greca del fare esercizi fisici a corpo nudo) erano luoghi in cui si svolgevano diverse attività: dagli esercizi fisici (dei locali di ciascun ginnasio faceva parte una palestra) alle attività formative (compreso lo studio della poesia, della grammatica e della filosofia) e musicali. Alle origini i ginnasi sorsero nei recinti dei templi e dei boschi sacri, connessi sin dall’inizio sia a pratiche sportive sia alle esigenze di formazione della popolazione giovanile. In quanto luoghi legati alle pratiche formative, furono alcuni ginnasi i luoghi ateniesi in cui diversi filosofi organizzarono le loro scuole: erano dei ginnasi l’Accademia (Platone), il Liceo (Aristotele), il Cinosarge (Cinici). Giorno / Notte Nella mitologia greca – in particolare nella Teogonia (→) di Esiodo – Notte (Nyx) è generata dal Caos primigenio ed è a sua volta madre non solo del Giorno, ma anche di moltissime altre divinità, come Sorte, Sonno, Sogno, e così via. Nei primi filosofi l’alternanza del giorno e della notte è uno dei fenomeni che vengono citati come fondamento dell’idea di regolarità della forze della natura, e quindi di un suo ordine ciclico (vedi la voce Tempo: →). Giudizio Il termine greco è krisis, e indica un elemento essenziale del ragionamento. Il giudizio viene enunciato tramite la proposizione (apopharesis). Aristotele studia il giudizio nel Dell’interpretazione, nel contesto di questioni logiche. È l’atto con cui affermiamo o neghiamo qualcosa di qualcos’altro, ed esprime quindi il punto di vista di un soggetto che, con la sua ragione, collega tra loro due elementi diversi identificando il legame che li unisce. In quanto si esprime con una proposizione, giudicare significa collegare linguisticamente un predicato ad un soggetto, affermando o negando qualcosa. L’atto del giudizio così descritto implica necessariamente la messa in gioco di facoltà superiori, ma in senso più debole forme di giudizio (lo sottolinea Aristotele in Dell’anima, III-9) sono presenti anche nel mondo animale, che per le esigenze della loro vita compiono in qualche modo valutazioni e scelte, anche se non certo ad un livello razionale. Il tema del giudizio dopo Aristotele è stato molto sviluppato dalle scuole elleniste, in particolare dagli Stoici con la loro dottrina dell’assenso, alla cui voce rimandiamo. Giustizia Vedi Dike Giusto mezzo Col termine mesotes, che traduciamo con medietà – o, con espressione discorsiva, giusto mezzo Aristotele indica nel Libro II dell’Etica Nicomachea una sorta di regola pratica per orientarsi nel mondo delle disposizioni del carattere e nelle scelte della vita riguardo alle proprie passioni (cioè, in estrema sintesi, per vivere secondo virtù). La medietà è raccomandata perché in ciascuna passione e in ciascuno dei caratteri tipici dell’uomo c’è sempre un eccesso e un difetto, che creano molti problemi e portano ad una situazione di disequilibrio. Chi cerca di comportarsi secondo ragione – un ovvio fine per un essere razionale come l’uomo – poiché ha per natura passioni, istinti, un certo carattere e così via, deve cercare la medietà tra l’eccesso e il difetto in ogni scelta e in ogni disposizione dell’animo. Questa regola, pur nella sua approssimazione, è giustificata dall’osservazione razionale del comportamento degli uomini e dalle opinioni stabili e ben fondate degli uomini che si considerano migliori. Aristotele precisa che - in sede etica non si tratta di contemplare una verità (theoria), ma di scegliere come agire e quale posizione prendere in merito al proprio istintivo carattere e alle proprie passioni; - non è possibile una fondazione sicura dell’etica su principi certi, perché l’etica non è una scienza teoretica e non conosciamo principi di questa natura applicabili in sede etica; dobbiamo affidarci all’analisi razionale su elementi d’esperienza e sulle opinioni delle persone che più stimiamo. Glauco Alleato dei Troiani nella Guerra di Troia, in Omero Glauco è il comandante del contingente della Licia. Muore ucciso da Aiace Telamonio combattendo per il possesso del cadavere di Patroclo, e i venti (per ordine di Apollo) ne trasportano il corpo in Licia. La dinastia dei sovrani di queste terre sosteneva di discendere da lui. Glauco nel mito è una figura singolare perché in piena guerra di Troia non esita a scambiare doni, secondo le consuetudini nobiliari tipicamente omeriche, con Diomede che era sì un nemico, ma era anche un eroe i cui antenati avevano avuto rapporti di amicizia con i suoi. Nello scambio, Diomede donò a Glauco le sue armi, che erano di bronzo, e Glauco (accecato da Zeus) ricambiò donando a Diomede le sue, che erano d’oro. Gnomico In greco gnome vuol dire sentenza, o massima, in riferimento specifico a quelle brevi o brevissime frasi in cui tra il VII e il VI secolo a.C. si cominciò a condensare quanto si voleva sottolineare soprattutto su temi etici. A farlo furono poeti come Solone, filosofi come Eraclito, e altre figure per noi più o meno sfumate come i Sette Sapienti (→). Questo tipo di testi si differenziano dai proverbi perché non sono di matrice popolare ed esprimono direttamente una indicazione etica, mentre i proverbi lo fanno in genere attraverso una similitudine più o meno implicita. A partire da Democrito, e soprattutto in età ellenistica, il genere si è poi precisato nelle sentenze e nelle massime (→). L’aggettivo gnomico si usa quindi per indicare il carattere di brevi frasi di contenuto prevalentemente etico, di forte impatto emotivo, sia prese da sole che inserite nel contesto di scritti ampi. Gnosi, Gnosticismo Il termine gnosi, in greco gnosis, significa conoscenza. Non va però inteso in senso generico perché con questo termine si indicano le credenze di un vasto e composito gruppo di filosofi e teologi, o meglio di seguaci di antiche credenze pagane che utilizzarono elementi dottrinali delle antiche scuole filosofiche greche per intendere in modo originale un messaggio religioso antico. Storicamente gli gnostici, i cui testi sono quasi per intero perduti e le cui figure sono assai poco note, hanno operato nell’età tardo antica prevalentemente in Oriente. Il nome gnostici deriva loro dal fatto che hanno inteso la conoscenza non come il frutto di un atto di ricerca della mente, ma come una illuminazione che la mente riceve in forma di rivelazione. Tra i principi gnostici c’è il considerare l’anima umana imprigionata in un mondo che non è il suo, estranea all’universo fisico, che è il frutto di una caduta rispetto all’origine divina e perfetta, caduta determinata dalla lotta tra i principi del bene e del male. Lo gnosticismo in filosofia ebbe notevole influenza in epoca tardo-antica, e venne combattuto da Plotino, che nei suoi scritti vi si contrappone. Gorgia Gorgia appartiene alla prima generazione dei Sofisti e fu attivo negli anni centrali del V secolo a.C. Nacque a Lentini in Sicilia intorno al 490, e la sua formazione dovette avvenire nel contesto della scuola di Empedocle. Ma dovette anche entrare in rapporto con esponenti della Scuola di Elea, o comunque con circoli culturali in cui le opere degli Eleati erano studiate, perché il tema del rapporto tra essere e verità ritorna almeno in una sua opera (il filosofo eleate con cui direttamente polemizza potrebbe essere Melisso). Nella Sicilia dell’inizio del V secolo fiorivano anche studi di retorica, cioè studi che miravano a chiarire le tecniche e le regole dei diversi tipi di discorsi. Il fine era non solo teorico (la conoscenza delle basi del linguaggio umano, compresi i primi elementi di grammatica e di sintassi della lingua), ma anche pratico (elaborare modelli di discorsi per la formazione dei giovani alla vita politica o al diritto). Nel 465 a Siracusa era caduta la tirannia di Trasibulo, in uno dei tanti rovesciamenti di regime politico della città. Ne era seguita una lunga serie di processi, perché molti proprietari che avevano avuto i loro beni usurpati si rivolsero ai tribunali per far valere i loro diritti. Due giuristi, Corace e Tisia (di cui sappiamo però molto poco), si rivelarono maestri in un particolare campo della retorica (→), che era quello della cosiddetta invenzione, cioè delle tecniche per trovare gli argomenti efficaci per convincere le giurie. Cominciavano anche a fiorire i primi studi sulle forme della poesia, ormai molto differenziate nel mondo greco, ciascuna con proprie caratteristiche specifiche (l’epos, la lirica, il teatro). Gorgia dovette entrare in rapporti con Corace e Tisia e si specializzò negli studi di retorica ed anche nella riflessione filosofica sulla poesia. Studi di questa natura erano legati anche a quelli musicali, che in Sicilia erano molto sviluppati (anche per l’influenza dei Pitagorici, che ai fenomeni musicali dedicarono sempre grande attenzione). In Sicilia stavano nascendo forme musicali nuove, sulle quali si discuteva molto, perché i conservatori dicevano che avevano un’influenza negativa sui giovani, allontanandoli dalla tradizione. Gorgia raggiunse in ciascuno di questi campi un livello di eccellenza che gli venne riconosciuto in tutto lo spazio culturale greco. Lasciò infatti la Sicilia e divenne uno dei più celebri tra i Sofisti, maestro nelle tecniche del discorso. Nel 427 fu ad Atene, a capo di una ambasceria, e qui la sua tecnica del discorso dovette fare molta impressione, nonostante i Sofisti fossero già noti da tempo e la città avesse visto la presenza dei più celebri maestri, Protagora compreso. A giudicare dalle testimonianze – non sempre benevole – che ci sono rimaste, Gorgia doveva avere una capacità quasi magnetica di incantare il suo uditorio, ottenendo con la sola parola effetti psicologici di notevole rilievo. È autore di diverse opere, di cui ci rimangono per lo più frammenti, come del suo Sul non ente, o sulla natura. Rimangono anche due brevi giochi letterari, tipici dello stile gorgiano, l’Apologia di Palemede e l’Encomio di Elena, quest’ultimo importante per i principi di filosofia del linguaggio che vi sono esposti. Gorgone Le Gorgoni erano rappresentate con la testa circondata da serpenti al posto dei capelli, con grosse zanne simili a quelle dei cinghiali e con mani di bronzo e ali d’oro che consentivano loro di volare. Il loro sguardo era così penetrante da impietrire – letteralmente trasformare in pietra – chi lo affrontasse, pericoloso persino per gli dèi. La Gorgone per eccellenza è Medusa, una creatura mitologica mortale, mentre le sue due sorelle non lo erano. Perseo – il mitico eroe figlio di Zeus – per volontà di Atena affrontò Medusa e la sconfisse, tagliandole la testa nel sonno senza guardarla direttamente, ma solo attraverso l’immagine riflessa nel suo scudo. Grammatica Benché elementi di una disciplina che nell’ellenismo si chiamò grammatike siano presenti nelle analisi dei sofisti sul linguaggio, poi più diffusamente nelle opere logiche di Aristotele, la nascita della grammatica come disciplina specialistica distinta tanto dalla logica quanto dalla filosofia del linguaggio, benché connessa ad esse, risale al periodo alessandrino. Fu infatti ad Alessandria che si posero le basi per la definizione delle regole grammaticali e sintattiche che governano la lingua. Dal punto di vista filosofico, i principi di filosofia del linguaggio che i grammatici delle Scuole filologiche di Alessandria (→) e di Pergamo (→) tennero presente erano quelli dello Stoicismo, avendo gli Stoici condotto analisi di tipo specialistico sul linguaggio nei suoi rapporti col pensiero. Grammatici alessandrini Poiché dovevano affrontare complesse questioni linguistiche, i filologi della Scuola di Alessandria (→) (come anche quelli della Biblioteca di Pergamo: →) furono anche grammatici, cioè studiosi della lingua che affrontano il tipo di problemi che abbiamo descritto nella voce Grammatica (→). La dizione grammatici alessandrini è quindi generica, e indica quel gruppo di filologi che operarono presso la Biblioteca di Alessandria e per primi posero le basi sia della scienza filologica sia della grammatica i cui principi ancora oggi utilizziamo, sia pure con le modifiche che gli studi successivi hanno introdotto, fino ai nostri giorni. Grande Anno Gli Stoici anno proposto un’interpretazione circolare e non lineare del tempo (→). La visione lineare dice che la sequenza passato / presente / futuro è una linea che può essere percorsa in una sola direzione. Gli Stoici ammettono questo principio, ma la linea che essi concepiscono è circolare: c’è dunque un momento in cui il tempo finisce e ricomincia. Questa teoria è legata alla fisica stoica, che concepisce l’universo come un insieme unitario di materia e di energia vivente, che fluisce nel tempo secondo leggi immutabili, perfette e necessarie. Venuto a compimento il ciclo che le sue leggi interne impongono all’universo fisico, l’ultimo suo atto è l’ekpirosis (→), termine che indica il fuoco distruttore e rigeneratore che infiamma il Tutto. Compiuto così il ciclo completo della sua esistenza, l’universo fisico ricomincia con un nuovo ciclo Questo accade da sempre e per sempre: è il Grande Anno. Poiché l’universo è regolato da leggi razionali, perfette e immutabili, il nuovo ciclo è perfettamente identico al precedente. Greci / Grecia I termini Greci e Grecia per indicare le popolazioni elleniche nel loro complesso e il luogo in cui esse vivevano entrarono nell’uso non prima del IV secolo a.C.; poi i Romani tradussero con Graeci il termine greco Graikoi che originariamente indicava una popolazione stanziatasi nell’Epiro per poi passare (ma non prima appunto del IV secolo a.C.) ad indicare il complesso di quelli che si definivano Elleni e chiamavano Hellas, che traduciamo con Ellade, la terra in cui vivevano (cioè la Grecia continentale, distinta dalle aree coloniali). Anche il termine Hellas nasce da una estensione, perché alle origini indicava soltanto uno dei distretti della Tessaglia meridionale. Va osservato che per la cultura greca gli Elleni non erano definiti da una etnia particolare, ma dalla lingua: erano Elleni tutti coloro che (in una delle varianti dei dialetti: →) parlavano la lingua greca e si distinguevano quindi dai Barbari (→). Già in Esiodo il termine Panellenes indica tutti gli Elleni ed è usato come identificativo che distingue i Greci da chi greco non è. Greco La lingua greca si è formata in un lungo arco di tempo attraverso la contaminazione dei vari dialetti parlati dalle molte stirpi greche che, in diverse ondate, giunsero nella penisola greca, nell’Egeo e nelle aree greche dell’Occidente. Il greco appartiene al gruppo delle lingue indoeuropee ed è per alcuni versi parallelo al sanscrito, derivando in tempi remoti da un ceppo comune (il greco poi con le migrazioni si è evoluto del tutto indipendentemente). Non conosciamo naturalmente la lingua effettivamente parlata dalle popolazioni greche, ma sappiamo che dovevano esistere molti dialetti e parlate locali, anche in zone ristrette. Il greco che è giunto sino a noi è quello letterario, non solo delle opere nate al tempo della scrittura, ma anche di quelle – come l’Iliade e l’Odissea – nate prima e poi codificate per iscritto. In entrambi i casi si tratta di una lingua colta, letteraria; persino la commedia è rimasta fedele all’uso di strumenti linguistici specifici per la poesia e il teatro, pur con elementi che rimandano ai modi verbali della vita quotidiana. I Greci erano comunque in grado di capire, qualunque dialetto parlassero, la lingua letteraria panellenica. I gruppi linguistici – cioè le famiglie di dialetti – in Grecia e nelle colonie erano tre, a cui corrispondevano localmente specifiche varianti: - lo ionico, o attico-ionico, per l’importanza che il dialetto dell’Attica (e quindi di Atene) ebbe nella produzione letteraria dall’epoca di Solone in poi (ma non prima: la lingua letteraria di Omero rimanda più al mondo mercantile della Ionia); - l’eolico, sviluppatosi in Tessaglia e a noi noto nella sua forma più pura attraverso la variante specifica di Lesbo, in cui Saffo compose le sue poesie; - il dorico, che si sovrappose all’acheo dapprima nel Peloponneso, poi in Sicilia e in Magna Grecia (intorno al IV secolo a.C. divenne la base della lingua comune effettivamente parlata nell’Occidente greco). Singole realtà (ad esempio l’Arcadia) sfuggono a questo schema, e ciascuna famiglia di dialetti aveva molte varianti: il greco era in effetti una lingua che mostrava una notevole ricchezza di sfumature, di varianti, di adattamenti alle situazioni linguistiche locali, spesso miste, per il sovrapporsi delle popolazioni. In età ellenistica il greco ha assunto poi una connotazione internazionale particolarmente ampia, per la quale rimandiamo alla voce Koine (→). Guerra In greco polemos. Nella vita di qualsiasi filosofo dell’antichità l’esperienza della guerra era in un modo o nell’altro presente, almeno finché la pax romana per alcuni secoli non la allontanò (ma solo per pochi secoli e dal cuore dell’Impero, perché ai margini rimase sempre). Non sorprende quindi che il tema ricorra spesso nei filosofi anche se, forse proprio per la sua “normalità”, la filosofia politica e sociale dell’antichità non ha messo a tema ricerche che saranno invece condotte con grande originalità dai filosofi politici dal Rinascimento in avanti. Per la filosofia greca la guerra è un fatto: c’è. Ha un risvolto legato alle radici profonde della natura, ad esempio in Eraclito, in cui il termine polemos è utilizzato per indicare un carattere proprio del divenire: i contrari si scontrano, come in guerra si scontrano gli eserciti, e ne derivano tutti gli esseri, secondo la logica eterna e implacabile dell’ordine del Logos, che tutto governa. Platone, che in altri luoghi dedica solo incidentalmente alcune riflessioni alla guerra, nella Repubblica dedica però alla classe dei guerrieri analisi specifiche nel contesto della sua visione dello Stato ideale. Historia Il termine greco historia copre un campo semantico vasto e non ha un preciso corrispettivo in italiano. Lo traduciamo abitualmente con storia, ma indica in realtà qualsiasi tipo di ricerca “sul campo”, svolta con indagini accurate e di persona, che metta capo ad una esposizione. In questo senso un’opera di Aristotele che espone le sue indagini sugli animali (è un’opera di anatomia e di morfologia descrittive) ha per titolo Peri ta zoa historia, resa in latino Historia animalium e in italiano Ricerche sugli animali. Dunque una historia è, innanzitutto e in tutti i campi, il frutto di una ricerca. Così anche in medicina, dove indica la raccolta e la verifica delle osservazioni dei medici del passato utili per un confronto con l’esperienza presente su casi patologici analoghi. Hybris Nella cultura greca è l'atteggiamento dell'uomo che non comprende i propri limiti e va oltre, condannando se stesso (e coloro che dipendono da lui) ad un inevitabile destino. L'espressione più tipica della hybris – termine che abitualmente è reso in italiano con tracotanza – è la mancanza di misura di chi esibisce con arroganza la propria presunta (o anche reale, non cambia nulla) superiorità sugli altri (e di chi sfida persino gli dèi). Questa concezione etica, molto diffusa nel mondo arcaico e classico, che considera la hybris da evitare sempre, è alla base della concezione greca dell'uomo, che non deve mai superare i propri limiti, concezione espressa anche dal motto Conosci te stesso! (→). Idea I termini greci che traduciamo con idea sono due: - eidos, il cui campo semantico oltre che idea comprende i concetti resi in italiano con essenza, forma, genere, specie; - morphe, che rendiamo con forma oltre che con idea. Esiste anche il termine idea, che Platone usa a volte nel senso di idea mentale, contenuto concettuale del pensiero. Eidos ha la stessa radice di un verbo arcaico, eidomai, che significa apparire, essere visti; l’eidos è quindi originariamente l’aspetto, l’apparenza. E tutti questi termini sono legati alla radice id-, la stessa di historia, radice che rimanda al vedere. Aristotele usa il termine eidos per indicare la specie (ad esempio quando distingue tre specie di retorica, quattro di sovranità, e così via) Le idee sono quindi qualcosa che la mente, non l’occhio, vede. La maggior parte delle scuole antiche ha ritenuto che le idee siano prodotte dalla mente stessa, secondo modalità diverse da scuola a scuola. Platone invece ha ritenuto di potere argomentare dialetticamente a favore di una teoria delle idee diversa, basata sul principio che la mente non le forma, ma le contempla, ed esse hanno realtà in sé oggettiva. Per il complesso dei problemi legati al termine italiano idea rimandiamo alla voce Problema della conoscenza (→). Idee [Origine delle] Nel più ampio contesto del problema della conoscenza (→), quello dell’origine delle idee è il settore di ricerca che si occupa di studiare i processi di formazione di ogni forma del pensiero (il termine idea qui è generico, e indica qualsiasi contenuto del pensiero). Per questa via si tratta quindi non solo di comprendere da dove traiamo le nostre idee (dall’esperienza? dalla mente stessa? e così via), ma anche se i meccanismi di formazione delle idee (e quindi il pensiero stesso) sono dotati di piena validità, ed entro quali limiti. Nella filosofia greca il problema ha assunto un’importanza centrale con Platone e Aristotele, perché la teoria platonica delle idee implicava che almeno alcune delle idee della nostra mente non siano formate a partire dall’esperienza, ma siano contenuti del pensare presenti nella nostra mente da prima. Aristotele, respingendo la teoria platonica delle idee, colloca l’origine delle idee a partire dall’esperienza sensibile. Il tema ha sviluppi importanti nelle filosofie successive che si dividono fortemente su questo tema: ad esempio nell’epicureismo l’origine delle idee viene ricondotta a processi fisiologici (si veda la teoria dei simulacri: →). In Platone e (in termini molto diversi) anche in Aristotele il problema dell’origine delle idee era legato alla domanda non solo sulle facoltà, ma anche sull’origine dell’anima umana e quindi sulla sua sopravvivenza dopo la morte. Questi temi tornarono ad essere studiati in età tardo-antica, quando il problema dell’origine delle idee si legò alla questione del rapporto tra intelletto attivo e intelletto passivo (→) che i commentatori di Aristotele sollevarono (vedi Alessandro di Afrodisia: →), dando luogo a problematiche che dal problema della conoscenza muovevano verso tematiche teologiche (come, in fondo, era stato con la teoria delle idee platonica). Identità Definisce il carattere specifico di ciascun ente, evento o concetto, permettendo di identificarlo rispetto agli altri. L’identità può riferirsi a qualcosa di reale, o a enti puramente mentali o virtuali: da una parola di cui si definisce il significato a un personaggio puramente letterario, a una oggettività puramente virtuale, o ipotetica, o del tutto astratta. Al limite, l’identità può riferirsi a qualsiasi ente o evento di qualsiasi tipo e forma di realtà, e per generalizzare a livello così elevato si usa abitualmente la lettera A, per cui la “proposizione” A = A esprime nella sua forma più generale che cosa debba intendersi per identità: se qualcosa non è identica a se stessa, non ha identità in senso proprio e stabile. Queste nozioni sono state studiate approfonditamente dalla filosofia di epoche successive alla greca, ma il tema è già anche in Aristotele: il principio di identità non è formulato esplicitamente, ma lo si desume dai suoi scritti perché è implicito nel principio di non contraddizione (→). In estrema sintesi i problemi centrali sono due: - qual è l’esatta identità delle cose che cambiano, in un mondo in cui tutto appare in movimento; - qual è l’esatta identità delle cose che sono parti di un tutto. Il problema filosofico dell’identità si è posto quindi alle origini stesse della storia della filosofia con Eraclito, perché la sua teoria per cui tutto scorre (panta rei: →) implica l’incessante processo di trasformazione della realtà; per conseguenza implica l’impossibilità di stabilire se non astrattamente (cioè prescindendo dallo scorrere del tempo, come se si potesse fermare l’attimo) quale sia l’identità di un ente o di un evento (in Eraclito il problema è risolto col richiamo al Logos). Il problema è stato ripreso in tutte le filosofie successive che si siano poste il problema di identificare enti ed eventi. Nella filosofia greca le teorie sono, in estrema sintesi, quattro: - le posizioni scettiche, che escludono la possibilità di stabilire una precisa identità per gli enti e gli eventi, proprio in ragione del fatto che una legge che domina senza eccezioni la materia è il tempo, che tutto trasforma, mutando così l’identità di ogni cosa; entro certi limiti a questa posizione aderisce anche Platone, ma solo in riferimento alle realtà materiali; - le posizioni di chi concepisce sì il movimento continuo come generatore e corruttore di ogni identità, ma propone precisi concetti che consentono la identificazione degli enti e degli eventi pur nell’incessante movimento del tempo (ad esempio il Logos di Eraclito e degli Stoici, le categorie aristoteliche, e così via); - le posizioni di chi ritiene che elementi del mondo fisico siano invarianti nel tempo, e abbiano quindi una identità che non muta mai nonostante il mutare del tempo (ad esempio gli elementi di Empedocle, le qualità delle particelle elementari di Anassagora, gli atomi di Democrito e di Epicuro, e così via); - le posizioni di chi ritiene esistano realtà al di fuori del tempo, per le quali quindi non si pone un problema di trasformazione, sicché la loro identità è certa (per quanto difficile possa essere comprenderla per chi, come la mente umana, vive nel tempo): le idee platoniche, il Dio aristotelico, le ipostasi di Plotino, e così via. Sul tema del rapporto tra l’identità individuale delle parti rispetto al Tutto si veda la voce Tutto: →) Ilitia Dea associata al parto, Ilitia (o Ilizia) era venerata anche in ambienti pre-greci, ad esempio a Creta. A volte identificata con Artemide, era comunque sempre considerata la protettrice dei parti, e come tale venerata in vari santuari. In Omero le Ilitie sono non una sola dea, ma una pluralità di geni femminili preposti alle nascite. Ilozoismo Da hyle, materia, e zoe, vita, è la teoria tipica dei primi filosofi naturalisti (ma ilozoismo è termine coniato dagli studiosi moderni) che vede l’intera natura come vivente. La teoria è poi ripresa dagli Stoici, che vedono la materia vivificata dall’energia del pneuma (→). Imeneo È il canto tipico delle nozze, eseguito da un coro di ragazzi e ragazze (si distingue dall’epitalamio solo per il fatto che quest’ultimo veniva eseguito non durante le nozze, ma la sera del giorno delle nozze o il mattino successivo). Testi di questo genere poetico risalgono all’età dei primi poeti lirici (la poetessa che ha lasciato i canti più celebri è Saffo: →), ma il genere venne molto coltivato anche in età ellenistica e romana. Il nome Imeneo richiama una divinità che nel mito guida il corteo nunziale. Si raccontavano anche antiche storie su un giovane ateniese di questo nome, che in tempi remotissimi avrebbe vissuto peripezie poi finite bene con la propria innamorata, poi divenuta sua sposa. Veniva quindi invocato il suo nome come buon augurio per gli sposi. Imera L’antica Himera sorgeva in Sicilia sulle ultime propaggini delle Madonie, non lontano dalla costa. Costruita in posizione strategica, controllava un vasto territorio ed era ben difesa da mura poderose, i cui resti sono ancora visibili insieme all’area sacra. Venne fondata intorno al 648 a.C. da coloni calcidiesi provenienti non dalla Grecia, ma da Zancle (cioè Messina) e da gruppi di fuoriusciti da Siracusa. Ebbe un periodo di notevole prosperità tra il VII e il V secolo a.C., e fu a Imera che per la prima volta in Sicilia vennero coniate le monete di bronzo, all’inizio del V secolo. Quando lo scontro tra i Cartaginesi e i Greci per il controllo della Sicilia orientale divenne inevitabile, nella piana di Imera si tenne lo scontro decisivo: è la celebre Battaglia di Imera del 480 a.C., che la tradizione storiografica greca vuole sia avvenuta lo stesso giorno della battaglia di Salamina. I Greci autorappresentarono così lo scontro che li stava contrapponendo a Persiani e Cartaginesi che, da Oriente e da Occidente, tentavano di penetrare nello spazio greco (sono però ben poche le somiglianze che gli storici riscontrano fra l’attacco persiano e quello cartaginese). In realtà lo scontro a Imera era avvenuto perché il tiranno di Agrigento Terone aveva scacciato il tiranno di Imera Terillo, legato a Cartagine, giungendo così a imporre la potenza di Agrigento (l’antica Akragas) anche sulla costa nord della Sicilia. Nella battaglia di Imera Terone ebbe poi l’appoggio di Gelone, tiranno di Siracusa. Sul fronte opposto era il cartaginese Amilcare. A ricordo della battaglia sulla piana tra Imera e il mare sorse un tempio ancora oggi visibile. Quasi un secolo dopo i Cartaginesi riuscirono a ribaltare le sorti del conflitto: comandati dal sufeta Annibale, nel 409 a.C. attaccarono Imera e la distrussero uccidendone, si disse, tremila abitanti. Il resto della popolazione si ritirò a Terme, una località che sorgeva nelle vicinanze su una altura sul mare (Thermae Himerensis, l’attuale Termini Imerese), e il sito dell’antica Imera venne di fatto abbandonato (rimase per alcuni secoli un piccolo insediamento, poi l’abbandono fu completo). Imitazione In greco la mimesis (termine che traduciamo con imitazione, sulla scorta dei latini che traducevano imitatio, che ha la stessa radice di imago, cioè immagine) è il processo con cui un soggetto produce qualcosa sulla base di un modello. In filosofia i problemi connessi al concetto di imitazione appartengono a due distinti campi: - nell’ambito di questioni legate alla vera natura dell’essere eterno delle idee e a quello in perenne divenire nel tempo degli enti materiali, e della natura nel suo insieme, Platone pone il problema del rapporto tra idee e cose, e propone tra altre soluzioni anche l’imitazione (un’altra è la partecipazione: →): le idee sono plasmate a imitazione delle idee; è una teoria che pone problemi esaminati da Platone stesso che ritornano poi nelle filosofie medioevali e moderne che riprendono i concetti platonici; - il secondo campo in cui il termine è utilizzato è quello dell’estetica (→): l’arte è comunemente intesa nella cultura ellenica come imitazione della natura; va ricordato in campo estetico la nozione di imitazione ha dato luogo a giudizi fortemente diferenziati. Immaginazione Il termine greco è phantasia e indica la facoltà della mente di creare in se stessa immagini (→) tanto in relazione all’esperienza sensibile quanto in modo indipendente. Il problema centrale relativo all’immaginazione, nel contesto del problema della conoscenza (→), riguarda il suo ruolo tra le facoltà dell’uomo, e in particolare nel passaggio dalla sfera della sensibilità a quella del pensiero intellettivo. Un problema specifico è poi il ruolo che l’immaginazione gioca nell’intuizione (→), ed in particolare nell’intuizione intellettuale. Il tema dell’immaginazione è poi studiato nelle forme di conoscenza che utilizzano la meditazione, nel pensiero per immagini (→) e, come è ovvio, nei processi relativi alla dimensione estetica (vedi la voce Estetica: →). In Epicuro e negli Stoici l’immaginazione coincide con la facoltà umana che consente di acquisire rappresentazioni (→) del mondo esterno. Immagine Il termine greco che traduciamo con immagine è eikon (da cui anche l’italiano icona). Il verbo eikein significa rassomigliare. Un sinonimo di eikon è mimema, legato a mimesis, imitazione, e quindi l’immagine in questo senso è intesa come qualcosa di costruito a imitazione di qualcos’altro. In Platone le immagini sono in effetti imitazioni, copie, con un valore quindi ridotto rispetto all’originale. Nella teoria della conoscenza dei filosofi materialisti le immagini sono eidola (il singolare è eidolon, per la cui nozione rimandiamo alla voce Simulacri: →), cioè gli effluvi composti da pellicole di atomi sottilissimi che si staccano dalle cose ed entrano in contatto coi nostri sensi. La parola immagine in italiano – e le corrispettive nelle lingue moderne – ha quindi un campo semantico diverso, ma la base è comune alla nozione greca, e comuni sono alcuni dei problemi filosofici a cui la nozione rimanda (l’estensione del campo semantico per le lingue moderne rimanda anche ad una estensione del campo problematico rispetto a quello che stiamo per descrivere): - un primo e ovvio problema è la natura delle immagini che la mente forma e la loro corrispondenza a ciò di cui sono immagini: si pone quindi per le immagini il problema della definizione di un criterio di verità, per dar loro credito o meno; - un secondo problema riguarda il mondo delle immagini usate come segni, quindi non immagini mentali, ma fisiche: è qui l’intero mondo dell’imitazione nelle opere d’arte e nel linguaggio, quindi i problemi dell’estetica (→) e della filosofia del linguaggio (→) Va ricordato infine che nella cultura greca l’immagine non è mai svalutata nella sua realtà, come a volte accade nella cultura moderna. Ad esempio le immagini dei sogni rimandano, non solo per la cultura popolare, alla presenza del divino o del demonico; e nel mito le immagini, pur false, sono in realtà un doppio della realtà, e come tali operano (ad esempio, si veda il mito di Issione, che ama una falsa immagine della dea Era, ma ha dei figli da questa immagine). Immobile La parola greca è akinetos, cioè privo di movimento (kinesis). La nozione è utilizzata soprattutto in relazione al problema dell’essere (→), per indicare realtà perfette e compiute che, per conseguenza, non mutano al proprio interno né sono soggette a movimenti dall’esterno (così è immobile l’Essere di Parmenide, e anche il Dio di Aristotele). In queste filosofie il termine denota quindi compiutezza e perfezione. Per questa nozione si veda anche la voce Movimento (→). Immortalità Il problema filosofico legato alla nozione di immortalità (in greco athanasia, mentre athanatos significa immortale) è descritto dalle seguenti domande, connesse fra loro: in natura, o in mondi (se esistono) diversi dalla natura, ci sono esseri viventi che non muoiono? esiste cioè una forma di vita diversa da quella vegetale e animale che non implichi la morte? se esiste, l’uomo – o una sua parte – possiede questa specifica forma di vita? Gli esseri senza morte della mitologia La risposta della mitologia greca è positiva in due sensi diversi: - la forma di vita degli dèi, e delle figure associate agli dèi, è diversa da quella degli altri viventi perché non implica la morte: gli dèi nascono, crescono, non invecchiano, non possono morire; non hanno morte (e neppure vecchiaia, anche se vivono nel tempo); - la forma di vita dell’uomo è diversa da quella animale, perché una sua ombra sopravvive, o meglio vegeta agli Inferi: una condizione non felice né infelice; solo le religioni dei misteri hanno concepito forma di vita felici a certe e difficili condizioni dopo la morte; a volte, sono concepite altre incarnazioni (vedi la voce Metempsicosi: →). Nel complesso la risposta mitica non è rassicurante per l’uomo: per i viventi tutto ciò che di interessante c’è nella vita finisce con la vita (religioni dei misteri a parte). L’immortalità va comunque distinta in modo netto dall’eternità (→), che è una nozione filosofica e non mitologica utilizzata da Platone in riferimento ad entità come le idee che non hanno tempo (in Platone anche la concezione del divino sembra allontanarsi dalla tradizione della religione greca e avvicinarsi a questa nozione di eternità, sia pure sempre sotto il velo del racconto mitico, come nel mito dell’Iperuranio del Fedro). Se riferita all’anima dell’uomo, l’immortalità è da distinguere dalle teorie sulla vita prima della nascita e dopo la morte, che implicano sì una estensione della nozione di vita al di là dei limiti temporali e fisici dell’individuo, ma non implicano di per sé l’immortalità, perché il ciclo delle rinascite non è necessariamente detto che sia senza fine. Va poi ricordato che la mitologia greca conosce il problema dell’invecchiamento legato all’immortalità, e sa quindi che non è certo desiderabile se non associata all’eterna giovinezza. Il problema filosofico Le posizioni filosofiche su questo tema nella filosofia greca sono riassumibili nel seguente schema: - posizioni scettiche (non solo presso gli Scettici propriamente detti, ma anche presso molti altri), che negano la possibilità di saperne alcunché; - posizioni negative, come quelle dei materialisti, che negano l’immortalità (dèi a parte); - posizioni che aprono alla speranza di una vita immortale, ma come in Platone risolvono la speranza in narrazioni di miti filosofici; - posizioni di filosofi, ad esempio Plotino, che affermano forme di vita dopo la morte del tutto diverse dall’esperienza della vita individuale che facciamo in vita. Sui problemi filosofici legati alla nozione di immortalità si veda la voce Morte (→). Impassibile / Impassibilità Impassibile è chi non si lascia sottomettere al pathos (→), cioè chi si pone al di sopra delle emozioni e delle passioni (il termine greco è apathes, cioè appunto senza pathos, e l’impassibilità è apatheia). Questi termini sono riferiti sia all’uomo (li usano gli Stoici per parlare della libertà del saggio dalle passioni) sia a enti cosmici come la Nous di Anassagora, che non si mescola con le omeomerie, o come il Dio aristotelico che, nella sua perfezione, non è scalfito dalle passioni. Vedi anche la nozione di Atarassia (→). Impronta / Impressione Nel contesto delle scuole filosofiche dell’ellenismo – in particolare nell’Epicureismo, ma anche nello Stoicismo con una valenza diversa – la typosis, termine che rendiamo in italiano con impronta, o impressione, è l’effetto sui nostri organi di senso del contatto con l’oggetto conosciuto. Presso queste scuole ellenistiche la conoscenza sensibile è infatti interpretata come il risultato di un contatto diretto tra la cosa e l’organo di senso (ad esempio la vibrazione dell’aria e il timpano, i simulacri dei corpi e l’occhio, e così via), che produce una rappresentazione mentale dell’oggetto. Inconoscibile La nozione greca di agnostos, inconoscibile, è per lo più utilizzata dagli scettici per indicare la vera realtà delle cose e, in effetti, a loro avviso può essere riferita a qualsiasi realtà e a qualsiasi verità. Il termine significa che ogni conoscenza umana è illusoria e ci sono fondate ragioni di incertezza su tutto. Negli scettici il termine non significa che esista una realtà al di là dei limiti della conoscenza umana, perché non c’è di fatto nulla al di qua di questi limiti. Lo scettico ritiene che la sana ragione ci porta a dubitare di tutto, e ne elenca i motivi (si pensi a Enesidemo e ai suoi tropi: →). Prima degli scettici, il termine è riferibile al non-essere e al nulla come oggetti specifici di ricerca filosofica: la Scuola di Elea considera questa ricerca impossibile perché si tratta appunto di inconoscibili, cioè di pensieri impossibili: se proviamo a pensare al non-essere e al nulla, non ci riusciamo perché non c’è nulla da pensare. Aristotele usa il termine inconoscibile anche in riferimento a realtà di cui non nega affatto l’esistenza e la realtà: parla della materia come inconoscibile in quanto pura potenzialità priva di forma. Nello stesso senso nell’età tardo antica diversi autori e scuole che si muovono al confine tra religione e filosofia (Filone di Alessandria, l’ermetismo, il medio-platonismo, e così via) parlano di Dio come inconoscibile, non certo perché inesistente, ma perché al di là della portata della mente umana. Incorporeo Soma in greco è il corpo, asomaton è ciò che non ha corpo. Epicuro riferisce questa nozione alle idee platoniche per contestarne l’esistenza (nulla di incorporeo, cioè di non composto di atomi o derivato da un composto di atomi, esiste per l’atomismo antico). Il termine gioca un ruolo importante nello Stoicismo, che considera pienamente esistenti soltanto i corpi e l’universo fisico che essi formano unitariamente, reso vivo dall’energia del Logos che si irradia nei corpi come pneuma. Tuttavia l’essere dei corpi e dell’universo fisico implica per esistere e agire alcuni incorporei, quattro per l’esattezza: - il lekton (letteralmente ciò che è detto, ma il termine indica più esattamente il significato di ciò che è detto, significato che ha una realtà puramente mentale e non è un corpo); - il luogo dove sono i corpi; - il vuoto che circonda l’universo fisico; - il tempo che scandisce la vita di ogni corpo. Queste realtà sono incorporee in un senso molto diverso da quello, polemico, che Epicuro attribuisce alle idee platoniche: quelle per Epicuro non esistono, e non avendo corpo non sono per nulla; questi sono condizioni essenziali per l’esistenza dei corpi, ed esistono dunque in loro funzione. Incorruttibile È un termine (aphthartos, mentre phthartos significa corruttibile) che Aristotele riferisce alla natura eterna dei Cieli e di Dio (ad essere incorruttibile è quindi uno dei tipi della sostanza: →), mentre gli Stoici lo riferiscono al mondo nella sua totalità (vedi la voce Grande Anno: →). La nozione di incorruttibile non è sovrapponibile a quella di immobile (→), perché ciò che non ha movimento non ha neppure corruzione (come il Dio aristotelico), ma ciò che non ha corruzione può avere movimento: così i cieli per Aristotele hanno movimento. La loro incorruttibilità presuppone quindi un tipo di movimento perfetto e ciclico, eternamente eguale a se stesso e privo tanto di generazione quanto di corruzione (vedi anche la voce Generazione / Corruzione: →). Incubazione Pratica medica antichissima, diffusa in una vasta area del mondo antico tra il Mediterraneo e la Mesopotamia. In Grecia era soprattutto celebre la pratica dell’incubazione utilizzata a fini terapeutici nel santuario di Asclepio (→) ad Epidauro. L’ammalato era ammesso nel recinto sacro e vi rimaneva per un certo tempo. Restava nel tempio anche la notte e nel sonno riceveva il sogno inviato dal dio, sogno che veniva poi interpretato dai sacerdoti che indicavano la cura, consistente in genere in riti religiosi. L’ammalato dormiva per terra: l’obiettivo era esporlo alla forza salvifica delle potenze ctonie, cioè sotterranee, che agivano su di lui entrando in contatto diretto. Indeterminato Vedi Infinito Indifferenti Nel quadro dell’etica gli Stoici chiamano indifferenti (in greco adiafora) tutte le cose e gli eventi che non hanno una valenza etica, cioè che non aiutano né danneggiano la possibilità di condurre una vita secondo natura e secondo ragione. In effetti si tratta della maggior parte delle cose e degli eventi a cui chi non è filosofo dà importanza: si può essere liberi e felici per gli Storici sia da schiavi che da uomini di successo, eppure non si considera indifferente la propria posizione sociale. Per gli Stoici lo è, come lo sono la bellezza o la bruttezza, la salute o la malattia, la giovinezza o la vecchiaia, e così via. Il termine adiafora è usato in un senso diverso dagli scettici, che a partire da Pirrone considerano indifferenti rispetto alla verità tutte le cose e le opinioni, perché l’uomo non ha nessuna certezza e il saggio mantiene la sua indifferenza rispetto a una verità o a un’altra: le ritiene tutte incerte. Così il saggio non si pronuncia (vedi la voce Afasia: →) sul segno positivo o negativo di qualsiasi evento; non lo considera né una fortuna né una sfortuna, perché nulla sa di certo, e mantiene integra la sua libertà interiore. Individuale / Universale Vedi Universale Induzione È il passaggio che la mente compie dal singolare al generale (in greco epagoge). Aristotele studia l’induzione negli Analitici Primi, II, 23, ma non la considera un ragionamento vero e proprio, perché riserva questa nozione per la deduzione (→), che ricava (con un processo inverso) il particolare dall’universale. L’induzione aristotelica è quindi da identificarsi con il processo di astrazione (→), con cui la mente da una realtà individuale separa alcuni elementi con un processo che non avviene nella cosa, ma nella sola mente, per collegarli ad altri elementi astratti da altre realtà individuale (come un determinato colore simile o uguale in una serie di oggetti colorati). L’induzione è connessa con la deduzione perché l’universale, da cui la deduzione parte, può formarsi per induzione. Infinito / Indeterminato Il primo a introdurre il tema dell’indeterminato in filosofia è Anassimandro, in un frammento di difficile lettura (fr. 1 Diels) che ha dato luogo a varie interpretazioni. Aristotele usa il termine aoristos per dire che il movimento è qualcosa di indeterminato. Ma il termine greco comune per indicare le nozioni che in italiano esprimiamo con i due termini infinito e indeterminato (non certo sovrapponibili) è apeiron (→), negativo di peras, che vuol dire limite e deriva dal verbo perao, che significa terminare, portare a termine, alla perfezione. Il fatto che la lingua greca non distingua tra infinito e indeterminato, e usi la stessa parola, indica che i due concetti erano allora uno soltanto: l’infinito non è qualcosa di positivamente esistente con caratteri propri, ma è il non compiuto, l’indeterminato. A questo proposito nei Libri III e IV della Fisica Aristotele parla di infinito potenziale, cioè in potenza e non in atto, per indicare realtà indeterminabili come i numeri, che sono potenzialmente infiniti, ma ciascuno è finito, e la potenziale infinità consiste nel fatto che è sempre possibile indicare un numero più grande. A partire però dalla fine del V secolo a.C. compaiono in Grecia concezioni positive dell’infinito. Ce ne sono almeno due, una proposta da Melisso (in riferimento all’Essere di Parmenide), l’altra dall’atomismo (per Epicuro infiniti mondi compongono, con infiniti atomi in infinito spazio, il Tutto). Il tema è stato poi ripreso in chiave neoplatonica da Plotino. Ingenerato Il termine greco è agenetos: poiché la generazione (genesis) è l’inizio, ciò che è ingenerato è senza inizio (vedi anche la voce Eterno: →). Il termine è usato da Platone in riferimento alle idee e all’anima, da Aristotele in riferimento alla materia (il Cosmo è da lui concepito eterno). Può essere applicato anche agli atomi e allo spazio dei materialisti, e a tutti i tipi di particelle elementari proposte dai filosofi pluralisti (ad essere generati sono i corpi, non le particelle che li compongono). La nozione non implica di per sé l’indipendenza dal tempo, se ciò che è ingenerato esiste da sempre (così ad esempio il Cosmo per Aristotele e, con diverse teorie, per Epicuro e per gli Stoici). È coerente con l’indipendenza dal tempo (in questo senso Parmenide chiama ingenerato l’Essere, Platone le Idee). Iniziato / Iniziazione L’iniziazione è quel complesso di riti e di pratiche - legate alla conoscenza, o al passaggio all’età adulta, o ad uno stadio superiore della propria identità personale – che consentivano l’ingresso in una comunità solo a chi aveva determinati requisiti e aveva superato alcune prove. Lo stesso termine iniziazione è riferito quindi almeno a due distinti ambiti: - al passaggio dall’adolescenza all’età adulta, accompagnata in molte civiltà antiche dai cosiddetti riti di passaggio (diffusissimi in Grecia con pratiche e tradizioni diverse da città a città); i riti di passaggio simboleggiamo la morte dell’uomo (o della donna) e la rinascita in una nuova e più elevata condizione; - all’ingresso in comunità religiose chiuse come quella, ad esempio, pitagorica, o come le sette delle religioni dei misteri (→); l’iniziato doveva superare una serie di prove, riceveva rivelazioni di ordine sacro (o magico), ed acquisiva così un nuovo status, impegnandosi per ciò stesso a rispettare gli obblighi derivanti dalla sua nuova posizione sociale e personale. Anche in filosofia compare talvolta l’iniziazione, in genere da parte di una figura sacrale (dea o sacerdotessa) a un giovane: così nel Poema sulla Natura di Parmenide e nel discorso di Socrate nel Simposio di Platone. Ma nulla lascia pensare che si tratti di qualcosa di diverso da un’ambientazione di tipo letterario (che tuttavia ha dato molto da discutere agli studiosi): in entrambi i casi le teorie “rivelate” non hanno in effetti nulla di iniziatico. Inno È un canto in onore di un dio. Anche nella storia della filosofia antica vi sono inni dal profondo significato filosofico, ad esempio l’Inno a Zeus (→) di Cleante in cui Zeus è chiamato il dio “dai molti nomi” (e identificato quindi con il Logos stoico). È un genere letterario molto antico, forse pre-greco, che trovò continuità – anche attraverso lo Stoicismo – fino all’età cristiana. Intelletto Vedi Nous Intelletto attivo (o produttivo) / Intelletto passivo Sono espressioni di Aristotele, discusse in particolare in L’anima, III-4,5. Studiando la conoscenza intellettiva in analogia alla conoscenza sensibile, Aristotele osserva che è possibile applicare la relazione potenza/atto, prima utilizzata per descrivere la sensibilità, anche alla conoscenza intellettiva (“Chiamo intelletto ciò con cui l’anima pensa e apprende”, scrive Aristotele): l’intelletto è in potenza in quanto può ricevere tutte le forme intelligibili (con cui evidentemente ha un’affinità strutturale). Se prima non conosce nulla, è nel pensare che attua la sua potenzialità visto che le forme intelligibili sono oggetti mentali pensati. Questo passaggio presuppone però che vi sia una causa efficiente, un intelletto produttivo che produce (analogamente alla luce nei confronti dei colori) le forme intelligibili delle cose illuminando la mente dell’uomo. Fissati questi punti, Aristotele afferma che - l’intelletto passivo è separato, inalterabile e non mescolato con gli organi corporei; - l’intelletto produttivo possiede anche i caratteri dell’immortalità, eternità, impassibilità: non subisce affezioni e non conserva traccia dei contesti accidentali della singola esistenza, cioè non subisce i condizionamenti del corpo (“Quando è separato, è soltanto quello che è veramente, e questo solo è immortale ed eterno …, e senza questo non c’è nulla che pensi”). È di particolare importanza, al fine della storia della filosofia medioevale, il fatto che l’interpretazione dei passi aristotelici che riguardano questi temi siano stati al centro di un dibattito secolare, protrattosi dalle prime interpretazioni greche (vedi Alessandro di Afrodisia: →) a quelle arabe, sino a tutta la Scolastica europea. Va precisato che la pagina aristotelica in cui queste tesi sono esposte è breve, oscura e isolata rispetto al percorso complessivo dell’analisi della conoscenza umana, e questo spiega la difficoltà degli interpreti. Intellettualismo etico Con questa dizione si fa abitualmente riferimento a quella concezione tipicamente ellenica, ripresa da Socrate, per cui l’uomo compie sempre quello che ritiene essere il bene, e non ha inclinazioni per quello che ritiene essere il male. Le azioni e le scelte che consideriamo negativamente sono quindi condotte in buona fede, nella convinzione soggettiva di operare per il bene. L’errore non è quindi della volontà, ma dell’intelletto, che confonde il male per il bene. Per i sostenitori dell’intellettualismo etico come Socrate, l’obiettivo dell’etica filosofica è quindi rendere la coscienza più consapevole della differenza tra il vero bene e il male. Il tema è legato alla massima socratica “so di non sapere” (→), e alla sua riflessione sulla coscienza morale. Va osservato che con l’intellettualismo etico la libertà viene associata alla ragione più che al volere. Intelligenza È la phronesis dei Greci, termine usato alle origini in senso generico (per Eraclito è sinonimo di pensiero) poi in senso tecnico e specifico da Platone (la phronesis è il pensiero puro, la conoscenza delle idee) e da Aristotele (che usa questo termine per indicare il discernimento morale, la prudenza del saggio). Sui problemi filosofici connessi con l’intelligenza vedi la voce Nous (→). Intelligibile È un termine tipico del platonismo e delle scuole ad esso collegate: la parola greca è noetos, la cui radice è la stessa di nous (→), alla cui voce rimandiamo. L’intelligibile è ciò che non è oggetto di conoscenza sensibile, ma può essere “visto” dalla mente in se stessa. Platone lo riferisce alle idee e al mondo delle idee. Il problema filosofico che questa nozione sottende è duplice: - quale tipo di realtà abbiano conoscenze di questo tipo, che non riguardando enti individuali e materiali non hanno per oggetto del pensiero nessun ente di cui sia possibile fare esperienza (si può pensare in termini intelligibili l’idea di uomo, ma si può fare esperienza solo di singoli uomini); - quale verità si esprima nel mondo intelligibile, se una verità si esprime (Epicuro, ad esempio, nega che negli intelligibili vi sia alcuna verità, neppure in quelli matematici; Platone ritiene che di verità si possa parlare solo per gli intelligibili). Il tema ha uno sviluppo notevole nel neoplatonismo, che fa dell’Intelligenza una ipostasi eterna. Intenzione Legato alla volontà, è l’atto interiore con cui il soggetto (cosciente di sé e nel pieno delle proprie facoltà di intendere e di volere) pone un fine, uno scopo, alle proprie scelte. Non è quindi quel che si vuole, ma la ragione per cui lo si vuole, l’obiettivo che si ha di mira nel volere qualcosa. Vedi la voce Volontà (→). Intermedio / Intermediario Le nozioni di intermedio e di intermediario – in greco metaxu – compare nelle opere filosofiche greche, soprattutto in Platone e in Aristotele, in contesti diversi: - in Platone e in Aristotele in cosmologia, o sul tema del rapporto tra le parti che compongono il Tutto, svolgono la funzione di enti intermedi varie realtà, diverse: in Platone il Demiurgo e l’Anima del Mondo (→) (nel Timeo); in Aristotele i Cieli, in quanto sensibili e materiali, ma allo stesso tempo incorruttibili ed eterni; - in relazione al sapere umano, perché è intermedio tra l’ignoranza e la sapienza; Platone considera intermedia in questo senso l’opinione giusta, che è vera ma non può essere considerata un saldo possesso della verità perché è opinione, vera per caso: potrebbe essere falsa, per quel che ne sa chi ha quella opinione, visto che non è in grado di giustificarne e comprenderne la verità (altrimenti non si tratterebbe di doxa, ma di episteme); - in relazione ad Eros secondo il discorso di Socrate-Diotima del Simposio platonico: Eros è presentato sia come intermedio che come intermediario, perché è a metà strada tra sapienza e ignoranza; è mortale e immortale allo stesso tempo; è legato al mondo degli uomini e a quello degli dèi; può quindi svolgere la funzione di intermediazione tra il mondo degli dèi e quello degli uomini (e quindi tra la loro sapienza e la nostra ignoranza); - in relazione alla filosofia stessa per Platone, sospesa tra la percezione del proprio non sapere e l’amore per il sapere: “la filosofia è una disciplina erotica, in quanto presenta un modello tensionale che la caratterizza in modo essenziale: la pratica filosofica è anche, proprio come Eros di Diotima, una modalità intermedia, la cui funzione sembra quella di mediare tra l’intelligibile e il sensibile, tra la ragione e le passioni, tra l’essere e il divenire” (Ferrari 2006, p. 116). Il problema dell’identificazione di un ente nel Cosmo e di una facoltà nell’uomo che svolga un ruolo intermedio nasce in Platone dall’aver concepito l’universo diviso in due sfere, una materiale, sensibile e soggetta al tempo, l’altra intellegibile ed eterna. Poiché le due sfere del reale hanno un’evidente molteplicità di rapporti, ma non è facile comprendere come dall’eterno si passi al tempo, dall’intellegibile al sensibile, e così via, è necessario studiare elementi che consentano il passaggio. In questo senso il problema dell’identificazione di intermediari, sia tra gli enti che nell’uomo in quanto appartenente ad entrambe le sfere (ha il corpo e conosce sensibilmente, ma pensa in termini di pura intellezione), è analogo al problema del rapporto tra le idee e le cose che Platone esamina proponendo varie soluzioni, espresse per lo più dai termini imitazione (→) e partecipazione (→). In questo senso il problema ritorna in Aristotele, che ammette l’esistenza di un ente puramente intelligibile e non corporeo come il Dio “pensiero di pensiero”, in rapporto però con l’universo fisico (attraverso i Cieli, appunto con funzione di intermediazione). Benché il termine metaxu sia utilizzato anche da altre scuole, il tema non ha più un rilievo centrale nelle scuole ellenistiche che hanno respinto la tesi platonica, e in parte anche aristotelica, che il Tutto sia composto di parti eterogenee (materiali e non materiali, soggette al tempo e indipendenti). Quanto al neoplatonismo, che riprende l’antica tesi platonica, i gradi intermedi sono molti o moltissimi, a seconda degli autori, perché si passa dalla realtà originaria (l’Uno) alle molteplici realtà attraverso varie ipostasi e ulteriori passaggi intermedi. Intermundia Il termine è latino (ad esempio in Cicerone, De natura deorum, 19-19) e traduce il greco metakosma: in senso tecnico è termine specifico della teoria fisica epicurea e indica gli spazi tra i mondi dove abitano gli dèi. Per mondi si deve intendere ciascuno dei sistemi di stelle, pianeti e altri corpi celesti connessi a formare una unità, come è il caso dell’insieme degli astri (dal Sole alla Luna) e della Terra. Per Epicuro, e quindi per Lucrezio, di sistemi di questo tipo, cioè di mondi, ce ne sono infiniti perché infinito è lo spazio vuoto e infiniti sono gli atomi. Da dove nasca e come sia razionalmente argomentata la teoria per cui gli dèi abitano in questi spazi tra i mondi non è chiaro, per la perdita delle opere maggiori di Epicuro. Interpretazione Il termine greco è hermeneia, reso in latino con interpretatio. Interpretare significa intendere il senso di un insieme linguistico, cioè di un insieme di segni di qualsiasi tipo: una proposizione, un testo, l’espressione di un volto, un comportamento, e così via. Ovunque ci sia comunicazione attraverso segni (e quindi comunicazione tout court, perché si comunica sempre attraverso segni) può nascere un problema di interpretazione, cioè la domanda: che cosa significa? In filosofia il problema dell’interpretazione è posto esplicitamente, ma in modo diverso, da Platone e da Aristotele. Platone parla dell’arte di interpretare gli oracoli (cioè di intenderne il senso, sempre oscuro) e studia i poeti come interpreti per lo più inconsapevoli di verità ispirate (interpreti nel senso di “portavoce” degli dèi). Aristotele usa il termine hermeneia per trattare (appunto nel trattato Peri ermeneias, cioè Dell’interpretazione, che fa parte dell’Organon) del linguaggio come “interprete” dei pensieri, in modo da poterli comunicare all’esterno. In filologia il problema dell’interpretazione divenne centrale in età ellenistica, quando (soprattutto presso le Biblioteche di Alessandria e di Pergamo) gli studiosi si posero il problema di interpretare gli antichi testi scritti della tradizione letteraria greca, a partire dall’Iliade e dall’Odissea. Ci si trovò di fronte ad una massa di problemi di correttezza dei testi, di autenticità delle opere, di interpretazione del significato delle parole che si era modificato nel corso dei secoli, e così via. Interpretare, cioè intendere correttamente, gli antichi testi si rivelò un compito difficile. Vennero elaborati diversi metodi per venire a capo dei problemi di interpretazione (in risposta a domande del tipo: “che cosa intende dire in questo passo questo poeta, o questo filosofo?”, oppure: “come va interpretato questo segno? cosa c’è scritto esattamente in questo punto di questo antico papiro?”, e così via). Si vedano su questo punto le voci Analogisti e Anomalisti (→). Dal I secolo d.C. in poi negli ambienti culturali ebraici e poi cristiani si pose anche il problema della corretta interpretazione delle Sacre Scritture, e su questo punto nacquero scuole e metodi contrapposti che avranno notevole influenza sul Medioevo, quando il problema diventerà centrale per la cultura europea. Intuizione / Intuizione intellettuale Una delle fondamentali modalità del conoscere. In generale, l’intuizione (in greco epibole) è la conoscenza immediata che il soggetto ottiene senza il passaggio attraverso il momento della riflessione, del ragionamento o di altre forme del pensiero discorsivo. È una forma di conoscenza legata all’individualità dell’io che in sé trova strumenti immediati per il pensiero. Può però avere difficoltà a trovarli: l’intuizione è una facoltà della mente che può essere difficile da attivare. Nella storia della filosofia si è distinta - l’intuizione sensibile (l’atto con cui il soggetto percepisce coi sensi l’oggetto d’esperienza); - l’intuizione intellettuale (l’atto con cui il soggetto nella sua interiorità concepisce con il proprio intelletto una verità in modo non mediato, atto che rimanda quindi all’unità del soggetto e dell’oggetto). In filosofia il dibattito sull’intuizione, soprattutto quella intellettuale, ha diviso in modo netto i filosofi, che si sono contrapposti nel considerarla come fonte primaria di conoscenza (in quanto capace di restituire la fondamentale unità del reale) o come una fonte imprecisa (perché “salta” ogni argomentazione). Secondo una concezione più limitata, il termine intuizione è stato utilizzato per indicare una forma rapida di pensiero per immagini, che prelude a forme che saranno legate alla riflessione e al ragionamento, ed è utile in via provvisoria o come avvio alla conoscenza complessa. Invidia degli dèi Concezione arcaica, ma ancora fortemente presente nella cultura tradizionale del V secolo a.C. (la si ritrova in Erodoto), che consiste nel concepire le fortune dell’uomo come pericolose da esibire per non incorrere nell’ira divina: gli dèi, invidiosi, possono togliere all’uomo le sue capacità, o la sua bellezza, o il suo sapere, o le sue arti. O la sua stessa vita. Per non incorrere nell’invidia degli dèi è buona regola non andare oltre i limiti imposti alla natura umana e non vantarsi mai: vivere avendo coscienza della precarietà di qualsiasi propria superiorità e fortuna. Involontario / Volontario I campi di applicazione di questa nozione sono il diritto e l’etica. Akousios, involontario, è l’atto compiuto perché una forza esterna costringe all’azione (akon è avverbio: involontariamente, suo malgrado). Ekon significa volontario, e si applica in quelle situazioni in cui la ragione dell’uomo porta alla scelta consapevole (su questa nozione di scelta consapevole si veda la voce Volontà: →). Io È il termine con cui il soggetto cosciente di sé indica se stesso. Non ha quindi plurale: il “noi” indica infatti una pluralità di io, non un io plurale. In filosofia per indicare la soggettività cosciente di sé in termini astratti si usa allora l’espressione “l’io”, che fa riferimento ai caratteri comuni a qualsiasi io umano. La precisazione “umano” è importante perché nel mito ci sono altri io, in particolare gli dèi. Nella filosofia greca non ci sono invece “io” diversi dall’uomo che parlano di sé: è questa una prerogativa tipica del linguaggio religioso (lo ri ritrova ad esempio nella Bibbia), non di quello filosofico, perché nessun uomo (a parte la rivelazione appunto religiosa) ha esperienza di un io non umano che si riferisca con questo termine a se stesso. Si ritrova però questa dizione attribuita a dèi e figure non umane nei miti filosofici platonici e nei poemi filosofici, in contesti quindi legati al pensieri per immagini e a varie forme di metaforizzazione (→). Per la cultura omerica, e in particolare per Ulisse (Odisseo), si parla oggi a volte di “nascita dell’io”, per indicare il fatto che in Omero gli eroi mostrano di non avere una piena e chiara visione della propria autonoma soggettività come qualcosa di unitario: mostrano di percepire il proprio corpo, o parti di esso, come entità semi-autonome, e nello stesso modo parlano come se le passioni e addirittura le loro stesse scelte provenissero dall’esterno, per intervento in genere divino (ad esempio è Ate che confonde Agamennone quando all’inizio dell’Odissea attacca lite con Achille; altrove è Afrodite che fa innamorare, è Atena che infonde nel cuore..., e così via). Nel poemi omerici si assiste ad uno slittamento di interpretazione sull’io, per cui Odisseo appare, nell’Odissea e non nell’Iliade, maggiormente cosciente della propria autonoma, piena e individuale soggettività. Questo giustifica l’espressione “nascita dell’io”. I problemi I problemi filosofici legati al termine io sono moltissimi, proprio perché questo termine raccoglie in unità la soggettività cosciente di sé, che è legata all’intero mondo delle nostre conoscenze esterne e interne. Non c’è quindi problema filosofico che non abbia un risvolto nell’io, perché qualsiasi problema è comunque legato alla coscienza di sé, che è già presupposta per il fatto che si ha coscienza (anche solo albeggiante) di un problema. Se però vogliamo in specifico indicare i principali problemi filosofici che riguardano direttamente l’io (in senso lato, lo abbiamo visto, lo riguardano tutti), possiamo identificare i seguenti: - un primo campo di problemi lo ha indicato Eraclito quando, in celebri frammenti, scrive di avere indagato se stesso e dice che nessuno può davvero dire di conoscere il proprio logos, tanto esso è profondo: è il tema che Socrate, oltre un secolo dopo, svilupperà mostrando come l’analisi della coscienza umana sia un compito continuo e interminabile; in estrema sintesi, mentre ciascuno di noi “sente” di essere un io, conoscere quest’io si rivela indagine lunga e difficile; nella filosofia moderna per esprimere questa nozione si parla di autocoscienza dell’io; - un secondo campo problematico riguarda la natura dell’io: è una realtà semplice, o è un composto? se quest’ultima ipotesi è quella corretta, come e da dove si forma? quali sono le sue componenti? è di natura materiale o spirituale? e quindi: che validità hanno le teorie che parlano di una vita dell’io indipendente dal corpo? (vedi anche la voce Anima: →) - un terzo campo problematico riguarda il rapporto tra l’io e i suoi oggetti (corpo compreso, nella misura in cui il corpo è oggetto della coscienza che l’io ha di sé come io che “ha” un corpo): i problemi nascono dal fatto che l’io sembra non poter conoscere se stesso se non conosce un oggetto, e questo significa che l’io non conosce l’io, ma solo il sé, e attraverso il sé conosce gli altri oggetti (in sintesi: conosce gli oggetti e ha anche coscienza di conoscerli: vedi la voce Coscienza: →); dunque, quali sono esattamente i rapporti tra l’io e i suoi oggetti? (vedi anche le voci Soggetto e Soggetto / Oggetto: →) Le teorie Le grandi teorie sulla natura dell’io elaborate dai filosofi greci sono riconducibili a tre distinti campi: - le teorie che concepiscono l’io come una realtà spirituale (vedi la voce Spirito: →) e quindi semplice (→), e pongono il problema della sua relazione col corpo, che invece è materiale e composto da parti, e con realtà diverse dal corpo, anch’esse spirituali (così soprattutto Platone e Plotino); - le teorie che concepiscono l’io come una realtà composta, o comunque formatasi anch’essa come tutte le altre, e ne studiano la natura in rapporto al corpo e al complesso delle leggi dell’universo fisico (così ad esempio Epicuro e lo Stoicismo); - le teorie scettiche, che da diversi punti di vista non considerano possibile pervenire sull’io a conoscenze certe (il campo è assai più vasto della scuola scettica propriamente detta). In questo schema non abbiamo inserito le filosofie naturaliste e in genere quelle del V secolo a.C., perché lo stato dei frammenti che possediamo non permette in molti casi di definire con esattezza la posizione dei filosofi sul tema, ma anche perché i problemi che abbiamo descritto sono stati formulati in modo teoreticamente chiaro tra l’età di Democrito e di Platone e quella di Aristotele (ad esempio la distinzione concettuale tra spirito e materia non è posta prima di Democrito e di Platone). I problemi sull’io nel V a.C. secolo sono, per così dire, in formazione: ad esempio in Parmenide è logicamente possibile porre il problema del rapporto tra l’io e l’Essere come oggetto della conoscenza scientifica; ma in modo esplicito (allo stato delle nostre conoscenze dell’opera parmenidea attraverso frammenti) Parmenide non pone questo problema. Questo non significa affatto che le teorizzazioni posteriori sono un progresso: significa solo che il campo problematico della nozione di io si è modificato dopo. Iperuranio Nel mito platonico della biga alata (→) decritto nel Fedro, l’Iperuranio (Hyperouranous: letteralmente al di là di Urano, cioè del Cielo) è la regione al di là del cielo, cioè fuori dal nostro mondo, in cui vivono la loro vita perfetta gli dèi e le idee. Per Platone “si tratta di una regione non spaziale, giacché il cielo racchiudeva tutto lo spazio e al di là del cielo non c’è spazio. L’espressione quindi è puramente metaforica” [Abbagnano 1998]. Ipostasi In greco il termine hypostasis significa fondamento, nel senso di base, sostegno. Assume un significato storicamente molto importante (verrà ripreso anche dalla filosofia cristiana medioevale) in Plotino, che usa il termine ipostasi per indicare le sostanze che formano quell’architettura dell’essere che è a monte del mondo della nostra esperienza esterna (l’universo fisico) e interna (l’anima). Questa architettura è eterna, e procede per emanazione (→) dall’Uno (Hen), che è dunque la prima ipostasi (cioè il primo fondamento del mondo), verso l’Intelletto (Nous) e l’Anima del Mondo (Psyche), che sono la seconda e la terza ipostasi derivate a cascata dall’Uno. Il mondo che vediamo e sentiamo è, per così dire, un edificio del tutto superficiale e instabile, perché ha carattere temporale e quindi passa, ma riposa su fondamenta pienamente stabili, perché eterne. Ipotesi Il termine è usato da Platone in un senso simile al nostro: il metodo dialettico esamina e discute varie ipotesi (hypothesis) per elevarsi attraverso questo esame verso il principio. In Aristotele invece l’’hypothesis è la premessa del sillogismo dimostrativo (Analitici Secondi, I, 1). C’è però un senso più ristretto del termine: in questa accezione è simile all’uso italiano del termine, perché indica le premesse non necessarie, la cui validità è solo presupposta. Ippodamo di Mileto Abbiamo poche notizie biografiche su Ippodamo di Mileto, uno dei massimi urbanisti dell’antichità attivo nel V secolo a.C., probabilmente nato nell’ultimo decennio del VI secolo. Sappiamo di alcune sue realizzazioni concrete: diresse i lavori per il porto ateniese del Pireo realizzato alla metà del V secolo a.C. e nel 444 fu incaricato da Pericle di presiedere ai lavori per la fondazione della colonia panellenica di Turi, in Magna Grecia. Da Aristotele in poi Ippodamo è considerato l’urbanista che ha codificato la disciplina urbanistica (è) secondo principi razionali. La pianta ortogonale della città (oggi dal suo nome nota come pianta ippodamea) era in realtà già ben nota, ma fu da lui perfezionata secondo criteri di razionalità ed efficienza. A lui risale la chiara e articolata distinzione della città in spazi funzionali: l’area destinata agli edifici pubblici, l’area sacra, l’area delle abitazioni private. Furono suoi gli studi per il dimensionamento delle aree urbane per una popolazione standard di 10.00 abitanti. Introdusse in urbanistica criteri ispirati all’egualitarismo e alla superiorità della sfera pubblica su quella privata: nelle città Ippodamo voleva che le case fossero simili per proporzione e struttura, in modo da garantire a tutti efficienza e decoro, secondo un ideale democratico di cittadinanza, senza eccessive disparità; inoltre risale a lui il principio che alcuni spazi della città possano essere preclusi alle iniziative private e rimangano di proprietà pubblica per finalità pubbliche. Alcuni temi platonici esposti nella Repubblica a proposito del comunismo della proprietà potrebbero risalire ad una riflessione sulle concezioni ippodamee, ai tempi di Platone ormai divenute classiche. Ippolito È figlio di Teseo (→), il mitico re fondatore di Atene, e di una delle Amazzoni. Nel racconto mitologico Ippolito è fervente seguace di Artemide, la dea della caccia, ma non si cura per nulla di Afrodite, disprezzandone i favori. Così Afrodite decide di vendicarsi. Suscita una invincibile passione d’amore per Ippolito in Fedra, la seconda moglie di Teseo e, quando questi la respinge, temendo che il figlio racconti tutto al padre, è Fedra stessa ad accusare Ippolito presso Teseo di averla violentata. Il racconto mitico narra dell’ira del re e della sua decisione di agire contro il figlio invocando da Poseidone la punizione su di lui. Così mentre il giovane Ippolito guida il carro su una spiaggia, il dio del mare invia un mostro marino che spaventa i cavalli: imbizzarriti, sbalzano il giovane in modo così violento da provocarne la morte. I mali si succedono a catena, perché Fedra stessa, saputo di cosa lei stessa è stata la causa (pur per impulso di Afrodite in cerca di vendetta), si uccide. Sicché Teseo perde sia il figlio avuto dalla prima moglie sia la seconda moglie. Una tradizione italica vuole che Artemide, che Ippolito molto venerava, abbia convinto il dio della medicina Asclepio (→) a risuscitarlo dai morti. Trasportatolo nel suo santuario di Ariccia in Italia, Ippolito sarebbe lì venerato insieme con Artemide, identificato con il dio Virbio, compagno di caccia della dea. Questo mito, in cui si legano in un intreccio inscindibile scelte divine e responsabilità umane, è stato portato sulla scena da Euripide nella tragedia Ippolito. Ippolito Titolo di una tragedia di Euripide. Venne scritta nel 428 a.C., e appartiene quindi alla fase matura della vita del poeta. Gli dèi tornano in questa tragedia, ma come personificazione dei sentimenti umani. Protagonisti sono Afrodite, Artemide, Teseo, Ippolito e Fedra, sorella di Arianna. Terminata la relazione con Arianna, Teseo si innamora di Fedra e la sposa. Ma Afrodite, che non ama le principesse cretesi, condurrà il matrimonio ad una tragica conclusione. Teseo ha avuto un figlio, Ippolito, da una precedente relazione con Antiope, una delle Amazzoni. Ippolito è dunque figliastro di Fedra. Afrodite, oltre a non sopportare Fedra, non ama neppure Ippolito. Questi è giovane e bello, e si disinteressa di tutto amando solo la caccia e i boschi, seguendo la dea Artemide. Pur essendo in età da matrimonio, egli rifiuta di sposarsi; d’altronde è figlio di un’Amazzone, la cui tribù era composta di guerriere che per accoppiarsi si servivano solitamente di prigionieri di guerra che poi venivano uccisi o usati come schiavi. Nel prologo Afrodite esprime quindi il suo sdegno per Ippolito il quale rinnega l’amore e decide di vendicarsi di lui facendo sì che la matrigna, Fedra, se ne innamori. A differenza di una tragedia andata perduta in cui Fedra rivelava il suo amore ad Ippolito, in questa la donna nasconde la sua passione incestuosa, ma ne è distrutta anche fisicamente. L’amore che prova è una sorta di malattia che porta Fedra a disperarsi, a rifiutare il cibo, a desiderare solo la morte. Teseo è lontano; il coro è incuriosito dal comportamento di Fedra e la nutrice, che conosce bene la donna, è molto preoccupata. Fedra, dietro le insistenze della nutrice, rivela a questa il terribile segreto. La prima reazione è quella dell’orrore, poi prevale l’amore verso la padrona, che spinge la nutrice a rivelare ad Ippolito, dietro giuramento di silenzio, la passione che sta divorando Fedra. Il giovane, sconvolto, si scaglia contro Fedra e poi contro l’intero genere femminile con una durissima invettiva: “O Zeus, e tu un male insidioso come sono le donne, l’hai portato nelle case degli uomini ed hai fatto che vedessero il Sole? Se volevi propagare la stirpe dei mortali, non dovevi servirti delle donne per fare questo. Bastava che gli uomini portassero dell’oro o ferro o bronzo nei templi per averne in cambio il seme dei propri figli, ognuno del valore del prezzo offerto, ed abitare liberi e senza donne nelle loro case. […] E andate alla malora! Io non sarò sazio di odiarvi mai…”. Fedra, di nascosto, ha udito ogni cosa: l’unica soluzione è darsi la morte non prima però di aver salvato l’onore vendicandosi di Ippolito. Fedra lascia scritte terribili parole che accusano Ippolito di averla violentata. Quando Teseo ritorna, apprende della morte della moglie e delle accuse rivolte al figlio, e invoca da Poseidone il castigo di Ippolito. Questi afferma con vigore la propria innocenza, ma non può rivelare la verità avendo giurato silenzio alla nutrice. Ippolito viene quindi bandito dalla città e mentre corre lontano, sulla spiaggia si leva un’onda, scatenata da Poseidone, da cui esce un toro selvaggio che fa imbizzarrire i cavalli e rovesciare il carro. Nel frattempo Teseo ha appreso la verità da Artemide e non gli rimane che disperarsi, stringendo tra le braccia il figlio morente. Ipse dixit È un’espressione latina (“Lo ha detto Lui”) che traduce il greco “Autos eira”. Il motto nacque originariamente in ambiente pitagorico proprio in riferimento alla figura di Pitagora: è lui l’“Ipse” di cui si parla. Infatti presso la scuola pitagorica (che aveva le caratteristiche di una setta per iniziati: →) la parola del maestro era concepita come una sorta di rivelazione: un’autorità che non si discuteva. Questo motto implica la prevalenza dell’autorità sulla libera ragione: lo sottolinea Cicerone nel De natura deorum (I, 5, 10). Tuttavia nel pitagorismo non mancò la ricerca razionale ed originale, che però veniva svolta attribuendo al maestro anche scoperte molto successive. In età medioevale il motto fu riferito anche ad altre autorità, e dal XII-XIII secolo in poi soprattutto ad Aristotele. Irascibile Platone chiama thymoeides, che traduciamo con irascibile, la parte dell’anima che esprime emozioni forti ed intense ed è caratterizzata dalla forza interiore, e quindi dal coraggio. Nel mito della biga alata del Fedro è uno dei due cavalli, quello bianco. Nella Repubblica il corrispettivo sociale di questa forza interna all’anima è la classe dei custodi, la cui virtù fondamentale è il coraggio, cioè la capacità di usare la forza dominandola e orientandola. Ironia L’ironia (in greco eironeia, letteralmente dissimulazione) è termine abitualmente associato a Socrate e al suo metodo di indagine dialettica (→). Tecnicamente consiste in un modo del discorso breve (→) che Socrate utilizza abitualmente (la nostra fonte principale sono i dialoghi platonici) consistente nel dar credito alle tesi del suo interlocutore senza proporre alcuna tesi propria, per poi dimostrare l’inconsistenza della tesi dell’avversario. Questo risultato è ottenuto attraverso domande sempre più incalzanti, costruite sulle tesi stesse dell’avversario spesso con una venatura scherzosa, simile alla sfida e al gioco, che ne mostrano la nascosta contraddittorietà. Irrazionale Il termine irrazionale applicato al contesto greco rimanda agli studi che a partire da un celebre ciclo di lezioni del filologo inglese Erik R. Dodds raccolte in volume col titolo I Greci e l’irrazionale (vedi Bibliografia: →) hanno approfondito gli aspetti della cultura greca legati alle credenze di tipo religioso, misterico, magico. Dodds scriveva alla metà del Novecento e da allora questo tipo di studi si sono moltiplicati, consentendo di allargare fortemente lo sguardo degli studiosi sulla civiltà greca. Di questo genere di studi ha tratto molto vantaggio anche la storia della filosofia perché i filosofi greci hanno mantenuto molti tipi di rapporti con la sfera dell’irrazionale, seguendo tuttavia la via maestra di una comprensione razionale dell’uomo e del cosmo. Gli studiosi che hanno aperto la strada a questo tipo di ricerche e coloro che l’hanno continuata hanno applicato allo studio del mondo classico le acquisizione delle scienze dell’uomo del nostro tempo: il mondo antico è stato quindi osservato dall’angolo visuale della psicologia storica, dell’antropologia dei nostri giorni, della sociologia, dell’etnologia, della linguistica, e così via. Isocrate Retore ateniese, Isocrate appartiene alla stessa generazione di Platone, di cui era più grande di pochi anni (era nato ad Atene nel 436 a.C.). Morì quasi centenario nel 338 a.C., secondo la tradizione lasciandosi morire per non sopravvivere alla perdita dell’indipendenza della Grecia in seguito alla sconfitta di Cheronea, con cui quell’anno Filippo II di Macedonia era riuscito a imporre la propria supremazia. Apparteneva ad una famiglia facoltosa ed ebbe una formazione di prim’ordine (sembra che sia stato da ragazzo allievo dei più celebri sofisti, come Prodico di Ceo e Gorgia). Ma un rovescio di fortuna dovuto alle vicende della Guerra del Peloponneso lo costrinse ad esercitare il mestiere di logografo (→), cioè di scrittori di discorsi giudiziari. Dopo il 390 a.C., fondata una propria scuola di retorica e di formazione politica, più o meno in diretto confronto con l’Accademia platonica attiva negli stessi anni, prese le distanze dalla pratica di logografo. Di questa attività ci rimangono 6 orazioni. La sua scuola venne in effetti frequentata da giovani che sarebbero da adulti diventate delle personalità politiche di primo piano nella vita politica ateniese. In un’orazione dal titolo Contro i Sofisti, del 390 a.C., Isocrate chiarisce la nozione di retorica che è alla base del suo insegnamento: non vuote astrazioni come le scuole filosofiche ateniesi del tempo (la contrapposizione con l’Accademia nei decenni successivi diventerà aperta rivalità), né semplice insegnamento tecnicopratico come quello proposto dai Sofisti, ma cultura nella sua totalità, che ha di mira la formazione dell’uomo integrale. Vera filosofia dunque, come Isocrate stesso scrive. Della sua vasta produzione restano una serie di discorsi politici, simili alle moderne “lettere aperte” a uomini politici dell’epoca, in cui Isocrate propone un ideale politico panellenico in funzione antipersiana (i titoli sono Panegirico, Areopagitico, Filippo, Panatenaico), e una non ampia parte della sua produzione retorica. Isole dei Beati Vedi Campi Elisi Isonomia Da isos (uguale) e nomos (legge), l’isonomia nelle poleis greche rette secondo costituzioni democratiche è il carattere specifico che rende tale il cittadino: l’uguaglianza di fronte alla legge. Ispirazione È una nozione in parte religiosa, in parte poetica. Nella tradizione greca ispirato è il poeta, e ad ispirarlo sono le Muse, o Apollo. Dunque l’ispirazione implica la presenza di un dio che ispira, cioè che fa una rivelazione e concede il sapere poetico necessario per annunciarla. Va sottolineato che non è la capacità tecnica della musica e del canto ad essere un dono degli dèi o delle Muse, ma il contenuto della narrazione: vedi su questo la voce Poeta (→). In filosofia il termine ha un rilievo in Platone, nel contesto della sua interpretazione della figura del poeta: si veda per questo punto la voce Entusiasmo (→). Issione Issione è un eroe greco che si è macchiato di una colpa molto grave, l’uccisione di un congiunto, il padre della sposa. Il suo delitto viene poi purificato per intervento di Zeus, che lo fa partecipe dell’immortalità. Ma Issione insidia Era, la moglie di Zeus, che allora dà ad una nuvola le sembianze di Era per avere la prova della colpevolezza di Issione. Dai suoi amori con quella che crede Era, ed è invece solo un’immagine della dea, nascono i Centauri, mentre Issione viene punito con un terribile supplizio: legato ad una ruota, che gira mossa a colpi di frusta, è costretto a gridare continuamente: “Si debbono onorare i benefattori”. Istante Il termine greco è nyn. Nell’ambito del problema filosofico sulla identità del tempo (→), l’istante è definito da Aristotele “la continuità del tempo, perché connette il passato al futuro” (Fisica, IV-13) Istinto In greco l’orme è l’istinto come tendenza naturale e spontanea, la pulsione interna che spinge all’azione. Questo tema è centrale per quelle scuole che pongono l’accento sull’importanza per l’etica del vivere secondo natura, essendo l’istinto una delle manifestazioni della nostra natura: non la sola però, perché l’istinto è di per sé pre-logico o a-logico, e l’uomo è un essere (anche) razionale. Così presso gli Stoici la nozione di istinto diviene centrale. Il termine greco che ricorre nei loro scritti è oikeiosis, che indica l’istinto di conservazione, cioè quell’istinto primario che ci fa essere quel che siamo e ci porta a difendere il nostro essere. Guidato dalla ragione, questo istinto è il metro per l’azione saggia, perché è eticamente positivo tutto ciò che è secondo natura, e l’uomo è per natura istinto e razionalità insieme. La nozione di oikeiosis va nettamente distinta dalla nozione di pathos, cioè dalle passioni: l’istinto primario che ci fa vivere non è una passione, il nostro io non è passivo verso questo istinto, ma lo vive in sé come forza attiva. Kairos Nella mitologia greca il dio Kairos è la personificazione del concetto di momento opportuno, attimo fuggente, momento che passa, opportunità da cogliere subito, o è perduta per sempre. Aveva un altare a Olimpia ed era celebrato come il più giovane figlio di Zeus. In questa veste lo scultore Lisippo lo raffigurò in una celebre statua. Nella retorica antica questo tema ritorna sia in Aristotele che in Isocrate, per indicare la necessità per l’oratore di sfruttare il momento opportuno – una finestra di opportunità che si apre e presto si chiude. Kalos kai agathos Vedi Bellezza Kithara Vedi Lira Koine Indica la lingua comune (koine dialektos) che si affermò nel corso del IV secolo a.C. avendo come base il dialetto attico e come estensione varie componenti di altri dialetti, soprattutto ionici. Fu questa lingua comune che venne utilizzata dai Greci come base linguistica della loro influenza politica e culturale su un vastissimo territorio – dall’Egitto al cuore dell’Asia – ottenuto in seguito alle conquiste di Alessandro Magno. La koine, divenuta la lingua-base dell’epoca ellenistica nel Vicino e nel Medio Oriente, utilizzata in ambienti diversi su territori vastissimi, si trasformò rapidamente e si arricchì di moltissime nuove parole, anche per le esigenze pratiche poste dallo sviluppo delle scienze e della produzione. Presso i ceti colti dell’epoca, anche a Roma, era normalmente in uso il bilinguismo, e la seconda lingua di moltissimi non greci era appunto la koine. Per conseguenza in età alessandrina i classici della scienza e della filosofia stesi per iscritto tra l’VIII secolo a.C. e il IV erano in una lingua che si era notevolmente trasformata ed era ormai percepita come appartenenti a secoli verso cui la distanza storica era tale da potersi guardare ad essi come ad un’epoca chiusa: oggetto quindi degli studi storico-filologici degli studiosi alessandrini presso la Biblioteca di Alessandria e il Museo. Kósmos Vedi Cosmo Lachete Uomo politico di primo piano e generale ateniese, Lachete fu al centro di numerosi episodi della Guerra del Peloponneso: guidò una spedizione navale nelle acque della Sicilia e dello Stretto di Messina e, più tardi, nella zona di Argo, dove trovò la morte nel 418 a.C. combattendo a Mantinea. A lui Platone ha dedicato uno dei suoi dialoghi aporetici, il Lachete appunto, in cui si discute su che cos’è il coraggio. Lassù / Quaggiù Vedi Alto / Basso Lavoro Nella filosofia greca il lavoro, inteso come azione di carattere sociale ed economico volto alla trasformazione della natura ai fini dell’uomo, non è oggetto di specifici studi come nella filosofia moderna. Riflessioni sul lavoro compaiono episodicamente, in contesti diversi, per lo più incidentalmente. Ad esempio molte forme di lavoro manuale e artigianale compaiono nelle riflessioni di Socrate o di Platone, ma si tratta per lo più di esempi, o passaggi dialettici che mirano a tutt’altro. In generale, il lavoro manuale è scarsamente considerato nella cultura antica anche perché molte forme erano legate alla schiavitù. Ma il lavoro artigianale aveva un significato non secondario sia per la valenza sociale che per la competenza tecnica che richiede. In questo senso è il personaggioSocrate nei dialoghi platonici a notare che il sapere degli artigiani non è poca cosa, ma è limitato a specifiche attività, al di fuori delle quali l’artigiano non ha alcun sapere particolare. Nelle loro analisi politiche sia Platone che Aristotele riservano scarsa attenzione al lavoro, pur considerato come necessario. Una maggiore considerazione, ma senza che siano proposte analisi specifiche, è presso alcune scuole ellenistiche: ad esempio i Cinici lo considerano uno strumento positivo di esercizio, che aiuta con la sua fatica a raggiungere i pieno dominio di sé (e in questo senso lo raccomandano al filosofo), mentre gli scettici considerano le attività manuale alla stesa stregua delle altre, e manifestano la loro indifferenza al riguardo (così Pirrone è descritto mentre svolge lavori domestici o servili con assoluta noncuranza della scarsa considerazione sociale di queste attività). Detto tutto questo, va però ricordato che la nostra conoscenza del mondo greco dipende dalle testimonianze scritte che ci sono pervenute, e quindi tutto ciò che è possibile dire che presso le classi colte questa fosse la concezione del lavoro. Non sappiamo quale fosse la comune maniera id sentire delle classi lavoratrici. Lega delio-attica Con questa dizione (ma gli storici parlano anche di Lega marittima) si indica l’alleanza politicomilitare, ma anche economica, che si formò nel 478-477 a.C. (cioè all’indomani della battaglia di Micale: vedi Guerre Persiane: →) tra un elevato numero di poleis dell’are ionica, intorno ad Atene (nel momento della sua massima fioritura, della Lega facevano parte circa 200 poleis marittime greche). La funzione di questa lega era la difesa contro eventuali nuovi attacchi persiani. Il nome deriva dal fatto che il luogo in cui si conservava il tesoro della Lega era l’isola di Delo, almeno fino al 454-453, quando Pericle impose il suo trasferimento ad Atene. Di fatto la lega finì col diventare uno strumento dell’imperialismo ateniese, fino al punto che l’Atene dell’età di Pericle era di fatto al vertice di un sistema di potere politico, militare ed economico che imponeva le proprie scelte sulle città alleate, comprese iniziative militari contro quelle che si fossero ribellate. La Guerra del Peloponneso contrappose quindi non solo Atene, ma l’intera Lega delio-attica con le sue risorse a Sparta e al suo sistema di alleanza, la Lega peloponnesiaca (→). Sempre in funzione antispartana ma senza assumere caratteri imperialistici, una seconda Lega marittima si costituì nel 378-377 a.C., quasi trent’anni dopo lo scioglimento della prima, avvenuto nel 404 con la sconfitta ateniese nella Guerra del Peloponneso. Questa seconda lega ebbe un peso nelle successive lotte, conclusesi con la supremazia di Tebe sia sugli Spartani che sugli Ateniesi in seguito alla battaglia di Leuttra del 371 a.C. In realtà questa sequenza di lotte che ebbe le due leghe come protagoniste portò come esito finale l’indebolimento complessivo della Grecia, di cui approfittò nei decenni successivi il Regno di Macedonia, con Filippo II, per imporre la propria volontà. Lega peloponnesiaca Gli storici moderni indicano con questo nome l’alleanza militare costituitasi già nel VI a.C. tra Sparta e la maggior parte delle poleis del Peloponneso e, in seguito, anche al di fuori della penisola. Gli antichi si riferivano alla stessa realtà politico-militare parlando degli “Spartani e i loro alleati”, fatto che indica come Sparta fosse in realtà il cuore della lega, nata originariamente come somma degli accordi bilaterali tra Sparta e le singole poleis. Nel V secolo a.C. la Lega peloponnesiaca si contrappose alla Lega delio-attica (→), e la sconfisse con la Guerra del Peloponneso (→). Al contrario di quella delio-attica, la Lega peloponnesiaca fu un’alleanza secolare, perché, nata all’inizio del VI secolo, era ancora attiva al tempo del progressivo indebolimento di Sparta nel IV secolo a.C. Legge Vedi Nomos Legislatore Nelle poleis greche, in particolare nelle colonie, il legislatore era l’uomo politico (in alcuni casi semimitico, come Licurgo a Sparta, in altri storico come Solone ad Atene) che fissava le leggi della città. Nel caso delle colonie queste leggi erano spesso redatte come vere e proprie costituzioni, in forma scritta, al momento della fondazione o poco dopo. Nelle colonie il legislatore poteva essere una figura diversa da quella dell’ecista (→). L’evoluzione delle leggi nel mondo ellenico e il loro passaggio dalla forma orale alla forma scritta è parte della storia del diritto greco (→). Lete Divinità della dimenticanza, nel mito greco Lethe incarna l’oblio in contrapposizione e allo stesso tempo in associazione a Mnemosyne, la dea della memoria (→). Sono entrambe divinità connesse al mondo degli Inferi, dove esistevano due fonti le cui acque fissavano la memoria o inducevano l’oblio. Le anime dei morti bevevano l’acqua della fonte di Lete per dimenticare gli eventi della vita sulla Terra, e nelle tradizioni misteriche che ammettevano la metempsicosi tornavano a bere la stessa acqua quando si reincarnavano per dimenticare quanto avevano visto negli Inferi. Antiche testimonianze parlano di analoghe fonti dell’oblio e della memoria in Beozia, presso un oracolo: chi desiderava consultarlo dovevano bere le acque. Lete è poi anche la divinità benevola della dimenticanza quando si tratta di allontanare la propria mente da un dolore che solo l’oblio può guarire. Lettera dottrinale Il genere letterario della lettera dottrinale compare con Epicuro. Ha avuto un successo notevole nel periodo ellenistico e ha fatto da modello alle "Epistole" della tradizione cristiana (Paolo e gli altri Apostoli). Presuppone l’esistenza di comunità lontane che seguono un modello di vita filosofica e quindi è strettamente connesso con un’idea di filosofia che ormai con piena consapevolezza connette ricerca filosofica teorica e stile di vita. Le lettere di Epicuro che ci sono pervenute sono di varia ampiezza, ma brevi o lunghe che siano hanno alcune caratteristiche formali che le rendono ben riconoscibili e definiscono il genere: - ciascuna ha un solo tema, per ampio e articolato che sia, e la materia è trattata con ordine espositivo semplice, in uno sforzo di sintesi unito alla maggiore chiarezza possibile: in tutta evidenza, i destinatari non sono filosofi, ma persone che leggono o ascoltano di filosofia senza essere interessati alla ricerca teorica e scientifica in sé e ai suoi aspetti tecnici; - ciascuna fa uso di una terminologia rigorosa, che ha un significato tecnico preciso nell’economia complessiva delle dottrine filosofiche della scuola; i termini sono chiaramente definiti, privi di ambiguità; chi legge, deve impadronirsi a fondo del linguaggio tecnico, anche se non è interessato ai dettagli; - il rapporto tra esposizione della dottrina e argomentazione è assai particolare: vengono saltati tutti i dettagli e le tesi sono esposte una ad una concatenate in un ordine rigoroso; le argomentazioni sono poche, immediatamente efficaci, facili da capire e da memorizzare; vi è dunque un misto di tecnica argomentativa (semplificata ma proprio per questo di grande forza quando è presente) e di tecnica espositiva; è qualcosa di molto lontano dalla raccolta di opinioni (vedi la voce Dossografi: →) per due motivi: in primo luogo perché non si tratta di opinioni isolate, di tesi non concatenate, ma di posizioni filosofiche connesse a formare un tutto ordinato; in secondo luogo perché le argomentazioni sono presentate in forma rigorosa, senza che la essenzialità del discorso sacrifichi nulla alla precisione; - si fa un uso limitato delle metafore e del linguaggio per immagini; la più importante figura retorica che a volte viene utilizzata è la similitudine (come… così…), la più adatta a rendere con chiarezza un concetto, permettendo il legame tra astrazione del pensiero e concretezza dell’esperienza sensibile. Per un quadro generale dei generi letterari della filosofia antica si veda la voce Generi letterari della filosofia antica (→). Libero arbitrio Vedi Libertà Libertà Nella filosofia greca il termine libertà (eleutheria) ha diversi significati che aprono ciascuno a vari problemi filosofici. La libertà come libero arbitrio In questo senso, la libertà è la capacità dell’uomo di scegliere tra possibilità diverse, realmente date nel contesto in cui si opera, senza che si sia determinati alla scelta in modo necessario. Il termine greco è proairesis, che indica appunto la libertà di scelta, e quindi la relativa facoltà. In nessun caso il libero arbitrio è concepito come libertà assoluta (cioè senza limiti e condizioni), perché sempre sono presenti almeno due condizioni che lo limitano: - devono esistere possibilità reali tra le quali scegliere (se non ci sono, il libero arbitrio è solo una condizione virtuale della mente, ma non certo attuale); - esistono sempre condizionamenti e pressioni di vario genere, dal potere della società sul singolo alla sua educazione: le forze sociali e quelle psichiche premono sempre in una direzione o nell’altra, e non sempre in maniera lineare e univoca. Si ha comunque libero arbitrio se, fermi restando questi limiti e condizioni, la mente dell’uomo conserva anche un piccolo spazio che le consente di scegliere senza essere determinata. Il problema filosofico del libero arbitrio è dato dal fatto che, benché l’uomo percepisca la libertà del proprio volere, essa può essere considerata reale, e non solo una percezione psicologica priva di effettiva realtà, solo se si riesce a spiegare come è possibile che, in un universo regolato da leggi necessarie, questa necessità non si applica alla mente dell’uomo nel momento in cui sceglie. Il problema è stato esaminato in termini concettualmente chiari soprattutto in età ellenistica, dopo le acquisizioni delle grandi filosofie del IV secolo a.C.: soprattutto quelle di Democrito, di Platone e di Aristotele. A parte le scuole scettiche, che sospendono il giudizio ritenendo la questione indecidibile, le più importanti teorie sono quella epicurea (che ammette il libero arbitrio sulla base del clinamen: →) e quella stoica (che lo limita ad ambiti estremamente ristretti anche se importanti per la vita etica individuale, e comunque ininfluenti sul piano della natura universale, che segue comunque il suo corso necessario). Libertà come padronanza di sé e indipendenza dell’io dalle passioni Indipendentemente dal fatto che la mente possieda o meno il libero arbitrio, i filosofi greci hanno usato il termine libertà riferito all’uomo per indicare la condizione dell’io che non agisce perché spinto da incontrollabili e soprattutto irrazionali passioni, ma perché determinato dalla propria ragione (a volte intesa come espressione della ragione universale, come nella lunga tradizione che dal Logos di Eraclito porta al Logos stoico e al neoplatonismo). L’uomo libero è l’uomo padrone di sé, ed in particolare capace di far sì che il proprio io si autogoverni attraverso la ragione. C’è un termine in greco che indica la padronanza di sé: è enkrateia (→), che ha una particolare valenza da Socrate agli Stoici. Intesa in questo senso, la libertà è stata considerata un obiettivo etico alto e realmente perseguibile da un po’ tutte le scuole ellenistiche, anche dai Cinici e dagli Scettici. Per secoli questa libertà è stata considerata la condizione fondamentale per una vita non solo etica, ma anche felice. Una vita tra l’altro secondo natura (→), essendo la più profonda realtà della natura umana raccolta nel suo nucleo centrale: nella sfera razionale della mente. Libertà come valore giuridico e politico dell’uomo e del cittadino La concezione della libertà come padronanza di sé ha carattere privato, ma ha anche un risvolto pubblico. Questo significato giuridico e politico del termine libertà può essere intuitivamente compreso in rapporto a due situazioni opposte: - la condizione dello schiavo (che non è considerato uomo nella pienezza della sua umanità); - la condizione del suddito degli Imperi orientali (dall’Egitto alla Mesopotamia). I Greci percepivano se stessi come uomini in antitesi a queste due condizioni che facevano parte del bagaglio comune di esperienza, data la presenza della schiavitù in tutto il mondo ellenico e la vicinanza con l’Oriente. Essere giuridicamente liberi significa essere titolari di diritti e di doveri, cittadini di una polis in cui ci si riconosce e che, in linea di principio, si autogoverna, qualunque sia il regime politico di fatto vincente in un certo momento storico. Questa nozione non è molto diversa nel diritto romano: la libertas è un requisito della capacità giuridica che si acquista per nascita, se entrambi i genitori sono persone libere o, fuori dal matrimonio, se lo è la madre. La libertà a Roma poteva essere acquisita anche dagli schiavi, se liberati dal padrone (vedi la voce Liberto: →), cosa che non raramente accadeva. La legge codificava con precisione le situazioni che determinavano la perdita della libertà (per essere stati fatti prigionieri in guerra, o per reati commessi, o per altre ragioni) In tutti i sensi del termine libertà, c’è comunque un riferimento alla nozione di responsabilità, alla quale rimandiamo a completamento del discorso qui svolto (vedi la voce Responsabilità: →). Liberto A Roma, è lo schiavo liberato dal suo padrone, in genere attraverso la manumissio (manomissione), un negozio giuridico in seguito al quale l’ex schiavo acquisiva lo status libertatis. Il liberto manteneva rapporti col suo ex padrone (patronus), del quale prendeva prenome e nome, e verso cui manteneva alcuni obblighi di assistenza e di servizio. I liberti erano cittadini romani, ma mantenendo il nome che avevano da schiavi come cognome erano ancora identificabili (avevano anche alcuni obblighi che li rendevano identificabili in altro modo) e non potevano accedere alle massime cariche publiche. Le disposizioni relative ai liberti si modificarono in età imperiale. Vari filosofi e intellettuali, per lo più greci, furono a Roma prima schiavi e poi liberti (un caso celebre è quello di Epitteto: →). Libia Presso gli Egizi era così chiamata la terra dove abitavano i Libi, una popolazione che viveva su una parte della Libia dei nostri giorni. I Greci invece indicavano con questo nome genericamente tutta la costa africana aperta sul Mediterraneo, mentre per i Romani il nome Libia come identificativo di una provincia apparve soltanto al tempo di Diocleziano. Nella mitologia si chiamava Libia una ninfa collegata alle vicende mitiche dell’Africa settentrionale, avendo avuto da Poseidone due figli le cui vicende erano connesse con antiche narrazioni mitologiche greche sulla Fenicia e sull’Egitto. Il nome Libia venne ripreso in età moderna, mentre non venne utilizzato dopo la conquista araba dell’Africa Settentrionale avvenuta nel corso del VII secolo d.C. Libro In greco è biblion (la parola italiana viene dal latino liber). Dal punto di vista fisico si trattava per lo più di rotoli di papiro (la parola italiana volume deriva dal nome latino di questi rotoli, volumes, dal verbo volvo, avvolgo) oppure di codici, che a differenza dei rotoli erano formati da pagine legate insieme. Poiché la forma tipica per tutta l’antichità greco-romana della circolazione dei libri fu per lo più il rotolo di papiro (il codice aveva un uso diverso, per lo più privato), quando si dice che un’opera è in dieci libri significa che era composta da dieci rotoli di papiro, ciascuno dei quali conteneva una porzione definita dello scritto complessivo. Nel mondo antico non esisteva la nozione di diritto d’autore, e non c’era alcuna possibilità di tutelare i propri scritti da manomissioni, circolazioni con interpolazioni, e così via. Lo stesso termine latino auctor (cioè autore) indicava in un primo tempo il contributo personale che un autore dava a una tradizione antica e rispettata, per affermarsi solo col tempo per indicare lo scrittore unico di un testo. Questa situazione ha generato problemi filologici in parte insolubili, se non in modo puramente congetturale: - i frammenti che oggi leggiamo di opere perdute sono per lo più citazioni che un certo scrittore ha fatto di testi della tradizione precedente, in libri giunti sino a noi; ma quali parole o frasi esattamente siano dell’autore citato (spesso la citazione non è direttamente da un originale, ma da uno scrittore successivo che cita o sintetizza un originale) e quali dello scrittore che cita è spesso problema controverso, non essendo sentita nell’antichità la necessità di attribuire con esattezza la paternità di un testo; si veda su questo punto la voce Frammento (→). - molti testi della filosofia greca giunti sino a noi sono stati rivisti da filosofi o scrittori delle età successive, o ordinati e titolati in modo diverso dall’originale; è quindi molto difficile ricostruire la trama degli originali (il problema è particolarmente complesso per le opere di Aristotele); altri testi non sono stati rivisti dall’autore, ma da allievi, e parti potrebbero essere di mano loro (ad esempio testi di sintesi, o appunti di lezioni), ed è per noi quasi impossibile distinguere con certezza i due livelli dei testi; - le copie di antichi libri (cioè di rotoli di papiro) e di codici giunti sino a noi sono spesso di epoca medioevale, o comunque tarda rispetto al momento della stesura; dalla copia originaria i copisti hanno ricavato altre copie, e così via per secoli, fino a giungere alla copia giunta a noi; in questi passaggi possono essere intervenuti errori, come è inevitabile, o deliberate modifiche non dichiarate, o possono essere state inserite note che copisti successivi hanno riportato come parti del testo, e così via. Liceo / Aristotelismo In greco Lykeion. È la scuola filosofica fondata ad Atene da Aristotele in locali nei pressi di un tempietto dedicato ad Apollo Liceo. C’era anche un giardino e dei viali in cui passeggiare, e gli aderenti alla scuola erano anche detti Peripatetici, e Peripato il Liceo stesso, dall’abitudine di far filosofia passeggiando. Il Liceo rimase attivo nel corso dell’età ellenistica e il suo modello di organizzazione della ricerca venne utilizzato per la fondazione del Museo (→) di Alessandria. Assunse una direzione di ricerca di tipo sempre più strettamente scientifico, trascurando i temi di logica e di filosofia prima che Aristotele aveva invece curato. Il termine aristotelismo è moderno, e si riferisce alla ripresa della filosofia di Aristotele avvenuta in Occidente, in diverse fasi, nel XII-XIII secolo e nel Rinascimento. In Oriente invece c’è stata maggiore continuità con la traduzione antica, perché i filosofi arabi hanno continuato a leggere le opere di Aristotele quando con la fine dell’età tardo-antica ormai in Occidente non circolavano più. Ma il termine aristotelismo può essere utilizzato anche per la storia del Liceo e dell’influsso delle opere di Aristotele nell’antichità. Se usato in questo senso, dobbiamo distinguere due aspetti: - la vita del Liceo come istituzione ad Atene, che ebbe come primi scolarchi due figure di primo piano nel campo della ricerca scientifica, Teofrasto (→) e Stratone di Lampsaco (→), che impressero alla scuola un chiaro indirizzo rivolto allo studio delle scienze della natura (va anche ricordato che Aristotele aveva tenuto scuola in altri luoghi negli anni tra l’abbandono dell’Accademia e la fondazione del Liceo); - la storia delle opere di Aristotele e del loro influsso sulla filosofia antica: insieme alle opere pubblicate, anche gli scritti di scuola di Aristotele (in una forma diversa da quella con cui oggi le conosciamo) dovettero ancora circolare nel III secolo a.C. perché sembrano essere note ai filosofi dell’epoca (ci sono chiari indizi in Epicuro, ad esempio); furono poi pubblicate soltanto alla metà del I secolo a.C. da Andronico di Rodi (→), e questo diede luogo alla ripresa del loro studio e alla nascita di veri e propri commentari, quasi tutti per noi perduti, ma che dovettero essere in gran numero a giudicare dai titoli e dagli autori di cui ci rimane memoria; il più importante (allo stato delle nostre conoscenze) di questi commentatori antichi è Alessandro di Afrodisia (→). In estrema sintesi, lo studio delle opere di Aristotele nel mondo antico e quindi l’influenza delle idee di questo filosofo è stata maggiore nell’età tardo antica che nell’epoca immediatamente successiva a quella in cui visse. Va ricordato infine, per il mondo antico, che le opere di Aristotele furono riprese anche da Plotino in vari punti per i suoi commentari alle opere di Platone. Licurgo Licurgo è un personaggio semileggendario. Legislatore di Sparta, nel V secolo a.C. era ritenuto l’uomo che aveva dato le istituzioni alla sua città. In realtà la costituzione spartana e l’insieme delle istituzioni si formarono in un lungo periodo di tempo, tra l’VIII e il VI secolo a.C., e non si hanno precise notizie storiche su un unico legislatore, che comunque potrebbe esserci stato almeno per alcuni elementi e istituzioni. Nella leggenda Licurgo si sarebbe ispirato alle antiche tradizioni di Creta, e avrebbe poi cercato presso l’oracolo di Delfi la conferma della sua legislazione. Linguaggio / Linguaggi È un insieme ordinato e coerente di segni (→) che rimandano a un significato (→) e consentono in questo modo la comunicazione e il passaggio di informazioni. Poiché ogni segno indica qualcosa di diverso dal segno stesso, il linguaggio implica un passaggio tra due livelli: - il livello dei segni, che possiedono una loro struttura e una loro articolazione indipendente dal significato di ciascuno di essi (ad esempio una lettera dell’alfabeto o una parola, se intesa come un unico segno) e da quello che emerge dalla loro relazione (ad esempio una proposizione); - il livello della realtà che viene indicata dai segni, che ne costituisce il significato. Data la necessità del passaggio tra i due livelli perché vi possa essere comunicazione, non c’è linguaggio senza la mente; anzi, data la natura comunicativa ed espressiva del linguaggio, senza due menti che comunicano (tuttavia è anche corretto parlare al singolare perché ciascuna mente comunica con se stessa attraverso il linguaggio, e quindi è sufficiente una sola mente perché vi sia un realtà linguistica). Che cosa significa allora conoscere un linguaggio e comprenderlo? Significa saper fare due operazioni distinte: - in primo luogo significa conoscere (intuitivamente o in modo analitico) la struttura interna al linguaggio, ad esempio per il linguaggio verbale la grammatica e la sintassi; questa operazione non comporta ancora la comprensione del linguaggio, cioè il passaggio al significato: ad esempio, è possibile individuare in una lingua straniera la struttura grammaticale e sintattica (soggetto, verbo, complementi, e così via) prima di conoscere il significato delle singole parole e quindi della proposizione nel suo insieme; - in secondo luogo significa comprendere il significato dei segni linguistici nella loro complessa strutturazione, dunque significa passare dal segno al significato. Vi sono tante forme del linguaggio quanti tipi di segni: suoni, immagini, posizioni del corpo, e così via. Ad esempio c’è un linguaggio verbale che utilizza i suoni, uno scritto che utilizza segni grafici; c’è un linguaggio della musica e uno della danza, c’è un linguaggio del corpo e un linguaggio dell’architettura, e così via. Poiché il linguaggio è un modo in cui la mente organizza i segni e li usa per comunicare, e poiché ogni ente ed evento può essere un segno, la pluralità dei linguaggi nasce dalla pluralità delle forme comunicative che la mente elabora. Sui problemi filosofici legati alla nozione di linguaggio si vedano le voci Discorso e Filosofia del linguaggio (→) Linguaggio [Filosofia del] I problemi filosofici sul linguaggio che storicamente la filosofia greca ha posto sono solo alcuni di quelli che la filosofia delle epoche successive porrà. L’elenco che adesso proponiamo è quindi limitato alla filosofia greca. I sofisti e Socrate Benché la natura del linguaggio sia stata implicitamente esplorata dai filosofi precedenti (e in parte anche dalla riflessione dei poeti), sono stati i sofisti per primi a porre esplicitamente la domanda sulla natura della comunicazione verbale, chiedendosi quale sia il rapporto tra il linguaggio e la psiche umana (la loro risposta è che il linguaggio è una convenzione (→) e che esso ha sulla psiche un potere quasi magico, agendo come un incantesimo: →). L’interrogazione sofista sulla natura del linguaggio (vedi la voce Neutralità del linguaggio: →) ha un’eco nell’indagine socratica: nel corso delle sue indagini dialettiche Socrate chiede incessantemente “che cos’è?”, oppure “che cosa intendi con questo termine?”, invitando il suo interlocutore ad approfondire la comprensione dei segni. Questo genere di domande portano la filosofia socratica, se l’indicazione di Aristotele su questo punto è storicamente corretta, a porre il problema non solo del passaggio da una parola ad un ente d’esperienza o a un evento, ma anche a un concetto: in quanto il linguaggio è una via per esprimere nozioni universali, lo si può “percorrere” in senso opposto per passare dalla parola al concetto? il lavoro sulle parole è già lavoro sul concetto? (Vedi anche la voce Concetto: →) Platone Platone pone il problema del rapporto tra l’articolazione interna del pensiero umano, e quindi del linguaggio che lo esprime, e l’articolazione oggettiva delle idee. È un problema che viene esaminato negli ultimi dialoghi, ma è implicito in tutto il platonismo. Ad esempio, posta l’esistenza oggettiva ed eterna degli enti matematici, è ovvia la domanda sulla articolazione di questi enti nelle loro reciproche relazioni; in che rapporto sta allora la struttura linguistica della geometria come insieme discorsivo di assiomi, teoremi e dimostrazioni, e la struttura geometrica degli enti matematici in sé considerati? Il linguaggio è un modo umano per intenderli, traducendo una realtà altrimenti incomprensibile in segni comprensibili alla mente dell’uomo, o corrisponde effettivamente alla loro realtà? Aristotele Nella sua filosofia Aristotele ha dedicato al linguaggio studi specialistici, con l’elaborazione del primo corpus organico di logica (→) della filosofia occidentale. I problemi che ha posto sono moltissimi. In estrema sintesi: - nelle Categorie studia il rapporto di predicazione, cioè i modi in cui un predicato può essere attribuito ad un soggetto; in questo senso i problemi della filosofia del linguaggio posti da Aristotele sono anche problemi connessi all’identificazione della realtà: i predicati possibili sono infatti le 10 categorie (→), che non solo modi di dire la realtà attraverso il linguaggio, ma anche modi di essere della realtà; - in Dell’interpretazione studia il rapporto tra linguaggio, pensiero e realtà (le parole sono simboli delle modificazioni che l’anima subisce e attraverso cui conosce le cose, e queste modificazioni sono a loro volta immagini delle cose reali); è qui che Aristotele studia le proposizioni, a cui è possibile attribuire verità o falsità (in se stesse e in rapporto al loro significato, cioè alla realtà); - nelle Confutazioni sofistiche studia le ambiguità linguistiche che i retori sfruttano per confutare i loro avversari, mettendo così in atto artifici esclusivamente linguistici che è compito dell’analisi filosofica mostrare per quel che sono: ambiguità linguistiche utilizzate come arma in un confronto verbale. Le scuole ellenistiche Nei filosofi materialisti come Democrito ed Epicuro l’indagine filosofica sul linguaggio segue vie diverse perché la loro teoria generale sulla natura e sull’uomo si basa sul principio che non esiste nulla al di fuori degli atomi e del vuoto, e quindi ogni espressione della mente (e il linguaggio non fa eccezione) va ricondotta a questa base. I problemi esaminati sono dunque: - qual è l’origine storica del linguaggio umano e di quello degli animali? - qual è la natura del linguaggio rispetto alla realtà? la rispecchia o la duplica in modo più o meno arbitrario nella mente? - qual è la natura dei segni linguistici? sono pure convenzioni o rispecchiano una qualche forma di realtà? (La risposta è negativa: i concetti sono solo anticipazioni – prolessi – e i segni sono convenzioni.) Presso gli Stoici la logica ha avuto uno sviluppo piuttosto ampio, in direzione diversa da quella aristotelica, e vari aspetti riguardano la filosofia del linguaggio. Ne sottolineiamo uno, di particolare importanza per i suoi esiti: nello studio delle parole e delle proposizioni gli Stoici hanno sviluppato lo studio della grammatica (→) e della sintassi, giungendo a esiti che sono stati utilizzati negli stessi loro anni dai filologi delle Biblioteche di Alessandria (→) e di Pergamo (→). È in ambito stoico, ad esempio, che sono nate le classificazioni dei vari casi e l’ordine delle declinazioni con la terminologia che ancora oggi è in uso (nominativo, accusativo, e così via). Una particolare attenzione al linguaggio è stata poi posta dai filosofi scettici (vedi la voce Silenzio: →), ed anche gli Stoici hanno elaborato una complessa filosofia del linguaggio. Ma il campo problematico è rimasto invariato: l’ellenismo si è mosso con grande originalità di percorsi di ricerca, ma sul solco del problemi aperti dai filosofi precedenti. Nella prima filosofia cristiana invece il campo problematico si è ampliato soprattutto a partire da Agostino di Ippona. Linguaggio [Neutralità del] Questa dizione raccoglie due degli specifici problemi della filosofia del linguaggio (→) posti per la prima volta dai Sofisti il primo e da Aristotele il secondo: - qual è il rapporto tra il linguaggio e la verità? il linguaggio è neutro rispetto ad essa, perché può esprimere sia il vero sia il falso, restando logicamente coerente e dotato di senso, oppure c’è un nesso inestricabile tra verità e linguaggio? (i Sofisti si sono pronunciati a favore della neutralità del linguaggio); - se a natura della mente è linguistica, nel senso che il pensiero utilizza sempre un linguaggio per formarsi, per esprimersi e per essere comunicabile ad altri, le strutture del linguaggio influenzano il pensiero? Lira Antichissimo strumento musicale a corde, già in uso nel III millennio a.C. presso i Sumeri, poi presso gli Egiziani e altri, la lyra divenne di notevole importanza per la poesia e la musica greca. Accompagnava vari tipi di componimenti ed era associato al dio Apollo in contrapposizione agli strumenti legati alle musiche dionisiache, come l’aulos (→) e i tamburelli. La kithara (da cui l’italiano chitarra) era una lyra dalla forma e struttura più elaborata, avendo tra l’altro la cassa armonica di legno. Lirica La dizione lirica (sottinteso poesia) fa riferimento al fatto che nella poesia greca il canto dei versi in alcuni generi letterari era accompagnato dal suono della lira (→). Ma per convenzione oggi per lirica si intende un vasto genere di composizioni poetiche diverse dall’epica e dalla tragedia che venivano cantate o recitate, sempre con l’accompagnamento musicale di diversi strumenti, non solo della lira. I secoli di massima fioritura della lirica greca furono il VII e il VI a.C. Quando gli studiosi di epoca alessandrina misero mano all’ordinamento del patrimonio che giungeva loro da secoli di produzione poetica, distinsero la poesia lirica in monodica (composizioni intonate da una sola persona) e corale (da un gruppo guidato da un corifeo). Uno dei caratteri della lirica è il fatto che, al contrario dell’epica, il poeta parla in prima persona ed esprime emozioni e sentimenti personali. Logica Il termine greco è logike, studio del logos (→), cioè della facoltà umana del pensiero discorsivo, ben distinta dalla nous (→) come facoltà del pensiero contemplativo. Il termine si diffuse alla fine dell’età ellenistica, e quindi per quasi tutto il periodo della storia della filosofia greca non compare. Quanto il termine entrò nell’uso, si applicò soprattutto ai vari studi aristotelici raccolti nell’Organon e alla canonica stoica. Vanno quindi distinte - la logica come analitica (→), termine che in Aristotele indica il passaggio mediante l’analisi dalle conseguenze di un ragionamento alle premesse che lo fondano, e viceversa; - la logica come canonica (→), termine che nell’ellenismo indica la disciplina che studia il canone, cioè il criterio, per distinguere il vero dal falso. Prima di Aristotele e degli Stoici la disciplina che si avvicina alla logica in quanto studio del logos è la dialettica (→), che da Zenone, a Socrate a Platone ha assunto varie modalità e significati, ed è stata plicata a una grande quantità di ricerche, tanto sul pensiero quanto sulla realtà a cui il pensiero rimanda. E l’intero movimento di riflessione sul pensiero umano trova la propria origine in filosofia in due dei primi filosofi: in Eraclito per la sua riflessione sul Logos, in Parmenide per la sua indicazione dei principi di coerenza interna della ragione, impliciti nella sua analisi sull’essere. Si può quindi sostenere che la logica, nata come termine nella tarda età ellenistica e come nozione con Aristotele, ha radici che rimandano alla storia della filosofia sin dalle sue origini. Logografi Il termine era utilizzato in Grecia in due significati collegati, ma distinti. È composto da logos, qui nel senso di discorso, e grapho, scrivo. In un primo senso, si indicavano come logografi un gruppo di storici, precedenti alla grande storiografia del V secolo a.C. (Erodoto e Tucidide) o contemporanei, il cui lavoro mirava a ricostruire per iscritto le antiche tradizioni sulle fondazioni delle città, o sulle vicende degli eroi o su altri temi di interesse storico. Tucidide accusava questi suoi predecessori del VI e V secolo (Erodoto compreso) di prestare più attenzione al diletto dell’uditorio (questi scritti erano utilizzati come base per la lettura in pubblico) che alla ricerca della verità storica. Su questo punto vedi anche la voce Storiografia (→). In un secondo senso, che fa riferimento in genere al V e al IV secolo a.C., il termine logografi indicava gli estensori dei discorsi che andavano pronunciati in tribunale sia da parte dell’accusa che da parte della difesa: erano profesisonisti del settore, esperti di diritto e di retorica, che preparavano i testi che sarebbero stati letti dalle parti in tribunale, non essendo previsto nel diritto processuale greco la figura dell’avvocato. Logos Alle origini della cultura greca, il termine era riferito all’attività della mente che raccoglie in unità una molteplicità di esperienze e di informazioni ricavandone quella sintesi che è a fondamento del sapere umano, almeno nel senso in cui la saggezza e la sapienza di un uomo sono frutto di consolidata esperienza: “Logos deriva da legein, raccogliere, che in Omero esprime ancora sovente il sollevare e radunare oggetti concreti […]. Il sostantivo logos, già nei passi più antichi in cui lo incontriamo, ha un significato squisitamente spirituale. È l’espressione per quella attività dello spirito umano che consiste nel raccogliere, nel coordinare e nel combinare insieme le impressioni sensoriali, attività in cui rientrano anche il contare e il calcolare. […] In esso poteva anche essere incluso l’impulso all’agire razionalmente. Per ora rimanga acquisito ciò che è essenziale: il logos esprime in primo luogo una relazione col mondo circostante; indica lo spirito umano in quanto attivo in due direzioni, nel raccogliere il materiale empirico e nel rielaborarlo soggettivamente con l’ausilio delle capacità intellettive. Fu appunto l’unione di queste due funzioni a mettere i Greci in grado di dominare teoricamente il mondo esterno, a fare del logos il principio della loro scienza, ad assicurare a questa il successo” (Pohlenz, pp. 315-317). Dunque la radice di logos è la stessa di legein, che significa parlare, e in effetti un significato di logos è parola, o linguaggio (→) o discorso (→). È per il fatto che il linguaggio è legato al pensiero, che in esso si esprime (o si forma), che logos significa pensiero, o meglio attività razionale della mente. Ed è perché l’attività razionale è teorizzata da alcune filosofie greche come propria del governo del mondo, che il termine Logos in questi filosofi (Eraclito e Stoici in particolare) designa il principio razionale interno alla natura, che la anima con la sua energia e la indirizza con la sua capacità di previsione (vedi anche la voce Provvidenza: →). “Il logos è, della filosofia stoica, il concetto centrale, che soppiantò completamente, nella dottrina come nella terminologia, il Nous aristotelico. Perché? Nous e noein sono termini correnti già in Omero, e già in Omero indicano una funzione prettamente spirituale, distinta dalla percezione dei sensi. Il nous può poi essere concepito come sede effettiva della coscienza, in quanto solo per mezzo suo le impressioni sensibili giungono a livello della coscienza: «il nous vede, nous sente, tutto il resto è cieco e sordo», dice Epicarmo. Tuttavia, nella sua essenza, il nous non dipende dal mondo esterno: è lo spirito pensante, che opera anche senza organi sensori. Appunto per questo già in Parmenide il nous, indipendentemente dalla esperienza esterna, può cogliere il vero essere e ritrovarvi sé stesso. Per Platone è il nous che contempla le sedi iperuranie e le idee spoglie di ogni materialità. La filosofia di Aristotele trova il suo coronamento nella rappresentazione del nous divino, volto solo verso sé stesso […]. Il logos è cosa assai diversa. La parola, che nell’epica è ancora recente, ricevette il suo contenuto concettuale, non diversamente dal termine physis, ad opera del movimento spirituale sorto in Ionia col proposito di intendere e di dar forma al mondo mediante la ragione. Con la parola logos venne quindi connesso fin da principio il rapporto dell’uomo con il mondo esterno. Gli Elleni avvertirono dentro di sé la presenza di un intelletto che «raccoglie», riunisce e «somma» i diversi oggetti percepiti, le rappresentazioni, le impressioni, sì da conquistare per questa via la visione e la comprensione di un tutto; e poiché per il loro temperamento vivace e comunicativo il pensiero, il logos, consisteva essenzialmente in un dialogo con sé stessi e con gli altri, designarono al tempo stesso con la medesima parola anche quelle forme espressive che proprio allora stavano conquistandosi un posto accanto alla poesia ispirata: il discorso e il racconto organizzati razionalmente e costruiti in base ad un calcolo preciso. […] Ma per i Greci l’essenza del logos non si esaurisce nel conoscere e nel parlare. Non si può solo dire che una cosa è, ma anche che una cosa deve essere. Il logos non si arresta alla conoscenza, ma contiene anche l’impulso a operare. Solo partendo da questa funzione possiamo capire perché il logos divenne il concetto fondamentale della filosofia di Zenone ed ebbe un significato quale il nous non poté mai raggiungere. Per Zenone il logos non rappresentava soltanto la ragione pensante e conoscente, ma anche il principio spirituale che dà forma a tutto l’universo razionalmente e in base a un piano rigoroso, e fissa per ogni singola creatura la sua destinazione. Per Zenone, come per Eraclito, il logos regna tanto nel cosmo quanto nell’uomo e ci fornisce la chiave per cogliere non solo il significato del mondo, ma anche quello della nostra esistenza spirituale, e per conoscere il nostro effettivo destino. In questo modo esso indicava anche la via per arrivare ad una comprensione del divenire cosmico tale da soddisfare in egual misura il pensiero razionale di Zenone e il suo sentimento religioso” (M. Pohlenz, La Stoa). I problemi filosofici connessi con il termine logos sono ovviamente molti, perché entrano in gioco sia i temi della teoria della conoscenza che quelli della logica e della metafisica (si veda quanto abbiamo sintetizzato per la voce Nous: →). Se tuttavia vogliamo indicare il punto di incrocio di tutti i filoni di ricerca sul logos, allora è utile porre questa domanda: la ragione discorsiva dell’uomo, che si articola e si esprime mediante varie forme di linguaggio, trova riscontro in una forma di razionalità iscritta in natura o comunque esistente oggettivamente al di fuori della mente dell’uomo? Il logos è proprio della mente dell’uomo e si esprime nella razionalità attraverso il linguaggio. Questa razionalità, certo in una diversa forma, appartiene anche alla natura? Luciano di Samosata Singolare figura di scrittore greco di epoca imperiale romana, Luciano di Samosata (120 circa – dopo il 180 d.C.) visse a lungo da giovane tra Antiochia, dove esercitò l’attività forense, e varie località della Grecia, dell’Italia e della Gallia, per poi stabilirsi ad Atene, dove visse un ventennio a partire dalla metà del II secolo d.C., prima di trasferirsi, ormai anziano, in Egitto come funzionario imperiale, dove morì. Scrittore di successo, autore di romanzi, di dialoghi, di saggi, si caratterizzò come un moralista che guarda con occhio ironico, a volte satirico, ai comportamenti del mondo intorno a sé. La filosofia compare nella sua opera soprattutto come pratica di vita, a volte presa di mira con durezza satirica in questo o quel comportamento specifico. È autore anche di scritti filosofici in senso proprio, come il Negrino, in cui esalta la autentica vita speculativa, e l’Ermotino, in cui illustra il principio scettico della vanità di ogni fede filosofica. Lucrezio Vedi Epicureismo “L’uomo è la misura di tutte le cose” È il celebre detto di Protagora che istituisce nella filosofia occidentale la posizione sulla verità che ha poi assunto il nome di relativismo (→). Non conosciamo il contesto in cui la frase è stata scritta, né se questa “misura” riguardi solo la conoscenza o anche i valori morali. Macedonia Territorio montuoso posto a nord della Grecia propriamente detta, la Macedonia in età storica era comunque abitata da popolazioni vicine alla cultura greca, di cui però non è ben chiara l’origine etnica. I Macedoni erano solo una delle popolazioni che abitavano la regione, ma erano riusciti con una progressiva politica di espansione e di consolidamento a controllare e unificare tutte le altre etnie. Protagonista di questa politica di unificazione era stata la monarchia, mantenutasi in quest’area in età arcaica mentre in Grecia era scomparsa. L’avvicinamento alla cultura greca si intensificò nel V secolo, quando i re macedoni furono coinvolti in vario modo, ma in posizione marginale, nelle guerre della Grecia (sia la Guerra Persiana che quella del Peloponneso). La svolta avvenne sotto Filippo II, re di Macedonia alla metà del IV secolo a.C., e sotto il suo successore Alessandro Magno, che riuscirono a dare solidità al regno e a costruire e mantenere l’egemonia sulla Grecia e a lanciare poi l’attacco contro l’Oriente, rivendicando il ruolo guida su tutti i Greci in questa guerra. Dopo la morte di Alessandro Magno, il suo impero si frazionò fra i suoi generali, e la Macedonia tornò ad essere uno stato di rilievo regionale, prima di entrare progressivamente nella sfera di interesse dei Romani che, dopo la seconda guerra punica, si impadronirono in pochi decenni di tutta l’area, che nel 148 a.C. divenne poi provincia romana. La storia dei rapporti tra la Macedonia e la Grecia è importante ai fini dello sviluppo della filosofia greca per due ragioni: - perché sotto Filippo II e Alessandro Magno Atene perse la sua autonomia, e uno dei massimi filosofi greci del momento, Aristotele, era strettamente legato alla corte di Macedonia; tuttavia la visione politica di Aristotele e la sua filosofia risentirono poco, a quanto sembra dalle opere pervenuteci, del nuovo clima politico: per Aristotele è ancora la polis il luogo per eccellenza in cui ad uomini liberi conviene vivere; - perché dopo Alessandro Magno l’età ellenistica si sviluppò legando la Grecia all’Oriente, e consentendo la nascita di poli internazionali di assoluto prim’ordine per gli studi e la ricerca come Atene e Alessandria d’Egitto, oltre a diverse altre minori (come Pergamo, ad esempio). Maestri del sapere Con questa espressione Platone descrive i poeti. Il contesto è polemico, perché nella Repubblica Platone ritiene di poter argomentare a favore della tesi che si tratti di cattivi maestri, da non seguire, sicché nella città ideale la musica, le arti e la poesia saranno poste sotto controllo o bandite. Ma allo stesso tempo Platone intende descrivere una realtà di fatto, perché i giovani greci si formavano in effetti sui testi poetici, e le tradizioni dei padri erano tramandate per questa via e rese note a tutti nel contesto della cultura orale. Chi sia il vero maestro del sapere è il problema che è al centro della filosofia tra l’età dei Sofisti, di Socrate e di Platone. Sia i Sofisti che Platone ritenevano di essere loro questi maestri, i primi a favore della poesia utilizzata però solo come base di un sapere tradizionale da trattare con la massima libertà, il secondo contro questo sapere (che pure utilizza di continuo). È il tema centrale della pedagogia (→) e dell’educazione come problema filosofico (vedi la voce Paideia: →). Di fatto tutte le scuole ellenistiche si sono proposte come maestre del sapere, proponendo ciascuna una propria via filosofica per la vita e per la ricerca della felicità dell’individuo e della collettività, e un sapere teorico a supporto di questa via. Magia Il termine magia – in greco magike techne, arte magica – si è diffuso soltanto nella tarda antichità per indicare l’arte di operare prodigi, e in specifico di agire sulle cose, sugli uomini e sugli stessi dèi, dando così all’uomo un potere superiore al naturale. Nel mondo ellenistico si usava il termine magheia per indicare le pratiche dei sacerdoti persiani che perseguivano obiettivi di divinazione ed anche di guarigione (magia utilizzata come pratica medica): in questo senso i magi venivano confusi con gli astrologi e gli indovini caldei. Detto questo per i termini e le nozioni dell’epoca tra l’ellenismo e la tarda antichità – quando queste pratiche si diffusero anche nel mondo greco con l’ingresso di credenze e riti dall’Oriente, e il sorgere di nuove divinità e religioni –, va anche ricordato che forme di magia erano note ai Greci sin dai poemi omerici, e alcune figure del mito sono associate alla magia: Circe, ad esempio, ma anche Medea, sono maghe, e i loro poteri magici sono descritti come efficaci. Tuttavia per la maniera di sentire greca queste realtà magiche restarono sempre ai margini della loro sfera culturale. Anche la localizzazione geografica di queste figure è per lo più marginale rispetto allo spazio greco, e i loro poteri erano comunque limitati, e sottoposti a quelli degli dèi. Ben diversa la magia nell’età ellenistica, e soprattutto nel mondo tardo-antico, fortemente esposto a influssi religiosi nuovi e a pratiche a sfondo contrario alla tradizione razionalista (per le quali si usa abitualmente il termine irrazionale: →) Magna Grecia I Greci chiamavano Megale Hellas, e i Romani quindi Magna Grecia, dapprima la costa ionica dell’Italia meridionale, poi l’intera Italia meridionale colonizzata dai Greci tra l’VIII e il V secolo a.C. La Sicilia non entrava in genere entro questa indicazione geografica, che per noi è attestata per la prima volta in Polibio, lo storico greco che scrive nel II secolo a.C. in ambiente romano (verosimilmente, tuttavia, la dizione è parecchio più antica). Lo sviluppo della civiltà romana dovette molto all’incontro/scontro con i vicini Greci del sud. Ma la Magna Grecia non era tutta e solo greca: lo erano le coste, ma l’interno era abitato da numerose popolazione italiche, che entrarono in complessi rapporti coi Greci, non sempre ben chiari agli storici moderni per la scarsità delle fonti. La civiltà del meridione d’Italia in età romana risulta quindi dalla fusione, più o meno compiuta, tra l’elemento italico, l’elemento greco e quello romano. Magnanimità È nozione etica tipicamente greca, che non ha un preciso corrispettivo in italiano, se non in espressioni come avere un animo grande (etimologicamente a questa nozione del resto rimanda il termine greco che traduciamo con magnanimità, cioè megalopsychia, grandezza d’animo). La magnanimità è il tratto tipo della persona che sa elevarsi al di sopra della massa, ma sa anche considerare i propri limiti e l’effettivo pesa della propria grandezza, che è riscontrabile del resto nei fatti. Un uomo magnanimo è quindi in effetti un uomo grande (per potere, per ricchezza, per saggezza, e così via) che sa di essere tale, ma sa anche quanto sia facile eccedere o cadere in difetto, e non fa mai pesare agli altri la propria (effettiva e reale, e realmente esercitata) superiorità. Il magnanimo non è quindi umile: sa di essere in posizione superiore; ma è saggio, e non giudica dall’alto gli altri. Una figura di questo tipo è tratteggiata soprattutto nelle opere di Aristotele (una precisa descrizione della magnanimità è in Etica Nicomachea, IV-3) e nei frammenti degli Stoici, in toni e modi non molto dissimili. Va osservato che la figura dell’uomo magnanimo è erede delle caratteristiche degli antichi eroi (→), del tutto cambiati i tempi e le condizioni sociali, in un contesto non più mitico ma filosofico. Maieutica La maieutike (sottinteso techne) è in Grecia l’arte della levatrice. Nel Teeteto di Platone il personaggio-Socrate un po’ ironicamente, ma non troppo, paragona il proprio metodo filosofico al mestiere della madre, appunto levatrice. Solo che la nascita a cui allude Socrate non avviene nel corpo, ma nell’anima: con la sua dialettica, se i giovani che si rivolgono a Socrate per far filosofia insieme sono gravidi nell’anima, allora Socrate li aiuterà a partorire nuove e belle idee, senza insegnare loro nulla, ma facendo in modo che siano essi stessi a elaborarle fino a renderle coscienti e mature. Questa metafora è legata al rifiuto socratico di insegnare, e quindi di avere allievi, e al suo “so di non sapere” (→), e anche alla sua interpretazione dell’antico motto delfico “Conosci te stesso!” (→). Ovviamente non sappiamo se la metafora è di invenzione platonica, e quanto in generale vi sia di storico in questa immagine del maestro che l’anziano Platone propone (il Teeteto è un dialogo difficilmente databile, ma comunque in genere considerato dagli studiosi posteriore a quelli della maturità: è stato quindi scritto decenni dopo la morte di Socrate). Male Il termine greco kakon, che traduciamo con male, fa soprattutto riferimento, ma non in via esclusiva, al male morale, cioè al male commesso dall’uomo con una precisa scelta (pienamente consapevole o meno). Ma vi sono altri tipi di mali oggettivi in natura, la cui comprensione nell’ordine del tutto è difficile. Nel mito Il mito conosce bene il problema del male (perché esiste?) e ne dà due soluzioni: una imperscrutabile, associandolo alla Moira, al destino che governa uomini e dèi, che non dà certo spiegazioni per i suoi decreti; l’altra associandola agli dèi, da cui “tutto proviene”, sia il bene sia il male. Già nel mito il problema della responsabilità umana di fronte al male è posto: attraverso varie figure dell’epos e della tragedia ci si interroga sulle radici del male (ad esempio nell’Antigone di Sofocle, in particolare nel celebre Secondo Stasimo), sulla responsabilità individuale (ad esempio nel Libro I dell’Odissea sulla scelta di Egisto di vendicare la morte del padre Agamennone uccidendo la madre che aveva assassinato il marito). In filosofia Il problema ritorna in termini etici soprattutto nel V secolo a.C. ed è esplicitamente posto da Socrate che, col suo intellettualismo etico (→), nega che l’uomo scelga consapevolmente il male, assumendo una posizione largamente condivisa nella cultura greca a lui precedente e successiva, ma non da tutti. Una visione pessimistica sulla natura dell’universo fisico e sulla stessa natura umana è assunta – sulla scorta di elementi pitagorici – da Platone che nel Fedone parla del corpo come prigione dell’anima: la sfera della fisicità è vista in contrapposizione con la perfetta e immutabile realtà delle idee, e l’anima umana è concepita sospesa tra queste due realtà. Il male è tutto da una parte, nelle passioni che legano l’anima al corpo: nel celebre mito della biga alata (→) del Fedro questa concezione è resa nella figura del cavallo nero, indomabile e passionale, che punta in basso (verso le passioni del corpo) e non in alto (verso la pura contemplazione delle idee). Questa visione lacerata dell’uomo, sospeso tra pulsioni contrapposte che lo portano sia verso il male che verso il bene, non rimane nelle filosofie successive. Per Epicuro il male è solo una sensazione, come il bene, e non ha alcuna realtà diversa dal fatto che un certo evento venga percepito come male piuttosto che come bene; la regola è dunque semplicissima: evitare i mali e cercare i beni, e su questa base è costruita una teoria del piacere (→) e dell’utile (→). In Epicuro il male non ha realtà oggettiva, ma nemmeno il bene, perché l’universo è solo composto da atomi e spazio vuoto e non è caratterizzato da nessun valore etico. Per gli Stoici invece il Tutto è intrinsecamente bene, ed è governato da una forza perfetta e buona, il Logos. La loro soluzione del problema del male è quindi lontana da quella epicurea: gli Stoici semplicemente negano che esista nella natura delle cose. Ciò che chiamiamo male è tale solo perché non ne capiamo la necessità nell’ordine del tutto: in realtà è un frammento (da noi non compreso come tale e considerato isolatamente) del bene universale. Se applicato alle scelte dell’uomo, il male non è qualcosa di oggettivo, ma di soggettivo: nasce dalla mancata indipendenza dell’io dalle passioni. Se l’io mantiene la sua indipendenza, niente e nessuno può fargli del male. In tutte queste teorie sul male, il significato del termine è comunque sempre su due piani, variamente connessi: - il piano del male fisico (dolore, malattia, e così via); - il piano del male morale (la colpa). Naturalmente il problema del male può essere esaminato anche da un punto di vista diverso, giuridico, e per questo aspetto rimandiamo alla voce Filosofia del diritto (→). Mania La mania, o divina mania in Platone, è il delirio ispirato da un dio. Il campo semantico collegato al termine va da profezia a divinazione, da poesia ad amore, tutte nozioni che hanno una comune radice nel delirio di origine divina. Va però ricordato che nella mitologia greca Mania è una dea associata alla pura e semplice follia, quindi una divinità dai caratteri estremamente inquietanti: ad esempio gli dèi mandano Mania, che fa letteralmente impazzire gli uomini, quando non osservano i riti o incorrono in altre colpe. Nella catena di sciagure che ne seguono, i Greci leggono in controluce la mano degli dèi. Quando Platone associa la mania all’ispirazione, compie una operazione di sintesi tra la mitologia e la filosofia, mantenendo gli antichi tratti inquietanti in un contesto che tuttavia è positivo. Mantica Di particolare importanza soprattutto per la comprensione di vari passi dei dialoghi di Platone, in cui la mantica è spesso citata, e degli scritti stoici appartiene tuttavia ad un universo culturale diverso da quello della filosofia, con cui tuttavia la filosofia mantiene complessi rapporti. La mantica (in greco mantike, termine reso in latino divinatio) è l’arte di potenziare le facoltà di conoscenza dell’uomo – e quindi l’intelletto – rendendo la mente capace di accedere a un sapere superiore all’umano. Dato questo obiettivo, la filosofia le è contraria per i suoi aspetti irrazionali (vedi la voce Irrazionalismo: →), ma non le è contraria negli obiettivi. E il razionalismo tipico dei Greci, che si è espresso nella filosofia, ha influenzato a sua volta la mantica. Maratona (Battaglia di) Demo dell’Attica a 42 chilometri a nord di Atene, ai bordi di una pianura aperta sul mare, Maratona è uno dei luoghi simbolici della Grecia antica perché qui si combatté nel 490 a.C. la battaglia decisiva della prima fase delle Guerre Persiane (→). I Persiani attaccavano con truppe trasportate via mare, e scelsero per lo sbarco la baia di Maratona perché a nord di Atene offriva la possibilità di un buon approdo e la pianura rendeva difficile ai Greci la difesa contro la forte cavalleria persiana. Il comandante delle forze ateniesi, Milziade, che poteva anche contare sull’appoggio di forze plateesi (mentre i rinforzi spartani giunsero a battaglia vinta), scelse una strategia d’attacco che sorprese i Persiani: molto inferiore di numero, attaccò a sorpresa mentre la cavalleria nemica stava ancora preparandosi alla battaglia, sicché non poté avere alcun ruolo. I Persiani furono costretti a imbarcarsi nuovamente, e puntarono allora ad un attacco diretto contro Atene, che supponevano scarsamente difesa. Quando giunsero in vista del porto del Falero, trovarono Milziade e i suoi uomini schierati a difesa: le truppe ateniesi avevano intuito il pericolo e avevano compiuto un veloce dispiegamento. I Persiani si ritirarono senza attaccare. Marco Aurelio Vedi Stoicismo Mare A parte l’Oceano (→), che appartiene prima alla sfera del mito, poi a quella dei tentativi scientifici di rappresentare le terre emerse (vedi la voce Cartografia: →), il mare era per i Greci una fonte indispensabile di vita e di lavoro, e come tale legato a moltissimi racconti mitologici. Popolato da Ninfe e altre creature marine e divine o semidivine che vivono sulle sue sponde (come Scilla, Cariddi, le Sirene, per indicare alcuni degli “incontri” di Ulisse nelle sue peregrinazioni descritte nell’Odissea), abitato da dèi potenti come Nereo (→) e molto temibili come Poseidone (che nell’ordine imposto da Zeus del mare è il signore, così come Zeus lo è dei cieli), il mare è spesso al centro dei racconti del mito. È però anche oggetto di ricerca scientifica: Aristotele, che è stato un grandissimo biologo marino, ha studiato a fondo gli esseri viventi che lo popolano. Per i Greci costituiva un serio problema anche spiegare come mai si ritrovassero in montagna fossili di evidente origine marina (conchiglie, pesci, e così via). Questi ritrovamenti diedero luogo a varie teorie sull’origine delle rocce e in generale sulla formazione della natura nell’aspetto in cui la vediamo. Marmo Pario La dizione si riferisce a una stele di marmo ritrovata nell’isola di Paro di cui rimangono frammenti. Originariamente era di ampie dimensioni, circa 2 m per 70 cm. Vi erano iscritti molti dati sulla storia greca, in parte mitici (dalla metà del I millennio a.C. all’età di Omero), in parte storici (per i secoli successivi fino alla metà del III a.C.) in una prospettiva ateniese, e questo ha lasciato pensare che quella ritrovata fosse una copia a Paro di un originale prodotto ad Atene. L’autore è ignoto, e si suppone che la stele sia stata scolpita intorno al 245 o poco prima. Marsia Nella mitologia greca Marsia è un sileno (→) associato all’invenzione del flauto a due canne. L’area in cui le vicende della sua vita si snodano è la Frigia. Ad Atene invece l’invenzione del flauto a due canne era attribuita ad Atena, che però avrebbe gettato via lo strumento essendosi accorta, rispecchiandosi in un fiume, che le sue gote si deformavano nel suonarlo. Alla sua proibizione di raccoglierlo non avrebbe obbedito Marsia, che anzi se ne sarebbe servito così bene da divenire un virtuoso dello strumento, fino a sfidare lo stesso Apollo con la sua lira. Apollo avrebbe accettata la sfida e, una volta vinta, avrebbe punito Marsia appendendolo a un pino, o a un platano, e scorticandolo. Una tradizione dice che il dio si pentì poi della sua ira, e trasformò il sileno in un fiume. Dietro questo mito si cela la contrapposizione tra due tipi di musica, collegati al suono del flauto (Marsia) e della lira (Apollo). Il flauto infatti era lo strumento dei riti dionisiaci, la lira è lo strumento apollineo per eccellenza. Massime e sentenze Il genere è in sé una variante dell’aforisma e della forma gnomica (gnome in greco è la sentenza) di derivazione poetica legata alla tradizione orale. Ha assunto un notevole sviluppo in età ellenistica – ma già Democrito le propone – ed è legato all’identità che la filosofia ha assunto nell’Ellenismo. Così le massime e le sentenze - sono simili all’aforisma, ma prive di ambiguità, distanziandosi quindi in modo certo consapevole dalla tradizione eraclitea, ma anche oracolare, sapienziale, e simili; - hanno tutte un orientamento pratico, e anche quando richiamano specifici punti della teoria l’obiettivo è comunque indicare una via all’azione o alla riflessione; - espongono in modo piano e semplice le regole della scuola, apprese altrove, non attraverso le sentenze stesse, proponendosi come ausilio della memoria; - le figure retoriche legate a questo genere sono, come nelle lettere dottrinali, per lo più similitudini o metafore di immediata lettura, cioè figure che hanno come obiettivo la chiarezza: non servono a colpire, a interessare, a stupire; la loro funzione è diversa, sicché non vi si trova spesso quel tratto caratteristico del "pensiero aforistico" che condensa in una frase o in una parola o in uno scontro di parole un mondo di pensieri. Degli elementi formali della tradizione rimangono due cose: la estrema brevità in un contesto formale legato all’oralità che apparenta questi testi alla poesia (e ne facilita quindi la memorizzazione); la radicalità delle tesi che vengono sostenute, con stile a volte piano, a volte tagliente, a volte ostile. Qual è la funzione di questi testi? In quale rapporto stanno con le lettere dottrinali e con i trattati, cioè con gli altri generi che abitualmente gli autori delle sentenze e delle massime hanno utilizzato? La pratica di vita proposta dalle scuole ellenistiche è fondata su un preciso criterio-guida: la costante applicazione dei princìpi dottrinali (in sé teorici) alle scelte individuali (del seguace della scuola) e collettive (delle comunità di seguaci). Perché questo possa accadere, questi princìpi dottrinali devono essere sempre presenti alla mente, indipendentemente dalle ragioni filosofiche che ne determinano la validità, ed indipendentemente dalla ricerca filosofica in quanto tale. Certo, al momento opportuno chi sceglie di vivere secondo i dettami di una certa scuola filosofica ne studierà la dottrina; a seconda dei suoi interessi la approfondirà fino al punto da potere discutere i dettagli tecnici con i seguaci di altre scuole; farà anche ricerca, a volte, all’interno della cornice della dottrina. Ma tutto questo a monte della pratica di vita. Per quella serve qualcosa di diverso: serve avere sempre presenti i principi della scuola, serve potere richiamare la frase giusta al momento giusto, a seconda della situazione in cui ci si trova a vivere, in modo da essere sempre pronti ad affrontare l’esistenza con le chiavi interpretative corrette per vivere una vita felice. La funzione delle massime e delle sentenze è legata allora alle pratiche individuali di ricerca della felicità, così come le lettere dottrinali sono legate alle pratiche collettive, proprie delle scuole; ma mentre le lettere hanno una funzione formativa, non solo pratica (perché servono a dare ai seguaci della scuola le corrette chiavi di lettura della realtà, utili poi nella pratica), massime e sentenze non hanno un funzione formativa, ma di rapido richiamo. Da qui la loro struttura formale. Per un quadro generale dei generi letterari della filosofia antica si veda la voce Generi letterari della filosofia antica (→). Matematica Il termine greco mathema, che intorno al VI-V secolo a.C. venne applicato alla scienza dei numeri e delle figure geometriche, in origine indicava l’insieme delle conoscenze che derivano dall’esperienza o, più in generale, il sapere. Le conoscenze matematiche in epoca arcaica greca derivavano da due fonti: - una prima fonte erano le conoscenze che in questo campo l’Oriente aveva raccolto ed elaborato a partire dal III Millennio a.C., soprattutto nel campo della geometria e dell’astronomia: osservazioni accurate del moto dei pianeti (utili a vari scopi, dalla definizione del calendario agli studi di astrologia), metodi empirici per la costruzione dei sistemi di canalizzazione delle acque e per l’agrimensura, e così via; molti teoremi erano già stati enunciati, ma per lo più non dimostrati sulla base di una compiuta teoria matematica; - una seconda fonte erano le esperienze di lavoro degli architetti e degli artigiani, che per il loro lavoro avevano bisogno di conoscenze matematiche, anche se solo di tipo empirico. Il contributo che la filosofia diede allo sviluppo della matematica tra il VI e il V secolo a.C. - prima prima dell’amplissimo lavoro teorico che portò due secoli dopo agli Elementi di Euclide (III secolo secolo a.C.) e al lavoro teorico di Archimede di Siracusa – fu proprio il passaggio da una visione empirica della matematica alla elaborazione di una coerente teoria. Questo passaggio è il riflesso, in campo matematico, della nascita stessa della filosofia, che da Talete in poi non si muove più soltanto sul piano della raccolta dei dati, ma tenta di interpretarli da un punto di vista teorico, e quindi in primo luogo razionale. Materia Nella filosofia precedente ad Aristotele non esiste un termine specifico per indicare la materia come nozione comune a qualsiasi ente fisicamente esistente. L’assenza di un termine corrisponde in effetti alla assenza del concetto: la nozione di materia, infatti, come realtà omogenea e separata dalla mente nacque nel IV secolo a.C. in ambito platonico-aristotelico quando la differenza tra la sfera della fisicità e quella della mente e delle idee portò a teorie che postulavano l’esistenza di realtà diverse, l’una solo materiale, l’altra solo spirituale. I filosofi precedenti, in particolare i naturalisti e i pluralisti, non avevano posto questa distinzione: ad esempio il termine Nous in Anassagora designa sì la Mente che governa e plasma l’universo fisico, ma non è concepita in termini che possano essere definiti materiali o spirituali: è una energia intelligente che opera all’interno della physis senza tuttavia mescolarsi con le “omeomerie”. Anche il mito era sulla stessa linea. Hyle-Chora Non è quindi un caso se il termine greco per indicare la materia come ciò di cui sono fatti i corpi (indipendentemente da quanti tipi di materia esistano) compare per la prima volta in Aristotele: è hyle, che prima di Aristotele significava bosco, o legno come materiale da costruzione. Aristotele estende il senso di questa parola alla realtà fisica di qualsiasi corpo. Quello di materia è in Aristotele un concetto molto complesso perché non c’è mai la realtà fisica di un corpo senza che ci sia il corpo, ma nessun corpo è formato solo da questa realtà fisica: qualsiasi corpo ha anche una forma (→), cioè una struttura che dà alla materia una architettura (queste nozioni possono essere comprese solo nel contesto generale della teoria aristotelica della sostanza (→). Subito prima di Aristotele una diversa nozione di materia era stata proposta dai filosofi atomisti per risolvere il problema parmenideo della conciliazione tra l’immutabilità dell’essere e il continuo movimento in natura che forma e disfa l’individualità dei corpi. Democrito aveva postulato – su basi esclusivamente razionali e non empiriche – l’esistenza di atomi pieni che si muovono nello spazio vuoto. In Democrito, come in Epicuro che riformula con varianti non secondarie l’atomismo, la materia piena non esiste da sola: la sua esistenza implica lo spazio vuoto. Ma l’atomismo non aveva affatto bisogno della nozione di materia separata da qualcosa che materia non è, perché non contrapponeva la fisicità dei corpi a enti non fisici (il pensiero e la coscienza sono ricondotti all’attività dell’anima che è anch’essa un aggregato di atomi). Contemporaneamente a Democrito, Platone aveva utilizzato il termine chora per indicare un principio eterno, informe e preesistente al cosmo, che nel mito del Timeo il Demiurgo utilizza per far nascere i quattro elementi e dar forma, sul modello delle idee, all’universo materiale ordinato. La chora è quindi sì materia, ma nel senso di ricettacolo originario di tute le forme possibili. I problemi filosofici Dato questo quadro, che diede luogo tra il III secolo a.C e il III d.C. a nuove teorie generali sulla materia (in particolare quella degli Stoici e quella di Plotino), è possibile sintetizzare in breve i problemi filosofici che questo concetto pone: - innanzitutto la risposta alla domanda “che cos’è?”, difficile per varie ragioni; ne ricordiamo due: i filosofi greci erano ben consapevoli che non era possibile avere esperienza della struttura della materia perché sarebbe stato necessario avere dati su particelle troppo piccole per le capacità dei sensi dell’uomo; erano poi altrettanto consapevoli del fatto che la materia in quanto tale è impensabile, perché la mente pensa pensieri (sensazioni, immagini, idee, non cose materiali se non attraverso una loro duplicazione sul piano della rappresentazione o della teoria); - c’è poi il problema dell’origine della materia: è soggetta al tempo, ma è sempre esistita? se non lo è, come si è formata? - in ultimo, è un problema comprendere come la materia, di cui il corpo umano è parte, interagisca con la sfera spirituale: è la materia a determinare le condizioni per la nascita della coscienza come vogliono i materialisti? o viceversa è il mondo spirituale a governare la materia, come vogliono i miti platonici e molte altre teorie successive? L’impostazione di alcuni di questi problemi implica la separazione della materia dall’energia spirituale. Ma non tutte le scuole accettano questa separazione. Ad esempio non la accettano gli Stoici, e neppure gli Epicurei. Matrimonio Né il matrimonio (gamos) né la famiglia sono approfonditamente studiati nella filosofia greca. Spesso citati, sono visti come un fatto privato, legato quindi a considerazioni etiche o di opportunità, piuttosto che per la loro rilevanza sociale. Del resto uno dei caratteri della polis antica era proprio il fatto che, pur mantenendo un ruolo importante per la famiglia, sottolineava il ruolo del cittadino come individuo. Quanto ai figli, raramente entrano nella riflessione dei filosofi se non per i problemi educativi che non riguardano però solo i genitori o la famiglia, ma la società intera, trattandosi di educare dei cittadini (per questo rimandiamo alla voce Paideia: →). Detto questo, va sottolineato che le indicazioni che i filosofi greci danno sul tema del matrimonio per la figura del saggio sono per lo più improntate alla più grande prudenza. Nello Stato ideale tratteggiato nella Repubblica Platone prevede per le classi dirigenti non la formazione di una famiglia nel matrimonio, ma la comunanza delle donne, e quindi dei figli. Epicuro considera il matrimonio una fonte di problemi, e il saggio che voglia vivere una vita felice farà bene a privilegiare la comunità degli amici piuttosto che la famiglia, che tuttavia non viene negata. Chi invece è ostile alla vita nel matrimonio sono i Cinici, che col loro tipico stile diretto e tagliente lo considerano “niente” (la considerazione si estende anche al desiderio di avere figli). Valutazione più positiva è presso gli Stoici, che lo considerano un passo utile, ma non certo indispensabile, sulla via della saggezza. Medea Inquietante figura del mito, protagonista di una celebre tragedia di Euripide (la Medea: →), Medea è sposa di Giasone, il capo della spedizione degli Argonauti, e figlia del re Eeta della Colchide, nonché pronipote della maga Circe. È anch’essa dotata di poteri magici. Quando Giasone giunge nella Colchide coi suoi compagni alla ricerca del Vello d’oro, il re Eeta rifiuta di consegnarlo; così Afrodite ed Eros fanno in modo che la figlia Medea si innamori di Giasone e gli metta a disposizione i suoi poteri magici, con cui Giasone riesce a sottrarre il Vello d’oro e a fuggire. Medea lo accompagna nella fuga con la promessa del matrimonio una volta giunti in Grecia. Inseguiti dal fratello, Giasone e Medea lo uccidono in circostanze drammatiche e riescono a fuggire. Anni dopo, sposatasi con Giasone e avuti due figli da lui, Medea viene ripudiata dal marito e si vendica uccidendo la rivale e i due figli avuti da Giasone. Medea (Euripide) Titolo di una tragedia di Euripide, del 431 a.C., appartenente al ciclo degli Argonauti. Antefatto: Giasone guida la spedizione degli Argonauti per riportare in Grecia, dalla Colchide, il vello d’oro. La decisione non era stata presa per spirito di gloria o avventura, ma per necessità. Iolco, la città di cui il padre Esone era re, è stata usurpata dal fratellastro Pelia; quando Giasone fa ritorno a Iolco non viene riconosciuto perché vestito in modo strano e con il piede sinistro scalzo. Pelia, avvisato da un oracolo, comprende di doversi guardare da tale personaggio. Giasone, dopo aver chiesto udienza a Pelia per reclamare il regno, riceve da Pelia come risposta che il regno sarebbe stato restituito se il nipote fosse riuscito a riportare in Grecia il vello d’oro, impresa difficilissima. Giasone quindi parte a bordo della nave Argo per raggiungere la Colchide dove il re Eete, padre di Medea, custodisce il vello. Quando Giasone arriva, Medea si innamora di lui e, dopo aver sconfitto i suoi dubbi, prende la decisione di aiutare Giasone nella sua impresa, tradendo però in questo modo il padre, custode del vello. L’ira di Eete è terribile e Medea, per salvarsi e per amore di Giasone, abbandona la patria ed fugge con lui. La nave Argo sta per essere raggiunta dal padre Eete e Medea, pur di fermarlo, non esita ad uccidere il fratello Assirto, che si trova con lei sulla nave, e a gettare in mare le membra del corpo per costringere il padre ad interrompere l’inseguimento al fine di raccogliere ad uno a uno i “pezzi” del cadavere del figlio. Gli Argonauti sono così riusciti a tornare a Iolco; nel frattempo Pelia ha ucciso il padre di Giasone. Questi deve ora vendicare il padre e lo fa grazie all’intervento di Medea che con uno stratagemma manda a morire Pelia per mano delle figlie di lui. Giasone e Medea devono così abbandonare Iolco e, come esuli, raggiungono Corinto insieme ai loro due figli. Medea, donna straniera e sospetta perché dotata di superiore sapienza, è dunque a Corinto, ma una nuova minaccia incombe sulla sua vita: Giasone la vuole abbandonare per sposare Glauce, figlia di Creonte, re di Corinto. Medea, tradita, ingiustamente abbandonata, arrabbiata, disperata, isolata, medita vendetta. La nutrice, conoscendo profondamente l’animo di Medea, teme che questa possa compiere qualche tremenda azione. Così, quando giunge un vecchio schiavo, informando la nutrice che i figli di Medea saranno, per volontà di Creonte, banditi dalla città, la nutrice, sentendo avvicinarsi la minaccia, raccomanda al vecchio di tener lontano da Medea i suoi figli. Per consiglio del Coro la nutrice entra nel palazzo per condurne fuori Medea e permetterle di parlare con persone amiche, le donne del coro, che possano calmare il suo furore. Medea denuncia il destino di tutte le donne, e soprattutto il suo destino. Privata di parenti, di amici, di patria, giunta al delitto per l’uomo amato, ora sta per perdere anche lui. Una sola cosa chiede Medea al Coro: il silenzio sul suo proposito di vendetta. Giunge Creonte che intima a Medea di lasciare quello stesso giorno la città, coi suoi figli. Medea, fattasi calma e umile, domanda ragioni e supplica, ma il re le dice di temere la sua presenza, per sua figlia e per Giasone e tanto più la teme quanto meglio essa sa, perfidamente, farsi mansueta. Ma quando Medea gli chiede ancora un giorno, un giorno solo per prepararsi a partire, egli finisce col concederglielo, pur con un oscuro e negativo presentimento. Rimasta sola, Medea invoca ogni sua forza d'animo e di magia per preparare a Glauce e Giasone “nozze amare”. Giasone cerca di convincere Medea che le nozze con Glauce potrebbero essere un’opportunità per i figli e che lei stessa, se non fosse così violenta, potrebbe continuare a vivere a Corinto. Dopo queste meschine parole, la vendetta di Medea può compiersi: la donna invia a Glauce, attraverso i figli, in dono un peplo e una ghirlanda d’oro, intrisi di un magico veleno, che farà morire la fanciulla appena li avrà indossati e chiunque poi la toccherà. Glauce muore così insieme al padre che tenta disperatamente di salvarla. La vendetta non è però ancora conclusa: Medea deve colpire Giasone in ciò che ama più profondamente, i figli. La donna, piangendo, bacia i figli, in un andirivieni di commozione profonda unita al proposito di portare a termine il suo progetto. Medea dunque agisce: uccide i suoi figli con le proprie mani. Furente arriva Giasone, ma è troppo tardi. Medea si leva con i corpi dei figli sul carro del Sole, suo progenitore, durissima di fronte allo strazio di Giasone, ritenuto unica causa della sciagura a cui viene negato anche di dare sepoltura ai figli. Medicina È l’insieme delle conoscenze teoriche e delle tecniche che consentono il trattamento e, nei limiti del possibile, la cura delle malattie. Perché i medici, che in Grecia erano una categoria professionale di cui vedremo tra poco i caratteri, possano operare è indispensabile identificare che cosa sia la malattia ed elaborarne la nozione, cosa non facile perché malattia come evento naturale e punizione divina sono nozioni difficili da distinguere nell’universo tradizionale della cultura del mito. Tuttavia già in età omerica, e poi per tutto il corso dell’età arcaica, i medici erano nettamente distinti in due diverse tipologie: - c’era la medicina legata ai templi, che curava per lo più con pratiche rituali, sia che la malattia avesse una origine naturale, sia che ne avesse una riconosciuta come divina (fermo restando che gli dèi greci non sono soprannaturali, ma parte della natura stessa in cui vive l’uomo); c’erano molti tipi di cure, tra cui celebre era l’incubazione (→); - c’erano poi i medici laici, figure che con passare dei secoli acquisirono una professionalità sempre più precisa e rispettata, che operavano con farmaci ed eseguivano interventi di vario tipo sul corpo del malato. C’era poi una terza categoria non esattamente di medici, ma di guaritori: seguivano antichissime tradizioni popolari, in parte magiche, e si muovevano di polis in polis col loro bagaglio di saperi al confine tra religione e magia. Intorno al V secolo a.C., in perfetto parallelismo con quanto stava accadendo in diverse altre discipline scientifiche (ad esempio la matematica: →), la medicina subì una radicale svolta nel mondo dei medici laici, fermo restando che la medicina dei templi proseguì il suo corso (e così le pratiche dei guaritori). Accadde che - i medici si organizzarono in scuole stabili e si diedero un metodo per la ricerca, che si basava sia sulla raccolta sistematica dei dati d’esperienza (con il conseguente studio dei casi e la ricerca dell’identificazione delle singole malattie), sia su procedure razionali per l’interpretazione dei dati: celebre in questo contesto è la Scuola di Cos (→), il cui medico più celebre fu Ippocrate; - nel contesto della definizione di un metodo razionale l’attività del medico venne precisata come mirante a tre obiettivi riguardo alla malattia e al malato: l’anamnesi, la diagnosi e la prognosi (cioè lo studio del quadro generale dell’ammalato e del suo passato sanitario, l’identificazione della sua malattia e la previsione del suo decorso), per poter orientare la cura. Va ricordato che sia nel contesto delle scuole mediche (alcuni filosofi del V secolo a.C. furono anche medici o coinvolti in ricerche in campo medico: ad esempio Empedocle e Anassagora) sia in altri ambiti di ricerca naturalistica si andavano affinando anche le conoscenze sulla fisiologia umana. Medioevo ellenico Con questa dizione gli storici dell’antichità si riferiscono all’epoca tra il XII secolo a.C., quando crollò la civiltà micenea e scomparve la pratica della scrittura nell’Egeo, e l’VIII secolo a.C., quando la civiltà ellenica ricomparve nelle testimonianze scritte e nell’archeologia in forme notevolmente diverse, organizzate intorno a strutture urbane di tipo nuovo, le poleis (vedi la voce Polis: →). Medioplatonismo All’inizio del XX secolo gli storici della filosofia antica hanno cominciato a usare la dizione medioplatonismo per indicare la tendenza alla ripresa dello studio dei dialoghi di Platone da parte di un vasto gruppo di filosofi che hanno operato tra il I e il II secolo a.C. dopo l’età degli ultimi filosofi accademici (Filone di Larissa, Antioco di Ascalona) e di Cicerone che, nel mondo latino, ne aveva discusso l’opera. A parte l’autore di un manuale di introduzione alla filosofia di Platone dal titolo Didaskalikos, per noi ignoto, le figure più rappresentative sono quelle di Numenio di Apamea (→) e di Plutarco (→). Il medioplatonismo non ha unità dottrinale, e ciascun filosofo segue una sua strada nella lettura di Platone. Il termine è stato coniato perché è utile distinguere questi platonici dal successivo neoplatonismo (→), le cui origini sono per noi oscure perché abbiamo scarsissime notizie della formazione di Plotino, con cui per noi quest’ultima scuola ha effettivamente inizio. I medioplatonici hanno comunque alcuni tratti in comune: una concezione sistematica della filosofia, la ricerca di unità di dottrina nelle opere di Platone, nonché l’interesse preminente per la teologia. Meditazione filosofica Nella vita filosofica effettivamente praticata nel mondo antico la meditazione era una pratica collettiva o individuale sempre connessa ad una sorta di dialogicità implicita (ne vediamo traccia, ad esempio, in certi testi di Seneca sulla felicità, sulla vecchiaia o sulla morte): chi medita, lo fa dialogando con sé o con altri. La meditazione assume molti volti, a seconda delle scuole, ma ha una caratteristica comune: non è un percorso di ricerca, ma di applicazione della ricerca (cioè della filosofia come discorso teorico) alla vita (intendendo la filosofia come pratica di vita: per queste nozioni vedi la voce Filosofia: →). Il filosofo in meditazione raccoglie tutto il suo spirito (non solo la mente e non solo le facoltà intellettive) in un tempo dedicato, in luoghi opportuni, in situazioni adatte, sicché tutta la persona ne risulta coinvolta. In questo raccoglimento - che assume i toni della sospensione del flusso normale della vita quotidiana, con il suo carico di esigenze, tensioni, problemi - il filosofo rivede la propria vita applicando a questa sua riflessione i princìpi della scuola filosofica a cui appartiene. La meditazione è quindi caratterizzata da - profondo raccoglimento interiore, sia che la si pratichi in solitudine che in una comunità di vita filosofica; - acquisizione di una dimensione interiore di distacco dall’urgere della vita e dalle sue esigenze, e dunque implica una certa esperienza del tempo diversa da quella abituale; - coinvolgimento di tutta la persona e di tutte le sue facoltà (la meditazione ha quindi una dimensione fisica, una emotiva, una intellettuale); - acquisizione di un ritmo della vita interiore che consenta l’equilibrio delle proprie facoltà. Che cosa fa in concreto il filosofo in meditazione? A seconda delle varie scuole la risposta è diversa, ma il tratto comune è quello che prima abbiamo indicato: riflette con grande concentrazione sulla propria vita o su aspetti dell’esperienza individuale o collettiva, in rapporto al senso complessivo del tutto di cui l’uomo è parte, secondo l’interpretazione che di questo rapporto danno i principi della scuola. Quel tratto specifico della filosofia che consiste nel legare l’esperienza particolare alla natura universale, trova nella meditazione una delle sue applicazioni pratiche più tipiche, come mostra anche il sentire comune, che spesso rappresenta il filosofo, appunto, in meditazione. Meditazione filosofica [Genere letterario della] Come genere letterario a se stante, la meditazione filosofica offre pochi esempi nell’antichità, non perché la meditazione non sia diffusa, nella pratica di vita come nella scrittura filosofica, ma perché è espressa all’interno di vari generi letterari piuttosto che in uno specifico: ad esempio la nozione di meditazione può essere applicata a un non piccolo numero di testi, o parti di testi antichi, dal Fedone di Platone a vari scritti degli Stoici e dei neoplatonici, nei più diversi generi letterari. Tuttavia vi sono testi in cui la meditazione assume una veste letteraria propria, come nei celebri Ricordi di Marco Aurelio. Lo scritto in realtà ha per titolo A se stesso, e ben a ragione, perché i molti brevi testi di cui si compone sono singole meditazioni condotte con un metodo rigoroso. Infatti in testi di questo tipo il filosofo - riflette, concentrandosi nella propria interiorità, sugli eventi quotidiani di cui è stato testimone, o protagonista, o osservatore; - richiama alla mente i principi della scuola (nel caso di Marco Aurelio è lo Stoicismo) che possono essere applicati al caso su cui sta meditando; - lega le proprie esperienze e i principi della scuola mediante una trama di riflessioni su di sé, che utilizzano anche le potenzialità del linguaggio per immagini, in particolare le similitudini e le metafore. Per un quadro generale dei generi letterari in filosofia nell’antichità si veda la voce Generi letterari della filosofia antica (→). Megara Era una antica e importante polis greca, che sorgeva in posizione chiave per le comunicazioni all’interno della Grecia e tra i mari che la circondavano. Aveva porti che si aprivano sia sul Golfo di Corinto che sul versante dell’Attica. L’origine della città è dorica e un tratto caratteristico della sua storia tra l’VIII e il VI secolo a.C. è il fatto che da qui partirono coloni che fondarono poleis sia verso Oriente che verso Occidente. Ebbe una storia piuttosto travagliata, anche per la sua posizione al centro delle vie di terra e delle rotte di mare, e subì più volte distruzioni radicali sicché dell’antico splendore restano oggi tracce molto scarse. Ha un’importanza particolare per la storia della filosofia e per la storia della cultura greca in genere perché qui fiorirono diverse scuole e varie tendenze artistiche, che così sintetizziamo: - per il V secolo a.C. si parla di farsa megarese per indicare una tradizione di teatro popolare precedente alla commedia attica (di cui non si sa bene se fu uno dei modelli, poi modificato) che consisteva in giochi d’improvvisazione legati a maschere dai tipi fissi, sulla base di una comicità nettamente popolare e burlesca; - a Megara fiorì poi una scuola storica, la cui produzione ci è pervenuta per frammenti, con caratteri nettamente antiateniesi (la città aveva difficili rapporti con Atene e al tempo della Guerra del Peloponneso parteggiò per Sparta); - a Magara fiorì poi una scuola filosofica (vedi Scuola Megarica: →) fondata da Euclide di Megara, amico e allievo di Socrate. Megarici Sono detti Megarici i membri della Scuola megarica, una delle scuole socratiche (→) che si formarono dopo la morte del maestro avvenuta nel 399 a.C. Venne fondata da Euclide di Megara, un allievo di Socrate che Platone nel Fedone dice essere stato presente al momento della morte del maestro, quindi appartenente alla cerchia più stretta dei suoi amici. Il tratto caratteristico dei Megarici, che fiorirono per tutto il IV secolo, è la commistione fra la tradizione socratica e quella della Scuola di Elea, in particolare di Zenone e del suo metodo di confutazione. Le figure più importanti della scuola sono Eubulide di Mileto, Stilpone di Megara (→) e Diodoro Crono. Memoria Nella mitologia greca Mneme, o Mnemosyne, è la dea che incarna la memoria. Appartiene al gruppo delle dee più antiche, in quanto figlia di Urano e di Gea (si veda la voce Teogonia: →). Madre delle nove Muse, nate in seguito a nove notti d’amore con Zeus, attraverso le sue figlie la memoria degli eventi primordiali giunge sino agli uomini attraverso i canti, sicché Mnemosyne è legata alle esperienze originarie della vita del cosmo. Associata alla dea della memoria è però anche Lethe (→), l’oblio, alla cui voce rimandiamo per il legame tra Mnemosyne e il mondo degli Inferi. In filosofia il tema assume un rilievo importante nelle ricerche sulla fisiologia animale e sulla conoscenza umana di Aristotele, che la studia soprattutto nel breve trattato Su memoria e reminiscenza, distinguendo: - la memoria come capacità di trattenere nella mente le rappresentazioni, studiata nel contesto della facoltà sensitiva e quindi legata al corpo (questo spiega perché anche gli animali hanno una memoria); - la reminiscenza, come capacità di richiamare, a partire da una rappresentazione presente, una rappresentazione precedente, che implica un processo di tipo razionale ed è quindi tipicamente umana. Ad una base esclusivamente fisica della memoria pensano le scuole ellenistiche (soprattutto Epicurei e Stoici), mentre ad una base esclusivamente spirituale pensa Plotino, che la lega alla psyche e non al corpo. In sintesi, i problemi che la filosofia antica ha affrontato sulla memoria sono i seguenti: - l’identificazione delle diverse tipologie di memoria e lo studio fisiologico e psicologico della loro formazione e del meccanismo che le governa; - l’identificazione della natura stessa della memoria, con un rimando alle basi fisiche o psichiche dell’uomo. Menadi Figure mitologiche associate a Dioniso, sono coi Satiri (→) le protagoniste dei riti dionisiaci. Sono rappresentate come donne invasate nell’estasi dionisiaca, che si abbandonano a danze scomposte al ritmo di musiche orgiastiche (gli strumenti musicali delle Menadi sono per lo più il flauto e il tamburello). In quanto espressione della natura selvaggia, sono associate alle belve, che esse soggiogano: sono quindi raffigurate in forme femminile coperte da leggeri veli in posizione di danza orgiastica, o trasportate da pantere da loro soggiogate o con lupacchiotti che esse abbracciano. Col nome di Menadi si chiamavano anche le donne che partecipavano ai riti dionisiaci (→). Mente Vedi Nous Mentitore (Paradosso del) È uno degli argomenti contro la possibilità della mente umana di costruire un discorso razionalmente rigoroso. Si prenda l’affermazione “Io sto mentendo”; si cade in contraddizione sia se è vera, sia se è falsa: se è vera, chi pronuncia la frase si contraddice perché afferma di stare mentendo; se è falsa, si contraddice egualmente, perché è falso che sta mentendo, quindi dice la verità. Nella filosofia greca questo celebre paradosso ci è stato riportato in molte varianti. Quella originaria risale alla Scuola di Megara, e più esattamente ad un suo esponente della metà del IV secolo a.C., Eubulide di Mileto (→). Meraviglia Il legame tra la meraviglia (in greco thaumazein) e lo sviluppo della conoscenza nell’uomo, fino all’impulso che lo porta alla filosofia, è sottolineato da Aristotele, sulla base di tradizioni precedenti, anche platoniche. Il riferimento è a quell’atteggiamento dello spirito umano che porta a non considerare ovvie e scontate le cose e gli eventi, ma a chiedersi come mai esistono e sono come sono. Meravigliarsi è quindi l’atteggiamento interiore di chi non si accontenta della superficialità e dell’abitudine, ma pone domande e vuol capire. Metafisica Non usato dai filosofi greci, il termine è però greco e indica i libri di Aristotele da leggersi dopo quelli della Fisica (la dizione meta ta physica significa letteralmente dopo la fisica). A ordinare in questo modo gli scritti aristotelici fu Andronico di Rodi nel I secolo a.C. in quella che fu la prima edizione del corpus aristotelico, per la parte delle opere “essoteriche”, cioè scritte per un uso interno alla scuola e non destinate alla pubblicazione. Di recente studi filologici hanno portato a pensare che il termine possa essere più antico, ma si tratta di congetture. Nell’accezione che adesso diamo al termine, è entrata nell’uso solo a partire dalla diffusione in Europa delle opere del filosofo arabo Averroè nel Medioevo, che con questo termine (tratto da Andronico) indicava quella che Aristotele chiamava invece filosofia prima (→): la scienza dell’essere in quanto essere che, in un ordinamento generale delle scienze, è a fondamento del sapere scientifico stesso: “Ora, poiché noi ricerchiamo proprio questa scienza, dovremo esaminare di quali cause e di quali princìpi sia scienza la sapienza. E forse questo diventerà chiaro, se si considereranno le concezioni che abbiamo del sapiente. Noi riteniamo, in primo luogo, che il sapiente conosca tutte le cose, per quanto ciò è possibile: non evidentemente che egli abbia scienza di ciascuna cosa singolarmente considerata. Inoltre, reputiamo sapiente chi è capace di conoscere le cose difficili o non facilmente comprensibili per l’uomo (infatti la conoscenza sensibile è comune a tutti e, pertanto, è facile e non è affatto sapienza). Ancora, reputiamo che, in ciascuna scienza, sia più sapiente chi possiede maggiore conoscenza delle cause e chi è più capace di insegnarle ad altri. Riteniamo anche che, tra le scienze, sia in maggior grado sapienza quella che è scelta per sé e al puro fine di sapere, rispetto a quella che è scelta in vista dei benefici che da essa derivano. E riteniamo che sia in maggior grado sapienza la scienza che è gerarchicamente sovraordinata rispetto a quella che è subordinata: infatti, il sapiente non deve essere comandato ma deve comandare, né egli deve ubbidire ad altri, ma a lui deve ubbidire chi è meno sapiente” (Aristotele, Metafisica). Metafora / Metaforizzazione Tra tutte le figure retoriche, la metafora è con la similitudine la più importante al fine della esposizione della filosofia nei testi antichi, ed entra da protagonista in luoghi in cui il pensiero è in formazione, comportandosi come uno strumento del pensare e non solo come strumento di esposizione del pensiero già formato. In questo senso si parla - di metafora per indicare la figura retorica presente in un testo filosofico; - di processo di metaforizzazione per indicare una particolare forma del pensiero che si esprime, al termine del suo percorso di formazione, mediante una metafora. La metafora consiste in una forma particolarmente contratta di elementi d’esperienza o di concetti (o di catene di questi elementi) in una sola immagine, che assume quindi il ruolo di snodo attraverso cui il pensiero può passare liberamente da un’esperienza all’altra, o da un concetto all’altro, associandoli. Si parla di processo di metaforizzazione perché l’associazione di due elementi a vario grado di astrazione come sono le esperienze, le immagini e i concetti, consente al pensiero di muoversi per gradi, istituendo passaggi immediati e, per così dire, semplificati, tra di essi. In questo modo concetti complessi e molto astratti possono essere raggiunti a partire da esperienze concrete e quotidiane, e il percorso può essere compiuto anche in senso inverso: questo spiega perché il linguaggio dei filosofi in meditazione è, almeno in qualche caso, particolarmente ricco di metafore veicolate attraverso immagini. Va sottolineato che le metafore e i processi di metaforizzazione sono connessi con la sfera delle emozioni, che possono essere espresse per questa via dando al pensiero per immagini una specifica tonalità emotiva. Metaponto Colonia achea fondata a partire da città del Peloponneso nel VII secolo a.C. (ma fonti antiche parlano di coloni greci di diversa provenienza), Metaponto divenne presto una polis molto florida, soprattutto a causa del suo entroterra agricolo e della sua posizione lungo le rotte battute dai mercanti. Nelle sue monete i simboli della città erano, coerentemente, la spiga e la dea Demetra (→). Posta sul Golfo di Taranto tra le foci di due fiumi, il Bradano e il Basento, sul bordo di una fertile anche se piccola pianura (era quindi priva di acropoli, e l’area sacra sorgeva a nord-est del tessuto urbano), la città aveva in età classica una pianta perfettamente ortogonale (gli isolati rilevabili ancora oggi dai resti archeologici misurano m. 190 x 35) ed era tra le più ricche della Magna Grecia, anche se non tra le più potenti dal punto di vista militare. Nel territorio circostante, a forte vocazione agraria, sono state rilevate tracce di una fitta e regolare rete di canali, nonché di fattorie, tempietti, santuari extraurbani, necropoli, che lasciano pensare ad una cura secolare del territorio. La storia della città è legata, da punto di vista militare, soprattutto ai conflitti con le altre città greche. In età romana era però già fortemente decaduta perdendo, come diverse altre città greche, l’antico splendore, testimoniato ancora adesso dai templi che sorgono nella sua area. Ci viene tramandato che Metaponto ospitò Pitagora dopo che questi fu costretto a lasciare Crotone, e divenne quindi uno dei centri più importanti di diffusione del pitagorismo. Meteci Erano così chiamati nelle poleis greche gli stranieri che risiedevano stabilmente, per lo più per lavoro o per altre ragioni, in città. Erano uomini liberi, ma non godevano di pieni diritti politici nella città che li ospitava. Nei regimi democratici i meteci, non essendo cittadini, non partecipavano all’Assemblea e alla vita politica con un ruolo attivo. Soprattutto ad Atene la figura dei meteci era regolata favorevolmente dalla legge: avevano diritti (e doveri) intermedi tra quelli dei cittadini e quelli degli stranieri non residenti. La figura dei meteci era molto importante dal punto di vista economico; le poleis greche, dall’economia vivace in senso produttivo e mercantile, avevano interesse a far affluire in città persone con competenze specifiche in molti campi, dall’artigianato al mondo degli affari e del commercio. Diversi filosofi importanti, ad esempio Aristotele, erano meteci. Per queste ragioni in decine di città greche la figura dei meteci era ammessa e regolata favorevolmente dalle norme. A Sparta però non era ammesso agli stranieri di fissarvi stabilmente la loro residenza. Metempsicosi In greco metempsychosis, letteralmente passaggio delle anime (l’anima è psyche). È l’antichissima credenza religiosa, attestata in Grecia per l’Orfismo (→), presente in ambito filosofico dai Pitagorici, da Empedocle e da Platone nei suoi miti, sulla vita dell’anima dell’uomo prima della nascita e dopo la morte, cui segue una nuova reincarnazione in una nuova vita (non necessariamente umana). Metis Dea antica, dei primordi, è la prima sposa di Zeus. Il suo nome indica l’intelligenza astuta, la prudenza, ma anche (se inteso in senso negativo) la macchinazione e il disegno di chi agisce nell’ombra con mosse ben calibrate. Gea e Urano (vedi la voce Teogonia) rivelarono a Zeus che Metis gli avrebbe dato una figlia, e dopo un figlio, e quest’ultimo lo avrebbe spodestato. Per impedire che questo accadesse, Zeus inghiottì Metis, tenendola così dentro di sé per averne i consigli. In Zeus quindi la forza si unisce all’intelligenza astuta. Metodo Traduciamo con metodo il termine greco methodos, che in filosofia indica le tecniche con cui si fa filosofia, cioè si pongono i problemi e si studiano le strategie di ricerca per giungere ad una soluzione. In questo senso caratterizza la filosofia come sapere di tipo specialistico, in quanto utilizza metodi che le sono propri e la distinguono dalle altre discipline: ad esempio Platone e Aristotele contrappongono in modo radicale le loro tecniche di ricerca (che sono più d’una e non sovrapponibili per i due filosofi) a quelle di scuole che non considerano appartenenti al mondo della filosofia, come quella di Isocrate (→), finalizzata alla formazione dei politici e del personale giuridico e basata sull’uso di metodi retorici. E Platone può contrapporre il rigore dei metodi dialettici all’eristica sofista, escludendo anche per il metodo utilizzato la sofistica dall’ambito di ciò che va chiamato autenticamente filosofia. Abbiamo scarse informazioni sui metodi della ricerca filosofica prima della scuola di Elea e dell’età dei sofisti, per la scarsità dei frammenti pervenutici. Ma già nel Poema sulla natura di Parmenide, che dal punto di vista espositivo è una rivelazione, è evidente l’interesse per il rigore dell’argomentazione razionale, che implica un ordine mentale e quindi un metodo. In Zenone questo metodo assume la veste di una tecnica di confutazione, da cui prende le mosse la storia della pratica più celebre e specifica della filosofia antica, la dialettica (→), alla cui voce rimandiamo (non prima però di avere ricordato che non si tratta di un solo metodo, ma di una sorta di famiglia di metodi). Aristotele dedica molta attenzione ai metodi di ricerca della filosofia, differenziandoli a seconda della possibilità di fondarli su conoscenze certe (come è il caso della metafisica e della matematica) o solo su opinioni ben fondate (come è il caso di discipline come l’etica). E l’Organon stesso, in quanto studia le forme del pensiero e del linguaggio, implica la definizione delle regole di metodi rigorosi per condurre con ordine la propria ragione. Al metodo di ricerca filosofica le scuole ellenistiche, scetticismo compreso, dedicano indagini specifiche: dal metodo delle spiegazioni multiple (→) di Epicuro alla logica stoica, dal silenzio di Pirrone al rigore della procedura di analisi della coscienza di Plotino, la filosofia antica ha offerto un vastissimo campionario di metodi di indagine filosofica. Va poi ricordato che le scuole ellenistiche hanno anche studiato metodi, per così dire, didattici per chi desidera accostarsi alla filosofia per viverla, non per fare ricerca specialistica. Gli esercizi spirituali (→) della tradizione antica appartengono a quest’area di lavoro filosofico. Mezzo / Fine La nozione di fine – in greco telos – ha nella filosofia greca, soprattutto con Aristotele, due valenze: - una è riferita all’uomo (e in parte anche al mondo animale): è lo scopo di una azione, e quindi è la ragione che conferisce senso; - una è riferita a oggetto prodotti dall’uomo, e alla natura stessa: il fine spiega le ragioni per cui ciascun ente è fatto com’è fatto. Nella sua dottrina delle quattro cause (→) Aristotele ne conclude che il fine è una causa (causa, appunto, finale), perché è necessario capire qual è il fine di un’azione, di un ente e della natura stessa per comprendere le ragioni per cui esistono nel modo in cui esistono e non in un altro. Questa visione finalistica (vedi la voce Finalismo: →) della natura è tipicamente aristotelica e, in un senso diverso, stoica; è stata respinta da altre scuole, in particolare dalle scuole materialiste. Questo per quanto riguarda gli aspetti relativi all’essere delle cose e delle azioni. Il tema del rapporto mezzo-fine è stato però visto dai filosofi greci anche sotto altri punti di vista: - dal punto di vista delle tecniche e quindi della nozione di arete, la virtù intesa nel senso tradizionale di capacità specifica, l’accento non è posto sui fini, ma sulla padronanza dei mezzi: l’artigiano e l’uomo che vale, ciascuno con la propria arete, sono in grado di raggiungere i propri obiettivi (comunque e per qualsiasi motivo posti) scegliendo i mezzi adeguati e padroneggiandoli; - dal punto di vista etico, il rapporto tra i mezzi e i fini è decisivo, perché non è assolutamente sufficiente porre il fine (ad esempio la felicità o la libertà, fini su cui i filosofi greci in generale concordano pur attribuendo loro significati non sempre sovrapponibili), ma è indispensabile organizzare la propria vita in modo da disporre di mezzi adeguati per raggiungere i fini (ad esempio gli esercizi, spirituali e non, per i Cinici e gli Stoici, il calcolo degli utili per gli Epicurei, e così via). Mimesi Vedi Imitazione Misteri [Religioni dei] La religione dei Greci – così come ci viene presentata dai grandi poeti, soprattutto Omero ed Esiodo che per primi ordinarono gli antichi miti in una forma teologica elaborata e raffinata – è strettamente legata alla città ed alla vita in comunità. Non è una religione privata, non nasce da un impulso del cuore. Il culto è essenzialmente pubblico. Accanto a questa sorta di “religione di Stato” (l’espressione è moderna) sono esistite varie altre forme religiose, senza che questo fosse sentito particolarmente come una contraddizione: il politeismo ammette senza problemi una molteplicità di culti. Accanto agli dèi del pantheon tradizionale – dèi universali, cosmici, che i Greci riconoscevano venerati anche da altri popoli, sebbene con altri nomi – esisteva una miriade di culti locali, legati a forze divine o semi-divine, la cui sfera d’azione era limitata a particolari zone: ad esempio, dove si veneravano antiche tombe di eroi nasceva un culto in onore di questi uomini, considerati come semidèi, dispensatori di fortuna o di sventure; oppure ciascuna città poteva venerare singole divinità, protettrici del luogo. Una forma diversa di culto era poi riservata a divinità particolari, come Dioniso, che chiedevano un rapporto personale e privato tra il fedele e il dio. Affine a questo tipo di culto, ma con caratteristiche particolari, erano le cosiddette religioni dei misteri (mysteria). A fianco degli esercizi propri della religione ufficiale, in determinate località si svolgevano riti privati, a cui partecipavano gruppi di fedeli che erano stati iniziati a verità particolari: una forma di culto non pubblica, quindi, non rivolta a tutti i cittadini, ma solo a coloro che aderivano ad essa, ispirati dalle rivelazioni particolari della divinità. Uno di questi culti era però non privato, ma pubblico e panellenico. Si svolgeva di notte – alla luce della Luna e delle fiaccole, in una atmosfera di forte suggestione, a giudicare dalle narrazioni tramandateci – presso il tempio di Eleusi, nelle vicinanze di Atene: sono i cosiddetti misteri eleusini (vedi la voce Eleusi: →), dei quali sappiamo poco anche perché chi vi partecipava era vincolato al segreto sulle verità rivelate dalla divinità. Nel corso di queste cerimonie notturne il fedele entrava in diretto rapporto col dio, ne sentiva in sé la presenza. È chiaro che la religione ufficiale, che pure rispondeva alle aspettative politiche della città, non poteva soddisfare del tutto le esigenze religiose e spirituali dei cittadini, perché non consentiva la piena espressione di quel sentimento religioso che in ogni tempo è connesso con la fede. I culti misterici, privati o pubblici – non universali certo, ma adatti a particolari esigenze di gruppi di persone –, consentivano una diversa partecipazione al mondo divino, che i Greci sentivano presente ovunque intorno a sé, nella natura. Alcune sette non erano in contrasto con gli ordinamenti pubblici e convivevano apertamente con la religione ufficiale della pólis. Altre, invece, si opponevano allo stile di vita della città e tendevano a isolarsi, formando comunità molto chiuse. Per la filosofia, particolare importanza riveste la setta che si richiama al nome di Orfeo (→), il mitico cantore, ritenuto autore di testi sacri che si tramandavano di generazione in generazione, cui si attribuiva anche una discesa agli Inferi. Misteri Eleusini Vedi Eleusi Mito I miti (in greco mythos, termine che in origine significava tanto discorso quanto progetto, nel senso di macchinazione, per poi precisarsi nel senso di racconto sugli dèi e gli eroi) sono narrazioni, presenti in un numero straordinariamente grande di culture su tutti i continenti (quindi in pressoché totale mancanza di contatti per millenni, per alcune aree). Gli oggetti di queste narrazioni sono, in estrema sintesi: - le origini dell’universo (miti cosmogonici), che riguardano quindi non solo la Terra, ma anche gli astri, in un contesto che è divino in pressoché tutte le culture; - le forze della natura e il mondo divino che è ad esse connesso; - la nascita, l’identità e le prerogative degli dèi (il mondo del mito è quasi in ogni caso politeista); - la vita degli eroi, che spesso sono concepiti vivere in un contesto di stretti rapporti tra l’umano e il divino; - determinati ambienti della natura supposti popolati da forze superiori all’umano (il mare, le fonti, i fiumi, gli antri, e così via); - le fondazioni delle città. Per ogni cosa da spiegare, il mito ricorre ad un racconto. Miti filosofici Questa dizione appare in sé intimamente contraddittoria, perché la filosofia si è proposta sulla scena della cultura greca in antitesi al mito, indiuca una diversa direzione di ricerca e di fonte della verità: non gli antichi racconti dei poeti, ma l’esperienza e la ragione umana. Tuttavia i poeti greci utilizzavano anche il racconto – nelle molte varianti del mito che consentivano anche adattamenti a problematiche nuove - come veicolo di riflessioni e di indagini sull’uomo e sulla sua cultura, ad esempio anche sui più scottanti temi del diritto, della morale e, in particolare, sull’attualità politica. Ad esempio i grandi tragici greci del V secolo a.C. hanno trattato – da poeti, e non da filosofi – una tale massa di problemi di rilievo filosofico che un certo numero di figure da loro portate sulla scena (ad esempio due tra le più celebri: Edipo e Antigone: →) sono state al centro di dibattiti filosofici in varie epoche, compresi gli ultimi due secoli. Non è dunque accaduto che, comparsa la filosofia, la poesia abbia esaurito il suo ruolo nell’ambito della riflessione etica, giuridica, politica, e più in generale abbia abbandonato la pratica della riflessione sui problemi di senso e di valore. Così per i filosofi il mito si è rivelato, se non una fonte di conoscenza, almeno - una fonte di riflessione capace di porre con forza questioni di grande rilievo filosofico, anche se non di risolverle; - un mezzo per esporre questi problemi, ma anche per tentare vie di indagine che sfruttassero le potenzialità del pensiero per immagini (→). Già nei sofisti quest’uso del mito è ben delineato: Gorgia usa ad esempio la figura mitologica di Elena per una riflessione filosofica, condotta con uno stile letterario particolare e raffinato (come sempre nei sofisti), sul ruolo della parola e del discorso, nonché implicitamente su concetti etici e giuridici quali la responsabilità individuale per le proprie scelte; e Protagora nel Protagora platonico utilizza un mito per esporre una sua argomentazione a favore della tesi che la virtù sia insegnabile. Questi richiami al mito, o nuove elaborazione di antichi miti, non contrastano affatto col carattere razionale della filosofia, perché sono uno strumento di comunicazione efficace, non una fonte di conoscenza. E si comunica in molti modi, a seconda delle finalità che si vuole raggiungere. Nei suoi dialoghi Platone ha fatto un uso molto ampio, e di rilievo filosofico centrale, di miti filosofici che hanno caratteristiche diverse da quelle cui abbiamo prima fatto cenno per i Sofisti: - pur richiamando a volte singoli elementi o figure della tradizione, sono miti (stando allo stato attuale delle nostre conoscenze) di libera invenzione platonica; il loro autore sfrutta pienamente quella libertà che i poeti avevano di rielaborare il mito, ma essendo per lui qualcosa di molto diverso da una fonte di conoscenza, estende questa libertà fino a fare dei miti pure creazioni letterarie autonome da ogni tradizione (benché connesse con questa o quella tradizione, spesso per noi perduta); - nei miti platonici non vengono esposte argomentazioni o teorie compiute e definitive, cioè proposte al termine e come esito di un percorso di ricerca, ma vengono visualizzati percorsi dialettici di ricerca: il mito platonico non sta a sé, ma è parte di una complessa trama di dialogo (la dialettica come metodo di ricerca filosofica). Serve per fare ricerca, non per esporre una teoria già elaborata. Modello Il termine greco è paradeigma, da cui l’italiano paradigma (in latino exemplar). Anche archetipos, da cui l’italiano archetipo, è utilizzato nel senso di modello, soprattutto in Plotino. In greco paradeigma rimanda alla radice deik-, legata all’atto del mostrare, mentre la preposizione para indica un’origine: il modello è quindi ciò che si mostra rispetto a un’origine. Il termine è tipicamente platonico e viene utilizzato in vari suoi dialoghi per indicare le idee eterne in quanto sono il modello rispetto ai quali intendere le cose sensibili. Nel mito cosmogonico descritto nel Timeo è il Demiurgo a plasmare la materia informe prendendo come modelli proprio le idee, fino a dar forma all’universo fisico che conosciamo. La stessa nozione, ma con un articolazione diversa, torna in Plotino, che raddoppia a volte il termine paradeigna con archrtypos, ad esempio quando scrive “L’intelletto è l’archetipo e il paradigma di questo mondo” (Enneadi, III, 2) La nozione filosofica di modello rimanda quindi ad una differenza radicale sul piano dell’essere tra la realtà delle essenze perfette ed eterne – in quanto sono idee, si usa l’espressione essenze ideali – e la realtà effettuale e sensibile dell’universo fisico soggetto al tempo. Trasferendo questo schema al rapporto tra la sfera ideale della teoria (ideale in quanto composta da idee della mente che rimandano a quelle eterne) e la possibilità pratica di realizzarla, Platone usa il termine modello (paradeigma) anche per indicare la teorizzazione dello Stato ideale nella Repubblica. L’uso del termine stabilisce implicitamente un parallelo col rapporto tra idee e cose: come le cose sensibili sono realizzazioni imperfette del modello ideale perfetto delle idee corrispondenti, allo stesso modo gli Stati storicamente esistenti possono al massimo avvicinarsi al modello dello Stato ideale (e a questo obiettivo concretamente Platone lavorò, soprattutto a Siracusa). Moira È il destino (→), il fato impersonale e imperscrutabile, superiore persino agli dèi. Il fatto che questa figura sia impersonale, dice che nella mitologia greca c’è un fondo oscuro e misterioso che va molto oltre la luminosità degli dèi olimpii: va alle radici stesse dell’esistere, che è regolato da un destino iscritto nella vita di ogni vivente. Così se è giunta la sua ora, neppure gli dèi possono venire in auto di un eroe in pericolo di morte sul campo di battaglia. Ma chi decide che di un vivente è venuta la sua ora? La risposta della religione e del mito in Grecia è impersonale. La raffigurazione della Moira spesso è al plurale: alle origini ciascun vivente ha la sua Moira, cioè la sua parte di vita, di felicità, di dolori, e così via. A mano a mano che dagli strati più arcaici dell’epos ci si avvia verso l’età classica, le narrazioni sulla Moira si precisano: la raffigurazione si fa concreta mostrando tre dee (le sorelle Atropo, Cloto e Lachesi), che sono padrone del filo della vita di ciascuno. La prima fila, la seconda avvolge, la terza taglia quando è giunta l’ora della morte. Monarchia Dal greco monos (uno solo) e arche (governo), la monarchia è la forma di organizzazione politica che vede il potere concentrarsi nelle mani di un uomo solo, al vertice di una piramide di poteri variamente organizzata. Nel mondo greco la monarchia è esistita, ma solo nel periodo miceneo. Nell’età arcaica e classica nessuna delle poleis greche aveva un regime politico di questo tipo, ma la monarchia era ben nota ai Greci perché le grandi realtà politiche dell’Oriente (in Egitto come in Asia) erano invece rette con regimi politici monarchici in qualche caso da tempi antichissimi (i Faraoni erano al vertice della piramide politica egiziana dall’inizio del III millennio). Erano monarchie anche realtà politiche più piccole, come la Macedonia, fino alla metà del IV secolo a.C. Nella cultura politica greca la monarchia, implicando un ridimensionamento della libertà dei cittadini e la ridefinizione del loro ruolo, non venne mai accettata; venne però subita, con periodiche ribellioni, a partire dalla metà del IV secolo a.C. quando il re di Macedonia, Filippo, riuscì a sottomettere le città greche. Aristotele, che era legato alla corte di Macedonia, nella sua classica tripartizione dei regimi politici (vedi la voce Costituzione: →) considera la monarchia come il governo di uno solo, ma ne dà una valutazione sostanzialmente positiva, anche se inadatta a reggere le poleis greche, abituate ad autogovernarsi, e ne indica la degenerazione nella tirannia (→), che era invece tipica di diverse realtà politiche greche della sua epoca, soprattutto nella Magna Grecia. Monoteismo Il monoteismo è una religione fondata sulla fede in un unico Dio. In età greco-romana, prima del Cristianesimo, l’unica religione monoteista nell’area mediterranea era l’Ebraismo. Nessuna delle filosofie dell’età antica mise capo ad una religione, ma molte filosofie hanno condotto indagini razionali sulla divinità e sul divino. E un numero notevole di singoli filosofi e di scuole filosofiche hanno condotto ricerche ed elaborato teorie che portano verso il monoteismo: ad esempio posizioni monoteiste si riscontrano in Senofane, e con maggiore chiarezza teoretica in Aristotele, negli Stoici (presso la cui scuola vi sono però anche tendenze al politeismo, sempre di stampo filosofico più che religioso) e in Plotino. Questi filosofi tuttavia concepiscono in modo molto diverso gli uni dagli altri la natura di Dio e il suo rapporto col mondo. Posizioni che possono essere lette in chiave monoteista sono anche in altri filosofi (c’è chi ha letto in questa chiave, ad esempio, la nozione di Nous di Anassagora o la nozione di Bene in Platone). Già nel mito esiste una tendenza verso il monoteismo: possono essere ad esempio interpretate in questo senso le concezioni su Zeus di Esiodo e di Solone. Ma solo come tendenza, nel quadro del politeismo (→) tipico della mitologia antica. Mentre le religioni monoteiste sono storicamente caratterizzate dalla fede in una rivelazione (nozione diversamente intesa dalle varie religioni, e speso dalle varie confessioni) e dalla presenza di libri sacri, le tendenze monoteiste nella ricerca filosofica hanno comunque sempre mantenuto nel mondo greco come base l’esperienza e la ragione. A partire da Filone di Alessandria (→) ha inizio un impetuoso movimento (peraltro molto contrastato fino a Plotino compreso, vincente dopo) che coniuga religione e filosofia, ma quando questo avviene siamo già in contesti religiosi che usano categorie filosofie, e non in contesti di ricerca filosofica pura. Morale Vedi Etica Morte Per la difficoltà di inquadrarla in un ordine di senso, quello della morte (in greco thanatos) è tra i problemi filosofici più complessi tra quanti ne abbiano affrontato i filosofi antichi. I problemi maggiori non riguardano la comprensione della morte nell’ordine della natura: certo, in presenza di una chiara nozione filosofica di vita (→) quale quella proposta dalle varie scuole filosofiche greche (in genere alternative l’una all’altra, con pochi tratti comuni) la posizione della morte nel ciclo della vita ne consegue: la parabola generazione/corruzione (→) è concettualmente chiara in teorie come quella di Aristotele, o di Epicuro, per alternative che siano. Ma questo di per sé non ne spiega il senso. Se vogliamo esplicitare in che cosa consiste questo problema, possiamo articolare in questo modo il nostro discorso: - la morte fa problema perché è in sé misteriosa: è letteralmente un’esperienza impossibile, perché non si può vivere né la propria morte né quella degli altri; che cosa ne sappiamo, in realtà? - fa inoltre problema perché chiude la vita: ma a morire è l’intera vita, o una sua parte sopravvive? e in che forma? - perché i viventi devono morire? non solo l’uomo, certo, ma qualsiasi vivente: la domanda è la stessa, per diversa che sia la coscienza della morte (che, se riferita alla propria morte, è sempre coscienza di una possibilità, mai di una realtà) che supponiamo inesistente in una pianta, crescente negli animali a seconda della complessità della loro percezione di sé e del mondo, alta nell’uomo. In estrema sintesi: che senso ha vivere se si deve morire? Ma messa in questi termini la domanda filosofica non è in realtà tanto sulla morte, quanto sulla vita. Motore immobile Il motore, cioè l’essere che muove (in greco kinoun, che ha la stessa radice di kinesis, movimento), è il dio aristotelico “pensiero di pensiero” eternamente identico a se stesso e privo quindi di trasformazione interna, dunque immobile nella sua perfezione e compiutezza (dunque sia motore che immobile: in greco kinoun akineton). È atto puro, privo di qualsiasi forma di potenzialità (vedi la voce Atto / Potenza: →) e questo ne spiega l’immobilità, essendo il movimento in Aristotele il passaggio da una potenza a un nuovo atto. Movimento / Mutamento Il termine greco kinesis, che traduciamo con movimento o cambiamento (e i latini traducevano con motus) è entrato in uso con un significato tecnico in filosofia sin dai primi filosofi: i problemi filosofici sollevati sono quelli che abbiamo tracciato parlando del divenire (→), voce a cui quindi rimandiamo. A partire dall’età di Anassagora e di Democrito i filosofi si sono posti anche il problema della natura del movimento, cioè di una definizione che potesse superare le difficoltà messe in luce dalla scuola degli eleati soprattutto con i celebri paradossi di Zenone, che confutano la possibilità stessa del movimento e quindi mettono in crisi la visione del mondo offertaci dai nostri sensi. Il problema era conciliare la permanenza dell’essere con la realtà del cambiamento senza far entrare in nessun modo in campo il nulla. Gli atomisti rispondono negando che le particelle che costituiscono la materia – gli atomi – mutino mai: sono eterni e identici a se stessi. Si muovono, ma rimanendo se stessi, ed è il loro movimento nello spazio vuoto che determina la nascita e il perire dei corpi. Non c’è dunque nessuna trasformazione nell’essere costitutivo delle cose (gli atomi), ma solo nella loro aggregazione. Epicuro introduce tra i vari tipi di movimento degli atomi anche il clinamen (→). Definizione completamente diversa dà Aristotele che distingue vari tipi di movimento e lo definisce come “passaggio all’atto (entelecheia) di ciò che è allo stato di potenza (dynamis)” (Fisica, III, 201a). Aristotele sostiene che tutto ciò che si muove è mosso da qualcosa, principio che era già stato enunciato da Platone, e questa teoria porta alla necessità di ammettere un primo motore (è Dio come motore immobile: →) per spiegare l’origine del movimento nella natura. Esistono però movimenti perfetti e ciclici teorizzati dai filosofi greci e dunque qualitativamente diversi da quelli che osserviamo nel mondo sublunare: sono i movimenti dei Cieli per Aristotele e quelli del Tutto per gli Stoici (vedi la voce Grande Anno: →): Un termine connesso a kinesis (movimento) è metabole che traduciamo con mutamento. È utilizzato per lo più in contesti biologici, per indicare i processi di generazione e di corruzione dei viventi, ma è anche riferito agli enti materiali nel loro complesso, e alla natura come loro unità, in perenne divenire (→). Ha però in generale un significato tecnico meno preciso, per indicare trasformazione. Muse Nella mitologia greca sono figlie di Zeus e di Mnemosine, la dea che personifica la memoria (che attraverso le Muse diviene appunto accessibile agli uomini consentendo un forte salto in avanti della cultura). Le Muse erano nove e furono generate in nove notti d’amore. Esistono altre genealogie, e il loro significato è simbolico: alle Muse è collegato infatti il predominio dell’armonia nell’universo. Il legame è in particolare con la musica, perché le Muse hanno come loro specificità quella di cantare e allietare gli dèi, ma presiedono un po’ a tutte le arti e alla sfera della cultura: eloquenza, persuasione, saggezza, storia, matematica, astronomia, e le singole arti – tutto questo è sotto l’influenza delle Muse. Una tradizione le associa all’Elicona e le pone in diretto rapporto con il dio Apollo, che dirige i loro canti. Museo Il termine greco è Mouseion, che significa luogo dedicato alle Muse, e quindi alle arti e alle scienze a cui ciascuna di esse presiede. In Grecia il modello di questo genere di edifici era dato dal Museo posto sull’Elicona in cui si conservavano i testi poetici di Esiodo e in cui, come in altre istituzioni pubbliche greche, si elevavano statue a personalità del mondo delle arti. Istituzioni di questo tipo, che collegavano la ricerca poetica e le scienze alla religione, esistevano anche presso le grandi scuole filosofiche del IV secolo a.C. ad Atene, come l’Accademia e il Liceo. E fu proprio sul modello dell’organizzazione della ricerca del Liceo di Aristotele che i Tolomei (→) all’inizio del secolo successivo fondatono il più celebre dei Musei dell’antichità, quello di Alessandria d’Egitto, con annessa la celebre biblioteca (vedi Biblioteca di Alessandia: →). Nato quindi all’epoca dei Tolomei nel III secolo a.C., il Museo di Alessandria d’Egitto rimase attivo per secoli, e operava ancora nell’età imperiale romana. Vi lavoravano (stipendiati con fondi pubblici come oggi accade per le grandi università e coi centri di ricerca) studiosi provenienti da tutto il mondo ellenistico prima, ed ellenistico-romano dopo. Vi si coltivavano studi di ogni tipo: letterari, filologici (celebri i grammatici alessandrini), storici, che portarono avanti un lavoro di ordinamento di tutto il sapere antico. Qui le discipline scientifiche, in particolare la matematica e l’astronomia (vedi Sistema tolemaico: →), raggiunsero livelli altissimi, insuperati fino alla rivoluzione scientifica del Seicento europeo. Musica È l’arte delle Muse (mousike techne) per eccellenza. Va ricordato che la musica greca era collegata con altre arti: con la danza in vari generi letterari, con la poesia in quasi tutte le sue forme. L’esperienza della musica era non solo dell’orecchio, ma di tutto il corpo, per via della danza, e della mente, perché le immagini musicali si legavano strettamente a quelle poetiche. A giudicare dai numerosi scritti sulla musica, quella musicale doveva essere un’esperienza molto forte nella vita delle persone anche comuni, se tra il V e il IV a.C. sorse una discussione prolungatasi per decenni e molto vivace sulla ammissibilità di questa o quella armonia ai fini educativi del popolo, e quindi ai fini politici, a causa del ruolo che la paideia greca aveva nella formazione del cittadino. Un primo problema che collega la musica alla filosofia è quindi la seguente duplice questione: - il ruolo della musica (e della danza, e dalla parola poetica) sulla psiche umana, problema studiato a fondo dai pitagorici, dai Sofisti, poi da molti altri (per esempio da Aristotele con la sua teoria della catarsi: →); il problema non riguarda solo la comprensione di quale sia questo ruolo, ma anche del perché determinate musiche abbiano determinati effetti e altre altri (il tema implica per essere trattato l’elaborazione di una teoria della psiche umana); - il ruolo della musica nella paideia greca. A partire dai Pitagorici, la musica venne studiata anche da un punto di vista matematico, alla ricerca di regole dell’armonia che, attraverso la musica, consentissero di comprendere le leggi armoniche che regolano il cosmo. La teoria musicale nei Pitagorici e in altri teorici che li hanno seguiti su questo punto è una via d’accesso al problema della natura nascosta dell’essere della realtà. Mutamento Vedi Movimento Musica celeste Nella tradizione pitagorica il movimento ordinato dei Cieli che risponde a precise e invariabili leggi matematiche è una delle prove che mostrano come tutto il Cosmo sia regolato da numeri. Se si applica questa concezione alla sfera dei suoni, ne derivano teorie musicali a noi non note nei dettagli, per la scarsità delle informazioni sul pitagorismo delle origini (e in generale sulla musica greca), ma connesse al principio che le relazioni tra le quantità e il movimento generano suoni secondo regole matematiche costanti e definibili. Poiché i Cieli si muovono con movimenti regolari, in ambienti pitagorici si diffuse l’idea – che ebbe poi un rilievo notevole nel Medioevo – che il loro movimento generasse una musica ineffabile e perfetta, non udibile dall’orecchio umano per la imperfezione dei nostri sensi. L’universo sarebbe quindi percorso da una melodia costante, letteralmente intriso di armonie musicali. Naiadi Nella mitologia sono ninfe delle acque: creature mortali, ma molto longeve, sono in genere concepite come figlie degli dèi associati a un fiume o ad una fonte. In Omero sono però figlie di Zeus. Erano legate a poteri di guarigione, sicché i malati di determinate malattie bevevano l’acqua di certe fonti nel contesto di pratiche di culto e, insieme, di cura. In alcune fonti e in alcuni fiumi era proibito però bagnarsi, per non incorrere nella collera delle Naiadi, collera che provocava misteriose malattie. Alle Naiadi sono collegati moltissimi miti, essendo spesso queste figure – mortali, ma sospese tra l’umano e il divino – madri di eroi e protagoniste di eventi molto speciali (come è il caso, ad esempio, della ninfa Aretusa di Siracusa: →). Natura Vedi Physis Natura [Filosofia della] La filosofia della natura (vedi anche la voce Physis: →) elaborata dai Greci studia la natura da una vasta complessità di punti di vista, ma tutti coerenti nel ricercare una unità supposta al di sotto di ogni sua manifestazione: - alle origini della filosofia la domanda è stata posta sull’arche: (→), problema che è stato poi affrontato da tutte le scuole successive; - la domanda si è quindi precisata su quella che noi oggi chiamiamo, con dizione non greca, struttura della materia (→), anche alla ricerca della identità stessa della materia (→) come tale; - in tutte le epoche, si è posto il problema del rapporto tra il singolo fenomeno naturale e il Tutto (→), alla ricerca sia delle leggi che governano la natura nei suoi aspetti più particolari, sia dell’energia che la plasma. Necessità Il termine greco è Ananke, ed è il nome di una divinità. Di per sé il significato originario della parola, ad esempio in Empedocle, è quello di decreto inesorabile degli dèi. Nella cultura greca il termine è quindi presente in due distinti ambiti: - nel mito è la dea, dai tratti non lontani dalla Moira (→), che incarna la forza suprema del cosmo, a cui tutti devono obbedire, anche gli dèi; in questo senso nelle versioni popolari del mito è legata alla morte, come destino inevitabile dei viventi, mentre nelle versioni colte del mito (o in quelle legate alle religioni dei misteri) è divinità cosmica, espressione della imperscrutabile necessità del movimento del tutto (così anche nei miti platonici); - in filosofia la nozione di necessità esprime il rigore delle leggi di natura, che non ammettono eccezioni: in questo senso il termine compare dai frammenti dei primi filosofi naturalisti in poi. Non tutti i filosofi hanno accettato l’idea che l’universo sia regolato da leggi necessarie e immutabili. Nell’epicureismo la nozione di necessità compare, ma non in senso assoluto, perché le leggi di natura sono sì costanti, ma con l’eccezione – di fondamentale importanza nell’economia del tutto – del clinamen, frutto del caso e non della necessità. Gli Stoici hanno interpretato la necessità naturale come l’espressione della razionale e perfetta guida del Logos sulla natura – un Logos razionale che opera dall’interno delle forze naturali regolandole con leggi immutabili. Nemesi Nella mitologia greca la Nemesis è una divinità figlia della Notte, legata al ciclo della guerra di Troia perché da lei discende Elena. Quel che più conta però è che la Nemesi è la personificazione della vendetta divina, e soprattutto della punizione voluta dagli dèi contro chi si macchia di hybris (→): una punizione inesorabile, certa. Nel suo santuario di Ramnunte in Attica si conservava una statua scolpita da un allievo di Fidia: il blocco di marmo di Paro utilizzato per la statua era stato portato dai Persiani a Maratona per innalzarvi un monumento alla loro vittoria. Un tipico gesto di hybris, punito dalla loro sconfitta. Neopitagorismo La dizione neopitagorismo si riferisce alla ripresa delle tematiche pitagoriche antiche che avvenne in ambiente ellenistico a partirte dal II secolo a.C. ad Alessandria e nel secolo successivo a Roma. Attivo fino al II secolo d.C. e capace di influenzare le correnti filosofiche e religiose dell’età tardo antica – dalla Scuola teologica di Alessandria (→) alle varie scuole platoniche dei secoli successivi, fino al neoplatonismo – il neopitagorismo ha caratteri che sovrappongono le tematiche di tipo matematico a esigenze squisitamente religiose. È dunque un movimento filosofico-religioso che si basava su due esigenze di fondo: - spiegare la molteplicità del mondo a partire dall’unità: così l’universo fisico e spirituale era descritto rispetto alla sua origine dai principi contrapposti dell’Uno e della Diade, teoria che riprendeva antiche tematiche sia pitagoriche che platoniche (dunque, una interpretazione in chiave aritmetica del principio dell’essere, che in alcuni autori metteva luogo a una dialettica triadica); - mostrare come si possa realizzare la purificazione delle anime, nel contesto di una concezione che vede il male e il bene combattere nel mondo, riprendendo le antiche tematiche pitagoriche (a volte singoli filosofi sono presentati come reincarnazioni di Pitagora stesso, nel contesto della ripresa della dottrina della metempsicosi). Neoplatonismo Per quanto attiene alla filosofia dell’età tardo-antica, con la dizione neoplatonismo ci si riferisce a due linee di ricerca che storicamente si incrociano, ma avendo valenze diverse è opportuno tenere distinte: - la ricerca filosofica che ha al centro i testi di Platone e di altri autori della tradizione classica ed ellenistica, soprattutto Aristotele e gli Stoici, ma anche tendenze più recenti, come il neopitagorismo; l’esponente più importante di questo tipo di ricerca, strettamente filosofica e non religiosa, è Plotino, che non è il fondatore della scuola, essendo la sua filosofia, per sua testimonianza, fortemente debitrice rispetto a quella del suo maestro Ammonio Sacca, che fondò una scuola ad Alessandria alla metà del III secolo a.C, del quale però non consociamo le teorie; - la ricerca religiosa, a base filosofica, ma con finalità legate alla ripresa del politeismo, per lo più in chiave anticristiana, svolta anch’essa sui testi platonici e con modalità simili a quelle di Plotino, fortemente influenzata anche dal neopitagorismo e dalle diverse correnti del misticismo orientale attive già nei primi secoli dell’Impero Romano. Tra il III e il VI secolo d.C. le due linee di ricerca si incrociarono, e in parte si sovrapposero, sicché col passare dei secoli la caratteristica religiosa del neoplatonismo fece sì che religione e filosofia si sovrapponessero, così come non era stato nel pensiero di Plotino, che è di fatto l’ultimo rappresentante della tradizione filosofica greca che ha concepito la filosofia con uno status del tutto indipendente dalla religione. Sulla sua scia nel V secolo Plutarco di Atene fondò la cosiddetta Scuola di Atene, il cui più importante rappresentante è Proclo, che tentò una sintesi filosofica organica del pensiero antico sulla linea maestra seguita da Plotino. Questa scuola venne chiusa dall’imperatore Giustiniano nel 529 nel contesto della lotta contro i residui non cristiani della tradizione greca. La linea di ricerca filosofico-religiosa ispirata ai principi del neoplatonismo ebbe invece il suo centro nella Scuola di Siria e nella Scuola di Pergamo, entrambe del IV secolo; quest’ultima è quella presso cui si formò il futuro imperatore Giuliano, detto l’Apostata, che tentò una ripresa dell’antico paganesimo in chiave anti-cristiana. Nereidi Sono divinità marini, nipoti di Oceano e figlie di Nereo, da cui il nome. Il loro numero varia (50 o 100) ma non la loro identità: sono fanciulle bellissime che vivono in fondo al mare nel palazzo del padre, sedute su troni d’oro e occupate nelle attività femminili, oppure nei giochi con i tritoni e i delfini, tra le onde. È stato proposto l’accostamento tra queste figure e le onde, sempre mobili, del mare, di cui sarebbero la personificazione. Nei racconti mitologici sono per lo più spettatrici degli eventi marini e hanno una debole identità individuale, sicché di ben poche di loro si raccontano miti specifici (una delle più celebri tra le Nereidi è Teti, madre di Achille). Nereo Divinità marina dalle origini antichissime (nel mito appartiene alla generazione precedente a Poseidone), è una delle divinità associate alle forze primigenie della natura, in questo caso quella del mare. Padre delle Nereidi (→), rappresentato spesso con la barba bianca, a cavallo di un tritone, è divinità in genere benevola, caratterizzata dal fatto che può assumere qualsiasi aspetto. È questo un carattere piuttosto comune delle divinità marine, ma in Nereo è particolarmente accentuato, come si vede in un racconto mitologico che lo accosta a Eracle (→): l’eroe tenta di costringerlo a rivelargli come raggiungere le Esperidi (→) che abitano l’estremo occidente, e Nereo per sottrarsi assume forme diverse. Nestore Nestore è una figura assai singolare nel panorama degli eroi greci perché rappresentato nell’Iliade molto vecchio. La ragione della sua straordinaria longevità stava nel favore di Apollo, che aveva voluto così ripagarlo di terribili lutti familiari legati a varie vicende mitologiche, collegate a Eracle. La sua figura nei poemi omerici è positiva: re di Pilo, ancora forte in battaglia, è un vecchio saggio, capace di dare consigli vincenti. A lui ci si rivolge per consiglio, ottenendo sempre un concreto aiuto (gli eroi omerici, tuttavia, sono assai meno saggi di lui e non sempre seguono i suoi consigli: come si vede dalla celebre lite con cui ha inizio l’Iliade, tra Agamennone e Achille; Nestore aveva cercato saggiamente, ma inutilmente, un accordo). Ninfe Sono divinità minori, a volte mortali, associate a boschi, o a fiumi, a fonti, o al mare o a determinate montagne. Presiedono insomma al territorio nei suoi punti importanti. Ad esempio le Naiadi (→) sono ninfe delle fonti e dei fiumi, le Nereidi (→) sono ninfe che vivono nel mare, e così via. In Omero sono figlie di Zeus, e sono spesso protagoniste di miti locali, essendo associate a specifici luoghi. Erano oggetto di preghiere, perché potenti sul loro ambiente, che era lo stesso nei cui pressi varie comunità umane vivevano. Spesso accompagnano le dee, e ne formano la corte; per lo più sono associate ad Artemide, la dea della caccia, o a figure femminili molto particolari, come sono in Omero Calipso (essa stesa una ninfa) e la dea-maga Circe. Nobili Vedi Aristoi Noesi Vedi Nous Nomos Vedi Nomos / Physis Nomos/Physis Il problema del rapporto tra il nomos, cioè la legge, e la physis, cioè la natura, ed in particolare la natura umana, compare per la prima volta con Protagora e diviene poi centrale nella riflessione degli ultimi sofisti. Ebbe un peso storicamente notevole nel dibattito politico ad Atene nel corso della guerra del Peloponneso. I primi Sofisti avevano sostenuto che non vi sono leggi etiche e politiche oggettive riconoscibili come assolute, e dunque che la legge politica e morale non può essere fondata su ciò che gli antichi hanno chiamato “la Giustizia di Zeus”, supremo ordinatore del mondo. L’uomo deve darsi da solo le leggi, ancorando i princìpi di giustizia a valori che siano indipendenti non solo dalla religione, ma anche dalla tradizione. Il dibattito ad Atene Queste tesi suscitarono un vivace dibattito ad Atene, perché la posizione sofista – che affascinava i giovani – sembrava distruggere quel fondamento di tradizioni su cui riposava l’edificio politico e culturale della polis. Porre in dubbio che ci sia una giustizia oggettiva significava porre in dubbio il fondamento di validità delle leggi. Poiché da Protagora in poi i Sofisti non riconoscevano più un fondamento oggettivo al nomos (cioè un fondamento religioso alle leggi della polis), il comportamento privato e pubblico andava regolato sulla base della stessa natura umana, che è parte della physis. Questo significa che ciascuno poteva considerare se stesso misura di tutte le cose e regolarsi nel modo più rispondente alla propria natura? Tale prospettiva cominciava ad affascinare molti giovani, soprattutto alcuni del ceto aristocratico, che mal tolleravano il potere del popolo ed erano desiderosi di esaltare la forza e il diritto dell’individuo rispetto alla volontà della massa (si pensi alla figura di Alcibiade: →). La dottrina sofista sembrava fornire loro validi argomenti. Protagora non si spinse su queste posizione estreme – come farà invece, pochi anni dopo, l’ala radicale della sofistica – perché pensava che il nomos, cioè le leggi che costituiscono il patrimonio della cultura di un popolo, andasse comunque salvato, anche se non era più possibile accettare che le antiche tradizioni avessero un’origine divina. Osserva infatti che distruggendo del tutto la legge cade la possibilità di ogni forma di convivenza civile ordinata e pacifica, che è condizione indispensabile per il libero e armonico sviluppo della natura umana. Nel suo pensiero quindi nomos e physis devono trovare un momento di conciliazione nel rispetto di quei criteri che consentano la vita ordinata della società. I termini del dibattito Questo non significa che le istanze delle nuove generazioni, insofferenti delle limitazioni imposte dalle antiche tradizioni, debbano essere respinte. Solo, non si deve portare la critica al passato al punto da distruggere la possibilità della civile convivenza. “È nota da tempo la grande importanza che i due termini nomos e physis ebbero in gran parte del dibattito filosofico della seconda metà del V secolo a.C. La parola physis si traduce di solito “natura”. Era il termine che scienziati ionici presero ad usare per indicare l’insieme della realtà o i suoi più stabili principi materiali (o elementi costitutivi). Ma entrò presto nell’uso per designare anche la formazione o l’insieme dei caratteri di una cosa particolare o di un gruppo di cose, specie una creatura vivente od una persona (come nell’espressione “la natura dell’uomo”). In ogni caso il termine comportava – almeno implicitamente – un contrasto tra le caratteristiche proprie di una cosa in quanto tale, da essa posseduta di diritto o spontaneamente, e le caratteristiche acquisite o imposte. […] Nomos, solitamente tradotto “legge”, oppure “convenzione”, oppure “uso”, a seconda del valore che sembra adattarsi meglio al contesto, è un termine forse un po’ più sottile di quanto suggeriscano queste traduzioni. Tanto il significato quanto la storia della parola sono stati molto discussi, spesso senza approdare a conclusioni ben chiare. Ma credo che la questione possa spiegarsi senza difficoltà. Il termine nomos e tutta la serie dei vocaboli greci connessi sono sempre prescrittivi e normativi, mai puramente descrittivi; forniscono una sorta di direttiva o di prescrizione che influisce sul comportamento e sulle azioni di persone e cose. Il termine moderno che corrisponde più da vicino a nomos è “norma”: fissare o promulgare nomus vuole dire fissare norme di comportamento. Così nomos come “legge” è una norma prescritta per legge, nomos come “convenzione” è una norma prescritta per convenzione; in ogni caso ciò che viene detto o prescritto è che qualcosa va fatta o non fatta, oppure deve essere o non essere vera, o deve essere accettata come vera. […] Lasciare il nomos per ritornare alla physis voleva dire – in uno dei suoi aspetti – negare il nomos, inteso come norme di comportamento tradizionalmente accettate. Ma lo scopo probabilmente non era mai (o per lo meno quasi mai) puramente negativo: mirava in realtà ad introdurre un apparato di norme più soddisfacenti e convincenti al posto di quelle che ormai non erano più del tutto accettabili. Senza dubbio la vera ragione per cui si attaccavano molte delle norme tradizionali stava nel processo di mutamento sociale e politico che era in pieno svolgimento in Atene nell’ultimo periodo del V secolo. Ma il vero attacco era in parte intellettuale e nasceva dall’assunto che le norme tradizionali, se accettate senza verifica, contengono al loro interno contraddizioni e incongruenze. Si cercava la loro sostituzione – dove necessaria (ma solo dove necessaria) – con qualcosa che fosse intellettualmente soddisfacente: in altre parole qualcosa che fosse razionale ed intimamente coerente, e che insieme tenesse nel dovuto conto la vera natura degli esseri umani” (Kerferd, I Sofisti, p. 164). Non contraddizione [Principio di] Vedi Contraddizione Non-Essere / Nulla In greco il non-essere è me on, oppure ouk on, nulla è meden. Il primo problema filosofico è se sia possibile definire positivamente questi concetti, che di per sé indicano negatività: non dicono di che cosa si parla, perché non c’è qualcosa di cui si parla, ed è questo che si dice, che non c’è niente. La loro definizione sembra essere solo negativa: posto il concetto di negazione (→), il nulla e il nonessere sono due modi di dire la stessa cosa, che l’essere di cui si parla viene negato in un qualche senso del concetto di negazione (in primo luogo ne viene negata l’esistenza). Sembrerebbe dunque impossibile pensare positivamente il nulla e il non-essere. Parmenide esplicitamente nega che sia possibile farlo, e quindi coerentemente identifica il pensiero e l’essere. Nella cultura greca del mito come in quella filosofica in effetti il nulla non viene mai pensato positivamente. Ad esempio non viene mai proposta la nascita di qualcosa dal nulla o la sua dissoluzione nel nulla. In Esiodo tutto è generato a partire dal Caos, non dal nulla. E in filosofia l’idea di creazione non è mai stata proposta dai Greci. Quanto ai corpi e alla vita nella natura, si ha a che fare con un processo continuo di generazione e di corruzione, mai con un processo di nullificazione. Quanto a enti che somigliano al nulla, come lo spazio vuoto che pure viene teorizzato in vari ambienti filosofici ellenistici, non vi si attribuisce mai il carattere positivo del non-essere: quando viene affermato, lo spazio vuoto viene concepito come qualcosa, non come nulla, per difficile che sia dire esattamene che cos’è questo qualcosa. Parmenide però pone un problema, che risolve negativamente, a cui tutta la filosofia greca successiva ha posto la più grande attenzione: ha sostenuto che senza una concezione positiva del nulla (come qualcosa che c’è, ed è il nulla) non è possibile pensare né il movimento né la pluralità degli esseri. Ora, i sensi ci mettono in comunicazione con un mondo in incessante movimento e fatto di un altissimo numero di enti: questa immagine del mondo è forse puramente illusoria e la realtà è invece totalmente diversa? La necessità di pensare positivamente il nulla, o il non-essere, dipende dal fatto che nessuno degli enti di cui facciamo esperienza è, in senso assoluto, un tutto. Così, definire qualcosa dicendo “questo ente è....”, significa implicitamente dire anche che cosa non è. Il non-essere di un ente serve alla sua definizione. Ma che cos’è il non-essere è una domanda che è possibile porre? Non-sapere Dizione comune nei testi filosofici antichi per indicare un sapere che ci si accorge di non possedere. Essenziale non è tanto il fatto che una certa nozione, o informazione, o altro, non si sa (fatto comune, data la esiguità del sapere umano), quanto il fatto che si ha coscienza di questo non sapere. Il tema è stato posto in termini molto chiari da Socrate nell’Apologia platonica là dove ha proposto la distinzione tra ciò che non si sa, ma non si sa neppure di non sapere, e ciò che si sa di non sapere (vedi la voce So di non sapere: →) Nous In Omero questo termine designa una facoltà umana, cioè la capacità di comprendere le situazioni o di penetrare con la propria mente le intenzioni di un’altra persona. È uno sguardo, ma non fisico: è lo sguardo della mente che va oltre il visibile. E già in Omero è associato più alle divinità che all’uomo, che è divino quando la sua mente ha questo potere. Nella filosofia Nous è la mente, ma il termine è per lo più associato a realtà superiori e cosmiche, come in Anassagora (Nous è l’intelligenza che pone ordine nel mondo penetrando tra gli elementi senza mescolarvisi) e in molti altri autori (Platone associa questo termine alla mente del Demiurgo, Aristotele a Dio come pensiero di pensiero e motore immobile, Plotino a una delle ipostasi, l’Intelletto). Va inoltre ricordato che i filosofi greci hanno usato il termine nous anche per indicare la mente come insieme delle facoltà di conoscenza dell’uomo. Su questo punto si veda la voce Pensiero (→), che completa il discorso fin qui svolto. Notte Vedi Giorno / Notte Nulla Vedi Non essere Nulla di troppo È un detto tradizionale, associato al celebre Conosci te stesso!, che esprimeva uno dei tratti tipici della comune maniera di pensare presso i Greci: - ricorda che la misura e l’equilibrio sono una regola aurea per non incorrere in guai anche seri; - ricorda che la natura umana è limitata e che tentare di oltrepassare questi limiti è pericoloso. Numenio di Apamea Filosofo greco di origini siriache, vissuto nel II secolo d.C., è uno degli esponenti del cosiddetto neopitagorismo (→), ma allo stesso tempo è stato uno dei filosofi che, con altri esponenti del medioplatonismo, hanno scritto commentari su Platone, considerato come depositario di una sapienza da scoprire e disvelare. È autore di opere come Sulle dottrine segrete di Platone e Sul bene. Influenzato dalla visione monoteista dell’Ebraismo e del Cristianesimo, sostenne la completa separazione del principio unitario del Bene rispetto all’universo fisico, che in quanto legato alla materia considerava irrimediabilmente legato al male. La realtà sensibile, opera di un Demiurgo come in Platone, comprende anche l’uomo, la cui anima irrazionale non appartiene alla sfera del Bene e combatte contro un’anima razionale, immortale, che invece vi appartiene. Il principio del bene e quello del male sono quindi all’opera nell’uomo, la cui anima razionale può ricongiungersi al Bene soltanto distaccandosi dalla sfera della sensibilità e del male attraverso forme complesse di meditazione. Nuvole La commedia Le Nuvole di Aristofane (→) venne rappresentata nel 423 a.C., nei primi tempi della Guerra del Peloponneso. Il tema trattato - Socrate e con lui i sofisti messi alla berlina - non è isolato nella commedia antica: sappiamo infatti che esisteva un genere di esuberante satira contro i filosofi nella commedia del quinto secolo. Non è naturalmente possibile definire con esattezza quanto rilevante sia l'immagine socratica che emerge da Le nuvole ai fini della delineazione della figura storica di Socrate e, soprattutto, della percezione che di lui aveva la gente di Atene. Tuttavia l'opera di Aristofane illustra bene, pur nella deformazione del teatro comico, alcuni elementi del dibattito culturale del momento. Per quanto riguarda la posizione personale di Aristofane, certo questi tende al tradizionalismo ed attacca la cultura sofista, a cui Socrate è assimilato. Ecco in sintesi la trama delle Nuvole. Strepsiade, cittadino ateniese oberato da debiti e privo di cultura elevata, ha un figlio, Filippide, appassionato di cavalli e scialacquatore. Ha sentito parlare dei sofisti, gente capace di render più forte il discorso più debole, e decide di recarsi da loro per imparare come fare a non pagare i debiti acquisendo grande abilità dialettica. Recatosi nel «pensatoio» trova Socrate sospeso per aria dentro una cesta intento a studiare i fenomeni celesti. Questi accetta di averlo come allievo, ma la «lezione» - tra mille effetti comici - si dimostra troppo difficile per il povero Strepsiade che preferisce allora mandare il figlio da Socrate. Filippide, imparata la lezione, riesce a non pagare i creditori, ma poi finisce col picchiare il padre dimostrandogli di aver ragione a farlo - e minaccia anche la madre. La commedia si chiude con Strepsiade che, furibondo, dà fuoco al «pensatoio». A proposito della caricatura di Socrate, va notato che il motore fondamentale della caricatura è nella tendenza costante della commedia a dar corpo - letteralmente - alle metafore, e a tradurre concetti astratti (o punti astrusi di una linea intellettuale) in forme concrete e addomesticate. Socrate, per indagare sugli elementi superiori al livello terreno (meteora), diviene lui stesso, letteralmente metéoros (cioè «sollevato in aria» ). Oceano Nei racconti del mito, Oceano è il dio delle acque che circondano le terre emerse sulla superficie della Terra (vedi Terra →). In Esiodo è uno dei Titani, espressione della potenza fecondatrice originaria delle acque marine, da cui nel mito vengono generate le divinità dei fiumi e delle sorgenti. Che le terre emerse fossero circondate dalle acque era concezione comune nel VI secolo a.C. anche presso i primi filosofi naturalisti, che accettarono il concetto di fondo del mito, ma lo trasferirono sul piano della ricerca scientifica e della loro visione generale della Terra e del Cosmo. Supponendo che la superficie della Terra fosse piatta, l’oceano era visto come un fiume che delimitava il limite estremo delle terre emerse. Nei cartografi successivi (vedi Cartografia →), una volta affermatasi l’idea della sfericità della Terra, le masse continentali vennero concepite in modo regolare: erano quattro, due su ciascuno emisfero, separate tra loro da ampi bracci di mare, l’oceano appunto, incrociantisi ad angolo retto. Oggettività della colpa Vedi Colpa Oligarchia È il governo dei pochi (oligoi sono i pochi, archo è un verbo è significa io comando – da cui la parola arconte). Nella tripartizione delle forme di governo della polis proposta da Aristotele l’oligarchia è la degenerazione dell’aristocrazia (→). Il tratto negativo che i Greci vedevano nell’oligarchia, e non nell’aristocrazia, dipendeva dal fatto che l’aristocrazia era giustificata dalla tradizione e dall’effettiva superiorità in termini o morali, o politici o di potenza degli aristoi (i migliori, cioè i nobili di antica tradizione), mentre l’oligarchia era il potere di pochi che si impongono contro i loro concittadini con la violenza e contro leggi e tradizioni: l’esempio tipico è quello dei Trenta Tiranni (→) nell’Atene del 404-403 a.C. Olimpia / Olimpiadi Olimpia è un centro religioso greco, panellenico, molto antico, attivo con la sua area sacra già in un periodo che i dati archeologici consentono di fissare al X-IX secolo. Sorgeva nell’Elide, una delle sub-regioni storiche del Peloponneso, e vi si tenevano ogni quattro anni i celebri giochi a cui partecipavano atleti da tutta la Grecia e dalle colonie, in una atmosfera sacrale e pacifica. Di particolare importanza è che le Olimpiadi servivano ai Greci per indicare i periodi della loro storia (l’uso divenne stabile in età ellenistica, ma era diffuso già prima). Tuttavia i Greci non sapevano da quanto tempo si tenevano le Olimpiadi, che si diceva fossero state fondate dal mitico eroe Pelope e, cadute in disuso, rifondate da Eracle. Si prendeva quindi come data della prima Olimpiade l’anno che per noi è il 776 a.C, perché risaliva a quella data la prima delle statue offerte dai vincitori (offrire statue o elevare monumenti pubblici divenne poi una pratica comune). Olimpo Il monte Olimpo è un massiccio che sorge tra la Tessaglia e la Macedonia, il più elevato della Grecia (2918 m). Antichi racconti mitologici collocavano sulle sue cime, spesso coperte di nubi, la dimora degli dèi ed in particolare di Zeus. Di fatto però nel corso del tempo il nome Olimpo divenne più generico, per indicare le dimore celesti delle divinità, non direttamente legate ad una precisa localizzazione geografica. Omeomerie Riferendosi ai caratteri qualitativi della materia secondo Anassagora, Aristotele chiama omeomerie (in greco omoiomere) le singole qualità che costituiscono i corpi. Ciascuna realtà di questo tipo, se divisa, mantiene le stesse caratteristiche qualitative. Sulla esatta natura delle omeomerie e sul rapporto tra quelli elementi originari e i corpi sono state proposte diverse interpretazioni, perché l’esiguità dei testi di Anassagora che ci sono pervenuti ha fatto sì che diversi problemi che emergono dai testi non trovino diretta soluzione. Omero Uno dei tratti più sorprendenti della cultura greca del periodo arcaico è che essa al suo apparire in forma scritta si presenta con due grandissimi capolavori poetici, l’Iliade e l’Odissea. Il vertice della poesia epica appare raggiunto sin dall’inizio, senza che ci siano note fasi preparatorie. È però una sorta di illusione prospettica. Questi poemi sono stati associati al nome di un autore, Omero, come se fossero stati composti da lui senza precedenti tradizioni. In realtà non sappiamo come sono andate le cose. Ma è assai poco probabile che i due poemi siano stati composti come oggi un poeta o uno scrittore compongono le sue opere. È assai più coerente con quanto sappiamo del mondo della cultura orale immaginare altri scenari. La stesura delle due opere risale all’VIII-VII secolo a.C. Ma per stesura forse bisogna soltanto intendere il fatto che uno (o forse due) poeti hanno fissato in maniera stabile e ordinata il corpus tradizionale dei canti connessi ai temi delle due opere, dando loro una struttura coerente e unitaria. Il materiale potrebbe essere quello della tradizione, forse antica di centinaia d’anni, conservata oralmente di generazione in generazione. Di fatto, il mondo politico e sociale descritto nei poemi omerici è palesemente quello miceneo, o meglio è quanto del periodo miceneo si era tramandato molte generazioni dopo. Le vicende dell’Iliade e dell’Odissea rimandano quindi ad un mondo che scomparve intorno al XII secolo a.C., mentre la loro stesura nella forma che conosciamo è di circa cinque secoli dopo. Le differenze di stile e di concezione dell’uomo e degli dèi che gli studiosi hanno osservato tra le due opere hanno fatto nascere l’ipotesi che l’Iliade sia più antica dell’Odissea, e c’è chi ritiene che i poeti che hanno raccolto gli antichi canti siano diversi, sotto il nome di Omero. Non mancano altre ipotesi. È la cosiddetta questione omerica, nata dal fatto che non sappiamo né le circostanze della composizione, né il metodo, né se Omero sia un personaggio storico o leggendario. Molte delle poleis greche si contendevano nell’antichità l’onore di avere dato i natali a Omero. E i Greci delle epoche successive, quando i poemi omerici erano divenuti i testi fondamentali della cultura ellenica, ne sapevano in realtà ben poco anch’essi. Le due opere emergevano da un lontano passato, di cui si sapeva ormai pochissimo in epoca storica. Ma lì i Greci – tutti i Greci, qualsiasi dialetto parlassero – potevano riconoscere le origini e i fondamenti della loro cultura. La lingua in cui erano scritti i poemi era molto particolare, perché non era uno dei dialetti greci parlati nelle varie aree nel mondo ellenico, tra le coste dell’Egeo e la Magna Grecia: era una arcaica lingua letteraria, una lingua comune (sia pure basata su uno dei dialetti, lo ionico) che tutti capivano. Omosessualità in Grecia La sessualità nell'antica Grecia può essere compresa solo come componente di un complesso costume sociale, che prevedeva - e ammetteva - pratiche, espressioni e indirizzi molteplici e diversificati: dall'eros omosessuale maschile, meglio definito come pederastia, a quello femminile; dall'eros eterosessuale all'interno del matrimonio a quello collettivo, ad esempio nei simposi e nei riti dionisiaci, all'eros tra il signore e le etere. Queste ultime, a differenza delle vere e proprie prostitute, vivevano spesso nella stessa casa del padrone e della sua legittima consorte, si occupavano dei piaceri, degli svaghi e dei divertimenti dell'uomo; erano anche suonatrici di flauto e danzatrici, avevano spesso una cultura superiore alla media e, come le geishe giapponesi, occupavano una posizione sociale piuttosto elevata, o comunque si muovevano in un ambiente aristocratico e signorile. In generale possiamo sostenere che per i Greci le diverse espressioni dell'eros erano in qualche modo codificate, ma godevano tutto sommato di una certa interscambiabilità, per lo più assente ai giorni nostri. In tal modo, anziché escludersi a vicenda, potevano spesso convivere l'una con l'altra: l'eros omosessuale femminile e la pederastia, per esempio, seguivano un percorso pedagogico che portava al matrimonio, suprema istituzione sociale. Questo conciliare omosessualità ed eterosessualità matrimoniale in un’unica linea formativa è oggi per noi impensabile. La pratica educativa comune nelle principali città della Grecia - Atene e Sparta prime fra tutte prevedeva che i fanciulli, ancora piuttosto giovani, venissero separati dalle famiglie (si trattava in genere di fanciulli appartenenti a famiglie aristocratiche) e posti sotto la guida di maestri più anziani: questi dovevano impartire loro un'educazione che andava dalla pratica del ginnasio (qualcosa di simile alla palestra) all'insegnamento letterario, matematico, musicale e artistico; a Sparta invece si trattava per lo più di un addestramento militare. Le fonti letterarie pervenuteci mostrano chiaramente come venissero intessute relazioni omosessuali tra il maestro e gli allievi. Erastes / Eromenos Laddove queste relazioni vengono istituzionalizzate, quindi ammesse dalla legge, si stabiliscono limiti morali ed etici ben precisi: "L'amante (erastes) appare come maestro dell'amato (eromenos), garante delle qualità morali e delle cognizioni che l'amato deve acquisire stando con lui. L'amore di un adulto per un fanciullo è fondato sulla trasmissione del sapere e della virtù; [...] in questo quadro, la relazione amorosa è vissuta come uno scambio: la potenza dell'eros che emana dall'amato colpisce l'amante che ne è stimolato, per sublimazione, sul piano morale. Ricevendo dall'amato l'impulso amoroso, l'amante realizza il proprio amore trasmettendo le qualità di cui è portatore [...]. La relazione omosessuale, in tal modo, viene a coincidere con la relazione pedagogica" (Calame 1983, p. XIV). Lo stesso valore pedagogico era assegnato anche all'omosessualità femminile: il suo ambito era quello dei gruppi femminili corali o dei circoli privati (il più celebre dell'antichità è quello della poetessa Saffo nell'isola di Lesbo). Le giovani, attraverso il canto, la musica e la danza, dovevano acquistare quelle qualità di grazia e bellezza che la società greca richiedeva alla donna adulta. Anche quello tra la fanciulla e la sua insegnante corifea (la guida, cioè, del coro) era dunque uno scambio pedagogico. Omosessualità e matrimonio Nel suo complesso la pratica omosessuale era ammessa e istituzionalizzata solo se ricopriva un periodo limitato della vita del fanciullo o della fanciulla. A questo periodo avrebbe dovuto far seguito quello del matrimonio e dunque dell'eterosessualità. "Paradossalmente, l'educazione femminile alla bellezza tramite la relazione omoerotica [cioè omosessuale] ha come scopo la preparazione al matrimonio e ad una delle due funzioni essenziali agli occhi dei Greci: la procreazione. L'omosessualità nell'adolescenza si limita dunque ad introdurre, con la sua funzione pedagogica, all'eterosessualità adulta" (Calame 1983, p. XVI), sia per il maschio che per la femmina. Infatti "per il popolo greco, il matrimonio era un'istituzione sacra e la procreazione costituiva uno degli obblighi più importanti nei riguardi della patria. (...) D'altra parte, in una società che sia ancora abbastanza solida al proprio interno e non sia sul punto di sfaldarsi, le cose non possono andare in altro modo. L'impulso primordiale all'autoconservazione non può non opporsi ad una forma dell'eros [quale quella omosessuale] che, diffondendosi su vasta scala, impedirebbe la procreazione e condurrebbe sia all'estinzione del gruppo che della società". Però "la presenza di costumi omosessuali e di rapporti amorosi fra uomini giovani e anziani è dimostrabile solo all'interno dei cosiddetti Stati dorici, ove, del resto, la pederastia era un fenomeno assai limitato e circoscritto alla sola classe aristocratica" (Kelsen 1933, p. 72-79). Le leggi e le norme morali che regolavano la pratica omosessuale erano dunque estremamente rigorose e limitative: così come condannavano una relazione pederastica fondata sul puro piacere e prolungata nel tempo, allo stesso modo non ammettevano l'unione tra schiavi e uomini liberi, o tra persone della stessa età, e condannavano severamente la prostituzione, sia femminile che maschile. La prostituzione infatti, in quanto soddisfacimento puramente carnale degli istinti sessuali, e in quanto rapporto di carattere venale, era considerata una degenerazione dell'eros. Dunque, quello che noi chiamiamo amore omosessuale nella Grecia antica era qualcosa di completamente diverso ed estraneo al concetto odierno di omosessualità, riferito quest'ultimo a una libera relazione personale e sentimentale tra due adulti, a una scelta non solo sessuale ma anche di un modo di essere e di amare. Onesicrito Filosofo e storico greco vissuto nella seconda metà del IV secolo a.C., fu allievo di Diogene di Sinope (→) ed è celebre per aver partecipato alla spedizione in Asia di Alessandro Magno. Come storico seguì il modello proposto da Senofonte (→) con la sua Ciropedia e scrisse una biografia di Alessandro, in termini fortemente positivi. Tra le testimonianze relative alla spedizione in Asia, Onesicrito ha riportato anche alcune descrizioni dei cosiddetti gimnosofisti (→). Delle sue opere rimangono solo frammenti. Onore [Civiltà dell’] Si indica in questo modo la civiltà del mondo greco così come compare nell’Iliade e nell’Odissea, perché gli eroi (il discorso vale soltanto per loro, non per il popolo) sono dominati nelle loro scelte da un imperativo tenuto sempre presente: la fama (→), il nome che essi hanno presso i loro simili, e avranno presso le generazioni future. Per l’onore si fa tutto, senza onore è preferibile morire: e l’onore è appunto la fama positiva di un eroe presso i suoi simili e, soprattutto, presso le generazioni future. Gli studiosi parlano anche di civiltà della vergogna per indicare lo stesso concetto, perché la vergogna e il disonore sono per l’eroe omerico molto peggiori della morte. Ontologia Mentre la nozione è greca, il termine è moderno: nasce nel Seicento attraverso la composizione dei termini greci on (ente, al genitivo ontos) e logos (qui nel senso di discorso su, studio di). L’ontologia è quindi un discorso sull’ente, uno studio che mira a comprendere l’ente nel suo rapporto con l’essere o, se si preferisce, l’essere in tutte le sue forme e manifestazioni. Per il significato dei termine essere (→), ente (→) e per il problema dell’essere (→) rimandiamo alle relative voci. Opera d’arte Vedi Estetica Opinione Vedi Doxa Opposti Vedi Contrari Oralità Vedi Cultura orale Ordine Il termine greco è taxis. Indica due nozioni simili, ma da tenere distinte: - la sequenza del prima e del dopo in una serie, in cui quindi tutti gli elementi sono disposti, appunto “in ordine” quando ciascuno è al proprio posto rispetto agli altri (Aristotele tratta questo tema in Metafisica V-11, in relazione al rapporto di causa e di effetto, in cui l’ordine va dalla causa all’effetto, e più in generale in relazione a tutto ciò che ha un determinato posto in una sequenza rispetto a un principio); - la disposizione reciproca delle parti in un tutto, che può essere vista da diversi punti di vista: ad esempio in un essere vivente può essere letta in chiave di necessità causale (la disposizione dipende da una serie di cause ordinate in sequenza) o in relazione ad un fine (la disposizione dipende dalla finalità che ha ciascun organo e l’organismo nella sua completezza). La nozione di ordine presuppone dunque, in ogni caso un principio d’ordine, cioè un concetto rispetto al quale riconoscere l’ordine come tale. La nozione è quindi particolarmente importante in quelle scuole, come la aristotelica e la stoica, che riconoscono un principio d’ordine (Aristotele vede il finalismo nella natura come principio d’ordine, gli Stoici riconoscono con questa funzione la razionalità del Logos). Ordine di Zeus Vedi Zeus Orestea L’Orestea conclude la carriera drammaturgica di Eschilo ed è l’unica trilogia pervenutaci interamente. Con essa Eschilo vinse nel 458 a.C. le Grandi Dionisie (→). Le tre tragedie che la compongono sono l’Agamennone, le Coefore e le Eumenidi. L’autore narra l’assassinio di Agamennone ad opera della moglie Clitennestra, istigata dall’amante Egisto; la vendetta di Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra, che uccide la madre; la persecuzione del matricida da parte delle Erinni; la finale assoluzione di Oreste di fronte al tribunale ateniese dell’Areopago, istituito da Atena. Agamennone Per comprendere la trama dobbiamo brevemente descrivere l’antefatto. Agamennone, dovendo partire per la guerra di Troia e non avendo venti favorevoli, per propiziarsi il favore degli dei decise di sacrificare la bellissima figlia Ifigenia. I venti divennero favorevoli e la spedizione riuscì a partire. La moglie Clitennestra decise così di vendicare la figlia, con l’aiuto di Egisto, suo amante e cugino di Agamennone. La tragedia ha inizio con il monologo della vedetta appostata sul tetto della reggia di Argo che vede all’orizzonte il segnale luminoso mandato dai fuochi che annunciano la caduta di Troia e quindi il ritorno di Agamennone. La gioia per la vittoria è però adombrata dalle riflessioni del coro degli anziani argivi, sgomenti per il sangue versato e ancora dubbiosi sull’effettivo ritorno di Agamennone. Dopo un inno a Zeus, come colui che punisce chi compie ingiustizia, entra in scena l’araldo che annuncia il ritorno a casa di Agamennone, a differenza di Menelao che non tornerà in quanto vittima di un naufragio. Clitennestra, recitando la parte della sposa fedele, dichiara di aspettare con ansia l’arrivo del marito, ma il clima già preannuncia l’azione che si scatenerà contro Agamennone, colpevole di aver ucciso Ifigenia, e colpevole inoltre di essere figlio di Atreo che aveva ucciso i figli del fratello Tieste, dandogli poi in pasto le loro carni, tragedia dalla quale solo Egisto si era salvato. A ciò si aggiunga che Agamennone non torna solo, reca infatti con sé come concubina Cassandra, scatenando quindi la gelosia della moglie. Esteriormente Clitennestra accoglie con gioia il marito, è in realtà la gioia di colei che sta per compiere la sua vendetta: ella lo invita ad entrare in casa su un tappeto di porpora, segno del bagno di sangue che sta per segnare le vite di tutti. Rimane in scena la sola Cassandra, la profetessa condannata a non essere creduta, che lancia lamenti verso Apollo per la rovina della sua città e di se stessa. Le sciagure che hanno in passato colpito la casa di Atreo stanno per ripetersi e colpiranno Agamennone e la stessa Cassandra. Cassandra raggiunge Agamennone in casa: dall’interno provengono le grida di questi. Clitennestra compare in scena con la scure in mano, esultante di gioia e ferocia. Di fronte al coro attonito, questa esalta l’atto compiuto, rivendicando la propria vendetta: Agamennone ha così pagato la morte della figlia Ifigenia, la colpa di aver condotto in casa Cassandra, ma anche le colpe del padre Atreo. Con lei, ad esultare per la vendetta compiuta compare Egisto. Il coro, però, lo maledice, dichiarando di rimanere fedele al re ucciso, prospettando la sciagurata e futura tirannide e invocando il ritorno di Oreste. Di fronte al furore che ora muove Egisto, il quale vorrebbe liberarsi in modo violento dei vecchi, Clitennestra interviene per placarlo. La coppia regale entra nel palazzo. Coefore La seconda tragedia dell’Orestea prende il nome dalle donne, appunto le coefore, che portavano le libagioni ai morti e narra della vendetta di Oreste per l’uccisione del padre. La colpa chiama altra colpa ma la giustizia che punisce non è ancora placata. Sono passati alcuni anni e Oreste, dopo essere stato salvato dalla furia di Egisto dalla sorella Elettra, fa ritorno ad Argo con Pilade, figlio dell’uomo che lo ha ospitato lontano da Argo e garante del volere di Apollo che ha ordinato di vendicare l’uccisione di Agamennone. All’alba Oreste si reca presso la tomba del padre e vede giungere un corteo di donne, le coefore appunto, mandate da Clitennestra per portare libagioni sul sepolcro del marito (le offerte servivano per placare i morti). Con esse viene anche Elettra. Clitennestra aveva fatto un orribile sogno: partoriva un serpente che le mordeva il seno, succhiando insieme latte e sangue. Era, il sogno, il presagio dell’ira degli dei per la colpa commessa ed ella sperava, con le offerte, di placarli. Ma ormai, afferma il coro, Dike sta per abbattersi sui due amanti assassini. Elettra invoca Ermes, il dio che aveva il compito di guidare le anime dei morti nell’aldilà, e chiede pietà per sé ed il fratello, mentre le coefore la esortano ad invocare aiuto per vendicare la morte del padre. I due fratelli si stanno per incontrare sulla tomba del padre: Elettra intuisce la presenza del fratello da una ciocca di capelli che Oreste aveva posto, come offerta, sulla tomba e dall’impronta del piede di questi. Oreste esce allo scoperto e i due si abbracciano. I fratelli, insieme al coro, piangono la sorte del re, chiedono il suo aiuto e protezione per compiere l’inevitabile vendetta contro Clitennestra, la vera responsabile del terribile delitto. L’offerta di libagioni voluta da Clitennestra si trasforma quindi nel compimento del suo destino che le era stato preannunciato dal sogno. Oreste si trova quindi a dover scegliere tra due azioni entrambi colpevoli: la rinuncia alla vendetta o il matricidio. La decisione è per il matricidio quale compimento della vendetta. Oreste si reca, travestito da forestiero, alla reggia dove incontra la madre che non lo riconosce. Egli porta la falsa notizia della propria morte e Clitennestra si dimostra straziata; manda l’anziana nutrice di Oreste a chiamare Egisto, raccomandandosi che questi arrivi scortato. Ma le coefore convincono la nutrice a condurre Egisto solo e disarmato. Il coro invoca ora l’aiuto di Zeus affinché tutto vada come deve andare e tutti possano trarre beneficio dalla vendetta che sta per compiersi. Per primo viene ucciso Egisto, a cui segue il dolore di Clitennestra; poi cade lei. A nulla vale il suo tentativo di impietosire il figlio mostrandogli il seno che lo ha allattato da piccolo. Oreste è vittima di un attimo di esitazione, ma Pilade gli ricorda il compito a cui lo stesso dio lo ha chiamato e Oreste compie dunque il suo dovere. Clitennestra muore. La vendetta è portata a termine; il coro esulta perché Dike ha trionfato. Ad Oreste appaiono ora le Erinni (le dee vendicatrici dei delitti, specialmente quelli tra consanguinei) vestite di tenebra e la sua anima non regge, nonostante ribadisca che il delitto compiuto è un atto di giustizia impostogli dal dio. Oreste fugge inseguito dalle Erinni, non viste dal coro. La maledizione della stirpe degli Atridi non è ancora finita. Eumenidi L’ultima tragedia dell’Orestea prende il nome dalle Erinni che si trasformano in Eumenidi quando assumono un atteggiamento benevolo, e narra la persecuzione di Oreste da parte delle Erinni e la finale assoluzione del matricida. Oreste, inseguito dalle Erinni, si rifugia a Delfi, nel santuario del dio Apollo; la stessa sacerdotessa del dio, la Pizia, rimane inorridita alla vista delle mostruose figure che accompagnano Oreste. Giunge quindi lo stesso Apollo che esorta Oreste a recarsi nella città di Pallade, Atene, dove potrà mettere fine al suo strazio. Oreste riesce dunque a fuggire, e subito arriva lo spettro di Clitennestra che sveglia le Erinni le quali, accortesi della fuga di Oreste, levano un canto di odio. Queste vengono cacciate dal tempio e, istigate da Clitennestra, si danno all’inseguimento di Oreste che sembra non poter sfuggire alla persecuzione. La scena si sposta ora ad Atene, di fronte alla statua di Atena dove Oreste prega. Ma le Erinni sono riuscite a raggiungerlo e tutte intorno danzano e cantano un canto d’orrore a cui sembrano non potersi sottrarre neppure i più grandi tra gli uomini. Finalmente interviene la dea Atena che convince le Erinni a sottoporre Oreste al verdetto di un tribunale di ateniesi di dodici membri (su modello del tribunale ateniese dell’Areopago), presieduto dalla stessa dea. Le Erinni saranno l’accusa, Apollo la difesa ed il criterio – stabilito da Atena – è che l’accusato sarà assolto se ci saranno pari ragioni a favore dell’assoluzione e della condanna. Ora la sorte di Oreste è nelle mani della nuova giustizia del tribunale della città. Oreste spiega di aver compiuto una vendetta legittima e per di più su ordine di Apollo, il quale a sua volta individua in Clitennestra la vera colpevole, avendo assassinato il marito, padre di Oreste; Oreste aveva dunque tutto il diritto di vendicare il padre. Il tribunale deve ora votare: i voti risultano in parità, ma a favore di Oreste vota anche Atena. Di fronte a tale verdetto, le Erinni affermano di voler scatenare tutta la loro ira contro gli ateniesi, minacciando la città di terribili mali. Oreste nel frattempo si allontana, promettendo eterna alleanza tra la città e la gente di Argo. Atena interviene a placare le Erinni, promettendo che la città di Atene garantirà loro venerazione; a questo punto le Erinni si tramutano in Eumenidi, benigne, ed intonano un canto festoso che promette pace e serenità per tutti i cittadini della città di Pallade. Orfeo / Orfismo Orfeo + un mitico cantore, il cui nome è associato a una delle religioni dei misteri. Per gli studiosi l’etimologia più probabile del suo nome è orphne, oscurità. Il mito di Orfeo ed Euridice La testimonianza più antica che ci è pervenuta è del poeta Ibico (metà del VI sec. a.C.) che si riferisce ad “Orfeo dal nome famoso”. Le prime versioni complete del mito che ci sono pervenute sono latine: quella contenuta nel IV libro delle georgiche di Virgilio e quella nel X libro delle Metamorfosi di Ovidio. Secondo la tradizione Orfeo è figlio del sovrano tracio Eagro (o di Apollo) e della musa Calliope e visse in Tracia all’epoca degli Argonauti che accompagnò nella spedizione alla ricerca del vello d’oro. Apollo gli donò la lira e le Muse gli insegnarono a suonare. Con questo strumento egli incantava animali selvaggi, rocce, alberi. Durante la spedizione riuscì a salvare i marinai dall’incantesimo delle sirene, intonando un canto ancora più melodioso e riuscendo a placare anche le onde del mare in tempesta. Dopo la spedizione visse in Tracia e sposò la ninfa Euridice (→). Questa, mentre scappava dal pastore Aristeo che la insidiava, fu punta da un serpente velenoso e morì. Persefone, impietosita dal dolore di Orfeo, concesse a questi di scendere nell’Ade per far tornare in vita la sua sposa, ponendo però una condizione: che Orfeo non dovesse mai voltarsi a guardare Euridice prima di essere uscito dalla casa di Ade. Ma sulla soglia, Orfeo si voltò a guardare Euridice, la quale venne così nuovamente inghiottita da Ade. Orfeo, distrutto dal dolore per la perdita dell’amata, rifiutò da allora in poi il canto, la gioia e anche le donne, provocando così la furia delle Baccanti che, per vendicarsi del disprezzo da lui manifestato verso il genere femminile, lo fecero a pezzi, gettando la sua testa nell’Erebo. Le Muse raccolsero i pezzi del suo corpo e li seppellirono ai piedi dell’Olimpo. Zeus trasformò la lira di Orfeo in una costellazione. Nella versione di Ovidio, Orfeo ridiscende nell’Ade, ritrova Euridice e da allora i due sposi possono passeggiare insieme, a volte l’uno accanto all’altra, a volte l’uno davanti e l’altro dietro, senza più paura per Orfeo di voltarsi e perdere ancora la sua amata Euridice. L’Orfismo Legato a questi antichi miti è l’orfismo, una religione misterica che per noi si confonde con alcune dottrine pitagoriche sulla metempsicosi e sulla necessaria purificazione delle anime. Benché probabilmente molto antico, le testimonianze scritte certamente riferibili all’Orfismo sono tarde, e non è quindi possibile seguire lo sviluppo delle credenze collegate ad Orfeo. Ci viene tramandato che esistevano libri sacri, la cui origine è nel viaggio compiuto da Orfeo nell’Ade, alla ricerca di Euridice: avendo conosciuto di persona il mondo al di là della vita, Orfeo ha acquisito una sapienza più che umana. L’Orfismo è importante nello sviluppo della filosofia soprattutto perché Platone lo riprende e ne discute in vari punti dei suoi dialoghi, non sempre in chiave positiva, perché doveva esistere una versione popolare di queste credenze su cui Platone ironizza. Le tesi riprese da Platone, e sulla sua scia da altri filosofi, sono soprattutto due: - la concezione dell’anima umana come una sorta di demone indipendente dal corpo e imprigionato in esso nel ciclo delle rinascite (metempsicosi); - la nozione di vita personale e cosciente dell’anima dopo la morte. Organon Il termine non risale ad Aristotele, ma è stato utilizzato per indicare il complesso degli scritti che Andronico di Rodi nel I secolo a.C. raggruppò insieme perché trattavano temi che oggi indichiamo sotto la dizione logica (→) (ed anche, in parte, filosofia del linguaggio: →). Ciascuno di questi scritti ha un suo titolo, e Organon è il nome dell’intera raccolta. In greco la parola organon significa strumento, e in effetti i temi logici trattati da Aristotele non formano una scienza a se stante, ma sono propedeutici alla scienza, fornendo appunto gli strumenti logico-linguistici necessari per affrontare la ricerca filosofica e scientifica. Benché temi logici sino presenti negli scritti dei filosofi precedenti, e alcuni dei dialoghi platonici siano tematicamente dedicati a indagini di questa natura, l’Organon di Aristotele costituisce la prima sistematica analisi dedicata alla logica nel contesto della filosofia occidentale. Origene Teologo cristiano di lingua greca, Origene nacque ad Alessandria intorno al 185 d.C., e morì durante la persecuzione dell’imperatore Decio contro i cristiani dopo essersi ritirato a Cesarea, in Palestina, dove tenne scuola. Era stato educato al Cristianesimo e agli studi teologici dal padre, anch’egli ucciso nel corso di una persecuzione anticristiana. Ad Alessandria aveva tenuto scuola di grammatica, ma anche di teologia, e la sua opera va inquadrata nel contesto della Scuola teologica di Alessandria (→) di cui fu, con Clemente Alessandrino, il massimo esponente. Fu uno scrittore molto attivo (antiche tradizioni fissano in 800 il numero dei suoi libri), ma è rimasto ben poco in originale: scriveva in greco e una parte della sua produzione ci è stata tramandata solo in traduzioni latine posteriori. La parte maggiore dei suoi scritti riguarda i singoli testi biblici, trattati secondo tre generi letterari distinti: - gli Scoli, cioè brevi note ai testi limitate ai passi di più difficile interpretazione; - le Omelie, cioè commenti di carattere popolare, orientate alle esigenze della predicazione; - i Commentari, cioè commenti al testo sacro di tipo filologico e teologico, utilizzando il metodo allegorico di Filone di Alessandria (→) e la sua pratica di lettura del testo sacro della tradizione ebraica attraverso concetti e nozioni filosofiche greche (Origene orientava in senso mistico le proprie interpretazioni allegoriche). Di Origene è piuttosto importante uno scritto apologetico (cioè in difesa del Cristianesimo) dal titolo Contro Celso, in risposta ad uno scritto anticristiano del filosofo platonico Celso. Osservazione Condotta con metodo, è una delle pratiche che caratterizzano la filosofia già al suo nascere e la distinguono dal mito (l’altra pratica è il ragionamento, l’analisi razionale sulle osservazioni fatte: vedi le voci Esperienza e Logos: →). Detto questo, va però ricordato che anche i racconti della mitologia che interpretano gli eventi naturali attraverso racconti si fondavano in qualche modo sull’osservazione. La differenza con le pratiche di raccolta dei dati tipiche dei filosofi è che queste sono condotte con metodi che, a mano a mano che si avanza nei secoli, diventano sempre più raffinati: Aristotele, due secoli dopo l’avvio di questo genere di pratiche, è ormai padrone di metodi che gli consentono di classificare, sulla base di precise osservazioni in numero veramente elevato, ogni genere di enti studiati: dagli animali alle piante, dalle costituzioni delle città alle forme del discorso, e così via. La tradizione di pensiero che porta nella direzione dell’osservazione come pratica filosofica deve molto alle ricerche matematiche e astronomiche dell’Oriente: in Egitto e soprattutto in Mesopotamia almeno dal III millennio si scrutavano i cieli tenendo memoria dei dati osservati (sui movimenti del Sole, della Luna, dei pianeti, sulle eclissi, e così via) e si praticavano misurazioni per gestire la canalizzazione delle acque o la divisione dei terreni. Quando i primi filosofi si rivolsero all’indagine naturalistica mediante l’osservazione, la svolta fu certamente radicale perché la direzione dell’indagine stava virando in direzione della scienza piuttosto che del mito, ma si trattò di un nuovo impulso ad antiche pratiche, piuttosto che di nuove pratiche tout court. Ousia Vedi Sostanza Paideia Termine greco che traduciamo con educazione, o formazione, ma che ha in sé anche il riferimento ad un mondo culturale che fa sì che l’uomo sia davvero uomo: senza la paideia, è un uomo non completo, non pienamente maturo e padrone di sé. Il concetto di educazione nella tradizione filosofica greca del periodo classico non può essere compreso se non nel contesto della polis: educare una persona significa per questi filosofi educare il cittadino. Le ragioni per cui è visto in maniera così stretta il legame tra l'uomo e il cittadino sono diverse da filosofo a filosofo; ma dietro le ragioni filosofiche è indubbio che su questo punto tutti subiscano l'influsso della concezione tipicamente greca dell'uomo, una concezione che non aveva eguali nelle culture dei popoli del vicino Oriente e che i Greci sentivano fortemente come propria: l'uomo come portatore di una cultura che si esprime nella sua libertà individuale, resa possibile soltanto dalla vita nella libera comunità politica, la polis. Da questa idea prese le mosse il filologo classico Jaeger in quello che è forse il più importante e approfondito studio dedicato alla nozione greca di paideia: "L'educazione, in primo luogo, non è faccenda individuale, ma, per sua natura, è cosa della comunità. (…) L'edificio di ogni comunità riposa sulle leggi e norme, scritte e non scritte, in essa vigenti, le quali vincolano essa medesima e i suoi membri. Ogni educazione è perciò emanazione diretta della viva coscienza normativa d'una comunità umana" (Jaeger). Questo aspetto dell'educazione - il legame tra la formazione dell'individuo e la cultura della comunità - così fortemente sottolineato dai Greci come carattere dell'uomo libero, caratterizza i problemi connessi alla nozione di paideia:: - qual è la vera natura dell'uomo che l'educazione deve valorizzare, ed innanzitutto rispettare ed esprimere - quale rapporto deve esservi tra l'educazione come trasmissione di valori acquisiti dalla comunità e l'educazione come cammino personale, libero, per la realizzazione di sé? Si tratta di questioni tipicamente filosofiche, ed in questo senso la pedagogia è stata per secoli una disciplina filosofica: infatti, la domanda sulla vera natura dell'uomo - sulla sua identità nel mondo rimanda ai più complessi problemi metafisici ed etici (rimanda al rapporto con la natura, con Dio, con le finalità e il senso della vita, e così via), e lo studio del rapporto tra individuo e comunità, dal punto di vista della libera espressione di sé nella cultura, rimanda ai fondamentali temi filosofici della libertà, dei fondamenti del diritto e della legge, dei suoi limiti, e così via. Panatenee Il nome di questa antica festa ateniese deriva da pan, che significa tutto, unito al nome di Atene, e significa quindi festa di tutti gli Ateniesi. La dizione fa riferimento al sinecismo, nel mito attribuito al re Teseo, con cui Atene legò a se l’intera Attica in un unico corpo politico. La festa aveva il suo momento culminante in una grande processione che dal sobborgo del Ceramico giungeva fino all’Acropoli passando per tutti i luoghi sacri di Atene, cui seguivano sacrifici rituali. Era il momento di maggiore visibilità della concezione ateniese dell’unità politica della popolazione. Pandora È la prima donna, e il suo nome significa letteralmente ricca di doni, creata da Efesto e Atena in esecuzione di un preciso ordine di Zeus che intendeva punire gli uomini per aver ricevuto il fuoco da Prometeo (→). Al momento della sua nascita ricevette sì moltissimi doni dagli dèi, ma anche la doppiezza d’animo. Tra i doni di Zeus c’era un vaso. Incuriosita, lo aprì, e secondo una delle diverse versioni del mito ne uscirono tutti i mali, compresa la morte, che si sparsero irrimediabilmente sulla Terra, portando dolore al genere umano. Solo la speranza rimase sul fondo del vaso, lasciando così aperto uno spiraglio per le umane sorti. Sposa di Epimeteo (→), da lui ebbe una figlia, Pirra (vedi la voce Eucalione e Pirra: →). Panellenico Questo aggettivo significa letteralmente “di tutta la Grecia”, ed è riferito a quelle istituzioni non proprie di una specifica polis ma a quelle che, pur spesso legate a un luogo sacro o a una città, avevano un significato per tutti i Greci, ed erano effettivamente frequentate da cittadini di tutte le poleis, sia della madrepatria che delle colonie. Va ricordato a questo proposito che i Greci non hanno mai avuto istituzioni politiche unitarie, se si escludono accordi e leghe in genere non destinati a durare. Ma allo stesso tempo hanno sentito in modo molto radicale l’appartenenza ad una comune cultura – e, più in generale, ad un comune livello di civilizzazione -, sicché la distinzione tra Greci e Barbari (→) rimase per tutta la loro storia un elemento caratterizzante. Le istituzioni di tipo panellenico rafforzavano periodicamente il senso di appartenenza ad una stessa comunità. Benché in Grecia e nelle colonie si parlassero almeno quattro dialetti (→), c’era una lingua panellenica, ed era quella fissata dalla tradizione dell’epos, a partire dai poemi omerici: ovunque fossero, i cantori proponevano in questa lingua – che tutti capivano - i loro canti. Le istituzioni panelleniche più importanti erano di due tipi: - religiose: in determinati luoghi sorgevano templi e strutture religiose a cui ci si rivolgeva da tutta la Grecia; la più celebre di queste istituzioni era Delfi (→), il cui santuario ebbe tra l’altro un ruolo decisivo nel processo di colonizzazione perché le città da cui partivano i gruppi fondatori di nuovi insediamenti si rivolgevano di norma all’oracolo di Apollo per averne il responso; - sportive: c’erano almeno quattro istituzioni panelleniche di questo tipo: le olimpiadi e i giochi pitici, nemei e istmici. La differenza tra istituzioni di tipo religioso e sportivo non va enfatizzata, perché anche le gare sportive erano poste sotto il segno di un dio. Va ricordato che il vigore fisico e in genere tutta la sfera della fisicità del corpo era sentita dai Greci strettamente legata alla sfera religiosa, come è ovvio per una cultura le cui divinità sono espressione delle forze della natura (se il divino è in natura, nelle forze della natura e del corpo, nonché nelle passioni, va riconosciuto un elemento di matrice religiosa). Panezio Vedi Stoicismo Panta rei La traduzione italiana di questo celebre detto di Eraclito è “tutto scorre”. In questa lapidaria sentenza Eraclito concentra la sua teoria del divenire (→), alla quale rimandiamo. Papiro È una pianta erbacea perenne che in Egitto era utilizzata per diverse applicazioni sin dal III Millennio a.C. Nel mondo greco si diffuse la pratica della scrittura su fogli ricavati dalla lavorazione di questa pianta e, a partire dal I secolo a.C., anche a Roma, dove rimase in uso ben oltre il II secolo d.C. quando cominciò a diffondersi l’uso della pergamena, raccolta in volume e non in rotolo (si veda la voce Libro: →) La produzione e la lavorazione del papiro come supporto per la scrittura in età ellenistica divenne una delle componenti importanti dell’esportazione dell’Egitto, che tentò con i Tolomei di stabilirne il monopolio. I rotoli di papiro sono un supporto per la scrittura facilmente deperibile. Ma in particolari condizioni, soprattutto nel clima secco del deserto quando non esposti agli agenti atmosferici (ad esempio nelle tombe), un numero notevole di papiri si sono conservati. Nel corso del XX secolo e dei primi anni del XXI ne sono stati ritrovati e pubblicati oltre 40.000 (ma i ritrovamenti sono superiori alle pubblicazioni, per la difficoltà dell’analisi filologica dei testi, spesso assai poco leggibili, e una parte dei papiri ritrovati devono quindi essere ancora pubblicati). La nostra conoscenza dei testi scritti del mondo classico (prevalentemente letterari, ma in qualche caso anche filosofici) si va quindi accrescendo per questa via. A titolo di esempio, tra i più importanti ritrovamenti recenti segnaliamo quello di alcune decine di versi dei poemi di Empedocle, alcuni dei quali già noti, altri di nuova acquisizione. Paradigma Vedi Modello Paradosso Celebri quelli di Zenone: i paradossi sono ragionamenti che mettono capo ad una contraddizione, che va sciolta con nuove ricerche (o che si dimostra, in qualche caso, insolubile). La nozione è affine a quella di aporia (→). Il termine è greco e deriva da para (contro) e doxa (opinione), termini che rimandano ad un significato più generico di quello, specialistico, che prima abbiamo indicato: paradosso nel senso di “opinione contraria” è detta nel mondo greco quell’opinione che va contro il comune sentire ed è quindi sorprendente, paradossale nel senso che evoca sorpresa, ma non implica contraddizione - se non nel senso che va contro: Aristotele ad esempio distingue le endossa (→), opinioni condivise dai più e dai migliori, dai paradossi, che non sono opinioni condivise, ma controverse. Nel senso tecnico di ragionamento che implica contraddizione, oltre ai paradossi di Zenone prima richiamati, ricordiamo il più celebre tra quelli che l’antichità ha proposto, cioè il paradosso del mentitore: se una persona dice “io sto mentendo”, una delle due: se dice la verità, allora mente (perché non è vero che sta mentendo), se dice il falso, allora dice la verità (perché in effetti non è vero che sta mentendo). Gli storici della filosofia fanno risalire alla Scuola megarica (→) il primo compiuto tentativo, sulla scia di Zenone, di sfruttare i paradossi per porre in crisi le pretese della ragione e soprattutto e soprattutto per mettere in luce la dimensione problematica del linguaggio. Su questo punto vi sono due posizioni: - chi ritiene che i paradossi mostrino i limiti della razionalità e del linguaggio (una linea di pensiero greco va da Zenone agli scettici passando attraverso Gorgia e i Megarici); - chi ritiene invece che si tratti sì di una sfida per la ragione e per il linguaggio, ma risolvibile con corrette pratiche logiche e linguistiche (Platone, Aristotele, Epicureismo, Stoicismo). Il tema è ancora d’attualità ai nostri giorni (alcuni filosofi e alcuni matematici del XX secolo hanno ripreso questo antico dibattito). Paride Negli antichi racconti mitologici e nell’Odissea, il troiano Paride è uno dei figli di Priamo e di Ecuba, chiamato anche Alessandro. I suoi comportamenti furono alla base dello scoppio della guerra di Troia, perché fu lui a rapire Elena da Sparta (per il racconto di queste vicende vedi la voce Elena: →). Nell’Iliade Paride non è tra gli eroi che hanno un ruolo di primo piano, e la sua figura non è quella di un valoroso soldato. Ma, dopo avere avuto la peggio nel duello diretto con Menelao ed essere stato salvato da Afrodite, sua protettrice, fu lui a uccidere Achille colpendolo al tallone con una freccia (peraltro guidata nella sua traiettoria da Apollo). La sua morte avvenne sotto le mura di Troia colpito da una freccia scagliata dall’eroe greco Filottete. Intorno alla figura di Paride fiorirono diversi altri miti, la maggior parte legati alla sua giovinezza. Parresia Il termine è riferito alla filosofia dei Cinici, ed in specifico al loro stile. Parresia significa libertà di parola, o meglio franchezza di parola, quel dir la verità senza se e senza ma che caratterizza chi, come i filosofi cinici, non rispetta affatto le consuetudini e le convenienze sociali. La parresia è quindi lo stile estremo e dissacrante con cui i Cinici dicono la verità, con voluta e provocatoria sfrontatezza. Ma sempre e rigorosamente senza nulla tacere del vero e senza mai mischiare quella che ritengono essere la verità con elementi retorici, o persuasivi, o ambigui. Partecipazione La nozione di partecipazione (in greco methexis) ha acquisito un significato filosofico a partire da Platone. L’uso del termine prima era relativo ad attività pratiche, come partecipare ad una guerra o a un banchetto. Partecipare di qualcosa significava anche avere la propria parte di una eredità. Qualcosa di quest’ultimo significato (partecipare come avere parte, acquisire un bene) rimane in Platone, che fa della partecipazione una delle due possibili modalità che vengono studiate per spiegare il rapporto tra le cose e le idee che fanno loro da modello (l’altra modalità è l’imitazione: →). Se questa ipotesi è corretta (e Platone si limita all’esame, senza concludere), le cose partecipano delle idee. “Attenzione: si partecipa a qualcosa portando il proprio contributo e si partecipa di qualcosa ricevendo la propria parte. Occorre dunque dire che il mondo sensibile partecipa del mondo intellegibile” [Gobry] Passione Dal greco pathos (→), il termine è utilizzato dai filosofi greci in tre campi problematici distinti, con lo stesso significato di base: si ha passione quando un ente viene modificato da un altro ente. La passione è quindi intesa sempre come il contrario dell’azione: nell’azione l’ente agisce, nella passione subisce. I significati del termine - In ambito metafisico Aristotele, sulla scorta di una precedente tradizione, indica nella passione una categoria (→) correlativa e complementare all’azione. - Nel campo del problema della conoscenza la passione è da diversi filosofi studiata come tappa del processo della conoscenza sensibile (in tutte le teorie per cui i nostri sensi non conoscono direttamente gli enti esterni, ma le modificazioni, quindi le passioni, che essi inducono nel nostro corpo: così, ad esempio, in Epicuro) o della conoscenza intellettiva (il tema è trattato approfonditamente in Aristotele che distingue l’intelletto attivo e l’intelletto passivo (→), in passi particolarmente problematici quanto alla loro interpretazione. - In ambito etico, le passioni sono, con termine unificante, quel vastissimo complesso di emozioni, sentimenti, pulsioni interiori, forze interne che spingono all’azione, affezioni, tendenze del carattere, inclinazioni del cuore, e così via, che l’io trova nella propria interiorità e subisce: non ne è lui l’attore. C’è poi un signoficato più generale del termine: “la radice path- si ritrova in latino, dove assume lo stesso significato; l’infinito pati vuol dire sia soffrire, provare sofferenza, sia permettere, consentire. Passio (più tardo) da un lato ha un significato di sentimento intenso e penoso, dall’altro di lunga sofferenza fisica: la passione del gioco, la Passione di Cristo, dei martiri” [Gobry] Etica: passioni e libertà umane Dei tre ambiti problematici, nella filosofia antica il settore forse più trattato è stato quello etico, costituendo anzi il tema delle passioni uno dei fulcri dell’interesse dei filosofi verso l’etica. Su due temi etici connessi alle passioni anche i poeti si sono a lungo interrogati, ponendo interrogativi sulla responsabilità (→) umana e sulla colpa (→) ; su questi temi, sia in ambito letterario che filosofico, sono state poste diverse domande: - da dove hanno origine le passioni? l’io ne è responsabile? il tema ha aspetti fortemente inquietanti nella concezione arcaica di Ate (→), o nella descrizione dell’Eros (→) come passione invincibile; ma il tema è generale per molte passioni, non per una in particolare; provengono dalla natura universale e dalla nostra natura, o forze oscure e potenti agiscono sull’uomo dall’esterno? - in definitiva il problema che i poeti e i filosofi pongono è: l’uomo è davvero libero? o le passioni dominano non solo la sia vita interiore, ma la sua stessa mente e quindi le sue scelte e le sue azioni? In filosofia il tema dell’origine delle passioni e quello della libertà dell’io dalle passioni sono al centro di teorie complesse che coinvolgono la metafisica, la fisica e la biologia, perché da Democrito a tutta la filosofia del IV secolo a.C. l’indagine sulla natura umana ha aspetti che riguardano sia il corpo (da qui la ricerca in chiave biologica), sia l’anima (concepita dotata di energie proprie). Per tutte le filosofie ellenistiche l’obiettivo primo del saggio è tenere sotto controllo le proprie passioni, fare in modo che l’io non le patisca. I modi in cui questo avviene e le teorie che spiegano come possa avvenire sono diverse da scuola a scuola, ma non vi sono eccezioni a questa ricerca: anche i cinici e gli scettici concordano. L’io non è libero se non è, innanzitutto libero dalle passioni. Classificazione delle passioni Un problema diverso, e analizzato con cura da Platone a tutta la filosofia ellenistica, è quello della precisa identificazione di ciascuna passione, attribuendo ad essa un nome ed una fisionomia riconoscibile. La ricerca filosofica sulla classificazione delle passioni (Platone, Aristotele, gli Stoici vi dedicano studi ampi e approfonditi) mira sia ad un obiettivo di conoscenza (comprenderne la natura e i modi in cui ciascuna agisce) sia ad un obiettivo di controllo (conoscendole, le si controlla meglio). Pathos Vedi Passione Pausania Uomo politico e retore, a noi non altrimenti noto che dalle opere di Platone (compare nel Protagora e nel Simposio su posizioni vicine ai Sofisti) e di Senofonte (è tra i personaggi del suo Simposio), è presentato come retore molto esperto, vicino al relativismo sofista per le posizioni filosofiche. Il discorso di Pausania nel Simposio di Platone Nel Simposio di Platone è tra i protagonisti che pronunciano un loro elogio di Eros. Pausania propone una distinzione tra due Afrodite e quindi due Eros, con caratteri molti diversi. Una Afrodite è Urania, cioè celeste, e caratterizza l’amore spiritualmente elevato tra maschi. L’altra Afrodite è Pandemia, e l’Eros popolare che le è associato va tenuto sotto controllo perché tende all’eccesso. Tutto il discorso di Pausania si sviluppa poi intorno all’esame delle condizioni per cui è cosa onorevole e consigliabile per l’amato cedere all’amante. Vengono fissate alcune regole di convenienza sulla base del principio sofista del relativismo etico, per cui nulla è in sé buono e degno di onore, ma tutto lo è o non lo è a seconda dei modi in cui le scelte vengono fatte. Peana Originariamente inno in onore di Apollo proprio della lirica corale greca (ma le origini sono probabilmente cretesi, da una danza antichissima praticata a fini di culto), divenne poi un carme di guerra e di vittoria. Era eseguito da un coro maschile con l’accompagnamento dell’aulos (→) o della cetra (→). Pedagogia In greco pais è il bambino, agogos è la persona che fa da guida. Il pedagogo è quindi una guida per l’educazione e per l’istruzione dei bambini e la pedagogia è la disciplina che ha per oggetto la formazione dell’uomo a partire dalla prima infanzia. Per lo studio di questa nozione rimandiamo alla voce Paideia: →). Peloponneso La regione storica del Peloponneso (il nome significa letteralmente isola di Pelope, un antico eroe del mito) è una penisola (a lungo citata come un’isola dalle fonti più antiche) tra l’Egeo e lo Ionio, aperta verso il Mediterraneo a sud. È legata alla terraferma dall’ismo di Corinto. Era divisa in diverse subregioni, tra cui l’Arcadia, l’unica a non avere sbocchi sul mare e ad essere interamente collinare o montana, in cui sopravvivevano in età storica gruppi eredi di antichi insediamenti eolici. Nel II Millennio a.C. l’intero Peloponneso era controllato dai Micenei, che avevano qui le loro rocche più importanti e il centro del loro potere: Micene, Tirinto, Pilo, Argo. È complessa e solo parzialmente nota la vicenda che portò intorno al 1200 a.C. al crollo del sistema di potere miceneo e alla distruzione delle possenti rocche. Col tempo, la penisola venne colonizzata dai Dori, che fondarono Sparta intorno al 1000 a.C. e, con successive guerre, si imposero su tutta la popolazione del Peloponneso. In età arcaica e classica il potere dominante nel Peloponneso era quello dei Dori, che aveva il suo centro a Sparta, che con Atene (e, in misura minore, Tebe) fu uno dei centri che polarizzarono la vita politica e culturale dell’intero mondo greco. Alcune delle istituzioni religiose e culturali di primo piano nella civiltà ellenica avevano sede nel Peloponneso, ad esempio Olimpia, dove si svolgevano le Olimpiadi quadriennali. Peloponneso (Guerra del) Gli storici greci chiamano con la dizione unitaria Guerra del Peloponneso un vasto conflitto, che si combatté in realtà su tutto lo spazio greco, tra il 431 e il 404 a.C. Protagoniste del conflitto erano Atene e di Sparta, ma la guerra ebbe come co-protagoniste un altissimo numero di altre poleis (volenti o nolenti, ben poche rimasero neutrali). Atene e Sparta erano infatti le città capofila di due sistemi di alleanza, nate o consolidatesi dopo le Guerre persiane (→): rispettivamente la Lega delio-attica e la Lega peloponnesiaca. La causa di fondo della guerra, chiaramente identificata da Tucidide che nelle sue Storie ha condotto una approfondita ricerca storica su questo periodo della storia greca, era la rivalità politico-economica tra i due schieramenti e, segnatamente, tra le due potenze maggiori, Atene e Sparta, che tendevano a condurre una politica di tipo “imperialista” che presto rese incompatibile nell’unico spazio greco la presenza di più di un sistema di potere. Gli eventi bellici si svolsero in diverse fasi, e i non pochi periodi in cui non si combatté furono in realtà soltanto delle brevi tregue: - la prima fase della guerra durò dal 431 al 421 a.C., e venne combattuta quasi esclusivamente come guerra di logoramento, con poche battaglie campali: i Peloponnesiaci devastarono sistematicamente l’Attica, mentre i suoi abitanti si rifugiavano entro le mura di Atene (che giungevano dalla città al porto del Pireo, mantenendo quindi libera la possibilità di navigazione), mentre gli Ateniesi e i loro alleati colpivano sul mare il commercio peloponnesiaco; la cosiddetta Pace di Nicia del 421 si rivelò in realtà soltanto una tregua; - la seconda fase della guerra durò dal 421 al 413 a.C., e venne combattuta su molti fronti; il più importante, perché si rivelò decisivo, fu quello siciliano perché gli Ateniesi decisero di attaccare Siracusa, alleata di Sparta, riportando tra il 415 e il 413 una disastrosa sconfitta, che ebbe un costo umano e materiale elevatissimo per le risorse di Atene e dei suoi alleati; - la terza fase della guerra durò dal 413 al 404 a.C., e venne combattuta prevalentemente nella Ionia e in Attica, con Atene assediata nell’ultimo periodo, prima della definitiva sconfitta. La guerra si concluse con la netta vittoria di Sparta, che impose ad Atene un regime oligarchico detto dei Trenta Tiranni (→), presto crollato per ragioni interne, sicché ad Atene poté essere restaurata la democrazia. Tebe e altre nemiche di Atene ne avrebbero voluto la distruzione, ma fu proprio Sparta a negare quest’esito alla guerra probabilmente temendo che l’uscita definitiva di scena di Atene potesse preludere all’espansione di altre potenze greche, potenzialmente tanto pericolose per Sparta quanto lo era stata Atene. Penia e Poros Nel Simposio di Platone il personaggio-Socrate riferisce di una rivelazione ricevuta da giovane dalla sacerdotessa Diotima. Narra tra l’altro un racconto mitologico sulla nascita di Eros: concepito come un demone mediatore tra l’umano e il divino, e non come un dio, Eros è nato da un amplesso voluto da Penia (penia in greco significa povertà) con Poros, figlio della dea Metis (il termine poros vuol dire espediente). Penia e Poros sono quindi personificazioni divine di nozioni d’esperienza. Eros è quindi povero come la madre (desidera sempre ciò che non ha) e come il padre trama inganni e usa tutti gli espedienti per raggiungere i suoi obiettivi. Pensiero Il temine italiano pensiero è generico, e indica l’intera sfera dell’attività della mente in quanto conosce la realtà esterna e costruisce realtà mentali dei tipi più diversi: pensare è quindi tanto immaginare quanto riflettere, o formare idee nella propria mente, o costruire teorie, e così via. Il termine greco è nous (→), che indica sia il pensiero che la mente pensante. Ci sono però vari termini derivati da nous usati dai filosofi greci, e tra essi ricordiamo: - Parmenide usa il termine arcaico noema per indicare il pensiero, e usa il verbo noein quando dice che la stessa cosa è il pensare e l’essere (rispettivamente noein e einai: è il fr. 3). - noein è appunto il verbo che indica l’atto del pensare (così in Parmenide e, dopo di lui in Platone, Aristotele, Plotino, tutti filosofi per cui il pensiero ha una sua sfera variamente intesa, ma ben distinta da quella della fisicità del corpo); - noesis è la ragione contemplativa, l’atto della mente nel momento della theoria, cioè della contemplazione (→); - noeta sono gli oggetti del pensiero, i pensati (in Platone e in Plotino il temine è usato per lo più al plurale, al singolare è noeton); - dianoia è la conoscenza discorsiva; - Aristotele usa eunoia (buon pensiero, pensiero positivo) per indicare la benevolenza e gli Stoici usano pronoia (letteralmente il pensare prima, il prevedere) per il loro concetto di provvidenza (→); - infine agnoia è l’ignoranza. Collegate alla nozione di pensiero la lingua greca usa anche altre parole, alle quali rimandiamo, ad esempio logos (→) e i vari termini che traduciamo con l’italiano idea (→). Per una sintesi dei problemi filosofici sui temi trattati in queste voci vedi la voce Problema della conoscenza (→). Pensiero di pensiero Questa dizione (noesis noeseos) è riferita da Aristotele a Dio, atto puro privo di potenzialità: è “l’atto stesso per cui Dio è Dio. Infatti l’intelligenza (nous) dell’Essere eterno, che è il Bene in sé, perfettamente desiderabile, può essere in atto solo incontrando il proprio specifico oggetto; ora, quest’oggetto è necessariamente se stesso, ed è questo pensiero perfetto (noesia) che pensa se stesso; atto intellettivo puro, è l’esistenza stessa di Dio (Metafisica, A, 7, 1072°-b)” [Gobry] Pensiero per immagini Questa dizione è utilizzata nell’ambito delle ricerche a noi contemporanee nel campo delle scienze cognitive per indicare le forme del pensiero che utilizzano le potenzialità dell’immaginazione e delle immagini per l’elaborazione e/o la comunicazione del pensiero in tutte le sue articolazioni, comprese quelle intellettive, le astrazioni pure, le intuizioni intellettuali, e così via. Il tratto unitario delle molto variegate forme di pensiero per immagini è l’uso di figure o di narrazioni per pensare e per comunicare. Quindi il termine immagine nella dizione pensiero per immagini indica - o un elemento d’esperienza, comunque acquisito (quindi, per citare due casi estremi, tanto l’immagine visiva di un ente reale, quanto il personaggio di un’opera teatrale, non vista a teatro ma letta, quindi soltanto immaginato); - o un elemento formato dall’immaginazione che non trova alcun corrispettivo nell’esperienza. Si veda comunque su questo punto la voce Immagine (→). Nel pensiero per immagini la narrazione, quando è presente, serve a comunicare queste immagini, ma anche ad articolare la trama concettuale tra le immagini attraverso gli eventi narrati. Questo tipo di narrazione ha quindi la stessa struttura di un mito, ed è per questa ragione che Platone ad esempio può raccontare, senza alcuna contraddizione con i caratteri propri della ricerca filosofica, vari miti liberamente elaborati dotandoli di pieno senso filosofico. Diverse forme Nella filosofia antica le forme del pensiero per immagini che ricorrono più frequentemente sono le seguenti: - singole immagini, o poche associate, con valore metaforico o metonimico (si pensi ad esempio alla lira e al fiume di Eraclito) e le similitudini (si pensi alle similitudini in Lucrezio e negli Stoici), sia nel corpo di scritti ampi in generi in snodi teorici importanti (si pensi alla metafora della seconda navigazione in Platone), sia in aforismi e in brevi pensieri (generi letterari che fanno abitualmente ricorso al pensiero per immagini, più di altre); - i racconti mitologici reinterpretati, o i miti filosofici di nuova elaborazione (su questo tema vedi Miti filosofici: →); - le personificazioni di concetti in figure (ad esempio Zeus per il Logos nell’Inno a Zeus di Cleante); - le visualizzazioni di concetti come forma di interpretazione di strutture, ad esempio quando il pensiero matematico si esprime in immagini geometriche cariche di valore perché considerate espressione di una realtà eterna (l’immagine della circonferenza per il moto dei cieli, i solidi del Timeo platonico, e così via); - il richiamo all’esperienza come base per argomentazioni e percorsi dialettici (come in Socrate, che parte regolarmente da immagini d’esperienza della vita quotidiana). Le finalità L’uso di queste forme di pensiero nella filosofia antica risponde a diverse finalità. In alcuni casi serve per esprimere in modo rigoroso concetti che sono considerati carichi di valori emotivi e quindi inesprimibili attraverso le forme del pensiero razionale, considerato poco efficace al fine di rendere ragione di questi valori emotivi: ad esempio ricorre al pensiero per immagini con questa finalità Plotino nel descrivere la tensione dell’anima verso l’Uno (processo unitariamente intellettivo ed emotivo), e a volte anche Platone (ad esempio nella descrizione del mito della biga alata del Fedro). In altri casi serve ad esprimere con la massima forza un concetto, caricandolo per lo più implicitamente di valori emotivi o estetici (come quando Epicuro parla nelle sue sentenze dell’amicizia o Marco Aurelio si propone di somigliare ad uno scoglio nella tempesta). In altri casi serve ad uno scopo più complesso: esprimere più linee di pensiero, anche divergenti, fuse in un’unica immagine, che costringe il lettore ad attivare a sua volta forme di pensiero diverse (maestro di queste, a volte davvero suggestive, apparenti contraddizioni è Eraclito). Nel ricorso al mito, soprattutto in Platone, la finalità appare quella di dar spazio a percorsi dialettici altrimenti inesprimibili. Vi sono casi in cui il filosofo gioca con i suoi lettori – la scrittura filosofica ha aspetti letterari, alcuni legati al gioco: →) – proponendo immagini con forte valore concettuale ed emotivo in cui è indecidibile se l’autore stia usando un linguaggio proprio o figurato (ad esempio quando Epicuro dice che la felicità umana è realmente possibile e si può essere felici come gli dèi). Percezione Vedi Rappresentazione Perfetto L’aggettivo greco teleios significa perfetto nel senso di completo in tutte le sue parti e di ben fatto: qualcosa di compiuto a cui non manca nulla. È importante sottolineare che la comune maniera di pensare greca identifica il perfetto col finito: l’Essere di Parmenide è concepito finito e perfetto, e così varie rappresentazioni antiche dell’universo fisico (così in Aristotele e negli Stoici). Pergamo Città dell’Asia Minore, in età ellenistica divenne la capitale di uno dei regni nati dopo la morte di Alessandro Magno. Di notevole importanza politica, passò poi ai Romani con l’intero regno che dalla città prendeva il nome, quando l’ultimo re, Attalo III, lasciò il regno per testamento a Roma, di cui era stato alleato seguendo la politica tradizionale dei suoi avi. Roma del resto a quest’epoca (Attalo III morì nel 133 a.C.) controllava ormai di fatto tutto l’Oriente. Nella storia della cultura e della filosofia Pergamo occupa un posto particolare perché era sede di una delle due più importanti istituzioni culturali dell’ellenismo (l’altra era la Biblioteca di Alessandria: →), Anche a Pergamo infatti sorgeva una grande biblioteca, in concorrenza con quella di Alessandria, che svolgeva la stessa funzione: era un luogo di conservazione del patrimonio librario dell’antichità e allo stesso tempo un centro di ricerca. Si parla di una Scuola di Pergamo (→) in concorrenza con le scuole alessandrine dell’epoca, soprattutto per gli studi in campo filologico e storico. Vi si coltivavano anche studi filosofici, e ancora nel III secolo d.C., quando ormai la città era avviata ad una netta decadenza, vi fu fondata una scuola filosofica di ispirazione neoplatonica legata al politeismo greco, detta anch’essa Scuola di Pergamo, celebre perché lì si formò l’imperatore Giuliano (vedi la voce Neoplatonismo: →). Pericle Uomo politico ateniese, Pericle (Atene 495 ca. – 429 a.C.) fu al centro della scena politica non solo ateniese, ma di tutta l’Ellade per quasi un trentennio tra la metà del V secolo e il 429 a. C. quando mori, all’improvviso, vittima della peste che aveva colpito Atene nei primi anni della Guerra del Peloponneso. Ebbe un ruolo centrale come promotore della politica culturale della sua città. Nella cosiddetta età di Pericle e nel periodo immediatamente successivo Atene divenne - con Sparta con cui era prima in competizione, poi in guerra - la città della Grecia più importante dal punto di vista della capacità di aggregazione politica. Di fatto a capo della Lega di Delo, era la polis capofila di un vero e proprio impero marittimo, e questo le consentì anche di attrarre personalità del mondo della cultura che trovarono in Pericle un protettore e, in molti casi, un amico personale. Pericle fu infatti amico di Anassagora e di Protagora, che furono a lungo ad Atene negli anni centrali del secolo. E intorno a lui si svilupparono le condizioni culturalmente favorevoli perché Atene cominciasse ad attrarre intellettuali da tutto lo spazio greco. Tra l’altro, fu in gran parte Pericle a gestire la ricostruzione della città (acropoli compresa, coi suoi monumenti) dopo le distruzioni operate dai Persiani al tempo delle Guerre Persiane. Peripatetici / Peripato Vedi Liceo Periodo arcaico Gli storici indicano come periodo arcaico della storia greca i secoli dall’VIII al VI a.C., in cui presero forma le istituzioni delle poleis greche sia dell’Egeo che della Sicilia e della Magna Grecia (è questa l’epoca della fondazione delle nuove colonie d’Oriente e d’Occidente) e si stabilizzarono le pratiche culturali elleniche. E’ in quest’epoca che è sorta la filosofia. L’epoca precedente è abitualmente indicata come Medioevo ellenico (→). Periodo classico Gli storici indicano come periodo classico della storia greca i secoli V e IV a.C., in cui la potenza politica e commerciale dei Greci raggiunse il suo culmine, in regime d’indipendenza fino alla metà del IV secolo, e si stabilizzarono le forme culturali introdotte nel corso del periodo arcaico. Furono i secoli di massima produzione in tutti i campi delle arti e delle scienze, della filosofia e delle discipline ad essa collegate. In questi secoli il razionalismo greco condusse ad adottare criteri scientifici per antiche pratiche come la medicina e la geometria. Fu l’ultimo periodo in cui i Greci del continente e dell’Egeo rimasero indipendenti, prima di cedere alla forza militare e politica della Macedonia, cosa che accadde già nella seconda metà del IV secolo a.C.. Periodo ellenistico ed ellenistico-romano Gli storici indicano come periodo ellenistico della storia greca (la dizione è in uso dall’Ottocento) i secoli dal III al I a.C., quando la civiltà dei Greci diede vita a un processo di sintesi culturale con varie culture orientali, in seguito alla spedizione di Alessandro Magno sul finire del IV secolo a.C. e alla conseguente conquista di vaste zone dell’Asia e dell’Africa (soprattutto l’Egitto). Si parla invece di periodo ellenistico-romano per quella fase della storia greca in cui la civiltà ellenica venne inglobata politicamente nel contesto dell’Impero Romano (sicché questo periodo si suole far iniziare con la battaglia di Azio del 31 a.C. e con la conquista romana dell’Egitto). A quest’epoca seguì quella che abitualmente si chiama età tardo-antica (dal IV al VI secolo d.C.), che si chiuse definitivamente con l’imperatore d’Oriente Giustiniano, che con atto simbolico chiuse l’ultima scuola filosofica pagana (era la Scuola di Atene (→), una nuova Accademia rifondata dai neoplatonici). Persefone Figlia di Zeus e di Demetra, che era la dea del grano e della fertilità della terra, Persefone venne rapita da Ade mentre raccoglieva fiori nelle pianure della Sicilia (così racconta un Inno omerico). Divenuta sua sposa, è quindi dea degli Inferi. A primavera lascia gli Inferi e torna sulla Terra, per rientrare nelle profondità infernali in autunno. Il suo culto è strettamente connesso con quello della fertilità della terra, e quindi con quello della madre Demetra (→), che con lei è al centro dei riti che si svolgevano a Eleusi (i cosiddetti misteri eleusini: si veda la voce Eleusi: →). Perseo È un mitico eroe di tradizione argiva, ma assurto presto al rango di eroe panellenico. Intorno alla sua figura si narravano moltissimi racconti, intorno a vari nuclei principali. Un ciclo riguardava la sua celebre impresa consistente nell’uccisione della Medusa, l’unica mortale tra le Gorgoni (→), per la quale aveva avuto l’appoggio di vari dèi e in particolare di Atena, a cui infine aveva donato la testa della Medusa, che anche da morta pietrificava chi la guardasse. Atena la mise al centro del suo scudo. Un secondo ciclo riguardava Andromeda, da lui salvata mentre stava per essere divorata da un mostro marino, esposta allo scopo di placare l’ira di Poseidone. In età storica si tributava a Perseo uno dei culti eroi tipici della religione greca. Persiane (Guerre) Sotto la dizione unitaria di Guerre Persiane la storiografia greca indica un complesso di episodi militari che opposero i Greci e i Persiani all’inizio del V secolo a.C., a seguito di un tentativo sistematico, condotto su vasta scala e senza economia di mezzi, dell’Impero Persiano di spezzare l’autonomia delle città greche delle due sponde dell’Egeo e dell’interno. La guerra ebbe due fasi principali (precedute e seguite da vari altri episodi militari, perché la conflittualità tra il mondo greco e quello persiano si estese ben al di là dei limiti cronologici delle Guerre Persiane vere e proprie): - nel 490 a.C. una spedizione persiana (il loro re era Dario) venne fermata nella pianura di Maratona (→) dalle forze congiunte degli Ateniesi e dei Plateesi, al comando di Milziade; - dieci anni dopo, nel 480, il nuovo re persiano Serse organizzò una spedizione militare per terra e per mare con forze dieci volte superiori a quelle messe in campo nel precedente tentativo di attacco; il comando militare greco venne affidato agli Spartani, ma a subire direttamente l’attacco fu l’Attica, che venne devastata e la stessa Atene distrutta, dopo che alle Termopili (→) gli Spartani di Leonida erano riusciti a ritardare l’avanzata delle forze di terra; gli abitanti dell’Attica avevano avuto il tempo di riparare in zone sicure, e l’ateniese Temistocle riuscì ad attrarre negli angusti spazi di mare di Salamina (→) la flotta persiana, che venne duramente sconfitta. L’attacco contro la Grecia era virtualmente fallito. Ma le operazioni militari continuarono fino al 478, quando i Greci inflissero altre serie sconfitte ai Persiani, per terra nella Battaglia di Platea (il comando era dello spartano Pausania) e per mare nella Battaglia di Micale (il comando era di fatto dell’ateniese Santippo). Essere riusciti a sconfiggere le forze persiane, tanto superiori dal punto di vista strettamente militare, fu un fatto vissuto dai Greci come una prova della superiorità delle loro istituzioni e della loro modello di civilizzazione. Da questo punto di vista le Guerre Persiane furono un episodio centrale della storia della civiltà greca, che ebbe conseguenze su tutto il modo di percepire la propria cultura nell’età classica. Persiani In età classica, quella dei Persiani era in Oriente la potenza nemica dei Greci per eccellenza, e contro il loro impero si combatterono le cosiddette guerre persiane (→) all’inizio del V secolo a.C. e alcune fondamentali battaglie della spedizione di Alessandro Magno (→) alla fine del IV. L’Impero Persiano si era formato di recente rispetto al periodo del confronto politico-militare coi Greci: soltanto alla metà del VI secolo, infatti, Ciro il Grande era riuscito a impossessarsi di Babilonia e della Lidia. Nei decenni successivi altre conquiste territoriali avevano consentito ai suoi successori di creare un vastissimo impero che si affacciava sull’Egeo. Fermo restando che dall’Oriente tra il II e il I Millennio a.C. dovettero giungere in Grecia varie tradizioni religiose (un numero notevole di divinità della miologia greca rivelano origini orientali), la cultura dei Persiani, o per meglio dire delle popolazioni dell’Oriente dominate dai Persiani, influenzò in età storica la cultura greca per molti aspetti, come rilevò lo stesso storico Erodoto (→). I più importanti ai fini dello sviluppo della filosofia sono di tipo scientifico e politico: - le conoscenze matematiche e astronomiche greche dipendevano, all’origine, da quelle orientali, e su questa base progredirono fino a giungere alle grandi sintesi teoriche dell’età ellenistica (ad esempio con Euclide e Archimede) ed ellenistico-romana (ad esempio con Tolomeo); - la struttura politica dell’Impero Persiano venne studiata dai teorici politici greci e divenne un termine di confronto importante, data anche la drastica diversità con i concetti e i valori politici fondamentali dell’Ellade, basati sulla nozione di polis. Importanti riflessioni sul rapporto tra la cultura ellenica e quella persiana sono nella tragedia I Persiani di Eschilo (→). Persona Il termine latino persona designa la maschera che gli attori ponevano sul volto quando recitavano, tanto nella tragedia quanto nella commedia. Il termine greco corrispondente è prosopon, che prima di indicare la maschera indicava il volto stesso degli attori trasfigurato dalle sostanze coloranti con cui si truccavano. Con il tempo a Roma per persona si cominciò ad intendere non solo la maschera teatrale, ma il carattere che la maschera rappresentava, anche perché nella commedia cominciarono ad essere introdotti caratteri fissi e tipizzati. Una persona è quindi il personaggio di una commedia o di una tragedia: un uomo, ma identificato nel suo carattere e nelle sue relazioni con gli altri da caratteri fissi, stabiliti dall’autore di teatro. Furono gli Stoici a utilizzare questo concetto come metafora per la situazione dell’uomo nel mondo, e a rappresentare la vita individuale come la parte teatrale che il Logos impone a ciascuno di noi di recitare (questa metafora ricorre nello stoicismo dell’età imperiale romana, soprattutto in Marco Aurelio e in Epitteto, ad esempio nel Manuale, 17). Nel linguaggio della teologia, sin dal I secolo d.C. il termine venne utilizzato per indicare le singole “persone” dell’unica Trinità del Cristianesimo, e fu in questo contesto che nacquero accese discussioni teologiche sfociate poi in eresie. Physis In Metafisica, V-4, Aristotele passa in rassegna il significato corrente al suo tempo della parola physis, distinguendo: - secondo il significato etimologico è la potenza universale e autonoma che possiede, comunica e organizza la vita; - è anche la causa interna della generazione e della corruzione di ogni ente nel Tutto; - è la materia prima di ciascun ente (il legno di cuisono fatte le piante, ad esempio, il bronzo di cui è fatta una statua, e così via); - è la sostanza, cioè l’insieme unitario dei loro caratteri costituitivi, degli esseri naturali. Al tempo di Aristotele il termine physis era però in uso nel linguaggio della filosofia da due secoli, e la storia della parola è interessante: “Il fenomeno più impressionante che l’uomo potesse osservare nel mondo che lo circondava era il crescere – phyesthai – delle piante, il quale da un inizio insignificante, dal minuscolo seme, conduce alla maturità, in cui la pianta, pienamente sviluppatasi, realizza il proprio essere. I Greci indicarono questo stato, in cui la pianta raggiunge il suo determinato essere-così, col sostantivo verbale Physis. In Omero questa parola compare in un solo passo, in cui vuol rendere la struttura e l’aspetto di una pianta al colmo del suo sviluppo. Il nuovo pensiero s’impossessò di questo concetto e, generalizzandolo, ne ampliò e ne approfondì enormemente il valore. Dalla crescita delle piante lo si trasferì non solo alla vita animale, ma al mondo intero, con tutti i suoi singoli oggetti. Anche a questi si attribuì una Physis, un determinato essere-così, e, come avvertirono anche i Romani traducendo Physis con natura, in questa parola si espresse la sensazione che l’essenza delle cose fosse il risultato di un processo di sviluppo, di una crescita organica. […] Al parlante il termine physis risultava essere anche il sostantivo verbale dell’attivo phyein, e perciò in esso poteva risiedere anche il senso attivo “far crescere”. In tal modo la physis veniva ad essere la forza che provoca ogni divenire, ogni crescere. Ora, nel mondo vegetale, l’uomo poteva costatare ogni anno che questo divenire si attua secondo un ordine fisso: che, cioè, il germogliare, il crescere, il maturare, l’appassire, il morire succedono regolarmente l’uno all’altro. […] [La physis] non procede a salti e a capriccio e, nel contempo, non richiede una direzione dall’esterno, proprio come la crescita della pianta. Si elaborò così il concetto di una physis che comprende e regola tutto ciò che accade nel mondo, seguendo le sue proprie leggi immanenti e inviolabili” (Pohlenz). Sui problemi connessi al termine physis vedi la voce Natura, Filosofia della (→); per il rapporto tra nomos e physis vedi la voce Nomos/Physis (→) Piacere Il termine greco che traduciamo con piacere è hedone, la cui radice hed- indica sia la gioia sia la piacevolezza. Lo stesso termine è utilizzato per i piaceri del corpo e per quelli della vita interiore e della mente. In generale nel mondo greco il piacere è classificato come una passione (→), quindi qualcosa di passivo, che si subisce, e va quindi tenuto sotto controllo per tutte quelle scuole che ritengono che le passioni siano un pericolo per la libertà e la felicità dell’io. Ma vi sono almeno due scuole filosofiche del tutto favorevoli al piacere: - la scuola cirenaica (→), che sottolinea il carattere fisico dei piaceri, associandolo allo stato del corpo più che della vita interiore: il piacere è però da vivere nell’attimo, per la sua instabilità (ha un carattere dinamico); - la scuola epicurea, che fa del piacere il criterio stesso della vita etica, ma intende con questo termine la pienezza del proprio essere, tanto in riferimento al corpo quanto alla sfera della vita interiore dell’anima: ha quindi di mira non un piacere vissuto nell’attimo, ma un piacere stabile, da perseguire secondo criteri che si ispirano alla prudenza utilitaristica (vedi anche la voce Utile: →). Quanto a Platone e ad Aristotele, ne trattano il primo nel Filebo e il secondo in Etica Nicomachea (la tesi che conclude l’indagine è nel Libro X). I problemi filosofici connessi al piacere sono così sintetizzabili: - la determinazione della natura del piacere e quindi la classificazione dei piaceri; - il rapporto tra il piacere e la felicità (→): le due nozioni vanno identificate come sostiene Epicuro, o vanno tenute rigorosamente separate come pensano gli Stoici? - il rapporto tra il piacere e i valori morali: poiché il piacere è una passione, qual è il suo posto rispetto ai valori che sono indipendenti dalle passoni? Pindaro Poeta greco, Pindaro nacque nel 518 a Cinocefale e morì ad Argo intorno al 438 a.C., ormai novantenne. Appartenente ad una nobile famiglia di stirpe dorica, nel periodo della sua formazione visse ad Atene e lavorò poi a lungo in Sicilia per vari tiranni, componendo per loro soprattutto epinici (→), canti corali con l’accompagnamento del flauto e della lira che celebravano le vittorie degli atleti. Con la storia della filosofia Pindaro non ha rapporti diretti, benché sia vissuto nelle stesse zone in cui operavano numeroso filosofi. C’è però un rapporto indiretto: Pindaro era profondamente legato alla religiosità tradizionale (era personalmente in rapporti con la cerchia dei sacerdoti di Delfi), e la ripensava con la stessa problematicità dei poeti tragici; venuto in contatto con i Pitagorici, ne dovette conoscere le concezioni religiose, per noi difficilmente distinguibili dall’Orfismo, e in alcuni suoi testi poetici compare una testimonianza delle credenze relative alla vita delle anime dopo la morte tipiche di questi movimenti filosofico-religiosi. Di lui ci rimangono quattro libri di epinici, ordinati secondo la festa panellenica per cui furono composti: Olimpiche (14), Pitiche (12), Istmiche (7), Nemee (11). Pirrone di Elide Pirrone di Elide, filosofo greco, visse circa tra il 365 e il 275 a.C. e, come Socrate, non scrisse nulla, sicché la sua ricerca filosofica ci è nota - e non senza incertezze - da testimonianze posteriori, in particolare per l’esposizione che ne fece il suo allievo Timone di Fliunte (→). Della sua vita è significativo il fatto che abbia potuto conoscere direttamente il pensiero orientale, avendo preso parte alla spedizione di Alessandro ed essendo giunto al suo seguito sino in India. Pirrone è considerato il padre dello scetticismo antico, e in qualche modo dello scetticismo tout court, sicché la dizione pirronismo è sinonimo di scetticismo. Lo sviluppo successivo della scuola non dipese però direttamente da lui, che ebbe discepoli ma non fondò alcuna scuola, vivendo una vita molto lunga, ritirata e tranquilla. Di lui è quasi più importante la testimonianza personale, che colpì molto i suoi discepoli, piuttosto che la dottrina, peraltro a noi nota solo indirettamente. Sappiamo che teorizzava il silenzio scettico di fronte alle pretese di verità, e considerava saggia l’aphasia, con cui il saggio impara a non pronunciarsi ben sapendo che sostenere una verità o il suo opposto è, stando a quel che sappiamo, equivalente, perché nulla sappiamo con certezza. L’esito di questo percorso di ricerca è la tranquillità dell’animo – atarassia – e la libertà interiore del saggio. Pistis Nella filosofia greca la pistis, che traduciamo con credenza, è l’atteggiamento di chi accorda credito a esperienze sensibili formandosene un’opinione non necessariamente ben fondata, ma a volte sì. È quindi in ogni modo legata all’opinione (doxa) e non alla conoscenza scientifica (episteme). A partire dall’età tardo antica, ma già in Filone di Alessandria che scrive nella prima metà del I secolo d.C, il significato della parola cambia, per indicare la fede come apertura a Dio e alla sua rivelazione nelle Scritture. Con questo significato, ormai legato alla religione, il termine pistis è utilizzato dai filosofi successivi. Platea (Battaglia di) Vedi Guerre Persiane Platonismo Vedi Accademia Pluralisti / Pluralità degli enti Gli storici della filosofia indicano col termine pluralisti quei filosofi che, dopo Parmenide, proposero varie soluzioni al problema parmenideo della impossibile pluralità dell’essere, basate tutte su questo principio: che l’unità dell’essere può essere conciliata con la pluralità degli enti, se concepita in modo opportuno. I tratti comuni ai pluralisti sono i seguenti: - andava rispettato il principio parmenideo della impossibilità che gli enti nascano dal nulla o periscano nel nulla; - andava accettata l’impossibilità logica dell’esistenza del nulla e del non-essere; - andava accettata l’immutabilità degli enti; - poiché non nascono né muoiono, gli enti devono quindi essere concepiti eterni (nel senso di esistenti da sempre e per sempre nel tempo, non nel senso di indipendenti dal tempo: vedi la voce Eternità: →). - poiché non si trasformano e sono immutabili, gli enti non sono i corpi e le anime, soggetti al continuo mutamento che si osserva in natura, ma le loro parti componenti, particelle elementari troppo piccole per cadere sotto i sensi. Filosofi pluralisti sono quindi Empedocle (gli enti sono le quattro radici), Anassagora (le omeomerie) e Democrito (gli atomi). Pitagorismo Il movimento pitagorico è poco noto nelle sue fasi iniziali e nei dettagli del suo sviluppo perché la figura di Pitagora è avvolta da coltre di narrazioni semileggendarie, benché sia con certezza una figura storica, e i Pitagorici dei due secoli successivi alla sua morte presero l’abitudine di attribuire al maestro le teorie correnti della scuola, elaborate nel tempo. Anche Aristotele si riferisce a loro in termini generici. Pitagora è vissuto nel VI secolo a.C. e ha operato in Magna Grecia, e fu qui che la scuola si sviluppò tra il V e il IV secolo, tra molte vicissitudini politiche e instabilità, perché i Pitagorici avevano posizioni aristocratiche e dovettero pagare un prezzo alle idee democratiche vincenti alla metà del V secolo. I Pitagorici finirono col disperdersi in varie località non solo della Magna Grecia e della Sicilia, ma anche della Grecia. Nonostante abbia espresso figure di primo piano anche sul fronte politico, come Archita di Taranto, contemporaneo di Platone, la scuola esaurì la sua vitalità nel corso del IV secolo. A questa data sia l’aritmetica che la geometria, nonché gli studi musicali, stavano prendendo strade diverse da quelle pitagoriche, che non stavano riuscendo a confrontarsi con argomentazioni sufficientemente convincenti con i problemi posti, ad esempio, da Zenone di Elea con i suoi paradossi, o con i problemi posti dalle grandezze incommensurabili (ad esempio il rapporto tra la diagonale e il lato del quadrato), tema quest’ultimo su cui si aprirono dure discussioni all’interno della scuola stessa, con successive divisioni. Sotto il profilo delle credenze religiose, lo stato delle fonti non ci consente di distinguere con chiarezza le posizioni pitagoriche e quelle dell’Orfismo (→). La storia del pitagorismo antico ha dunque termine col IV secolo. Ma due secoli dopo vi furono studiosi che si richiamarono alle antiche dottrine (ve ne saranno anche nel corso del Medioevo e dell’età moderna), e gli storici della filosofia parlano quindi di un neopitagorismo (→), alla cui voce rimandiamo. Plutarco di Cheronea Nato a Cheronea, in Beozia, da una influente famiglia intorno al 50 d.C., Plutarco rimase sempre legato alla città delle sue origini, alla sua famiglia e alla cerchia dei suoi amici, ma visse a lungo ad Atene, in Asia, in Egitto, e soprattutto a Roma, dove ricoprì incarichi pubblici ed ebbe alte onorificenze, acquisita la cittadinanza romana. Legato alle tradizioni religiose dei suoi padri, venne anche nominato sacerdote del grado più elevato presso il santuario di Delfi, sede del celebre oracolo. Morì dopo il 120 d.C., lasciando un numero elevatissimo di opere (antichi elenchi, forse non attendibili, riportano 277 titoli), per lo più brevi. Quel che ci è stato tramandato da questo ampio corpus è forse un terzo del totale, ma è egualmente consistente. Le sue opere si dividono in due raccolte: - le Opere morali, che in realtà trattano di moltissimi argomenti filosofici e scientifici, ma anche retorici, religiosi, politici; sono di ispirazione per lo più platonica, e da un punto di vista filosofico Plutarco è oggi considerato uno degli esponenti del medioplatonismo (→); - le celebri Vite parallele, opera storica consistente in una raccolta di biografie presentate a coppie: un greco e un romano (si tratta per lo più di generali o di statisti). Pneuma Il termine è greco (pneuma), e significa soffio, quindi respiro, e per estensione soffio vitale, anima. Così nei primi filosofi naturalisti. L’aria di Anassimene è pneuma, riunendo in sé la nozione fisica di elemento e quella biologica di principio di vita. Il termine poi venne utilizzato dagli Stoici per indicare l’energia fisica mediante cui il Logos vivifica la natura, sorgente primaria di vita e, nell’uomo, del pensiero stesso. È concepito da Crisippo come una miscela di fuoco e aria presente in tutte le cose. Poema filosofico Il termine poema nell’ambiente culturale greco fa riferimento in prima istanza all’Iliade e all’Odissea, poi ad altre opere dell’epos. La dizione poema filosofico si riferisce ad alcune opere che dal punto di vista del genere letterario – compreso lo stile, le forme linguistiche, e così via – sono poemi, ma dal punto di vista del contenuto sono testi filosofici. Va innanzitutto stabilita una netta differenza tra i poemi filosofici e le opere poetiche liriche e tragiche dell’antichità, che spesso hanno un significato filosofico e in alcuni casi sono di elevato o, senza esagerazione, elevatissimo interesse filosofico, come alcune delle tragedie attiche. Non sono però opere filosofiche, sono opere poetiche di interesse filosofico. I poemi filosofici sono invece opere filosofiche in tutto e per tutto, esposte però in poesia nella forma dell’epos. I filosofi che hanno scelto questo genere letterario come forma primaria di comunicazione filosofica sono tre: in Grecia Parmenide ed Empedocle (il cui poemi sono legati alla tradizione dell’epos omerico), a Roma Lucrezio (che ha come modello la tradizione latina, ed è comunque ammiratore di Empedocle). Il caso di Lucrezio è diverso da quello dei primi due perché Lucrezio non è un filosofo che espone proprie ricerche filosofiche, ma un poeta-filosofo che sceglie di divulgare i principi dell’epicureismo, scuola a cui aderisce, in questa forma. Benché il suo intento sia, con termine moderno, in qualche modo divulgativo, Lucrezio non rinuncia alle analisi specialistiche, sicché la sua opera è per noi una fonte importante per la conoscenza del pensiero epicureo, data l’esiguità dei testi non solo di Epicuro, ma anche degli epicurei giunti sino a noi. Parmenide ed Empedocle invece espongono loro teorie filosofiche con un apparato che, pur nella forma poetica vicina all’oralità tipica dell’epos, presenta un ricco e articolato apparato argomentativo rigoroso e razionale. Non c’è da questo punto di vista nessun cedimento (gli studiosi discutono però su come inquadrare il poema sulle Purificazioni), ed anzi c’è il tentativo di piegare la tradizione poetica orale alle nuove esigenze della filosofia: la loro scelta va inquadrata nel contesto dell’epoca, quando i poeti erano ancora i “maestri della Grecia” (vedi la voce Poesia / Poeti: →) e scrivere nel loro stile e nelle forma della loro tradizione, ma con contenuti filosofici, significava candidarsi ad essere maestri al loro posto, quanto ai contenuti del sapere da trasmettere. Nei loro poemi filosofici rimane però qualcosa della sacralità della poesia epica, che è legata alla sfera degli dèi perché di essi, e non solo degli eroi, canta le gesta. Sia nel poema di Parmenide che in quelli di Empedocle sono presenti aspetti legati alla tradizione religiosa (la rivelazione, l’introduzione di figure legate alla sfera del divino, il tono sacrale, e così via). Come si debba conciliare quest’eco religiosa con la pura razionalità dei contenuti filosofici, è problema aperto per gli studiosi, che ne discutono. Ma questo tratto rimane anche in poemi filosofici della modernità, e sembra quindi connesso al genere letterario. Mette in questione l’identità stessa della filosofia per i filosofi che scelgono il poema filosofico come via privilegiata di comunicazione filosofica. Va poi sottolineata una differenza netta rispetto all’epos, che accomuna piuttosto i poemi filosofici alla poesia lirica loro contemporanea o alla tradizione esiodea: i filosofi parlano in prima persona, sono un “io” che si presenta sulla scena poetica e filosofica e riceve una rivelazione (Parmenide) o insegnano in prima persona (Empedocle e Lucrezio). Per un quadro generale dei generi letterari nell’antichità si veda la voce Generi letterari della filosofia antica (→). Poesia / Poeti Il termine greco per poesia, poiesis, ha in realtà un campo semantico nettamente più vasto perché – dalla radice poi, fare – si riferisce a qualsiasi attività produttiva in vista di un bene. Questo tratto è coerente con la visione greca dell’arte (→) come di un fare, e dell’opera d’arte come di un prodotto in qualche modo artigianale. Tutta la poesia greca, almeno fino all’età classica, tratta nella forma del mito (epica, tragedia) o in altro modo (lirica) temi molto affini a quelli trattati dai filosofi. Ed anzi, la filosofia stessa ha utilizzato in vario modo la tradizione poetica, sia sotto il profilo espressivo che su quello dei temi trattati: - alcuni dei filosofi del V secolo a.C. (in particolare Parmenide ed Empedocle, oltre a Senofane nella cui opera poesia e filosofia si toccano) hanno usato le forme dell’epos per esprimere concetti filosofici (nel mondo romano l’esempio più illustre è quello di Lucrezio); - molti filosofi hanno seguito Eraclito (ma già Anassimandro lo aveva fatto) nel proporre tesi o argomentazioni filosofiche in prosa, ma con uno stile che richiama fortemente alcuni tratti della poesia (l’andamento formulare, la sonorità ritmica, la ricerca di cadenze che facilitino la memorizzazione, e così via); - da Eraclito a Platone il confronto polemico (ma non uniformemente tale: non sono polemici i Sofisti, ad esempio) dei filosofi contro i poeti è diffusissimo, fino ad una dura condanna platonica della poesia stessa (va ricordato che invece ci sono poche attestazioni di condanne della filosofia da parte di poeti, se non nella commedia, che è un genere letterario in realtà indipendente dalla poesia stessa, mentre vi sono poeti come il tragico Euripide chiaramente influenzati dalla filosofia); - in ultimo, i filosofi hanno posto a tema la poesia come oggetto di analisi filosofiche, con obiettivi essi stessi filosofici, tentando di inquadrarla nel contesto delle attività dell’uomo; così, ad esempio Gorgia e, alla fine dell’età classica, Aristotele con la sua Poetica; dopo, lo studio della poesia assume aspetti più spiccatamente letterari, con i filologi alessandrini, più che filosofici (ma non mancano trattazioni estetiche importanti, ad esempio in Plotino). I generi letterari della poesia greca sono molti, ma il complesso della produzione dei poeti più essere ricondotto a tre grandi tradizioni: - l’epos (→), che è il più antico ed è legato alle tradizioni orali, sicché le sue origini sono ben precedenti l’VIII secolo a.C., quando i primi testi vennero fissati per iscritto; - la lirica (→), che si afferma a partire dal VI secolo a.C.; - la tragedia (→) e in generale le rappresentazioni drammatiche che nascono alla fine del VI secolo per poi avere il periodo del loro massimo splendore nel V secolo (va anche ricordata la commedia, almeno quella di Aristofane: →) . Poietico Il termine greco poiesis in Aristotele designa una particolare forma d’azione, quella rivolta alla produzione: le discipline che se ne occupano studiano quindi il mondo delle attività artigianali, ma anche della poesia, cioè del fare nel senso di produrre. Le discipline poietiche si distinguono quindi da quelle discipline filosofiche che, come l’etica e la politica, sono rivolte allo studio della vita pratica (→), libere in sé da preoccupazioni di tipo produttivo. Polemos Vedi Guerra Polibio La figura del greco Polibio nel panorama della cultura antica si colloca all’incrocio tra Roma e la Grecia: fu lui infatti che – scrivendo da storico, ma utilizzando anche la propria notevole esperienza politica e militare – pose il rapporto tra la cultura greca e la potenza politico-militare romana e offrì ai suoi concittadini greci una giustificazione storico-politica della supremazia romana, salvaguardando le tradizioni culturali greche. Nato nel 200 circa a.C., Polibio era figlio di un uomo politico di primo piano, uno dei capi della Lega achea, cioè della confederazione tra le città greche che, tra serie rivalità interne, affrontavano il problema della residua indipendenza delle città elleniche rispetto ai regni vicini e, soprattutto, a Roma. Nel 169 Polibio era un giovane comandante della cavalleria achea che destò sospetti presso i Romani e venne deportato in Italia da Lucio Emilio Paolo con altri mille ostaggi. L’esperienza romana segnò a fondo il percorso politico e culturale della sua vita. Entrato in contatto con il cosiddetto Circolo degli Scipioni, si impegnò in una intensa attività di politica culturale che, ai nostri occhi, ha il suo culmine nella stesura delle sue Storie, una vasta opera scritta in greco nella tipica koine ellenistica in 40 libri (ce ne restano i primi 5, oltre ad alcuni estratti di epoca bizantina) in cui è descritta la formazione del sistema globale di potere romano nel corso delle Guerre Puniche. Polibio attribuisce la capacità di crescita di Roma al fatto di avere scelto una costituzione mista, in cui i tre classici sistemi politici identificati dalla tradizione greca e codificati da Aristotele (la monarchia, l’aristocrazia la democrazia) sono fusi attraverso un attento bilanciamento. Il potere di Roma, dice Polibio ai suoi concittadini greci, ha una funzione positiva perché ben fondato e capace di tenere unite le popolazioni più diverse sotto un'unica legge. Policleto Vedi Canone Polimnia Nella mitologia greca è una delle Muse. Polimnia (o Polinnia) è legata a seconda delle tradizioni a varie invenzioni, come la lira, l’arte mimica e la geometria. È poi anche legata alla storia, e all’agricoltura, in una vasta gamma di competenze e associazioni. Nel Simposio di Platone è detta, con tradizione però isolata (e quindi rivelatrice di una concezione specifica), madre di Eros. Polis Il termine non ha un preciso corrispettivo in italiano. Significa tanto città come realtà urbana definita da un abitato, quanto città-stato, cioè unità politica il cui cuore sono i cittadini che vivono su un territorio composto da un abitato centrale, da vari demi (cioè villaggi) e dalla campagna. Il termine italiano politica coerentemente deriva da polis, in quanto arte del governo della polis. Per la maniera greca di concepire l’uomo e il cittadino, la polis è sinonimo di vita associata regolata da leggi (quindi di vita civile tout court). I Greci non ebbero mai una unità politica, finché rimasero indipendenti, e la forma-tipo della loro organizzazione politica fu la polis che si autogoverna e, quando la popolazione diviene troppo numerosa per restare nella stessa città, dà vita ad una nuova polis che nasce indipendente dalla stessa madrepatria, e secondo lo stesso principio si autogoverna. Storia del termine Il termine ha una storia che parte, allo stato attuale delle nostre conoscenze, dall’età micenea, epoca in cui indicava il palazzo fortificato in cui risiedeva la nobiltà. In Omero polis è l’acropoli: per l’abitato invece nei poemi omerici ricorre il termine hasty. L’evoluzione del significato del termine polis suggerisce quindi che le città-stato greche si siano formate dal nucleo originario nobiliare e fortificato, quando il demos finì con l’acquisire una maggiore importanza e i cittadini assunsero rispetto ai nobili un ruolo più attivo, mirante alla isonomia (→), cioè all’eguaglianza di fronte alla legge. Ma le discussioni tra gli storici si questo punto sono aperte, perché il periodo della formazione delle poleis è il cosiddetto Medioevo ellenico (→) successivo al crollo della civiltà micenea, per il quale manca una documentazione storica sufficiente. Quando ricompare la scrittura nel mondo greco, e quindi le prime testimonianze storicamente certe, il mondo greco sia nel continente che nelle colonie è già organizzato in poleis. I problemi filosofici I problemi filosofici connessi alla polis sono di due tipi: - quelli strettamente politici, legati cioè all’organizzazione e alla gestione del potere, per i quali rimandiamo alle voci nomos e politeia (→); - quelli legati alla formazione dell’uomo e del cittadino nel contesto della vita associata regolata da leggi, dei suoi diritti e dei suoi doveri, per i quali rimandiamo alla nozione tipicamente greca di paideia (→). Tutto questo fino al IV secolo a.C. In età ellenistica le poleis greche persero in gran parte la loro libertà entrando, in Grecia e nell’Egeo, nella sfera di potere dei regni ellenistici, mentre in Sicilia si svilupparono strutture politiche di tipo territoriale, ancora basate sull’autonomia delle poleis, ma ormai aventi anch’esse come modello i regni ellenistici (così, ad esempio, a Siracusa). Quindi i temi politici trattati dai filosofi si sganciarono dalla tradizione (e così per le questioni legate alla paideia) per essere visti in un’ottica statale di tipo ellenistico prima, romano poi. Politeismo È politeista qualsiasi religione fondata sulla credenza nell’esistenza di molti dèi e, più in generale, della concreta e operante presenza divina nel mondo. La maggior parte delle religioni antiche sono politeiste (se si esclude l’Ebraismo) e si basano su racconti sugli dèi e gli eroi, i cosiddetti miti (→) presenti su tutti i continenti (i racconti sono diversi da cultura a cultura, anche se con molte contaminazioni, ma si osservano varie costanti). Non mancano nel politeismo antico anche rivelazioni (→) e libri sacri (→), come è il caso di alcune delle religioni greche dei misteri, come l’Orfismo (→). In generale però le rivelazioni sono un tratto tipico delle religioni monoteiste (vedi la voce Monoteismo: →). Nel mondo greco anche in filosofia sono presenti posizioni politeiste, ad esempio in modo esplicito in Epicuro, la cui concezione degli dèi non dà luogo ad una religione, ma consente di assumere gli dèi come modello per la vita umana. In modo molto sfumato, sempre sotto il velo del mito, il politeismo è fortemente presente in Platone, nella cui filosofia il fenomeno religioso, le tradizioni dei padri, le religioni misteriche sono comunque passate al vaglio dell’analisi dialettica. Alcuni grandi miti platonici sono leggibili in chiave politeista e una sorta di religione astrale – al confine tra filosofia, religione e scienza – sulla base del Timeo (→) platonico si è in effetti storicamente prodotta. Polites / Politeia Polites è il cittadino, cioè colui che è titolare di diritti politici a pieno titolo (non lo sono in Grecia le donne, non i meteci (→), per nulla gli schiavi). Aristotele ne dà una definizione molto netta (ma scrive nella seconda metà del IV secolo a.C., quando la vita delle poleis (vedi la voce Polis: →) che si autogovernavano era ormai fortemente insidiata o stava per scomparire): “Il polites (cittadino) in senso assoluto non è definito da altro che dalla partecipazione alle funzioni di governo e alle cariche pubbliche” (Politica). La nozione di politeia è più complessa perché indica concetti che nella cultura greca delle poleis erano sentiti associati in modo così stretto da essere espressi da un solo termine, mentre per noi sono concetti sì associati, ma distinti, per i quali utilizziamo termini diversi. Politeia è quindi: - la costituzione di una polis, cioè l’insieme delle leggi che definiscono il regime politico secondo cui si regge; le tipologie storicamente attestate, così classificate da Aristotele nella Politica, sono essenzialmente tre: l’oligarchia, la democrazia, la monarchia, oltre alle loro degenerazioni e a varie forme miste; - il corpo civico: sono i cittadini-polites che insieme formano la cittadinanza-politeia; tipico il fatto che per indicare lo stato ateniese o spartano in greco si dica “gli Ateniesi” o “gli Spartani”; - il diritto giuridico di cittadinanza, che si acquisisce per nascita, ma può anche (a seconda dele costituzioni delle singole poleis) essere concesso in determinati casi. Abbiamo indicato nella voce Politica (→), alla quale rimandiamo, l’indicazione dei problemi filosofici connessi alle nozioni di polis, di polites e di politeia. Politica La nozione di politica (in greco politike) come tema filosofico percorre quasi l’intera storia della filosofia greca, nel senso che quasi tutti i filosofi e le scuole hanno posto a tema l’uno o l’altro dei problemi specifici di questo campo di studi. Tuttavia la definizione dei problemi e la loro articolazione rispetto al contesto è stata molto diverse per le diverse epoche. Va poi precisato che l’idea che la politica costituisca una sfera autonoma di indagine non è stata elaborata dalla filosofia greca. È una tesi moderna, nata nel contesto del Rinascimento italiano ed europeo (a partire da Machiavelli). Per i Greci la politica - è collegata strettamente alla filosofia della natura e alla scoperta delle leggi che la regolano: così è per i primi filosofi (valga per tutti la tesi di Eraclito che un’unica legge domina sull’universo, sugli dèi e sugli uomini) e, nel contesto di una teoria molto diversa, per gli Stoici; - è collegata strettamente all’analisi dell’identità profonda dell’uomo, e in specifico della sua anima (così in Platone); - è parte dell’etica, e con essa forma un tutt’uno (così in Aristotele). Autonoma e definibile separatamente rispetto alle altre discipline filosofiche, la politica non lo è mai. Sotto un certo aspetto, la politica – il termine è legata alla parola polis – come disciplina filosofica è lo studio delle relazioni che legano la vita della polis ai dati portanti della natura universale e della natura umana. La politica come disciplina filosofica si distingue quindi in modo piuttosto netto (ma Platone tenta di far in modo che siano invece nozioni sovrapponibili con la sua teoria che vede i filosofi come uomini politici ideali) dalla politica come arte del governo della polis, di cui sono esperti coloro che concretamente fanno politica. Il suo obiettivo è - l’ancoraggio della legge che governa la polis a un solido sistema di certezze razionali che abbiano la loro base nella natura stessa, ivi compresa l’elaborazione di una teoria della giustizia che consenta di distinguere il giusto e l’ingiusto nella legge; - la definizione di una teoria dello Stato che chiarisca gli obiettivi dell’azione politica in diretto rapporto con gli obiettivi etici (dato il rapporto tra il cittadino e la polis, che è stato molto stretto fino all’età ellenistica esclusa, nessun obiettivo etico può essere raggiunto se non in un contesto politico). Poros Vedi Penia e Poros Poseidone Divinità forse di origine pregreca, nella mitologia greca è signore del mare e delle acque, così come Ade è il signore degli Inferi e Zeus il signore dei cieli – ripartizione questa successiva alla vittoria di Zeus su tutti gli altri dèi, e all’instaurazione dell’ordine immutabile di Zeus (Poseidone e Ade sono suoi fratelli); così ad esempio nella Teogonia (→) di Esiodo. In uno strato più antico del mito Poseidone doveva essere associato alle potenze della terra, ed a questo più antico epos risale probabilmente l’associazione tra questo dio e animali come il toro e, soprattutto, il cavallo. Posidonio Vedi Stoicismo Possibile / Possibilità Benché siano presente nelle concezioni filosofiche del V secolo a.C., le nozioni di possibile e di possibilità sono al centro della riflessione soltanto a partire dal IV. In Aristotele il possibile (dynaton) è ciò che è contenuto nell’essere in potenza (→) prima di essere realizzato in atto. Il possibile è quindi un modo dell’essere di un ente. In Metafisica V-12 è definito come ciò la cui realizzazione non implica contraddizione o, il che è lo stesso, ciò che non è impossibile che sia. Aristotele studia questa nozione anche in sede logica. I Megarici polemizzarono contro la nozione di possibile in quanto potenziale, osservando che il possibile è soltanto ciò che in effetti si realizza, e non anche quello che, pur in potenza, poi in effetti non si realizza. Il possibile non è quindi riconducibile al potenziale, come in Aristotele, ma alla pura necessità prima che si realizzi. I Megarici su questo punto erano eredi della tradizione eleatica, che applicavano a temi discussi tra l’età di Platone e quella di Aristotele. Da un punto di vista eleate, se si ammette la nozione di possibile deve anche ammettersi quella di non-essere, o non-ente, perché il possibile non è reale, ma (forse) lo sarà: e questo implica un passaggio dal non-essere all’essere. Non a caso Platone aveva escluso la nozione di possibilità dalla sfera delle idee – forme immutabili e quindi prive di qualsiasi tipo di potenzialità – mentre l’aveva ammessa per l’universo fisico soggetto al tempo (un mondo eracliteo, in continua trasformazione, privo di pienezza dal punto di vista dell’essere). In ogni caso in Aristotele la nozione di possibilità, se spiega il movimento (passaggio dalla potenza all’atto, e quindi realizzazione di alcune potenzialità ad esclusione di altre), implica una minore perfezione: è l’atto nella sua pienezza ad essere davvero reale, non il possibile (per questa superiorità dell’atto, Dio deve da Aristotele essere concepito come atto puro privo di ogni forma di potenzialità e quindi di possibilità). Benché manchino i testi originali su questo specifico punto della teoria (a noi nota da Lucrezio), nella dottrina del clinamen (→) di Epicuro è possibile intravedere una visione diversa della possibilità rispetto ai Megarici e ad Aristotele. Infatti il clinamen consente il movimento e spiega come nasca lo stato dell’universo fisico che è oggetto della nostra esperienza, ma non è l’attualizzarsi di una potenzialità: non modifica in qualcosa l’essere degli atomi, quindi rispetta su questo punto sia la visione parmenidea che quella eraclitea. Dunque il clinamen implica un diverso tipo di possibilità perché - non richiede il passaggio dal non-essere all’essere, in quanto non trasforma l’essere degli atomi; - non è passaggio dalla potenza all’atto; - è un carattere specifico dell’essere degli atomi, una possibilità sempre presente che, anche una volta realizzatasi, può nuovamente realizzarsi. Potenza Vedi Atto / Potenza Potere Il termine è utilizzato soprattutto nel contesto della filosofia politica, ma molti filosofi trattano questo tema – in sé politico – in stretta connessione con la loro concezione della natura. Se definiamo il potere come la capacità di compiere un’azione che sia effetto di una scelta, e quindi dalla propria volontà libera, è ovvio che nessun uomo ha un potere assoluto e che il potere di ciascuno collide col potere degli altri, perché ciascuno è soggetto di scelte indipendenti. Il contesto in cui la nozione di potere acquista senso è quello della natura, perché l’uomo vive soggetto alle leggi di natura e qualunque sia il suo potere esso è sempre limitato al contesto naturale. Valgono quindi per il potere le riflessioni che abbiamo proposto per il libero arbitrio (vedi la voce Libertà: →). Si pongono quindi una serie di problemi, rilevati già dalla filosofia greca e trattati in tutti i tempi: - poiché l’uomo è soggetto alla natura e alle sue leggi, il suo potere è limitato; ma qualsiasi potere concesso all’uomo dalla natura è legittimo? oppure vi sono istanze superiori che lo limitano ulteriormente? i filosofi che pongono una sfera di valori superiore a quella della natura (ad esempio Platone) guardano al tema del potere in stretta dipendenza da questi valori; i filosofi che rifiutano il dualismo tra natura e istanze superiori cercano la risposta a questa domanda nel contesto della natura stessa, variamente interpretata; altri cercano nell’uomo stesso (tentando di identificare una radicale autonomia della mente) la via di soluzione al problema; - come deve essere strutturata la società perché la questione del potere sia trattata in termini di giustizia? una società giusta ed equa deve garantire dall’esterno (attraverso norme, istituzioni, sanzioni) che i singoli siano protetti dal potere che altri possono esercitare su di loro? se sì, entro quali confini deve esercitarsi la reciproca libertà tra gli individui sui temi sociali ed economici? - questi problemi riguardanti la società hanno un importante risvolto politico, che apre alle questioni di quello che oggi chiamiamo costituzionalismo: i filosofi pongono infatti la domanda sulla legittimità del potere dello Stato, sui suoi fondamenti e sui suoi limiti, sul potere dei cittadini rispetto a quello dello Stato, e così via; in estrema sintesi: su quali basi deve essere fondato e strutturato lo Stato perché il suo potere sia legittimo e giusto? - più in generale la questione del potere entra nel gioco di qualsiasi relazione umana, compresa l’amicizia, l’amore, e così via; la filosofia pone quindi la domanda sul rapporto tra la spontaneità della vita - che si esprime nelle emozioni, nei sentimenti, nell’arte, e così via – e le forme strutturate della società che implicano relazioni di potere: ad esempio, in che rapporto stanno le relazioni di potere legate ai rapporti d’amore rispetto alla naturale spontaneità di questo sentimento? Potidea Città greca sull’istmo della penisola calcidica, era colonia corinzia. Alla metà del V secolo a.C. faceva parte della Lega di Delo, e quindi era alleata di Atene. Ma Corinto, con cui aveva stretti rapporti, era legata alla Lega Peloponnesiaca, e quindi era alleata di Sparta. Quando il conflitto tra Atene e Sparta divenne insanabile, Potidea subì un forte pressione da parte dell’Atene di Pericle che sfociò in un attacco militare ateniese contro quella che era ormai una ex alleata. L’assedio durò dal 432 al 430 a.C., e determinò l’intervento spartano a difesa di Potidea. Questo episodio fu una delle cause scatenanti della Guerra del Peloponneso. Pratica / Pratico Dal greco praxis, che significa azione, l’aggettivo pratico (praktikos) indica tutto ciò che è relativo all’azione, spesso detto in contrapposizione a ciò che è relativo alla pura sfera della conoscenza (in questo senso l’aggettivo pratico si contrappone a teoretico, o contemplativo: →). È soprattutto Aristotele a separare in modo netto le scienze che hanno a che fare con la pratica da quelle che hanno a che fare con la conoscenza pura. Le scienze pratiche sono la politica e l’etica (viste in un unico quadro d’insieme) l’economia, la retorica, l’arte militare, che vanno anche distinte dalle attività produttive (vedi Poietico: →), che implicano la lavoro manuale, come quello degli artigiani o dei contadini. La base teorica delle discipline pratiche non riposa su uno stesso grado di certezza della metafisica o della matematica, per cui si tratta pur sempre di scienze su cui non si può raggiungere lo stesso grado di certezza. Predicato / Predicabile Traduciamo con predicato il termine greco kategorema, mentre kategoroumenon è il predicabile. Il contesto è quello tecnico degli scritti logici di Aristotele, e poi degli Stoici: all’interno di una proposizione il predicato è infatti ciò che si afferma del soggetto (la definizione è in Aristotele, Categorie, IV). Presocratici La dizione presocratici per indicare i primi filosofi del VI e del V secolo a.C. è recente. Ha una storia ottocentesca ed è poi stata introdotta nel 1903 dal filologo Hermann Diels (→) che ha intitolato I presocratici la sua raccolta sistematica dei frammenti e delle testimonianze antiche su questi filosofi, compresi quelli dei Sofisti e di Democrito che sono contemporanei di Socrate (Democrito anzi visse ancora un trentennio dopo la sua morte). La dizione rimanda all’idea che con Socrate la filosofia greca ha subito una svolta radicale, passando dalle indagini naturaliste all’indagine sull’uomo e soprattutto sulla sua anima. Benché sia stata e sia oggetto di severe critiche (in ordine sia alla cronologia, sia al ruolo di Socrate nel contesto della filosofia greca), la dizione è entrata stabilmente nell’uso. Principio Veri Arche Pritaneo In varie poleis greche (così anche ad Atene) il pritaneion era l’edificio in cui avevano la loro residenza ufficiale i pritani, titolari di una delle magistrature più importanti con funzioni diverse a seconda delle diverse epoche storiche e dei regimi politici (nell’Atene democratica i pritani erano 50 e restavano in carica per la decima parte dell’anno – quindi poco più di un mese – con vari compiti, tra cui la preparazione dei lavori della Boule). Il pritaneo era in origine un edificio pubblico – simile alle case private – in cui ardeva il focolare sacro della comunità; qui i magistrati prendevano i pasti in comune, e qui si ricevevano gli ospiti illustri. Privazione In Aristotele la steresis - cioè la privazione – si contrappone al possesso di una determinata forma da parte di un ente. Questa mancanza gioca un ruolo importante nel passaggio dalla potenza all’atto che termina il divenire, perché è in ragione di una certa privazione che si mette in modo il dinamismo del cambiamento, per acquisirla (Metafisica, V-22). Probabilità Il termine greco pithanon, che traduciamo con probabilità, significa alla lettera attendibilità, persuasività. È termine utilizzato dagli scettici, e in particolare dai filosofi dell’Accademia di Mezzo, Arcesilao e Carneade (vedi le rispettive voci: →) per indicare il fatto che, se la verità è inafferrabile, non è detto che ogni conoscenza sia egualmente erronea. Al contrario, per ogni nostra conoscenza c’è un certo grado di vicinanza e di lontananza rispetto alla verità, e l’obiettivo della ricerca filosofica è determinare il grado di probabilità delle conoscenze utili alla vita, in modo che sulla base di queste si possa scegliere come agire. Le dottrine specifiche della scuola non ci sono note nei dettagli, ma questa filosofia del probabile ebbe un notevole successo nel periodo ellenistico e romano, e i Romani con la loro esigenza di ricavare dalla filosofia regole pratiche per la vita ne rimasero profondamente influenzati. Problema filosofico La nozione di problema (dal greco problema) non è specificamente filosofica, perché tutte le scienze e tutte le arti definiscono e affrontano problemi. E ciascuna disciplina ha problemi specifici, e anche una propria concezione della nozione stessa di problema (si hanno quindi problemi matematici, fisici, filosofici, così come si hanno problemi pratici, operativi, teorici, e così via). L’uso del termine è stato introdotto a partire dagli ambienti matematici dell’antichità, ed è stato poi precisato da un punto di vista logico da Aristotele, che se ne occupa in Topici I. Per la natura della filosofia così come è stata intesa dai Greci, un problema si caratterizza come filosofico quando – qualsiasi tema riguardi: pratico, operativo, teorico, e così via – il suo esame e quindi la sua soluzione passa attraverso una teoria generale che inquadra lo specifico tema di cui si tratta in un ordine generale di comprensione della realtà. Ad esempio: - un problema è politico quando riguarda determinate relazione di potere all’interno della polis o tra le poleis; diventa un problema di filosofia politica quando è esaminato alla luce di una teoria generale sulla polis, sulla natura umana, sulla posizione dell’uomo nel cosmo; - un problema è fisico quando riguarda uno specifico aspetto delle leggi che governano la natura; diventa un problema di filosofia della natura quando viene esaminato e portato a soluzione (se questo è possibile) alla luce di una teoria generale sulle leggi che governano la natura universale; e così via. Processione Vedi Emanazione Proclo È uno degli ultimi filosofi greci, attivo presso la Scuola di Atene (→) nel V secolo d.C. Nato a Costantinopoli intorno al 410 d.C., studiò ad Alessandria per poi trasferirsi ad Atene e divenire scolarca della Scuola neoplatonica. Qui compose e pubblicò le sue opere più importanti, che consistono in una lunga serie di commenti alle opere platoniche (Commentari alla Repubblica, al Timeo, al Parmenide, e così via) e nell’esposizione sistematica del neoplatonismo pagano (in opere dal titolo Istituzione teologica e Teologia platonica). Proclo si pose l’obiettivo di offrire una sintesi sistematica del pensiero e della religione della Grecia seguendo l’asse portante della filosofia neoplatonica, letta in chiave religiosa (gli antichi dei dèlla mitologia greca erano reinterpretati filosoficamente) pur mantenendo le caratteristiche filosofiche che risalivano a Plotino. Prodico Nato tra il 470 e il 460 a.C., Prodico di Ceo fu il primo dei sofisti a ricoprire nella sua città cariche politiche. Fu ai suoi tempi un sofista molto noto, e la tradizione vuole che abbia accumulato una fortuna con il suo insegnamento. Come scrittore, gli si attribuiscono 23 opere, di cui non ci restano che frammenti. Nelle Ore, un trattato su temi etici e religiosi, sembra che abbia sottolineato il valore morale delle decisioni e della responsabilità individuale: è in questo contesto che è proposto l’apologo di Eracle al bivio, a noi noto nella versione di Senofonte, in cui si narra che a 15 anni, posto di fronte alla scelta tra una vita agevole e ricca di piaceri e una lunga e faticosa, Eracle scelse questa seconda. Nella stessa opera era presente una tesi razionalista sull’origine della religione, che sarebbe nata secondo Prodico dal desiderio di ingraziarsi le forze naturali personalizzandole e divinizzandole. Platone nel Protagora ironizza a proposito dello studio sul linguaggio condotto da Prodico, che lo aveva portato a scrivere un’opera, il Trattato di sinonimica, con l’obiettivo di classificare le sfumature lessicali tra i sinonimi. In realtà questo studio di tipo linguistico non doveva essere molto lontano dalla pratica socratica di giungere ad una definizione precisa delle parole, o dagli studi di Democrito sulla natura convenzionale del linguaggio. Prolessi L'anticipazione o prolessi (dal greco prolexis) è termine utilizzato dalle scuole ellenistiche a proposito della conoscenza umana. Epicuro indica con questo termine i concetti - che a suo avviso si formano con l'accumularsi delle sensazioni nella memoria - perché permettono di "anticipare" la conoscenza della realtà, di sapere sulla realtà molte cose che essa non è in grado di dirci con la sola osservazione: l'anticipazione è il frutto dell'esperienza accumulata e sedimentata. La teoria epicurea che interpreta i concetti come anticipazioni esclude quindi per essi ogni valore autonomo e ogni esistenza indipendente, come invece riteneva Platone. Ogni conoscenza intellettiva è ricondotta alle sue basi sensibili. Presso gli stoici l'anticipazione è il risultato di un processo di associazione di idee. Prometeo Antica figura del mito presente in molte narrazioni che coinvolgono sia gli dèi che gli uomini, Prometeo è legato alle origini della civilizzazione dell’uomo e quindi alle tecniche. Il suo nome significa letteralmente colui che pensa prima, e quindi è associato a quella forma di saggezza pratica che consiste nel pensare prima di agire e nel progettare. È lui a portare semi di fuoco (→) agli uomini sottratte alla fucina di Efesto o al Sole, avviandoli così a compiere i primi passi verso la civiltà. Il mito racconta che fu punito per questo da Zeus che lo incatenò su una rupe del Caucaso e mandò un’aquila a divorargli il fegato, con un supplizio che non aveva mai fine perché il fegato ricresceva sempre, e sempre veniva divorato. Liberato da Eracle, nel mito si riconciliò con Zeus e ottenne l’immortalità. La sua figura è associata a quella di Pandora (→), perché dopo il furto del fuoco Zeus decise di punire gli uomini inviando questa figura femminile. In ambito filosofico, Prometeo col fratello Epimeteo è protagonista di un mito filosofico narrato da Platone nel Protagora (→). Prometeo incatenato Titolo di una tragedia di Eschilo. Secondo gli studiosi è di dubbia attribuzione. Non se ne conoscono, inoltre, né la data né l’occasione della rappresentazione. Si ipotizza facesse parte di una trilogia, preceduta dal Prometeo portatore di fuoco e seguita dal Prometeo liberato. Un altro motivo della dubbia paternità di quest’opera risiede nel fatto che qui Zeus non appare come il supremo e giusto reggitore, quanto come un tiranno, a differenza delle altre tragedie eschilee. Ciò nonostante quest’opera e la figura di Prometeo in essa raffigurata costituiscono un punto di riferimento fondamentale della cultura occidentale. La scena in cui si svolgono i fatti coinvolge solo divinità. Siamo nella Scizia, terra desolata; il titano Prometeo, figlio di Giapeto, fratello di Crono, è punito da Zeus per aver donato agli uomini il fuoco. La sua punizione è quella di essere legato ad una rupe, esposta alle tempeste, con catene più dure del diamante. Lo legano due figure simboliche, Violenza (Kratos) e Forza (Bia), e un avvoltoio gli divorerà eternamente il fegato che sempre tornerà a riformarsi. L’origine di questa punizione non risiede in una maledizione, ma nella volontà e nella scelta di Prometeo stesso: “Spensi all’uomo la vista della morte. Seminai la speranza, che non vede. Poi li feci partecipi del fuoco”. Prometeo è dunque colui che di sua volontà ha deciso di aiutare i mortali, sfidando il tiranno Zeus e subendo così la collera del padre degli dèi. Arrivano sulla scena le Oceanine, che tentano di portare conforto a Prometeo; poi Oceano, che vuole indurlo alla rassegnazione; poi Io, tramutata da Zeus in mucca e resa folle nel suo eterno viaggio a cui il Titano predice la sua futura liberazione; e infine Ermes. A nulla valgono le parole di conforto e i consigli dispensati: Prometeo ribadisce che la punizione e i tormenti che sta subendo sono la conseguenza della sua volontà. Il protagonista potrebbe avere una via d’uscita: conosce infatti un segreto che può rovinare Zeus. Teti, di cui Zeus è innamorato, genererà da questi un figlio in grado di sconfiggere il padre. Zeus tenta di estorcere a Prometeo, attraverso Hermes, il segreto offrendogli in cambio la liberazione dal tormento, ma il Titano rifiuta, rimanendo fedele alla propria missione di protettore degli uomini e alla libera scelta compiuta. Prometeo si dimostra così superiore perché capace di accettare i tormenti e le sofferenze, di resistere alle lusinghe e alle minacce per affermare l’autonomia del suo destino. Il segreto non viene perciò rivelato e Zeus scaglia un fulmine contro la rupe a cui Prometeo è legato affinché questi rimanga schiacciato. Delle tragedie non pervenute, sappiamo che Zeus e Prometeo si riconcilieranno cosicché forza e saggezza potranno rinsaldare la sovranità diventata così più forte e giusta. Proposizione disgiuntiva Vedi Sillogismo Proprietà I filosofi greci non hanno dedicato specifica attenzione al tema della proprietà, come invece è avvenuto in età moderna e contemporanea. Non c’è quindi stato un dibattito ampio. Vi sono tuttavia almeno due luoghi celebri: - nel Libro V della Repubblica Platone, nel delineare i caratteri del suo Stato ideale, ha proposto il collettivismo per i filosofi e i guerrieri nelle proprietà materiali e sulle questioni familiari, donne e figli compresi: vedi la voce Comunismo (→); - in Politica II-3 Aristotele osserva gli svantaggi della proprietà comune perché di esse ci si prende meno cura delle private; osserva anche che, quando ci si prende molta cura delle pubbliche, è perché tornano a vantaggio delle private. Come per ogni altro tipo di ricchezza, anche la proprietà è considerata con scarsa attenzione dai filosofi ellenisti, quando non duramente screditata: Diogene il Cinico propone di rinunciarvi in nome della libertà, e quando vede un bambino che beve avendo per bicchiere il cavo della sua mano butta via, perché superflua, persino la ciotola che portava con sé; gli Epicurei la ammettono, ma con prudenza, e sempre nel contesto del calcolo degli utili; quanto agli Stoici, anch’essi la ammettono, ma non incide su quel che conta, cioè la libertà del saggio, perché non è che uno degli indifferenti (→). Protagora Protagora è il primo dei grandi sofisti del V secolo. Nacque ad Abdera nel 485 a.C. e viaggiò molto, fermandosi in diverse città ad insegnare, acquisendo notevole fama. Ad Atene si legò al circolo di intellettuali che si radunavano intorno a Pericle. Non ebbe quindi una vera e propria patria, anzi come sofista itinerante professava una sorta di cosmopolitismo, tipico della scuola. Quando Pericle volle fondare la colonia panellenica di Turi, intorno al 440, Protagora venne incaricato di formularne le leggi. Secondo la tradizione, anch’egli – come Anassagora, Socrate ed altri – avrebbe subito un processo per empietà, e, condannato, avrebbe dovuto abbandonare la città. Autore di diverse opere, non ci restano di lui che frammenti, come il celebre “l’uomo è la misura di tutte le cose”, frase che inaugura il relativismo (→) nella filosofia greca. La sua opera più importante è La verità, o discorsi sovvertitori. Provvidenza Il termine greco pronoia che i latini traducevano con providentia, e noi con provvidenza, indica la capacità di previsione della mente: pronoia è composto dalla stessa radice di nous, mente, e dalla preposizione pro, davanti a. Gli Stoici ne hanno fatto un termine tecnico della loro filosofia attribuendo al Logos universale questa capacità di previsione, di pensare avanti: il Logos è così in grado di ordinare il mondo disponendo ogni cosa secondo la piena compiutezza dell’essere del Tutto. La provvidenza non va quindi concepita come un intervento esterno o correttivo rispetto al corso naturale degli eventi, ma come la piena razionalità di ciascun evento naturale in ordine al Tutto. Nello Stoicismo il tema della provvidenza si collega al problema filosofico del male (→), perché la percezione umana dell’imperfezione della natura e della presenza del male nel mondo si rivela un errore prospettico: interpretiamo come male determinati aspetti della realtà perché non capiamo le ragioni per cui il Logos ha ordinato così gli eventi. In realtà quel che ci sembra male e imperfezione è tale solo per la nostra ignoranza: è invece necessario – assolutamente indispensabile – per la perfezione della realtà intera (su questa nozione di necessità vedi la voce Necessità: →). Psyche Traduciamo psyche con anima, ma il significato di questo termine greco appartiene ad una sfera religiosa e filosofica precedente a quella cristiana; quindi c’è sempre il rischio di dare al termine anima (che deriva per noi dal latino anima) un significato che il termine psyche per un greco non aveva, e di non associarlo a significati che invece aveva. Precisiamo dunque il significato di psyche nella cultura greca, che ha una lunga storia: - in Omero la psyche è il soffio vitale, che si concretizza in quella parte dell’uomo che, al momento della morte, abbandona il corpo e si reca nell’Ade, dove vive una vita larvale, simile a fumo (così, ad esempio, vede le “ombre” Ulisse nel suo viaggio agli Inferi descritto nell’Odissea); - nelle religioni dei misteri, in particolare nell’Orfismo (le cui concezioni sono simili a quelle pitagoriche e a quelle descritte da Empedocle), la psyche è una sorta di demone indipendente dal corpo, che può anche vivere varie vite reincarnandosi, secondo le antiche credenze sulla metempsicosi (→); - qualunque sia la teoria filosofica sulla natura della psyche, quando i filosofi (dai primi naturalisti agli ellenisti) usano questo termine e pongono il problema della sua identità (spirituale, materiale, o altro), ciò di cui parlano è la forza che è identica in qualsiasi vivente e lo rende, appunto, vivo: in questo senso sono comuni espressioni del tipo anima vegetativa, o anima sensitiva, in riferimento anche alle piante e agli animali. Detto questo, per una chiarificazione sui problemi filosofici connessi alla psyche, e per un quadro complessivo delle teorie filosofiche, rimandiamo alla voce Anima (→). Puniche (Guerre) Sotto il nome unitario di Guerre Puniche la storiografia romana raccoglieva quel lungo complesso di eventi bellici che, in tre distinte fasi, caratterizzarono lo scontro tra Roma e Cartagine fra la metà del III secolo a.C. e la metà del secolo successivo. A seguito di queste guerre Roma, che prima controllava soltanto la penisola italiana dagli Appennini Tosco-Emiliani alla Calabria, divenne una potenza non solo di terra ma anche di mare, con il controllo diretto o indiretto di tutte le coste del Mediterraneo occidentale, e poté quindi rivolgersi (anche in questo caso vittoriosamente) all’Oriente. Le guerre sono dunque tre: - la Prima Guerra Punica va dal 264 al 241a.C, e si concluse con la vittoria romana, in seguito alla quale venne mantenuto il controllo della Sicilia, divenuta la prima Provincia, conquistata nel corso degli eventi bellici; - la Seconda Guerra Punica, scoppiata dopo varie violazioni della pace che aveva chiuso la precedente, va dal 218 al 201 a.C, vide i Cartaginesi con Annibale portare la guerra in Italia, e si concluse con una radicale vittoria romana, che le consentì di diventare una potenza mediterranea con l’acquisizione di un vasto arco di territori dalla Pianura Padana alla Provenza alla Spagna; - la Terza Guerra Punica va dal 149 al a46 a.C., un’epoca in cui ormai Cartagine non era più una potenza militare, anche se manteneva attivamente i suoi commerci, conclusasi con la totale distruzione della città stessa e la dominazione diretta romana dei suoi territori. Purificazione [Riti di] Nel contesto religioso della Grecia della mitologia e delle religioni dei misteri, i riti di purificazione erano le pratiche che miravano ad eliminare la contaminazione e lo stato di impurità, concetti magico-religiosi per i quali rimandiamo alla voce Contaminazione (→). Puro / Impuro Vedi Contaminazione Quadrifarmaco È dizione della tradizione epicurea. Il metodo pedagogico epicureo prevede che il contenuto della dottrina sia espresso in modo da poter essere facilmente memorizzato: per questo si avvale di formule efficacemente espressive. La più famosa di queste formule – molte delle quali risalgono a Epicuro, mentre altre sono della sua scuola – è probabilmente il cosiddetto quadrifarmaco (dal greco tetrapharmakon), un insieme di quattro sentenze che racchiudono una parte del contenuto essenziale dell’etica di questa scuola, presentato come farmaco contro l’inquietudine della vita umana e contro la sofferenza. Un epicureo del I sec. a.C., Filodemo di Gadara, ci riporta in forma molto sintetica le formule del tetrapharmakon: 1) gli dèi non sono da temere; 2) non c’è rischio da correre nella morte; 3) il bene è facile a procurarsi; 4) il male è facile da sopportare con coraggio. La necessità di simili formule adatte ad una pedagogia per i non-filosofi nasce dal fatto che la filosofia di Epicuro si rivolge a tutti, e deve quindi adeguarsi nei suoi mezzi espressivi anche a chi non ha capacità, possibilità o interesse ad approfondire i tecnicismi filosofici della dottrina. Essa si presenta non come una complessa indagine per pochi iniziati, ma come una ragionevole guida per tutti. Questione omerica Vedi Omero Quinta essenza In ambiente latino – e poi medioevale - si indicava con la dizione quinta essenza l’etere, cioè l’elemento naturale di cui Aristotele riteneva fossero fatti i cieli. Qualsiasi sostanza del mondo sublunare sarebbe invece composta da uno dei quattro elementi – l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco – o dalla loro mescolanza. Rimandiamo quindi alla voce Etere (→). Racconti filosofici e aneddoti Tra le opere della storia della filosofia antica, o al loro interno, si trovano diversi generi letterari riconducibili al comune denominatore della narrazione. L’aneddoto, la metafora narrata, l’aforisma a base narrativa Platone e Aristotele raccontano ciascuno un aneddoto su Talete e di questi uno, in cui Talete compare accanto ad una servetta tracia, è forse tra i più noti della storia della filosofia. La letteratura aneddotica è molto ricca per la filosofia greca e in generale si caratterizza per l’avere come protagonisti i filosofi stessi che, attraverso un loro comportamento, esemplificano in concreto un concetto. Questo genere letterario fiorisce in età ellenistica, un’età in cui la figura di Diogene con la sua lanterna, la botte e il suo breve e celebre scambio di battute con Alessandro Magno può valere più di un trattato. L’aneddoto in genere è presentato come una forma di caratterizzazione della persona di un filosofo, prima che delle sue idee, secondo un modello di filosofia come pratica di vita che unisce con coerenza pensiero e azione, modello che percorre tutta la filosofia antica. Questa forma di aneddotica, legata alla persona del filosofo (secondo un modello di legame tra la persona e le tesi che incarna assai diverso da quanto accade nella scienza, dove pure fioriscono racconti, e tutti sanno di Newton e della mela) si diversifica nettamente da un’altra forma presente nei testi filosofici, e cioè l’aneddoto o la metafora narrata presentati dal filosofo stesso come racconto breve, anche in forma aforistica. Il racconto come via alternativa (metaforica) alla analisi mediante concetti Il racconto come via alternativa alla esposizione razionale è spesso ed esplicitamente utilizato da Platone. Il caso esemplare, e sempre citato, è all’inizio del Protagora, quando Protagora risponde alla domanda di Socrate in due modi, dapprima con il racconto di Prometeo ed Epimeteo, poi mediante una analisi attraverso argomenti razionali e d’esperienza. Il racconto qui non è la descrizione di un caso particolare di cui il concetto è l’universale, ma ha un significato metaforico, su un registro narrativo alternativo all’analisi concettuale, che viene condotta prima o in un secondo tempo (in Platone avviene spesso: oltre al caso citato è così per il mito della Caverna, narrazione collocata tra due analisi di tipo concettuale che la precedono e la seguono e addirittura fornita di una sorta di interpretazione autentica), oppure non viene condotta affatto (si pensi in Platone al mito di Er che chiude la Repubblica). Il racconto così usato è quindi espressione di una forma del pensiero per immagini che ha una sua logica interna autonoma: vive di vita propria, più dell’apologo o della metafora narrata, perché queste forme sono più strettamente connesse ad elementi concettuali (appartengono al registro della similitudine: l’apologo, l’aneddoto, "somigliano" al concetto – uno, piuttosto che una costellazione concettuale -, tutto accade come se…) e non se ne intende il senso se non in rapporto al concetto, di cui sono diretta espressione (nella loro connessione con valori emotivi, che possono essere estranei al concetto in quanto tale, ma non al processo con cui la mente lo forma). Il racconto breve, invece, deve essere "interpretato". La sua relazione al concetto è quella di una porta di ingresso ad un mondo "diverso": Platone scrive spesso, introducendo uno dei suoi racconti, di regola nella forma del mito (vedi Mito platonico: →), che non è possibile una analisi propria del problema trattato, di tipo concettuale (di tipo "dialettico"), ed è più semplice (scrive frasi come "per ora è sufficiente", "ci basti…") accostarsi alla soluzione di un problema mediante un racconto (che a volte inizia con il richiamo alla forma della similitudine). Dunque il racconto breve ha caratteristiche non lontane dall’aneddoto, dall’apologo, dalla metafora narrata, ma su un registro di maggiore autonomia: molteplici linee di pensiero e di vita possono incrociarsi in esso – una multilateralità di vita -, laddove il concetto ha una dimensione in sé unilaterale e ha bisogno di legarsi ad altri per restituire il continuum della vita (in Platone non un concetto, ma una analisi dialettica che determina i passaggi tra i concetti accompagna il racconto). L’esempio, la descrizione di un caso L’esempio (→), o la descrizione di una caso, sono usati come forme di argomentazione o di comunicazione filosofica, in ultima analisi di "persuasione": strumenti che servono a convincere mostrando la fondatezza del concetto non attraverso argomenti razionali astratti, colti nella loro unilateralità razionale separata dalla vita, ma attraverso legami di vita e d’esperienza. E dunque l’esempio risulta tanto più convincente quanto più è immediatamente intuitivo, e quindi legato ad un mondo di esperienze che il lettore (o l’ascoltatore) riconosce come proprio. Spesso si percepisce che l’esempio è legato all’esperienza stessa di chi scrive. Qui il concetto è già formato, la teoria costruita: si tratta solo di mostrare attraverso il caso particolare la validità della tesi generale, e questo fa sì che la concretezza dell’esperienza porti alla forma del racconto. Per un quadro generale dei generi letterari nella filosofia del’antichità si veda la voce Generi letterari della filosofia antica (→). Radice In greco rizoma: il termine è utilizzato da Empedocle in senso metaforico per indicare gli elementi d’origine della realtà, così come le radici (rizomata) sono l’origine della pianta a partire dal terreno: fuor di metafora, questi elementi sono l’acqua, la terra, l’aria e il fuoco. La dizione rizomata corrisponde quindi al termine elemento (stoicheia). Ragione Vedi Logos e Intelletto Ragioni seminali Con l’espressione logoi spermatikoi, che rendiamo in italiano con ragioni seminali (seguendo i latini, che parlano di rationes seminales) a cui gli Stoici hanno dato un significato tecnico, si intende nella loro teoria fisica l’insieme delle singole forze che generano gli enti, come espressione dell’unico Logos. Analoga espressione, ripresa dagli Stoici, usa Plotino per indicare lo stesso concetto, ma riportato alla sua teoria sulla genesi dell’universo fisico a partire dall’azione dell’Anima del mondo. Una teoria simile a quella dei logoi spermatikoi non era presente in Platone, e il fatto che Plotino l’abbia introdotta nella sua visione dei rapporti tra il mondo delle ipostasi eterne e la sfera del sensibile e del mondo sottoposto al tempo mostra come il neoplatonismo non sia solo una forma di platonismo, ma una filosofia organica e originale (benché costruita nella forma del commento ad antichi testi) su base platonica, ma sul modello delle grandi sintesi ellenistiche di tipo sistematico. Rappresentazione catalettica È la rappresentazione evidente che secondo gli Stoici rappresenta il criterio di verità: si ha quando la mente si trova con immediatezza di fronte ad una verità che riconosce intuitivamente come tale, comprendendola (il termine greco è katalepsis, che significa comprensione). Su questa nozione sorse un ampio dibattito al tempo della prima Stoa, soprattutto perché l’Accademia che in quel periodo aveva un indirizzo scettico negava che si potessero davvero avere rappresentazioni di questo tipo. Il contesto problematico in cui questa nozione è stata proposta dagli stoici è quello della conoscenza umana e delle sue fonti. Rapsodi Vedi Aedi Razionale / Razionalità Vedi Ragione Reincarnazione Vedi Metempsicosi Relativismo È la posizione filosofica - sul tema della verità, del pensiero e dei valori etici – che per la prima volta nella storia della filosofia greca è stata proposta da Protagora con il celebre motto “L’uomo è la misura di tutte le cose” (→). Il termine relativismo però è moderno e indica le teorie che - negano la validità oggettiva, indiendente dal pensiero, della nozione di verità: se la verità è aletheia (→), disvelamento, una volta disvelata essa non offre nulla di oggettivo, ma solo caratteri soggettivi, quindi potenzialmente diversi da soggetto a soggetto senza alcuna contraddizione logica; - sostengonono che un valore - di qualsiasi tipo: logico, etico, estetico, politico, e così via – può essere affermato o negato solo da un soggetto, perché non esiste alcuna oggettività del valore: i valori sono posti dal soggetto, sono scelti, non esistono in sé. In una versione così radicale il relativismo nella filosofia greca è stato proposto solo dai Sofisti, e la seconda sofistica ne ha tratto conseguenze più drastiche rispetto ai primi teorici del’età di Protagora (vedi la voce Nomos / Physis: →). Versioni del relativismo più specifiche e limitate a determinati settori sono invece presenti anche in altre scuole; ad esempio - lo scetticismo non nega espressamente l’oggettività della verità, ma sospende il giudizio su questo punto; ne deriva sul piano etico e su quello dell’assenso alle nostre conoscenze una posizione relativista, ma solo per il fatto che non è possibile conoscere con certezza la verità, non perché si sappia positivamente che una verità non c’è (la tesi scettica è che non si sa se c’è o non c’è); - l’epicureismo nega che nella oggettività del mondo materiale (atomi e vuoto) vi siano valori etici, ma non nega affatto che l’uomo possa conoscere la verità; il relativismo riguarda quindi soltanto il piano delle scelte di ciascuno sul proprio stile di vita (il metro essendo il piacere e il dolore soggettivi, non una qualche forma di bene e male oggettivi). Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. A parte queste due forme, generale e settoriale, del relativismo, non vi sono nella filosofia greca altre posizioni che possono essere accostate a questa nozione. Ma si parla a volte impropriamente di relativismo per indicare quelle posizioni, tipiche ad esempio degli scienziati nel corso delle loro ricerche, che consistono nel sospendere il giudizio per mancanza di dati certi sulla cui base affermare o negare una tesi. Queste posizioni non sono affatto relativiste nel senso filsoofico del termine, perché affermare che non c’è la verità, o non la si può conoscere, non è affatto la stessa cosa che affermare che non la si conosce ancora e una ricerca in un certo settore è in corso. Ad esempio non è relativista la posizione epicurea sulle spiegazioni multiple (→), mentre è relativista, in senso limitato, la teoria del piacere dei Cirenaici per il riferimento alla soggettività. Se vogliamo indicare in breve a quali problemi è connessa la nozione di relativismo, in estrema sintesi sono tutti i problemi si riducono a due, espresse dalle seguenti domande: - esiste una verità oggettiva sulla realtà? se esiste, l’uomo può conoscerla? - esistono valori oggettivi di qualsiasi tipo essi siano? Religione Il termine italiano deriva dal latino religio, la cui etimologia è discussa già dagli antichi (Cicerone nel De natura deorum propone relegere, cioè scegliere con cura, considerare, detto in riferimento agli atti di culto; Agostino propende per religare, cioè legare, vincolare). In ogni caso per il termine religio nel mondo romano l’accento batte sugli aspetti rituali più che sulla fede o sul rapporto personale con la divinità, in accordo con il carattere pubblico della religione “ufficiale”, legata alle tradizioni e agli obblighi pubblici: religio è l’obbligo che il cittadino e lo Stato riconoscono verso il mondo divino, ed è un obbligo che riguarda precisi comportamenti privati e pubblici, innanzitutto i riti e le pratiche di culto. La religione è quindi l’espressione del legame che unisce la sfera dell’umano a quella del divino. Il termine greco per indicare l’analogo concetto è latreia, che indica in effetti il servizio divino. Nel mondo romano la religio è sentita come pratica che richiede rigore, ma anche misura. C’è un eccesso e un difetto: l’eccesso è la superstitio, un eccedere nelle forme di culto oltre il dovuto; il difetto è la negligentia, cioè il trascurare gli atti di culto (il che può accadere tanto per semplice incuria e negligenza, quanto per disprezzo). Benché i filosofi antichi abbiano in molti casi teorizzato o supposto l’esistenza degli dèi, e in qualche caso li abbiano anche proposti a modello per la via umana, la filosofia è sempre stata considerata, senza eccezioni, indipendente dalla religione. Ne è diversa la matrice: la filosofia antica si basa solo ed esclusivamente sull’esperienza (interna ed esterna) e sul ragionamento, e non ammette fonti di verità indipendenti da queste. Anche in filosofi come Platone, in cui la riflessione sul divino è particolarmente sentita, la verità sugli dèi è comunque cercata con la ragione, per quanto ci si richiami nei passaggi dialettici a tradizioni religiose e si propongano miti. La figura di Zeus degli Stoici è un nome per il Logos universale, e in Plotino il rapporto che lega l’anima dell’uomo a Dio non ha nulla a che vedere con la fede. Questo tratto differenzia in modo radicale la filosofia antica da quella medioevale (che è ebraica, cristiana, o islamica, mai priva di aggettivi che la leghino a una religione). Reminiscenza Nel Menone e nel Fedone di Platone la reminiscenza (anamnesis, da cui il termine medico italiano anamnesi) è l’atto della mente con cui l’uomo ricorda idee che non ha imparato dall’esperienza in vita, ma in una forma di vita precedente diversa da quella umana, a diretto contato con l’eterno mondo delle idee. Questa teoria, espressa in forma di percorso dialettico nei due dialoghi e in parte attraverso il ricorso al mito (così anche nel Fedro), rielabora in modo del tutto autonomo e originale antiche dottrine pitagoriche e consente a Platone - di argomentare a favore della pre-esistenza dell’anima rispetto alla nascita, e quindi a favore della sua indipendenza dal corpo e della sua vita immortale; - di chiarire che la reminiscenza è la base della conoscenza delle idee, che non possono essere apprese attraverso l’esperienza o liberamente formate dalla mente, e quindi devono avere un’esistenza indipendente dalla mente stessa (teoria delle idee). Per la differenza tra memoria e reminiscenza in Aristotele si veda la voce Memoria (→). Res Vedi Cosa Responsabilità I problemi connessi a questo termine appartengono innanzitutto a due sfere, quella del diritto e quella dell’etica (più sotto aggiungeremo la sfera della politica, perché i filosofi greci l’accostavano all’etica). Sia in diritto che in etica, perché ci sia responsabilità è indispensabile che chi compie una azione sia - consapevole delle sue scelte (vedi la voce Coscienza: →) - e libero di farle (vedi la voce Libertà: →). Se manca uno di questi requisiti, chi ha compiuto l’azione non ne è responsabile. Nello svolgersi secolare della cultura greca dal mondo omerico all’ellenismo la nozione di responsabilità ha una storia complessa, perché la libertà di scelta del singolo e la coscienza che l’uomo ha di sé e delle ragioni che determinano le proprie scelte sono state concepite secondo modalità che si sono andate profondamente modificando. Ad esempio, benché Omero conosca la nozione di responsabilità individuale, in un numero notevole di casi le scelte dei singoli sono attribuiti all’intervento divino (ancora in Gorgia, nell’Encomio di Elena la responsabilità di Elena è negata per questa ragione, secondo una interpretazione del mito che nel V secolo tutti ancora comprendevano, anche se non è detto che la condividessero). Oltre a quello giuridico ed etico, la nozione di responsabilità ha un aspetto politico, perché la comunità politica – nel mondo greco in primo luogo la polis considerata come una unità – si assume responsabilità collettive che, oggettivamente, hanno conseguenze che ricadono tanto sui singoli quanto sulla propria o su altre comunità. Inoltre per il modo di sentire arcaico, in pieno accordo con l’esperienza individuale e politica, le scelte etiche e politiche dei singoli possono ricadere su altri singoli (ad esempio i figli) o sulla comunità (nei versi di Esiodo e di Solone si ricorda come una ovvietà, qualcosa di perfettamente noto a tutti, che le colpe di uno ricadono sulla città intera). Dunque la responsabilità ha vari aspetti che la legano alla sfera della politica. C’è poi una responsabilità oggettiva, una sorta di oggettività della colpa (→), determinata dal fatto che, anche senza averlo voluto, e quindi senza averne colpa, si sono commesse azioni che comportano conseguenze per sé e per gli altri. Anche molto pesanti. Retorica La retorike (sottinteso techne) è nel mondo greco l’arte del dire, innanzitutto in senso giuridico e politico: l’arte di costruire discorsi convincenti, basati su argomenti utili a ottenere il consenso di un pubblico alle proprie tesi. È quindi l’arte specifica di chi parla in pubblico, in un’assemblea di cittadini, in un tribunale, e così via. In quanto arte, è una tecnica (→), e va appresa come si apprendono tutte le tecniche. A partire dal V secolo a.C. se ne sono occupati quasi tutti i filosofi. Va però ricordato che la retorica era studiata anche da chi, come Isocrate (→), era in diretta concorrenza con i filosofi anche per ragioni professionali, ed ha quindi (anche) un proprio cammino indipendente. Tra i filosofi fu Aristotele a sintetizzare le ricerche dei suoi predecessori e a proporre ricerche nuove, e di questi studi è giunta sino a noi la sua Retorica. Sia su base aristotelica, che su tradizioni indipendenti da quelle filosofiche (per esempio da tradizioni giuridiche) tra la Grecia e Roma si sviluppò nei secoli successivi una sistemazione definitiva (per il mondo antico) dell’intera materia, che veniva nelle scuole divisa in cinque parti, che indichiamo con i termini latini perché fu a Roma, ma sulla base di influenza greca, che avvenne la codificazione: - l’inventio consisteva nella ricerca degli argomenti e dei mezzi capaci di ottenere gli effetti di persuasione voluti; - la dispositio era la scelta e l’ordine delle parti del discorso; - l’elocutio riguarda l’espressione linguistica e i suoi stili; - la memoria studiava le tecniche di memorizzazione necessarie all’oratore che parla in pubblico; - la pronunciatio o actio studiava l’esecuzione del discorso, ad esempio la voce, i gesti, e così via. L’insieme delle discipline che componevano la retorica antica sono ai nostri giorni studiate in vari ambiti, soprattutto in quelle che oggi chiamiamo discipline della comunicazione. I filosofi se ne sono occupati perché la retorica si muove sempre intorno a due serie di problemi che sono di pertinenza filosofica: - i problemi della filosofia del linguaggio (→), perché la retorica ha sempre a che fare con il linguaggio in diverse sue forme (linguaggio verbale, scritto, gestuale, soprattutto); - i problemi legati alla ricerca della verità perché la retorica, come tecnica di persuasione, può servire sia al confronto dialettico finalizzato alla scoperta del vero, oppure può servire come arma di dominio di una persona su altre, cioè come strumento di persuasione del tutto neutro rispetto alla verità: si pensi come esempio al problema della neutralità del linguaggio (→) sollevata dai Sofisti. All’interno di questo contesto di problemi filosofi come Platone hanno fortemente combattuto l’eristica (→) come esasperazione dell’arte della parola, mentre Aristotele ha studiato approfonditamente il problema delle tecniche di argomentazione non ben fondate anche se vincenti sia nella Retorica che nelle Confutazioni sofiste, che fanno parte dell’Organon. Ricerca Vedi Skepsis Rinascita Vedi Metempsicosi. Riti dionisiaci Vedi Dioniso Rivelazione Anche se la mitologia greca non è legata in modo diretto ad una rivelazione divina, i Greci conoscevano comunque la nozione di rivelazione: ad esempio, sono le Muse in Esiodo (→Teogonia) che rivelano al poeta, che può quindi cantarle a sua volta, le genealogie degli dèi e le lotte dei primordi; e nell’Orfismo (→) c’è un libro sacro in cui Orfeo rivela quanto ha visto nell’Oltretomba. La rivelazione è quindi intesa come un racconto di eventi, più che di verità di tipo teologico o di altra natura, e quindi come fonte di determinate tradizioni. A raccontare è chi sa, e quindi di volta in volta un dio, le Muse, o Orfeo, o altre figure del mito; e l’uomo è il destinatario di questo acconto, in genere attraverso la mediazione di un poeta. Sacrificio Il termine greco è thysia, dal vervo thyo che significa far fumare. L’italiano sacrificio deriva dal latino sacrum facere, cioè compiere un rito, o un atto, sacro. Diffuso in moltissime civiltà, il sacrificio era il cuore dei riti sacri e consisteva in una offerta al dio o agli dèi. “Nel mondo greco antico il sacrificio cruento costituiva un elemento determinante nella demarcazione simbolica tra l’umano e il divino, fra Greci e Barbari, tra normalità e devianza. Entro i confini della città greca il sacrificio si risolve in una spartizione collettiva delle carni in cui si riflette la visione greca dell’organizzazione sociale. I marginali, le forme di aggregazione religiosa e sociale atipiche, vengono esclusi dalla spartizione, mentre i rispettivi ruoli del sacrificatore e dello spettatore pongono anche una divisione di ruoli tra l’uomo e la donna” [Fabietti-Remotti 1997]. Saffo Poetessa greca, molto celebre già nell’antichità, Saffo nacque nell’isola di Lesbo e lì tenne un tiaso (→), nel cui contesto ha operato come poetessa. Oggi restano 213 frammenti, di varia lunghezza, delle sue poesie e un’ode nella sua interezza, ma nell’antichità circolarono ampiamente raccolte dei suoi versi suddivisi in nove libri: erano canti d’amore, inni, poemetti mitologici, canti per le nozze. Le notizie sulla sua vita sono molto incerte. Fu da giovane a Mitilene, poi esule in Sicilia, per poi rientrare in patria e occuparsi dell’educazione delle ragazze del suo tiaso. Soprattutto i poeti comici hanno diffuso molte e incontrollabili leggende sulla sua vita. La sua poesia è stata in tutti i tempi molto apprezzata, in particolare per i toni e le immagini che caratterizzano il suo mondo poetico sui temi d’amore. Saggezza / Saggio In greco la saggezza è phronesis, e il saggio è sophos. Gli elementi caratterizzanti l’uomo saggio su cui le filosofie antiche concordano sono tre: la libertà (→) interiore, la coscienza (→) del proprio sapere e allo stesso tempo dei propri limiti, la virtù (→). Ma come in concreto debbano intendersi i tre termini alle cui voci rimandiamo, è oggetto di discussione tra le scuole. Per i rapporti tra saggezza e sapienza, cioè sophia, vedi la voce Sapienza (→). Va osservato che, se per tutto il periodo della filosofia greca si discusse su quali fossero le caratteristiche specifiche del saggio, e quindi in che cosa consistesse esattamente la sua saggezza; ma già alle origini della filosofia la figura del saggio è associata ai due elementi del sapere e del saper vivere: infatti i sette saggi (→) della tradizione sono figure esemplari - perché hanno un sapere superiore a quello dei loro concittadini (un sapere umano, non in qualche modo superiore all’umano: non sono figure legate a saperi di tipo divino); - perché possiedono l’arte del vivere che rende liberi e felici (pari agli dèi, scriverà Epicuro, sostenendo qualcosa che è nel comune sentire dei Greci). In età ellenista la figura del saggio incarnò l’ideale di perfezione della vita di chi segue i dettami della filosofia, proprio perché unisce nella sua persona il sapere e l’arte del vivere, che sono i due volti della filosofia (→) stessa per il modo in cui è stata concepita dai Greci. Salamina Isola greca nei pressi dell’Attica, da cui è separata da uno stretto braccio di mare. Abitata da tempi remoti (vi sono resti di un insediamento miceneo) in età storica fu dominata da Megara, poi da Atene a partire dalla fine del VI secolo a.C., senza però entrare stabilmente a far parte dei territori ateniesi propriamente detti: gli Ateniesi vi trassero una cleruchia – da kleros, che significa lotto di terreno – cioè una presenza di coloni con funzione per lo più militari che mantenevano la cittadinanza ateniese e vivevano delle terre loro assegnate. Nel corso della Guerra del Peloponneso l’isola di Salamina accolse, subito prima della celebre battaglia del 480 a.C., tutti gli abitanti dell’Attica in fuga di fronte all’avanzare dell’esercito persiano. Fu Temistocle a insistere perché si desse battaglia contro la sterminata (rispetta a quella greca) flotta persiana proprio nelle ristrette acque tra la costa Attica e Salamina. In effetti fu un trionfo, e la celebre Battaglia di Salamina fu vissuta dai Greci come il momento della vittoria della libertà greca, e quindi della sua superiorità rispetto al mondo dei Persiani. Sapienza Il termine greco sophia, che traduciamo con sapienza, fino ad Aristotele escluso era equivalente a phronesis, che traduciamo con saggezza (→). Così in tutti i filosofi che ne trattano, Platone compreso: la sapienza è il carattere di chi sa e quindi agisce con saggezza (naturalmente queste nozioni di sapere e di saggezza non sono sovrapponibili per tutti i filosofi, che anzi si differenziano molto tra loro nell’indicare il loro corretto significato). Aristotele invece distingue nettamente la sophia dalla phronesis: - la sophia è la sapienza che riguarda i principi e la conoscenza teoretica, sia essa di tipo fisico, cosmologico, matematico, e così via - la phronesis è la saggezza di chi, conosca o meno i principi che regolano l’universo, conosce bene l’uomo e ciò che lo riguarda e sa comportarsi in maniera adeguata (sia su temi etici che politici). Questa distinzione deriva dal fatto che le scienze pratiche per Aristotele non possono fondarsi su una theoria, cioè sulla conoscenza teoretica o contemplazione della verità, perché si basano soltanto su opinioni, per ben fondate che siano, e non è quindi possibile in questi campi raggiungere lo stesso grado di certezza scientifica raggiungibile in altri campi (come la fisica, la “filosofia prima”, la matematica). Questa differenza è presente nel pensiero tardo antico; non è invece accolta dagli Stoici, che tornano a legare sophia e phronesis: il saggio è colui che è guidato, secondo natura, dal Logos, e conosce quindi le ragioni profonde che regolano la vita dell’uomo come dell’intero cosmo. Sapienza e saggezza nel loro pensiero tornano ad essere due volti della stessa medaglia (il volto teorico e quello pratico). Satiro È una delle figure tipiche del corteo del dio Dioniso (→). I Satiri nelle raffigurazioni più antiche hanno un aspetto solo parzialmente umano, perché la parte inferiore del corpo era simile a quella di una capra, mentre nelle raffigurazioni successive sono più simili agli esseri umani, pur rimanendo una coda in ricordo delle origini. Questo riferimento al mondo animale dipende dal fatto che i satiri erano divinità dei campi, espressione della natura selvaggia e primordiale. Legati alla potenza sessuale, sono spesso raffigurati in atteggiamenti orgiastici (come è ovvio dato il loro ruolo dionisiaco), mentre danzano nell’estasi dionisiaca o inseguono Menadi (→) e Ninfe (→). Scelta Il termine prohairesis che rendiamo in italiano con scelta indica quell’atto della mente con cui concediamo il nostro assenso a una verità piuttosto che ad altre, o con cui decidiamo di agire in un certo modo piuttosto che in un altro. Il tema della scelta ha quindi un rilievo filosofico sia su questioni di conoscenza che di etica. Un uso particolare del termine è in Plotino, che lo riferisce all’auto-produzione e all’auto-scelta che definiscono il rapporto dell’Uno con se stesso. Perché ci sia scelta, devono esserci alternative note a chi sceglie: è quindi decisivo il momento della conoscenza. Perché ci sia scelta, chi sceglie deve essere libero: è quindi decisivo il libero arbitrio, cioè che la volontà dell’uomo non sia sottoposta a meccanica necessità. Tuttavia per la maniera comune di sentire dei Greci il ruolo della volontà è meno centrale del ruolo della conoscenza: per via dell’intellettualismo etico (→), l’uomo che conosce secondo verità sa già dove indirizzare la propria volontà, e quindi sceglie di conseguenza. In ultimo va ricordato che un particolare uso del termine proairesis è in Epitteto, che lo usa per indicare una scelta di fondo da cui ne dipendono molte altre. Scepsi È il termine da cui deriva scetticismo (→). In greco skepsis significa ricerca, e la scepsi è quindi tipica di chi, nella coscienza di non sapere e della facilità con cui si cade in errore, non smette comunque di far filosofia, pur sapendo che la ricerca della verità non avrà mai fine e non porterà ad alcun esito certo. Scetticismo Il termine scetticismo deriva dall'aggettivo greco skeptikos, detto di colui che osserva, che riflette. Nella sua ispirazione originaria, quindi, il termine suggerisce l'idea di un ricercatore che attentamente studia l'oggetto della sua osservazione per coglierne tutti gli aspetti. In senso più specifico, tuttavia, il termine scetticismo è passato ad indicare nella filosofia greca quelle correnti di pensiero che non ritengono possibile per l'uomo giungere alla conoscenza della verità. Esaminata la capacità umana di conoscere le cose nella loro vera realtà, lo scettico arriva alla conclusione che così ampia è la possibilità dell'errore da lasciar dubitare che qualsiasi conoscenza possa mai essere sicura. Lo scetticismo, partito dalla stessa esigenza di ricerca e di riflessione sulla realtà delle altre scuole filosofiche, si differenzia da esse perché finisce col rifiutare ogni costruzione teorica. Tutte le filosofie sono ai suoi occhi incerte, tutte le tesi dubbie e poco solidamente fondate. Le opere dei grandi filosofi dello scetticismo antico sono in grandissima parte perdute. La nostra più importante fonte di conoscenza sono gli scritti di Sesto Empirico (→), medico e filosofo greco che ha sistemato con lucidità e coerenza gli argomenti della tradizione scettica, ormai secolare al tempo in cui scrive (il II-III d.C.). Le premesse per un atteggiamento scettico sono già presenti nella filosofia dei naturalisti, nonché in Socrate e in Platone. Il tema della impossibilità della conoscenza piena della verità ricorre, ad esempio, in Eraclito e in Senofane. Parmenide poi indica nei sensi una fonte di conoscenza contraddittoria, incapace di cogliere la realtà nella sua vera essenza: fonte di opinione, piuttosto che di verità. Quanto ai sofisti, assumono una posizione relativista, e Protagora nega che si possa raggiungere una conoscenza sicura sul tema, pur così essenziale, degli dèi e della loro natura. Nella Apologia poi Platone ci presenta Socrate come uomo che ha coscienza di non sapere e proprio per questo è superiore in sapienza agli altri uomini. Platone contrappone l'incerta e vaga conoscenza sensibile alla conoscenza intellettiva, quella cioè che intuisce le idee nella loro purezza eterna ed immutabile (sia pure con l'oscurità che la condizione umana non consente di superare). Il mondo della materia è caratterizzato dall'apparire piuttosto che dall'essere: le cose sono soggette ad un incessante mutamento, il loro essere è instabile ed ogni sapere risente di questa precarietà. Non ci può essere una conoscenza vera della realtà materiale perché la realtà materiale non è stabile. Non può essere conosciuta secondo verità perché non c'è in essa verità piena. Tuttavia nessuna di queste filosofie ha sviluppato sino in fondo il punto di vista scettico (se non, sotto alcuni aspetti, la sofistica, che tra le scuole antiche è la più vicina allo scetticismo ellenistico). La scuola scettica compare per la prima volta con un uomo, contemporaneo di Epicuro, ma di lui più anziano, che ha avuto modo di venire a contatto con la civiltà dell'Oriente, perché è stato in Asia al seguito della spedizione di Alessandro. Si tratta di Pirrone di Elide, alla cui voce rimandiamo (→). Schiavitù, schiavo La schiavitù (in greco douleia) era la condizione giuridica delle persone (uomini, donne, bambini alla nascita) che erano ridotte allo stato di un bene avente valore di mercato (una merce, quindi, che si compra e si vende) in proprietà di un padrone. In Grecia, almeno in alcune epoche storiche, anche un Greco poteva cadere in schiavitù, per lo più per debiti, ma questo era percepito negativamente, e ad Atene la legislazione di Solone intervenne, all’inizio del VI secolo, a sanare questo tipo di situazione. Da Solone in poi, la schiavitù di un Greco è sentita manifestamente come un arbitrio. Lo schiavo era abitualmente un barbaro, fatto prigioniero in guerra o acquistato. La schiavitù, diffusa per tutta l’epoca della storia antica, era percepita come un fatto naturale e si hanno pochissime riflessioni di tipo giuridico o etico, e più in generale filosofico, su questo tema. Alcuni filosofi però hanno posto la questione sulla legittimità della riduzione di una persona in schiavitù, risolvendo il problema in vari modi: questo problema è posto, con una celebre soluzione che riporta la schiavitù a un fatto di natura, nella Politica di Aristotele; di parere opposto era stato il sofista Antifonte, che in un celebre frammento dichiara che “per natura siamo assolutamente uguali, sia Greci che Barbari”. Per lo Stoicismo, in cui il tema della libertà umana è particolarmente sentito (e quindi il tema della schiavitù è trattato in rapporto alla necessità per l’uomo di essere libero per essere davvero se stesso, davvero uomo), la schiavitù che impedisce all’uomo di essere libero non è la condizione giuridica dello schiavo, ma la schiavitù (metaforica, ma non tanto) dalle passioni. Si può essere liberi (interiormente) in catene e schiavi nel lusso e nella ricchezza che dà il potere. Ma, di per sé, dicono “nessun uomo è per natura schiavo”, rifiutando con ciò la tesi aristotelica sulla schiavitù e aprendosi a un ideale universale di reale uguaglianza. Si è spesso sottolineato come la storia dello Stoicismo antico si chiuda con uno schiavo liberato (Epitteto) e un imperatore (Marco Aurelio). Sciamano “Dal tunguso shaman o saman, il termine designa genericamente il protagonista di un complesso di cerimonie e attività rituali che costituiscono il centro della vita religiosa della comunità. È stato esteso dall’area culturale della Siberia, da cui proviene originariamente, a categoria applicabile anche ad altre culture, per designare un individuo cui viene socialmente riconosciuta una particolare abilità nell’entrare in comunicazione con il mondo degli spiriti o delle potenze soprannaturali provocando uno stato di trance” [Fabietti-Remotti 1997].. Alcune figure della filosofia delle origini sono state associate allo sciamanesimo, ad esempio Pitagora, anche a causa di racconti sulla sua presenza contemporanea in posti diversi e sulla memoria delle vite precedenti. Ma l’accostamento è discusso tra gli studiosi. Scienza Il termine greco che traduciamo con la parola italiana scienza è episteme che, in contrapposizione a doxa, opinione, indica una conoscenza certa sul cui fondamento non ci possono essere aporie (→). La concezione antica della scienza è diversa da quella moderna perché suppone che, almeno in determinati ambiti, la mente umana giunga a conoscenze inconfutabili in termini assoluti. Il modello dell’episteme come forma di conoscenza rigorosa che dà luogo a una teoria, cioè alla contemplazione (→) della verità da parte della mente, ha trovato il suo classico modello negli Elementi di Euclide, che raccolgono il sapere matematico della tradizione greca precedente al III secolo a.C. esponendolo con pieno rigore deduttivo. Va osservato che la contrapposizione tra episteme e doxa risale, nel suo nucleo concettuale primario, ai primi filosofi (si pensi al Poema sulla Natura di Parmenide), per trovare poi varie articolazioni nell’età di Democrito, di Platone e di Aristotele, ciascuno dei quali propone una propria visione della scienza. Poiché anche le più importanti scuole ellenistiche – l’Epicurismo e lo Stoicismo – e, secoli dopo, anche il neoplatonismo, propongono una propria visione dell’episteme, è possibile affermare che un filo rosso su questo punto lega l’intero percorso della filosofia greca. Ma esiste un filo rosso di segno opposto, che sottolinea la difficoltà di giungere all’episteme (da Senofane ai sofisti, da Socrate e Platone – nonostante la sua teoria delle idee – alle scuole socratiche), o nega del tutto la possibilità di farlo (Pirrone, l’Accademia di mezzo, la scuola scettica successiva). Vedi su questo punto la voce Scetticismo (→). Scolarca Quando le scuole filosofiche dell’età classica ed ellenistica si diedero stabili strutture organizzative e divennero centri internazionali di ricerca filosofica e scientifica, si chiamò scolarca il filosofo – successore del fondatore – che guidava l’intera struttura dandole una precisa direzione di ricerca e di stile di vita, dato lo stretto legame che l’antichità vedeva tra attività di ricerca filosofica e vita pratica. Scrittura filosofica Vedi Generi letterari Scuola di Atene Benché ad Atene abbiano avuto la loro sede molte delle scuole filosofiche dell’antichità, e per secoli, nessuna scuola per tutta l’epoca della filosofia greca sino all’età tardo antica è nota come Scuola di Atene. Con questa dizione è invece chiamata la scuola platonica fondata, su presupposti neoplatonici non ancora cristiani, da Plutarco di Atene, il cui più importante rappresentante è Proclo (→). Ad essa appartenne anche Simplicio (→). La Scuola di Atene – che proponeva una sintesi del pensiero greco e della tradizione “pagana” venne chiusa nel 529 dall’imperatore d’Oriente Giustiniano che intendeva porre fine ad una istituzione in rotta di collisione con il vincente pensiero cristiano. Scuola filosofica Benché alcune scuole filosofiche dell’antichità siano state anche delle istituzioni educative dove si tenevano corsi regolari (con un paragone per la verità improprio potremmo pensare ad alcune università del nostro tempo che sono insieme luoghi di alta ricerca e di alta formazione), la dizione scuola filosofica ha un significato più generale e si applica a realtà storiche molto diverse fra loro, alcune delle quali non hanno nulla delle strutture educative (ad esempio si parla di Scuole socratiche →). È quindi opportuno chiarire il senso generale, valido per tutte le epoche della filosofia antica, tanto nel mondo greco quanto in quello romano: per scuola filosofica si intende il complesso delle dottrine, delle ricerche, delle pratiche di vita che gruppi di filosofi, sia coordinandosi tra loro sia individualmente e senza rapporti organici, hanno portato avanti sulla scia di un maestro che ha svolto il ruolo di caposcuola. Detto questo possiamo specificare meglio alcune tipologie: - alcune scuole sono tali solo nel senso che le teorie di un filosofo vengono accolte da altri, che proseguono le ricerche su questo filone, senza porsi problemi sulla fedeltà al maestro, e in qualche caso allontanandosene decisamente: in questo senso si parla, ad esempio, di una scuola di Mileto o delle scuole socratiche, o dello scetticismo come scuola; - altre scuole sono nate intorno ad un maestro molto stimato (in qualche caso addirittura entrato nella leggenda), e l’asse portante del suo pensiero è stato sviluppato dai suoi seguaci con l’esigenza di una sostanziale fedeltà, se non al dettaglio, almeno ai principi generali; alcune di queste scuole, prive di qualsiasi forma di organizzazione e quindi sviluppatesi come puri indirizzi di pensiero, sono durate molto a lungo: scuole di questo tipo sono quelle di Elea, il pitagorismo dopo il IV secolo a.C., la scuola cinica, il neoplatonismo (alcuni di questi indirizzi di pensiero sono stati vivi per più di un millennio, sia pure senza continuità); - alcune scuole hanno avuto il carattere di una setta, legata a determinate pratiche di vita oltre che a determinate teorie, come è il caso della scuola pitagorica dei secoli dal VI al IV a.C; - a partire dal IV secolo a.C. si impose il modello delle scuole strutturate come organizzazioni stabili - insieme di ricerca, di pratica di vita, di insegnamento -; per tutto l’ellenismo vi furono quattro istituzioni di questo tipo: l’Accademia, il Liceo (o Peripato) e le scuole degli Epicurei e degli Stoici. Scuole ellenistiche Nel periodo ellenistico (→) le scuole filosofiche erano prevalentemente di due tipi, con differenze interne a ciascun tipo: - istituzioni dotate di una propria organizzazione interna, che tenevano corsi regolari per la formazione dei giovani e per chiunque volesse accostarsi alla forma di vita filosofica proposta da ciascuna scuola; - correnti di pensiero seguite da filosofi indipendenti che si richiamavano ad una comune dottrina. Al primo tipo di scuola appartenevano un gruppo di scuole attive ad Atene: - l’Accademia (→), fondata da Platone all’inizio del IV secolo a.C; - il Liceo (→), fondato da Aristotele nella seconda metà del IV secolo a.C; - la Scuola Epicurea (→), fondata da Epicuro alla fine del IV secolo a.C.; - la Scuola Stoica (→), fondata da Zenone all’inizio del III secolo a.C., ciascuna con un proprio scolarca e una propria tipica organizzazione della ricerca e della vita filosofica. Al secondo tipo di scuole, prive di una specifica localizzazione geografica, appartenevano - la Scuola Cinica (→), fondata da Antistene nella prima metà del IV secolo a.C.; - la Scuola Scettica (→), che si richiamava alla tradizione di Pirrone, attivo alla fine del IV secolo a.C.; - varie tradizioni eredi delle antiche filosofie delle origini, come il Pitagorismo (→). Scuole socratiche Alla morte di Socrate i suoi allievi non formarono un gruppo compatto, ma si divisero in diverse scuole, ciascuna delle quali prese una propria strada, sviluppando le suggestioni socratiche nelle più varie direzioni. Oltre all’Accademia (→) fondata da Platone, le scuole socratiche che la tradizione storiografica moderna chiama minori in riferimento all’Accademia sono tre: - la scuola dei Cirenaici (→); - quella dei Megarici (→); - quella dei Cinici (→). Seconda navigazione Platone ha usato la metafora della seconda navigazione (in greco deuteros plous) per indicare il percorso dialettico di ricerca in direzione della realtà del mondo intelligibile. La dizione di per sé indica la navigazione che le navi greche compivano, abbandonata la costa, quando dovevano attraversare tratti di mare aperto non più in vista delle terre emerse, affidandosi quindi solo alle indicazioni degli astri per tenere la rotta. Segno La nozione di segno – in greco semeion – è stata studiata in modo esplicito per la prima volta nella filosofia greca dagli Stoici, anche se elementi della nozione sono presenti nei filosofi precedenti, soprattutto in Aristotele. Per segno si intende – con gli Stoici – qualsiasi ente o evento che agli occhi di una mente pensante rimandi ad una realtà nascosta: ad esempio in questo senso i movimenti del corpo possono rimandare ai movimenti dell’anima. Dato questo carattere dei segni, il fatto che l’uomo sia in grado di riconoscerli e di usarli è indice di una netta differenza tra la sua mente e quella degli animali. Il segno, infatti, richiede in ogni caso una operazione esclusivamente interiore ed intellettuali che passi dal segno come ente o evento conosciuto alla realtà di cui quell’ente o evento è segno. A partire dalla tarda antichità si è sviluppata una teoria dei segni (già con Agostino che ne tratta nel De Magistro) che, sulla base delle riflessioni dei Greci, si svilupperà in profondità nel corso della filosofia medioevale. Semplice Nelle filosofie di Platone e di Aristotele e in Plotino il termine semplice (haplous) nel senso di non composto indica il carattere di quelle realtà che per natura non sono composte, ma sono in se stesse un’unità compiuta, immutabile e immobile (le idee platoniche, il Dio pensiero di pensiero di Aristotele, l’Uno di Plotino). Aristotele sottolinea che realtà di questo tipo hanno in se stesse la loro necessità (Metafisica V-5), perché ciò che è semplice, in quanto non composto di parti e immutabile, non può essere oggetto di interventi esterni che ne modificano la struttura (essendo semplici, e non avendo quindi parti, non c’è in loro alcuna struttura). Seneca Vedi Stoicismo Senofonte Nato intorno al 430 a.C. e morto intorno al 355, Senofonte è uno storico e scrittore greco molto prolifico, le cui opere sono in gran parte giunte sino a noi. Come storico non ha la statura di Tucidide, di cui intende proseguire l’opera (le sue Elleniche, in 7 libri, giungono fino al 362 a.C.), ma è una fonte importante di informazioni soprattutto per quanto riguarda la storia militare, di cui aveva competenza diretta (fra i trenta e i quarant’anni era stato impegnato in importanti azioni militari in Asia e in Grecia, con ruoli direttivi). È autore anche della Anabasi (in 7 libri: è il racconto di una spedizione militare in Asia di cui era stato protagonista) e della Ciropedia (in 8 libri: su Ciro il Grande, di cui si narrano gli anni di formazione). Aveva conosciuto Socrate e ne era stato influenzato, senza tuttavia appartenere alla cerchia dei suoi allievi. Sulla figura del filosofo ha lasciato un ampio corpus di scritti filosofici (Apologia di Socrate, Economico, Memorabili), che non hanno tuttavia la profondità di quelli platonici e comunque restituiscono una immagine del maestro notevolmente diversa. Ha anche scritto un Simposio in cui, come in quello platonico, Socrate parla dell’amore. Senso / Significato In espressioni moderne come “il senso della vita” o “il significato della vita” i due termini possono essere usati, e sono di fatto usati dai filosofi, indifferentemente. Indicano genericamente, in una accezione non tecnicamente precisa, che un certo oggetto del discorso (in questo caso la vita) non è insensata, ma è comprensibile alla luce dell’intelletto pensante, oppure ci si chiede se lo è. Si trova, o solo si cerca, una ragione. In questa accezione generica, la maggior parte delle filosofie antiche hanno ritenuto che l’intera realtà abbia senso e significato, cioè possa essere compresa nei suoi elementi riportando il particolare studiato all’ordine complessivo del tutto. È questa la visione del cosmo, nel suo insieme e nei singoli dettagli, di un Aristotele, di un Epicuro, degli Stoici, di Plotino e di vari altri (ma non di tutti). Se però da questo uso generico passiamo all’uso tecnico dei termini senso e significato, allora occorre differenziare. Senso Se per senso di un oggetto del discorso (nell’esempio prima indicato, la vita) intendiamo un valore (→), cioè qualcosa che giustifica agli occhi della ragione la sua esistenza in termini positivi, allora le posizioni delle scuole divergono: per Epicuro, ad esempio, la vita non ha alcun senso, perché è il frutto del caso; siamo quindi liberi di dargliene uno, spetta al soggetto decidere, e la filosofia ha come primo compito, oltre a guarire dai mali, anche quello di indicare la strada per costruire un senso alla propria vita (il principio-guida indicato è l’utilitarismo, sulla base di una teoria del piacere). Viceversa, per lo Stoicismo il valore esiste, ed è dato dal Logos, e per un essere razionale come l’uomo questo porta al dovere, che può essere compreso solo studiando con razionalità la posizione dell’individuo rispetto al Tutto. In quanto valore, il senso dell’oggetto del discorso - può essere di molti tipi: ci sono valori emotivi, estetici, etici, politici, economici, e così via; - può essere molteplice: l’oggetto del nostro discorso può averne più d’uno, ed è oggetto dell’interpretazione che la mente compie comprenderne le gerarchie (che possono essere decisive quando si tratta di prendere delle decisioni, a seconda che si consideri più importante un senso o l’altro, cioè un valore o l’altro). Significato Il significato di un oggetto del discorso (una parola, un ente, un evento) è ben distinto, se si fa del termine un uso tecnico, dal suo senso, perché indica soltanto di che cosa in realtà si sta parlando: l’oggetto del discorso (in quanto afferente all’universo del linguaggio: →) è allora inteso come segno (→) per qualcos’altro, e il qualcos’altro è il significato di quel segno. Una lettura razionale della realtà ha quindi l’obiettivo di passare dal segno al suo significato. Poiché qualsiasi ente o evento, materiale o mentale, può essere segno: - avremo quindi il significato di una parola o di qualsiasi altro elemento linguistico (ad esempio delle immagini); - avremo il significato di un gesto, di una scelta, che risulterà quindi comprensibile agli occhi di un osservatore nello stesso senso in cui una parola prima non nota risulta comprensibile se si spiega che cosa vuol dire; - avremo anche il significato di un sintomo, in medicina, che il medico è in grado di interpretare; e così via. Mentre lo studio del senso, in senso tecnico, appartiene alla filosofia sin dalle sue origini, e sotto un certo profilo la caratterizza in senso forte (filosofia come ricerca sulle questioni di senso), lo studio specialistico del significato è stato portato avanti, dopo Socrate e Platone, soprattutto da Aristotele nell’Organon, e dopo di lui dai grammatici alessandrini e, in logica, soprattutto dagli Stoici. Sensi / Sensazione / Sensibilità I sensi sono gli organi del corpo che consentono alla mente di acquisire informazioni dal mondo esterno ed interno. Uno dei problemi fondamentali delle teoria della conoscenza proposte dai filosofi greci è determinare i modi in cui, concretamente operano i sensi. Ciascuna scuola ha proposto una propria teoria. E, tra i sensi, le varie scuole ne privilegiano abitualmente uno: ad esempio Platone riconduce la conoscenza sensibile nel suo più alto grado alla vista, mentre Epicuro riconduce al tatto questo ruolo, perché di fatto tutti i sensi operano per contatto diretto (è la teoria dei simulacri). Per questi aspetti e per i problemi connessi rimandiamo alla voce Conoscenza, Problema della (→). La conoscenza che i filosofi greci hanno avuto della fisiologia degli organi di senso (studiata approfonditamente dai filosofi naturalisti, dai materialisti, da Aristotele e da alcune scuole ellenistiche) è lontana da quella moderna, per le conoscenze limitate che si avevano sul sistema nervoso e sul cervello. Chiamiamo sensazione qualsiasi conoscenza provenga dai sensi. Una sensazione è quindi sempre una rappresentazione (→) dell’oggetto di conoscenza (interno o esterno), cioè una immagine (visiva, uditiva, tattile, e così via) mediante cui la mente conosce attraverso i sensi il proprio oggetto. Per i problemi connessi alla sensazione si veda la voce Esperienza (→). Il termine greco aisthesis, che significa tanto l’atto del sentire (la sensazione) quanto la facoltà del sentire (sensibilità) si riferisce alla sfera dei sensi, ma vi aggiunge gli aspetti emotivi che vi sono connessi: il legame tra sensazione ed emozione, espresso dal termine sensibilità, è mostrato dal fatto che le emozioni (→) sono percepite come sensazioni. Quali poi siano le ragioni del legame tra emozioni e sensazioni, è oggetto di studio e di specifiche teorie delle varie scuole filosofiche. Sentenze Vedi Massime e sentenze Sessualità Vedi Eros Sette sapienti Nel corso dei secoli, tra il VI e il IV a.C., quando la tradizione si consolidò stabilizzandosi, vennero considerati sapienti in Grecia una serie di personaggi, alcuni storici, altri leggendari, le cui vite costituivano un modello positivo. Il numero sette era probabilmente legato a valenze simboliche. Benché la lista non comprenda sempre gli stessi nomi, a seconda delle diverse fonti, quattro dei sette sapienti sono citati stabilmente: sono Talete di Mileto, Pittaco di Mitilene, Biante di Priene, Solone di Atene; gli altri tre variano. Di tutti, i personaggi certamente storici sono Talete (→) e Solone (→), gli altri sono semileggendari. Sfera Nella cultura greca la sfera rappresenta un’immagine visiva di compiutezza e perfezione. Anche per questa ragione (ma non solo per questa) Platone e Aristotele concepirono l’universo fisico come una sfera finita e perfetta (i due concetti per la maniera di pensare greca si sommano a formare un tutto unitario). Va osservato che questo aspetto della cultura greca portò Parmenide a raffigurare l’Essere (“simile a…” scrive nel suo Poema sulla Natura) nella forma di una sfera perfettamente uguale in tutte le sue parti Sfero Il termine (in greco sphairon) è proprio della filosofia di Empedocle, e indica uno dei momenti del ciclo complessivo del movimento cosmico: quando la forza della Philia (Amicizia) che lega tra loro i quattro elementi vince in massimo grado sulla Contesa, che invece li separa, il cosmo assume un aspetto perfettamente ordinato e unitario: i quattro elementi sono mescolati in modo compiuto. Poi il ciclo riprende, con il crescere della forza della Contesa. Sibari Tra la fine dell’VIII secolo, quando venne fondata da coloni prevalentemente achei, e la fine del VI secolo a.C., è stata una delle maggiori tra le poleis della Magna Grecia, fino a controllare un territorio molto vasto tra le coste ioniche e tirreniche. Era una città dalla chiara vocazione commerciale, legata a Mileto da un flusso continuo di traffici. L’aggettivo sibarita, nel senso di persona ricca che vive nel lusso, deriva sia dalla ricchezza della città che dal fatto che vi si commerciava in generi di lusso. Lo scontro decisivo che portò alla sua distruzione nel 510 a.C. fu con la rivale Crotone, che la sconfisse in battaglia e la distrusse, giungendo al punto da inondarne il sito dove sorgeva con le acque del fiume Crati. L’area fu ripopolata alla metà del V secolo a.C. con la fondazione della colonia panellenica di Turi, ma lo splendore di un tempo era ormai scomparso. Sileni Simili ai Satiri, ma raffigurati con la coda equina, i Sileni sono figure del mito associate a Dioniso e più in generale all’esperienza iniziatica, al vino e alla morte. Altre tradizioni fanno riferimento ad un’unica figura di Sileno, che si raccontava fosse stato maestro di Dioniso, e lo si raffigurava come un vecchio obeso che si regge a fatica, per la sua ubrachezza, su un asino. Silenzio Socrate non ha scritto nulla, ma raramente è rappresentato in silenzio (a volte sì: nel Simposio platonico due volte, prima dell’ingresso nella casa di Agatone e nel discorso di Alcibiade, entrambe le volte immerso in quella che sembra una profonda meditazione). Di Pirrone di Elide, invece, ci viene tramandato non solo che non ha scritto nulla, ma anche che ha osservato un rigoroso silenzio di fronte a determinate situazioni della vita o di fronte alle parole di altri, coerente con la tesi scettica sull’impossibilità di usare il linguaggio conferendogli senso e verità. Ci sono silenzi e silenzi, in effetti, e oggi utilizziamo l’espressione “silenzio assordante” per indicare un silenzio più eloquente di un intero discorso. Ora, di fronte ad un libro mai scritto, a delle parole mai pronunciate, non possiamo non chiederci: può la filosofia fare a meno di parole? Certo non può fare a meno di esempi "esemplari". Certo non può fare a meno di un linguaggio. E l'esempio lo è (così sia Socrate che Pirrone dicono qualcosa attraverso il loro silenzio). Ci sono figure della filosofia che pur avendo utilizzato parole hanno comunicato anche attraverso un’immagine di sé, come Diogene con la sua botte. E i molti episodi tramandatici della vita di Pirrone sono di questo tipo. Ci sono messaggi filosofici che vivono di estrema essenzialità, assolutamente non discorsiva, come se si concentrassero in un punto soltanto: come il confutare i paradossi di Zenone sul movimento mettendosi a camminare in assoluto silenzio. Dunque il silenzio per un filosofo greco può essere utilizzato come una forma di linguaggio. La filosofia antica non si è in effetti lasciata irretire in una forma privilegiata di linguaggio e di razionalità. Ha tentato tutte le vie in tutte le direzioni, come fa dire Platone al personaggioParmenide all’inizio del suo omonimo dialogo (o almeno ha tentato molte vie in molte direzioni). Quanto a Plotino, considera il silenzio connesso alla contemplazione (Enneadi III, 8, 4) Silli I silli sono componimenti poetico-filosofici, per lo più in esametri, utilizzati da Timone di Fliunte (→) per proporre la filosofia di Pirrone sottolineandone il carattere scettico attraverso la satira e la parodia. Sono un genere letterario minore, ma tipico del periodo ellenistico. Sillogismo Sylloghismos in greco significa ragionamento, ma il termine ha assunto con Aristotele un significato tecnico per cui anche in italiano si usa la parola sillogismo, in riferimento a quest’uso. Aristotele ne tratta a vari livelli nelle sue opere di logica, raccolte nell’Organon: - negli Analitici primi ne tratta al livello di quella che oggi chiamiamo logica formale: studia cioè, indipendentemente dai contenuti, la forma (cioè la regola logica) che i ragionamenti deduttivi devono seguire perché siano validi (vedi anche le voci Deduzione e Induzione: →); - negli Analitici secondi ne tratta in quanto sono uno strumento di dimostrazione razionale, e quindi consentono la conoscenza scientifica discorsiva; - nei Topici tratta dei sillogismi di tipo dialettico, intendendo con questo quella forma di ragionamento le cui premesse sono opinioni a vario grado di probabilità e non proposizioni certe; - nelle Confutazione sofistiche tratta dei ragionamenti solo apparentemente veri, ma comunque convincenti e dunque da smascherare. Il sillogismo nella sua forma categorica (cioè affermativa) è un insieme di tre proposizioni affermative connesse tra loro secondo una particolare regola. La prima e la seconda fungono da premesse del ragionamento: la prima è la premessa maggiore, la seconda la minore, e sono costruite in modo da avere un elemento in comune, il cosiddetto termine medio, come nella sequenza: - “tutti gli uomini sono mortali” - “tutti i Greci sono uomini” - “tutti i Greci sono mortali” in cui il termine medio presente nelle due premesse è “uomini”. A seconda della posizione del termine medio nelle due premesse, i sillogismi possono essere classificati in varie figure, e all’interno di ciascuna figura a seconda delle varianti possono essere identificate varie classi, che la tradizione chiama modi. Le combinazioni in assoluto possibili sono 256, ma quelle in cui si ha a che fare con modi validi sono solo 19: solo in questi infatti la conclusione segue davvero in modo logicamente stringente dalle premesse. Sillogismo dialettico Nei Topici – opera che fa parte del suo corpus di studi di logica, l’Organon – Aristotele studia un tipo di sillogismo (→) che non si basa su premesse certe, ma incerte, a vario grado di incertezza. In pratica propone una logica dell’opinione, facendo della doxa (→) una base di studio rilevante per tutte quelle situazioni della vita in cui una certezza su cui fondare le nostre deduzioni non è alla nostra portata. La dialettica per Aristotele ha varie funzioni: - è utile come esercizio della mente al ragionamento (ha quindi una sorta di funzione propedeutica nei confronti della scienza) - è utile perché insegna il modo corretto di dialogare con gli altri; - è utile alla ricerca filosofica in tutti quei campi in cui non disponiamo di una fondazione certa del nostro sapere (per Aristotele si tratta di campi vastissimi: tutte le scienze pratiche e poietiche). Simile agli dèi / Divino Queste espressioni sono comuni nel linguaggio letterario e filosofico dell’antichità, in riferimento a determinate persone (l’eroe, il saggio) che hanno caratteri di eccellenza per un tratto o per il complesso della loro personalità. Non indicano necessariamente un rapporto con la sfera del divino, se non come termine di riferimento e di paragone. Così nel mito Odisseo è divino, nella poesia la persona amata da Saffo è simile agli dèi, in filosofia le anime secondo Platone sono di stirpe divina (nel contesto di un mito filosofico), e il saggio epicureo è felice come gli dèi. Anche in filosofia il mondo umano si rispecchia nel mondo divino, almeno per quei filosofi che ritengono di poter dimostrare che gli dèi (o il dio) esistono. Vedi su quest’ultimo punto la voce Dio, dèi, divino (→) Simile / Dissimile Nella filosofia greca prevale il principio che il simile conosce il simile, utilizzato per spiegare come avviene la conoscenza sensibile in molti autori come Empedocle e Democrito (il tema viene poi ampiamente sviluppato nella teoria della conoscenza di Aristotele e dei filosofi ellenisti). La filosofia greca ha elaborato anche il principio opposto, che il dissimile conosce il dissimile: lo utilizza, in controtendenza, Anassagora secondo la testimonianza di Teofrasto. Simonide Tra i massimi poeti lirici greci, nacque intorno alla metà del VI secolo (forse nel 556 a.C.) e morì molto anziano nel 468. Le circostanze della sua vita, e il suo stesso impegno di poeta, lo portarono presso le corti di numerosi tiranni tra l’Attica e la Sicilia, e la sua presenza è attestata in varie altre località del mondo greco. Coltivò, oltre agli epinici (→), diverse altre forme di poesia lirica, in uno stile molto vigoroso. Scrisse con accenti intensi anche sulle vicende storiche del suo tempo, come il carme in onore dei morti delle Termopoli, in cui esprime l’orgoglio greco unito al dolore per i caduti. In vari canti funebri esprime un profondo pessimismo sulla condizione umana. Simpatia La nozione di simpatia (in greco synpatheia), introdotta nel lessico filosofico in ambiente peripatetico, è stata utilizzata soprattutto in età ellenistica e tardo antica, soprattutto dagli Stoici e da Plotino, per indicare i legami che rendono unitario il cosmo e la realtà intesa come un Tutto. Simplicio Filosofo greco, le sue opere sono una delle nostre fonti di conoscenza del pensiero antico, perché ci sono pervenute e in esse Simplicio riporta notizie, opinioni e passi di filosofi delle origini come Anassimando, Empedocle, Parmenide. Il suo lavoro è quindi parte di quella catena di scritti dossografici che ha consentito almeno ad una parte del pensiero antico di giungere a noi (vedi le voci Dossografia e Storia della filosofia: →). Attivo nel VI secolo d.C., membro di quella Scuola di Atene (→) fondata dai neoplatonici in cui operò anche Proclo, quando Giustiniano la chiuse nel 529 si trasferì in Persia, per poi rientrare ad Atene negli anni successivi. Compose quindi una serie di commenti ad opere di Aristotele (Fisica, Categorie, Il cielo, L’anima) e al Manuale di Epitteto. Simposio Quella del simposio era un'usanza assai diffusa in Grecia: ci si riuniva alla sera in un ristretto gruppo di amici e conoscenti, a casa di qualcuno, e lì si trascorreva il tempo sorseggiando vino, discutendo di svariati argomenti - il più delle volte dotti -, ascoltando il suono del flauto e i canti, spesso fino a tarda notte o addirittura fino a mattina. Nella letteratura molti autori hanno scelto questa ambientazione come cornice letteraria per la propria opera, poiché bene si adattava a un tipo di esposizione dottrinaria ed erudita, ma non trattatistica e quindi più scorrevole e discorsiva. Gli esempi più famosi sono proprio quelli del Simposio platonico e del Simposio di Senofonte, poi imitati da Plutarco, Macrobio e molti altri. La parola greca symposion è composta da syn, insieme, e pinein, bere. La sua etimologia ci mostra come la consuetudine di riunirsi insieme, in un cenacolo privato di amici, fosse legata al vino, nella sua matrice prettamente culturale e tradizionale. Nella Grecia antica e classica, infatti, il vino aveva un'importanza e un significato speciali: non era semplicemente svago o vizio, ma diventava addirittura una vera e propria pratica di natura religiosa. Dioniso era il suo dio. Come si svolgeva un simposio Innanzi tutto è necessario distinguere il simposio vero e proprio dal banchetto che era la fase immediatamente precedente il simposio, durante la quale gli ospiti, a coppie di due, venivano fatti accomodare sui klínai - una sorta di letti muniti di un comodo schienale cui appoggiarsi -, dopo che i servi del padrone di casa avevano tolto loro i sandali e lavato i piedi. Infine veniva servita la cena da giovani schiavi, possibilmente aggraziati e di bell'aspetto. Questa prima fase non era mai accompagnata dal vino, che veniva consumato soltanto alla fine del pasto e per tutta la durata del simposio. La netta separazione tra il momento del mangiare e quello del bere era dovuta a un motivo essenzialmente religioso: il vino, essendo legato al culto di Dioniso, diventava l'elemento principale di un vero e proprio cerimoniale; non poteva dunque venire consumato semplicemente come bevanda, durante la cena, cioè durante una normale occasione d'incontro, priva di valenza simbolica e religiosa. A volte, poi, gli invitati al simposio si incontravano direttamente dopo la cena, al tramonto, eliminando dunque il momento della cena insieme. La fase successiva era quella che dava inizio al simposio vero e proprio. I giovani schiavi portavano olii profumati e corone di fiori, con cui cingevano il capo dei convitati e le coppe del vino. Veniva fatta un'offerta simbolica a Zeus, con cibi e vino, mentre un coro, cui talvolta si univano anche i convitati, innalzava un canto solenne e celebrativo, al suono del flauto e della cetra. L'effetto suggestivo doveva certamente essere straordinario. Il significato del bere insieme Il simposio assume così una funzione e un significato sacrali: "L'offerta è in origine un rito che deve rompere il tabù insito nel vino, bere significa penetrare nel demonico. [...] Il vino non è semplicemente un dono degli dèi, ma è una divinità esso stesso: Bacco, Bromio, Dioniso, come spesso il linguaggio simposiale chiama direttamente il vino" (Von Der Muhll 1983, p. 11.). II simposio, nel suo complesso, era un rito collettivo, che attestava ai convitati l'appartenenza esclusiva a una ristretta cerchia comunitaria, da cui erano rigorosamente esclusi tutti gli altri. Il cerimoniale di cingere il capo dei convitati con corone di fiori era il gesto simbolico che sanciva il loro ingresso nella nuova comunità, così come il bere in comune stava a suggellare un patto di amicizia e di fratellanza. "Nella cultura greca per poter leggere nel cuore di un amico con cui si sta insieme bisogna aver bevuto con lui a banchetto, perché il vino rivela il vero animo dell'uomo" (Trumpf 1983, p. 47.). 'Il vino è il mezzo per guardare dentro l'uomo", dice Alceo, un poeta lirico dell'età arcaica (sull'argomento è giunta sino a noi un'elegia di Senofane). L'uso del bere vino non era mai libero e indiscriminato: fra i presenti veniva eletto un simposiarca, che regolava nei minimi dettagli la quantità di vino da consumare, il dosaggio di acqua con cui allungarlo e perfino il numero di coppe che spettavano a ciascuno. La moderazione nel bere era considerata in genere un segno imprescindibile di buon comportamento e rispettabilità. L'ubriachezza smodata era talvolta una fonte di vergogna e offesa; nel Simposio di Platone viene più volte sottolineato che Socrate, per quanto vino potesse bere, non si lasciava mai andare all'ubriachezza. Per la mentalità greca l'eccesso a cui poteva portare il vino, assunto in quantità indiscriminata, rientrava in qualche modo all'interno del concetto di hybns, la tracotanza, e quindi l'opposto - al negativo - del principio di armonia e misura, quello stesso principio che regolava l'ordine del mondo. La musica e l’Eros nel simposio Durante il simposio, oltre alle flautiste, agli schiavi e ai coristi, potevano esservi le etere, una sorta di cortigiane di condizione servile, che intrattenevano gli ospiti con danze, giochi, indovinelli. La presenza delle etere era inseparabile da un elemento tipicamente sessuale; le pitture vascolari che ci sono rimaste confermano questa funzione erotica che le danzatrici e le suonatrici di flauto ricoprivano. È importante però comprendere che la sessualità - nei suoi diversi aspetti e orientamenti: omosessualità maschile e femminile, eterosessualità, amore collettivo - era concepita dai Greci in maniera del tutto diversa dalla nostra. Nel caso specifico del simposio, per esempio, l'elemento erotico - e in particolare orgiastico - era inserito in un contesto che abbiamo definito intellettuale e addirittura sacrale, e questo non deve apparire strano o contraddittorio. Questa sessualità era infatti strettamente connessa all'aspetto intellettuale: l'orgia non rappresentava necessariamente uno scendere di livello, un abbandonarsi a istinti indecorosi e scandalosi, ma costituiva un normale aspetto delle riunioni conviviali. L'elemento ludico del simposio era però sostanzialmente marginale; il suo carattere primo era infatti quello intellettuale: venivano discussi svariati argomenti, recitate o improvvisate composizioni poetiche o discorsi retorici. Come nel Simposio platonico, quando il discorso si innalzava a un livello particolarmente alto, venivano mandati via i suonatori, le danzatrici, gli schiavi e chiunque non appartenesse alla cerchia dei convitati. Un particolare importante che è stato fin qui trascurato è il carattere rigorosamente maschile di questi incontri conviviali: le donne infatti non erano mai tra i convitati - anche quelle appartenenti alle classi sociali più elevate -, così come d'altronde erano escluse dalla vita politica. Simulacri In Epicuro i simulacri (in greco eidola) sono le sottilissime pellicole composte di atomi che si staccano tutti i momenti dai corpi e, colpendo i nostri organi di senso, provocano la formazione delle rappresentazioni che ne abbiamo. La dottrina dei simulacri costituisce la base fisica della teoria materialistica della conoscenza. Sinecismo Dalle parole greche syn e oikeo, che traduciamo con insieme e risiedo, il termine sinecismo indica la riunione di varie comunità distribuite su un territorio allo scopo di costituire una sola polis. Questa pratica era dettata per lo più da necessità di difesa comune, o da altre ragioni politiche miranti al rafforzamento del territorio. Benché i dettagli storici siano spesso lacunosi e vari casi di sinecismo siano riferiti a leggende di tipo mitico (come il sinecismo delle varie città dell’Attica al tempo del mitico re di Atene, Teseo), si suppone che sia trattato della volontaria perdita di autonomia di piccoli centri a favore della città più grande, oppure della fondazione di una città comune da parte di villaggi sparsi. In ogni caso, il sinecismo difficilmente era frutto di una rapida e traumatica decisione politica, e più spesso era il frutto di un lento e naturale processo di rafforzamento intorno a un centro comune. A fianco del sinecismo, esistevano varie altre forme di unione politica tra poleis: - con la synpoliteia (da syn e politeia, termine per cui rimandiamo alla voce specifica: →) diverse comunità politiche, non necessariamente contigue, si legavano con un patto di unione per formare quello che oggi chiameremmo un unico Stato (era spesso usata da città di ridotte dimensioni per accedere ai bvantaggi di appartenere in condizione di parità ad una realtà politica più ampia); - con la isopoliteia (isos significa uguale) diverse poleis concedevano ciascuna il diritto di cittadinanza ai cittadini dell’altra, pur restando realtà politiche distinte. Sinolo È termine specifico della filosofia aristotelica, ed in particolare della sua teoria della sostanza (→). In greco synolos significa unità, e in effetti il sinolo è l’unità della sostanza studiata, più esattamente unità di materia (→) e di forma (→). La sua realtà è per definizione legata al movimento, perché la materia è soggetta al passaggio dalla potenza all’atto e quindi al perenne processo delle trasformazioni: il sinolo può quindi generarsi, corrompersi, trasformarsi. Oltre che alle nozioni di materia e di forma, per il sinolo vanno quindi anche richiamate le nozioni di atto (→) e di potenza (→). Sinonimo / Sinonimica La sinonimica era una disciplina linguistica introdotta da Prodico di Ceo (→) con il suo Trattato di sinonimica. Aveva l’obiettivo di identificare le sfumature lessicali dei sinonimi e il loro rapporto con la realtà della cosa a cui essi fanno riferimento. Benché Platone abbia ridicolizzato questa ricerca (ad esempio nel Protagora), in effetti essa non è lontana dall’indagine socratica sul significato delle parole e sull’identità dei concetti. Ricordiamo che i sinonimi (synonymos) sono termini che hanno uno stesso significato (cioè dicono la stessa “cosa”), o che si differenziano per piccole sfumature di significato coprendo un campo semantico molto simile. Aristotele (in Categorie 1-1) ne dà una definizione più estesa, chiamando sinonimi “quegli oggetti che hanno tanto il nome in comune quanto la medesima definizione”. Sinope L’antica Sinope è l’attuale Sinop, in Turkia. Fondata da coloni provenienti da Mileto, venne distrutta dai Cimmeri nel VII secolo a.C. e quindi nuovamente rifondata, sempre dai Milesi. Divenne un centro commerciale di primaria importanza lungo le rotte del Ponto Eusino, sulle cui coste sorgeva, tanto da fondare a sua volta diverse altre colonie che le divennero tributarie. La prosperità commerciale che le derivava dalle sue produzioni e dalla vocazione mercantile, favorita dalla posizione, fece sì che le potenze dell’area non le consentissero di mantenersi autonoma. Politicamente andò quindi soggetta prima ai Persiani, poi sotto i sovrani del Regno del Ponto, poi sotto i Romani. Riuscì a mantenere il suo ruolo commerciale anche per tutto il periodo imperiale romano. Siracusa Al contrario della maggior parte delle città greche della Sicilia e della Magna Gecia, Siracusa mantenne (tra alti e bassi) la sua posizione di città egemone in Sicilia, e in alcuni momenti di capitale, per oltre un millennio, tra la sua fondazione avvenuta nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. e la conquista araba della Sicilia, avvenuta nel IX secolo d.C. (poi gli Arabi spostarono la capitale a Palermo e la centralità di Siracusa venne meno). Una delle ragioni storiche del persistere del ruolo di Siracusa in Sicilia, e in alcuni periodi anche in vaste aree della Magna Grecia, fu il suo stabile legame con l’Oriente, dovuto anche alla sua posizione. Era una città particolarmente ben difendibile, perché il suo cuore sorgeva su un’isola (Ortigia) a ridosso della costa, fatto che consentiva anche la possibilità di avere due porti. A fondarla, secondo la tradizione nel 734 a.C., furono coloni provenienti da Corinto, città alla quale rimase sempre legata, sia da un punto di vista culturale che commerciale, pur nella abituale reciproca indipendenza politica. Fondò a sua volta varie colonie. La forma tipica di governo che si affermò a Siracusa fu la tirannia, con tiranni in qualche caso particolarmente abili. Dal punto di vista della storia della filosofia e della scienza, Siracusa fu una città importante in diverse epoche: - nel V secolo a.C. perché ospitò i più importanti tra i poeti lirici e tragici (tra cui Eschilo) dell’epoca e qui furono composte alcune delle maggiori opere del teatro e della lirica (il teatro greco di Siracusa è ancora oggi attivo); - nel IV secolo a.C. perché fu al centro di ben tre tentativi (falliti) di Platone di porre le condizioni per la trasformazione dello Stato esistente sulla base delle sue idee politiche; - nel III secolo d.C., perché fu la sede dove operò uno del massimi scienziati dell’antichità, Archimede. Sirene Figure del mito, e più in generale del folklore, le Sirene (in greco Seirenes) erano demoni marini che abitavano isole e scogli del Mediterraneo occidentale, in numero di due o quattro, o più. Ad esse erano associate varie tradizioni e raffigurazioni. Avevano il volto e una parte del corpo di donna, per il resto erano uccelli con artigli molto pericolosi. Attiravano i marinai facendoli naufragare contro gli scogli, per poi divorarli. La loro arma di seduzione era il canto, a cui si diceva nessuno sapesse resistere. Ma il mito racconta di due casi in cui il loro potere subì una sconfitta: quando gli Argonauti compirono la loro spedizione, Orfeo era con loro, e il suo canto si rivelò più affascinante, sicché i marinai si salvarono; e Ulisse, in un celebre episodio dell’Odissea, sapendo per una predizione che la sua nave sarebbe passata nei pressi degli scogli delle Sirene, ne ascoltò sì il canto, ma non prima di essersi fatto legate all’albero maestro e avere tappato con la cera le orecchie dei suoi marinai. Siria È la regione mediorientale che comprendeva nell’antichità i territori oggi divisi tra gli Stati di Siria, Israele, Giordania e Libano. Abitata da tempi antichissimi, la Siria fu culla della civiltà umana nei millenni della nascita delle città e dell’agricoltura (per le aree non desertiche era parte della cosiddetta “mezzaluna fertile”). Nel II Millennio a.C. Ittiti ed Egiziani si confrontarono a lungo per il controllo di queste terre. In età greca, la Siria era legata alle grandi realtà politiche dell’Oriente: Assiri, Babilonesi, Persiani, e in ultimo i Macedoni di Alessandro Magno, riuscirono a conglobare nei loro imperi le città siriache che, come Damasco, nei primi secoli del I millennio a.C. si erano sviluppate come città-stato (il fenomeno è parallelo alla nascita delle poleis greche negli stessi anni). Dopo Alessandro Magno, la Siria fu uno dei territori dell’Impero dei Seleucidi – emerso dalle lotte tra i “diadochi” – e tale rimase fino alla conquista romana (le lotte tra i Seleucidi di Siria e i Tolomei d’Egitto si protrassero a lungo indebolendo entrambi). Nel 63 a.C. i Romani crearono la Provincia di Siria, a quel tempo fortemente ellenizzata, con diverse città di nuova fondazione organizzate e gestite sul modello greco. Va sottolineato il ruolo mercantile della Siria, aperta da un lato sul Mediterraneo, dall’altro sull’interno asiatico, e percorsa dalle vie carovaniere. Ebbe sempre un ruolo di cerniera tra le variegate realtà asiatiche e le realtà mediterranee, nel I Millennio a.C. soprattutto greche. Dal punto di vista della storia della filosofia la Siria ha un ruolo non secondario sia perché da quest’area provenivano diversi filosofi che scrissero in greco e furono spesso pienamente ellenizzati, sia perché alcune delle città siriache erano fortemente influenzate dalla cultura greca e ospitavano istituzioni di studio e di ricerca di tipo greco. Sistema filosofico La nozione è moderna, e anche la dizione: nel linguaggio filosofico greco il termine systema compare tardi, con Sesto Empirico, e indica l’insieme delle premesse e delle conseguenze di un ragionamento condotto con ordine. Gli Stoici tuttavia a volte usano il termine systema per indicare il cosmo, cioè il Tutto ordinato in ciascuna delle sue parti. La nozione moderna di sistema filosofico indica invece l’insieme unitario di dottrine filosofiche che si richiamano ad un unico principio, sicché tutti i problemi esaminati e tutte le teorie proposte sono ricondotte ad un unico quadro d’insieme. Da questo punto di vista almeno l’Epicureismo, lo Stoicismo e il Neoplatonismo sono sistemi, anche se nell’antichità non si usava questa nozione e non se ne introdusse il concetto. In linea di principio lo è anche la filosofia di Aristotele, ma con due riserve: lo stato in cui ci sono pervenuti i suoi scritti, non privi di punti oscuri che rendono difficile su determinate questioni ricostruire una sicura visione d’insieme, e il fatto che Aristotele non riconobbe a tutte le parti della sua enciclopedia filosofica lo stesso grado di certezza razionale e di deducibilità rispetto a principi. Ancor meno sistematica è la filosofia di Platone, che si presenta come un insieme di percorsi dialettici. I tentativi di ridurre il platonismo a unità sistematica – portati avanti a partire da Plotino – si sono protratti fino a gran parte dell’età rinascimentale, in qualche caso anche ponendo l’obiettivo di ricostruire una unità tra le loro opere (così, ad esempio, nel Quattrocento italiano). Ancora oggi ci sono studiosi che tentano di leggere il platonismo in chiave sistematica. Sistema tolemaico In età moderna si chiamò così la descrizione fisico-matematica dell’universo proposta da Claudio Tolomeo (→), lo scienziato alessandrino del II secolo d.C. che propose in modo organico e unitario le conoscenze astronomiche del suo tempo inserite in un disegno interpretativo complessivo, che era basato su concezioni geometriche su molti punti d’avanguardia (soprattutto nel campo della trigonometria piana e sferica). Nel Medioevo la sua opera astronomica venne conosciuta come Almagesto, dal titolo che le diedero gli Arabi, perché l’opera venne letta dagli intellettuali europei attraverso la mediazione della cultura araba. Il titolo greco era Mathematike syntaxis, cioè Sintassi matematica, o Raccolta matematica. Il sistema tolemaico, basato su complessi calcoli astronomici e su una geometria molto elaborata che mirava a interpretare in modo unitario e coerente tutti i dati astronomici di cui l’antichità disponeva, concepiva l’universo finito, sferico e geocentrico. La Terra era quindi posta al centro dell’universo circondata da Cieli – concepiti come strutture cristalline perfettamente trasparenti, ma solide – che ruotavano in modo perfettamente regolare. A ciascun cielo era associato un astro (nell’ordine: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) e l’insieme era chiuso dal cielo delle stelle fisse. Poiché questo modello non corrispondeva del tutto ai dati, Tolomeo propose vari altri movimenti dei Cieli, anch’essi del tutto regolari, descritti da figure geometriche per le quali propose modelli e calcoli spesso originali. Società Il termine greco koinonia, che traduciamo con società, è legato a koinos, comune, e dunque la società è ciò che è comune ai suoi membri (da koinos viene coena, la cena, cioè il pasto comune). In Platone la società è la comunità che si identifica con la polis stessa. Aristotele precisa la nozione distinguendo due tipi di società, la famiglia e la polis, entrambe tese al bene comune (Politica, I, I, 1) e collegate dal fatto che la polis svolge una funzione sociale più ampia, ma egualmente su base naturale (vedi la voce Stato: →). Di fatto la nozione di società e quella di polis (quindi di Stato, nella misura in cui la polis è uno Stato nel senso moderno del termine) tendono a sovrapporsi almeno sino all’età ellenistica. Quando il legame tra l’uomo e il cittadino, inteso come membro della comunità politica in cui si identifica (la polis, appunto), comincia a venir meno per l’inserimento delle città greche in complessi più ampi – i regni ellenistici in Oriente, la sfera politica romana in Magna Grecia e in Sicilia -, il modello di società a cui fanno riferimento i filosofi cambia: - gli Epicurei sottolineano come, dentro la compagine dello Stato a cui il saggio dedicherà un impegno limitato e prudente, vi sia spazio per una società ristretta decisiva per la felicità individuale, la comunità di amici di cui il “Giardino” di Epicuro era stato il modello; una società privata, ma non troppo, perché il legame tra i membri non è simile a quello, davvero privato, di una famiglia, ma ha caratteristiche a se stanti; - gli Stoici sottolineano che l’uomo è cittadino del mondo e quindi la società a cui deve fare riferimento non è quella a cui appartiene per ragioni di nascita o politiche, ma è l’umanità stessa; scrive Cicerone che per gli Stoici “noi siamo nati per l’aggregazione degli uomini e per la società e la comunità del genere umano” (De finibus, IV). Socrate/Diotima Nel Simposio di Platone il personaggio Socrate pronuncia come gli altri protagonisti un discorso su Eros, ma dice di riportare in effetti le parole della sacerdotessa Diotima , alla cui voce rimandiamo. Poiché in controluce Platone sembra stabilire un accostamento tra Socrate ed Eros, dedichiamo una voce specifica al discorso di Socrate/Diotima. L’immagine di Socrate che emerge dal Simposio è nettamente ambivalente: - da un lato è un essere demonico (l’espressione è di Alcibiade nell’elogio finale), dai tratti dionisiaci con le sue “arie da flauto”, simile al Sileno che racchiude in sé tesori nascosti la cui contemplazione (è sempre Alcibiade a dirlo) apre ad esperienze meravigliose; sembra in possesso di verità nascoste agli altri, fatto confermato dalla sua stessa affermazione di essere esperto delle cose d’amore (in tutto il Simposio il “so di non sapere” non ha campo in realtà) e dalla rivelazione di cui è fatto oggetto da parte di Diotima; attrae i giovani che se ne innamorano; la stessa caratteristica demonica è nei suoi discorsi, di fronte ai quali chiunque lo ascolti subisce un incantesimo, superata l’apparente loro semplicità: mettono in questione il proprio io, scuotono l’anima; tutti questi caratteri che emergono dalle sue stesse parole e dall’elogio di Alcibiade sono in qualche modo anticipati e confermati dalle parole iniziali di Apollodoro; - dall’altro Socrate è una persona di straordinaria calma e capacità di dominio di sé; sa stare per ore concentrato in se stesso, a pensare; sopporta il freddo anche in condizioni estreme; è coraggiosissimo in guerra; resiste ad ogni tentazione dei sensi e ad ogni tentativo di seduzione; benché tutti lo vedano bere, nessuno lo ha mai visto ubriaco; e così via. Queste due anime del maestro – quella demonica e quella capace di pieno dominio di sé – hanno entrambe tratti simili all’immagine di Eros, soprattutto (ma non solo) così come emerge dalla rivelazione di Diotima: - Eros è filosofo dai tratti inquietanti e non dominabili in quanto amante della sapienza; - Eros è sereno nella sua pura contemplazione della bellezza una volta giunto al culmine dell’ascesa nell’ultima rivelazione di Diotima. Come le due immagini di Eros sono poste in relazione, attraverso una cesura del suo discorso, dalla stessa Diotima, così le due immagini di Socrate si richiamano l’un l’altra: ma quando Alcibiade rivela a Socrate nella notte in cui la seduzione diviene esplicita di vedere in lui un tesoro interiore, Socrate nega che questo tesoro esista. Socrate resta per Alcibiade come per tutti (e quindi a maggior ragione per noi) una figura imprendibile. Il discorso di Socrate-Diotima nel Simposio di Platone Il discorso di Socrate ha una premessa nel dialogo con Agatone, che viene costretto [con qualche pedanteria, osservano alcuni degli studiosi] ad ammettere di avere sbagliato nel dire che Eros è bello. In quanto amante della bellezza, la desidera; non può quindi essere bello perché non si desidera ciò che si possiede. Socrate precisa di avere egli stesso a suo tempo sostenuto le tesi di Agatone – allora era giovane come lui - e di essere stato indirizzato sulla via della conoscenza della vera natura di Eros dalla sacerdotessa Diotima, ormai anziana (vedi la voce Diotima: →). Ha così appreso le ragioni per cui Eros non può essere bello; ma non è brutto: è a mezza via tra la bellezza e la bruttezza, e desidera la bellezza; quindi Eros è amante, non amato. È un demone, non un dio, e media tra la realtà degli uomini e quella degli dèi in modo che il Tutto sia ordinato e unito. Presiede quindi alle arti divinatorie. Figlio di Poros e di Penia, concepito nella notte in cui gli dèi festeggiavano la nascita di Afrodite, è strettamente legato alla sua bellezza. Trama inganni come il padre, è sempre povero come la madre, è filosofo in quanto ama la sapienza. Chi segue Eros è quindi sempre pieno di desiderio per quel che non ha, in tutti i campi, e questo stimola la creatività perché il fine ultimo non è soltanto il possesso di ciò che non si ha – il desiderio è figlio della mancanza di ciò che si desidera -; chi è in amore desidera anche creare nella bellezza, sia nei corpi (procreando) che nell’anima (con le opere proprie dell’anima). Dietro tutto questo Diotima legge il desiderio di immortalità, che può essere raggiunto solo attraverso la creatività del corpo e dell’anima. Precisando che non è certa che Socrate potrà seguirlo nel discorso che sta per fargli, Diotima gli rivela una scala ascendente che chi è innamorato può percorrere, se ben guidato, che lo porta a liberarsi dei vincoli d’amore per la singolarità delle persone e ad aprirsi alla pura contemplazione della bellezza eterna e perfetta, che è il fine ultimo di tutta la ricerca di un cuore innamorato. Socrate-personaggio / Socrate-storico In molti dei dialoghi di Platone compare il personaggio Socrate. Non si tratta solo dei dialoghi giovanili, relativi cioè a un periodo in cui Platone era legato alla memoria recente del maestro; si tratta anche di dialoghi della maturità e, in misura minore, della vecchiaia. Il personaggio di Socrate ha quindi accompagnato Platone lungo quasi tutto l’arco della sua vita di scrittore. Noi non possediamo alcuno scritto di Socrate, non perché siano stati perduti, ma perché la filosofia di Socrate si è svolta interamente sul registro dell’oralità. Ci sono state tramandate altre testimonianze sulla vita e sul pensiero di Socrate, in particolare da Senofonte, ma si tratta di opere il cui spessore filosofico non è considerato elevato. Per conseguenza noi conosciamo molto male, e indirettamente, l’esatto contenuto dell’insegnamento di Socrate. Anzi, la nostra fonte principale sono proprio le opere di Platone. Tuttavia Platone non aveva certamente alcuna intenzione di tipo storico: non intendeva registrare nei suoi dialoghi l’insegnamento del maestro, ma intendeva proseguire per altra via – legata alla pratica della scrittuta – l’insegnamento e la sua ricerca orale del maestro. Per conseguenza in molti dialoghi il personaggio di Socrate sembra proprio che enunci riceche e teorie platoniche (o comunque legate alle pratiche di vita e di ricerca dell’Accademia). Noi non riusciamo quindi più a distinguere con chiarezza le teorie del Socrate storico da quelle del Socrate personaggio platonico e suo portavoce. Ma nelle opere della maturità (nel Simposio, nella Repubblica, nel Fedro, e così via) sembra proprio che il personaggio di Scrate dia voce al pensiero di Platone e alle ricerche dialettiche dell’Accademia. “So di non sapere” È una celebre frase di Socrate, nell’Apologia platonica, che definisce la differenza tra l’ignoranza consapevole e quella inconsapevole, stabilendo la superiorità della prima sulla seconda perché dà un effettivo guadagno in termini di conoscenza e consente di evitare errori. Non si tratta di una nozione scettica in senso proprio: la frase non significa che è impossibile sapere, ma che è facile ingannarsi ed è indispensabile distinguere il vero dal falso e, quando non si sa il vero, accettare il fatto che la ricerca deve continuare. Soffio vitale Vedi le voci Pneuma e Psyche Sofisma La parola greca sophisma, che rendiamo con sofisma in italiano, era usata in ambienti platonicoaristotelici per indicare qualsiasi forma di ragionamento capzioso, di tipo eristico (→), introdotto nel discorso con l’obiettivo di vincere una contesa verbale con un avversario, con scarso o nullo rispetto per la verità. Un’arma dialettica, dunque, non uno strumento di ricerca comune della verità. Sofista / Sofistica Con il nome di sofisti si indicano un gruppo di filosofi e di professionisti dell’insegnamento della retorica e della formazione dei giovani che operarono nello spazio culturale greco nella seconda metà del V secolo a.C. Erano insegnanti che si spostavano da una città all’altra e proponevano regolari corsi a pagamento. Poiché questi corsi erano molto costosi, potevano affidare i loro figli ai Sofisti soltanto i membri delle élite dirigenti. L’obiettivo era la formazione dei cittadini (Vedi Paideia: →) in un contesto in cui le capacità retoriche erano essenziali, nelle magistrature, nei tribunali, nelle assemblee, in generale nella vita politica. I singoli esponenti della sofistica non formarono mai un gruppo compatto e non c’è una dottrina comune, ma solo temi comuni e uno stile di pensiero. Ciascuno dei sofisti ha proprie posizioni filosofiche e ha svolto indagini indipendenti. I Sofisti hanno però dato vita ad un clima culturale che ha portato a identificarli, già in epoca platonica, come appartenenti ad un’unica scuola filosofica: i Sofisti infatti proponevano, a fianco di tecniche nuove nell’uso del linguaggio, anche una analisi razionale della tradizione che ha portato gli studiosi moderni a parlare di “illuminismo greco”. È in questo contesto che essi posero la questione del rapporto tra la legge e la natura: si veda su questo punto la voce Nomos / Physis: (→). Si distinguono due successive generazioni di sofisti: - la prima è quella dei maestri che avviarono le pratiche professionali di insegnamento e di ricerca: Protagora di Abdera (→), Gorgia di Lentini (→), Prodico di Ceo (→), Ippia di Elide (→), e altri; - la seconda è quella della cosiddetta Sofistica radicale (→), alla cui voce rimandiamo. Le opere dei Sofisti sono perdute, salvo frammenti o brevi scritti, sicché è possibile ricostruire l’identità di scuola e le dottrine dei singoli filosofi solo attraverso ricostruzioni di altri. Un problema serio è rappresentato dal fatto che la nostra fonte più importante sono i dialoghi di Platone, in cui i Sofisti compaiono in numero notevole, spesso come protagonisti (da Protagora a Gorgia, a vari altri), ma Platone era un critico molto severo della Sofistica, e mette spesso in luce negativa i suoi esponenti (anche se non sempre: non così la figura di Protagora nel Protagora, ad esempio). Questo ha favorito variazioni molto forti nell’interpretazione che gli storici della filosofia hanno dato della Sofistica in generale e dei singoli sofisti in particolare. Sofistica radicale Gli storici della filosofia indicano con questa dizione i sofisti della seconda generazione, attivi intorno all’epoca della Guerra del Peloponeso, quindi nell’ultimo quarto del V secolo a.C. L’aggettivo radicale dipende dal fatto che questi filosofi accentuarono il carattere di rottura rispetto alla tradizione che il razionalismo sofista portava implicitamente con sé già nei filosofi della prima generazione. Vedi le Crizia (→), Antifonte Sofista (→) e Nomos / Physis (→). Sofocle Poeta tragico, nacque a Colono nei pressi di Atene nel 496 a.C., ed era quindi di una generazione più giovane rispetto a Eschilo. Visse a lungo (morì ad Atene nel 406 a.C.), e sopravvisse al più giovane Euripide, il terzo dei grandi poeti tragici del V secolo a.C., e per la prima parte della sua vita operò quando ancora Eschilo era in attività. Sicché la sua vita copre quasi l’intero secolo. Nato in una famiglia facoltosa, dovette avere una educazione raffinata, e si impose presto come musicista e attore, e solo dopo come poeta tragico. Negli anni di Pericle fu vicino al grande statista ed ebbe incarichi politici di primo piano: fu due volte stratega e, ormai molto anziano, ebbe un ruolo importante ad Atene nei difficili anni dopo il fallimento della spedizione in Sicilia al tempo della Guerra del Peloponneso. Le fonti ce ne parlano come di una persona di successo, che seppe procurarsi il benvolere dei suoi concittadini, che gli tributarono molti onori (ebbe 18 vittorie alle Grandi Dionisie: →). Una parte del suo successo, oltre che alle qualità personali e alla sua attività come poeta tragico, era dovuta al suo impegno religioso: ricoprì infatti diversi incarichi di questa natura. Della sua vasta produzione (sembra che abbia composto quasi un centinaio di tragedie e 25 drammi satireschi) ci rimangono solo sette tragedie (Antigone, Filottete, Aiace, Edipo re, Edipo a Colono, Le Trachinie, Elettra) e vari frammenti. La tradizione attribuisce a Sofocle alcune innovazioni tecniche per la tragedia: un terzo attore, l’aumento da 12 a 15 dei coreuti, la separazione tematica delle tre tragedie che componevano la trilogia (vedi la voce Teatro greco: →), che Eschilo aveva invece mantenuto. Soggetto / Soggettivo Hypokeimenon, che traduciamo con soggetto, letteralmente indica ciò che sta sotto, il substrato. Questo è il significato del verbo hypokeisthai, stare sotto, cioè stare a fondamento, alla base di. Aristotele riferisce questo termine alla ousia, la sostanza (→) in quanto è un substrato per gli accidenti. A parte quest’uso aristotelico, il termine soggetto (vedi la voce Io: →) ha poi un uso generale, in due distinte accezioni: - in senso tecnico come sinonimo di io, al centro del processo di conoscenza e della coscienza come sapere di sé, come fonte dell’azione morale, del giudizio estetico, e così via, o come espressione della funzione conoscitiva dell'io; - in senso più generale come l‘identità di chi compie un'azione e ne porta la responsabilità. I problemi filosofici intorno al soggetto nascono dalla grande difficoltà di darne una definizione non puramente intuitiva e di intenderne l'identità in domande del tipo: chi è l'io? che cos'è la mente di cui è parte? ha una natura materiale o spirituale? e così via. Sul piano della conoscenza si veda anche la voce Soggetto/Oggetto. Soggetto / Oggetto Questa dizione è moderna, ma almeno uno dei campi problematici a cui essa è legata (per la filosofia moderna se ne porranno altri) è chiaro già nella filosofia greca, in particolare in Plotino. Perché l’io abbia chiara coscienza di sé come soggetto conoscente, è indispensabile che abbia coscienza di un oggetto; questo significa che la coscienza per sua natura deve sdoppiarsi in soggetto e oggetto: è possibile superare questo sdoppiamento e intuire l’origine della differenza tra soggetto ed oggetto, se questa origine unitaria esiste? Plotino chiarisce che l’Uno come origine prima di qualsiasi realtà non può essere solo oggetto di conoscenza intellettuale, perché altrimenti sarebbe un oggetto accanto ad altri oggetti che il soggetto conosce; invece l’Uno non è un oggetto, ma la fonte della distinzione tra soggetto e oggetto. Per risalire all’Uno occorre una forma di conoscenza che non separi il soggetto e l’oggetto. Se una simile forma di conoscenza esista, è problema che Plotino esamina rispondendo affermativamente (è l’intuizione intellettuale che mette capo all’estasi: vedi le voci Intuizione ed Estasi: →). La filosofia greca precedente non ha posto il problema in questi termini, che nascono con Plotino; ma le teorie sull’io e sulla coscienza che sono state proposte non consentono di affermare che altri prima di Plotino (neppure Platone, che spesso parla sotto il velo del mito) avrebbe risposto affermativamente alla domanda sull’esistenza di una facoltà di coscienza che non passi per la distinzione tra soggetto e oggetto. A meno che la contemplazione (→) platonica non si intenda in questo senso. Vedi anche le voci Io e Coscienza (→) Sogno In estrema sintesi, le concezioni greche sui sogni sono due, entrambe presenti nei poemi omerici e quindi probabilmente risalenti a tempi antichissimi: - una interpreta il sogno come proveniente da una realtà esterna alla mente, in genere divina, e legge quindi il contenuto del sogno come un messaggio che la persona che sogna riceve dall’esterno (così, ad esempio il sogno di Achille in Iliade, XXIII); questa concezione del sogno è legata in medicina alla pratica dell’incubazione (→); - una l’interpreta invece come una voce proveniente dall’interno che parla attraverso simboli, e quindi da ascoltare perché chi sogna riceve una sorta di messaggio da se stesso (così ad esempio il sogno di Penelope in Odissea, XIX). In entrambi i casi il sogno è concepito come un messaggio, e quindi come un linguaggio il cui contenuto comunicativo può essere interpretato, cioè inteso nel suo senso autentico, nascosto o palese che sia. E intorno al V secolo a.C. fiorì la professione degli interpreti di sogni, con ambizioni scientifiche; di queste figure si servirono anche i sovrani (non si trattava quindi soltanto di credenze popolari), ad esempio Alessandro Magno che era accompagnato nella sua spedizione in Asia dal suo interprete personale. La base scientifica delle interpretazioni era data dalla convinzione, proposta esplicitamente dalla medicina laica, che i sogni fossero un segnale diagnostico, perché durante la notte l’anima del dormiente poteva captare piccoli segnali con cui il corpo segnalava i propri squilibri. Una lettura in chiave scientifica del sogno propone anche Aristotele, che se ne occupa in due trattatelli dei Parva naturalia, intitolati Sul sonno e la veglia e Sui sogni. Sull’antica arte dell’interpretazione dei sogni è giunto sino a noi un celebre trattato dell’antichità, intitolato appunto Interpretazione dei sogni (in greco Oneirokritika), scritta nel II secolo d.C. da Artemidoro di Daldi, in cui vengono distinti i sogni concernenti il presente o il passato e quelli concernenti il futuro: i primi derivano da una percezione sensoriale diretta o da una sua amplificazione fantastica, i secondi hanno un carattere profetico o semplicemente simbolico. Sole Nelle culture dell’Oriente vari dèi erano associati al Sole, sia in Egitto che in Mesopotamia. In Grecia il Sole è Elios, divinità raffigurata come un giovane bellissimo – a volte associato ad Apollo – che percorre la volta celeste su un carro di fuoco trainato da cavalli. Anche nel mondo romano il Sole è una divinità. In filosofia, il problema della natura del Sole, e in particolare del suo calore, è studiato a partire dai naturalisti, e ritorna in tutte le teorie cosmologiche dell’antichità. Il tema più studiato è però la sua posizione rispetto alla Terra (→) e il calcolo dei suoi movimenti, sia a fini di ricerca astronomica, sia al fine della migliore definizione del calendario annuale. Nell’antichità prevalse la tesi della centralità della Terra (vedi la voce Sistema Tolemaico: →). Solidi regolari (o Solidi platonici) Sono solidi costruiti passando dai poligoni piani allo spazio tridimensionale, e hanno una caratteristica specifica: le loro facce sono identiche. Euclide negli Elementi dimostra che ne possono esistere solo cinque: - il tetraedro (quattro facce triangolari); - il cubo (sei facce quadrate); - l’ottaedro (otto facce triangolari); - il dodecaedro (dodici facce pentagonali); - l’icosaedro (venti facce triangolari). Di possibile (ma non certa) origine pitagorica, la riflessione filosofica su questi solidi è legata a Platone che nel Timeo li associa a elementi fisici: - il tetraedro al fuoco (→); - il cubo alla terra (→); - l’ottaedro all’aria (→); - il dodecaedro con l’etere (→); - l’icosaedro con l’acqua (→). Questa teoria, carica di valenze mistiche e astrologiche, potrebbe risalire a Teeteto (→), un matematico della cerchia di Platone, ed ha una storia importante tra l’età tardo-antica e il Medioevo, quando gli studi platonici ripresero dopo un’epoca di stasi. Anche in età moderna i cinque solidi regolari furono oggetto di studi specifici, soprattutto da parte di Keplero. Solone Solone, nato ad Atene intorno al 640 e morto nel 560 a.C., era un aristocratico che ci è noto non solo per la sua attività politica, ma anche per la sua produzione poetica di cui ci rimangono diversi frammenti, in cui chiarisce le proprie scelte politiche e le ragioni della sua riforma. Noto anche al di fuori di Atene, i Greci lo considerarono uno dei Sette Sapienti. Nel 594-593 venne nominato arconte ad Atene con poteri straordinari, e in questa veste introdusse nel sistema politico ateniese riforme fondamentali e, in parte durature, almeno nei loro principi. Solone stabilì che nessun cittadino sarebbe mai più stato venduto per debiti, e fece in modo che riconquistassero la libertà e potessero tornare nell’Attica quanti erano stati venduti come schiavi. Da quel momento in poi la intangibilità della libertà dei cittadini rimase uno dei principi giuridici più radicati nella cultura ateniese. Il termine per indicare questa riforma è seisachtheia, cioè sgravio dei pesi, perché i contadini impoveriti vennero sgravati dei loro debiti e restituiti alla loro libertà. I contadini chiedevano di più, cioè una nuova distribuzione delle terre dell’Attica, ma questa riforma avrebbe comportato un forte ridimensionamento del potere dei nobili. Solone non scelse questa strada, ma quella di un equilibrio coerente con la tradizione, solo un po’ più favorevole al demos. Il potere reale rimase quindi nelle mani dei nobili, con alcuni correttivi che si dimostrarono essenziali per gli sviluppi futuri delle istituzioni ateniesi. Lo strumento tecnico per realizzare un miglior equilibrio dei poteri tra nobiltà e demos fu la distribuzione dei cittadini in quattro classi di censo. Il sistema di Solone non era basato sulla distinzione tra nobili e demos: non era la nascita a determinare l’appartenenza ad una classe, ma il censo, misurato in prodotti agricoli. Da qui il termine timocrazia (da time, censo) per indicare il tipo di costituzione che Solone introdusse. Poiché il sistema di misurazione faceva riferimento a quanto ciascun cittadino ricavava dalla terra, e non da altre attività, questa costituzione continuava a vedere i nobili al vertice dello Stato, perché erano loro i grandi proprietari terrieri. Ma le classi con minori proprietà terriere ottennero due vantaggi: - a tutti venne riconosciuto il diritto di far parte a pieno titolo, indipendentemente dal censo, dell’ekklesia, l’assemblea tradizionale che riuniva i cittadini e aveva di fatto pochi poteri (si ponga attenzione a questo punto perché nello sviluppo delle istituzioni ateniesi questi poteri cresceranno fino a divenire decisivi per la vita della polis con la nascita della democrazia); - accanto all’Areopago (→), il tribunale di estrazione nobiliare, venne istituita l’Eliea, un tribunale popolare di cui potevano far parte tutti i cittadini di età superiore ai trent’anni (vi si accedeva per sorteggio, e i membri erano in numero molto alto, circa 6.000). Questa riforme sul momento poterono sembrare non decisive – un sapiente dosaggio di poteri in cui la nobiltà manteneva comunque la propria superiorità –, ma si rivelarono invece la base di sviluppi notevoli: con l’ekklesia e l’Eliea, infatti, il demos aveva adesso la possibilità di insidiare la superiorità del potere nobiliare, anche perché disponeva ormai di leggi scritte, cui tutti, nobili e demos, dovevano sottostare. Sorite (Argomento del) La dizione greca soreites logos, cioè argomento (o ragionamento) del mucchio (soros vuol dire mucchio) indica un celebre argomento proposto da Eubulide di Mileto (→), uno dei successori di Euclide di Megara alla guida della Scuola Megarica (→). L’argomento si propone di mostrare l’illusorietà delle nozioni di individualità e di pluralità degli enti, e quindi della stessa nozione di ente come realtà. Si prenda un ente chiaramente identificabile come un mucchio di grano (o qualsiasi altro ente che sia composto da parti, e tutti lo sono nella nostra esperienza): un chicco non basta a fare un mucchio; quanti ne servono? due sono sufficienti? o tre? in realtà non è identificabile un numero esatto, e quindi la nozione “mucchio di grano” è logicamente vaga e indeterminabile con esattezza. Questo argomento è riportato da Diogene Laerzio, VII-82. Aristotele riporta, attribuendolo a Zenone di Elea, un argomento simile (Diels A-29), ma volto a dimostrare la scarsa attendibilità dei sensi in generale e dell’udito in particolare: una grande quantità di grano che cade fa rumore; ma un solo chicco di grano non fa rumore (percepibile dal nostro orecchio); ed è impossibile determinare con esattezza quanti ne servono perché l’orecchio percepisca il rumore (né si comprende come mai piccoli oggetti che cadono, come i chicchi di grano, in gran numero facciano rumore, mentre ciascuno singolarmente non fa rumore). Sostanza È termine tipico della filosofia aristotelica, che ha tuttavia nella filosofia greca una storia precedente e successiva. In greco è ousia, da ousa, participio femminile del verbo einai, essere. Nel contesto della frase, quando non è usato con un significato specificamente tenico, ousia può indicare semplicemente la realtà, ciò che è reale. E in effetti questo è il suo significato generale, al di là dei tecnicismi con cui alcuni filosofi (Aristotele soprattutto) lo usano: l’ousia indica ciò che è, ciò che ha realtà ed esiste davvero nel mondo esterno alla mente, al di fuori del nostro pensiero. In Aristotele l’ousia (parola che, dato il suo legame col verbo essere, potrebbe essere resa con entità) è la sostanza, cioè il significato principale e concreto dell’essere; quindi la prima delle categorie (→), quella a cui tutte le altre ineriscono. Detto questo, va però anche ricordato che Aristotele usa in realtà il termine in un vasto arco di significati: - in senso debole lo riferisce alla materia che, in quanto ypokeimenon, è il sostrato (→) delle cose; - in un senso più forte lo riferisce alla forma, perché dà identità alla materia, altrimenti informe, dando vita all’identità degli enti; - in senso pieno lo riferisce al sinolo come unità di materia e forma, che costituiscono l’identità compiuta dell’essere degli enti. Poiché la sostanza definisce l’essere di un ente, se l’ente è immateriale (ad esempio il Dio “pensiero di pensiero”) cade ogni riferimento alla materia: sostanza è infatti, qualunque sia l’ente e a qualsiasi realtà appartenga; è ciò che definisce nel modo più compiuto il suo essere, e risponde alla domanda “che cos’è?”. Il termine dopo Aristotele è utilizzato soprattutto dagli Stoici per indicare la materia, che costituisce con la sua fisicità la base sostanziale dell’universo che, appunto, è universo fisico, vivificato dal Logos, l’energia razionale che permea ogni cosa, anch’essa fisica. A modificare in profondità l’uso del termine è Plotino, che chiama ousia l’essere dell’Intelligenza al di là di cui si trova l’Uno, che è dunque alla radice della sostanza del pensiero senza identificarsi con esso. Sostrato È termine aristotelico, poi ripreso dagli Stoici. Dal punto di vista del discorso, il sostrato (hypokeimenon) è il soggetto di cui si predica qualcosa. Dal punto di vista reale è l’ente a cui si attribuiscono determinati caratteri, quindi di volta in volta la materia, o la forma, o il sinolo (così in Metafisica, VII-3). Gli Stoici usano questo termine per indicare la base materiale dei corpi, mentre in altri autori posteriori, come Sesto Empirico, indica gli oggetti reali stessi. Si veda anche la voce Sostanza (→). Sparta Sparta è stata per molti secoli, dall’VIII alla metà del IV a.C. quando la sua potenza decadde, una delle polis più importanti dell’intero mondo ellenico, colonie comprese. In diretta competizione con Atene nel periodo classico, sia dal punto di vista politico-economico che da quello della visione sociale e dei modelli di vita individuale e collettiva, ha avuto la capacità di sconfiggerla sul piano militare al tempo della Guerra del Peloponneso (→) e di influenzarne il dibattito politico-culturale per secoli, offrendo un modello di vita pubblica e privata e un ideale di formazione dell’uomo alternativi a quelli della sua democrazia (una parte non piccola dei ceti aristocratici ateniesi guardava con simpatia a questi aspetti di Sparta, Platone compreso). Dal punto di vista della storia della filosofia Sparta ha un ruolo importante perché ad essa hanno guardato i teorici politici del mondo greco, studiandone con attenzione i valori e le istituzioni. Non è invece importante direttamente come centro di studi filosofici, perché a Sparta non vi sono state produzioni teoriche di rilievo. Ve ne sono state invece in colonie occidentali (da Siracusa a varie città della Magna Grecia) legate alla cultura dorica e a Sparta. La città era stata fondata dai Dori intorno al 1000 a.C., ma a parte i dati archeologici abbiamo notizie semileggendarie dei suoi fondatori e dei primi secoli di vita, per mancanza di documentazione scritta fino all’VIII secolo a.C. In epoca storica la città si identificò con Lacedemone, che era stata la capitale dell’antico Regno di Menelao, l’eroe omerico che dal punto di vista storico va collocato in età micenea. Ma non dovette esserci continuità tra le due città, né furono abitate dallo stesso gruppo etnico greco, perché i primi erano Micenei, i secondo Dori. Tra il X e il VII a.C. secolo Sparta riuscì a controllare gran parte del Peloponneso, in particolare la Laconia e la Messenia (quest’ultima area con due durissime e lunghe campagne militari che gli storici hanno chiamato guerre messeniche: →). La popolazione di Sparta era fortemente stratificata: al vertice della società c’erano gli Spartiati, eguali tra loro, dediti al mestiere delle armi. La campagna era abitata dalla vasta moltitudine dei contadini della Laconia e della Messenia, ridotti in semi-schiavitù: erano i cosiddetti Iloti, termine dalla radice antichissima, forse predorica, che rimanda all’idea di cattura, di prigionia. Non avevano alcun diritto politico né civile ed erano in una posizione giuridica simile ai servi della gleba del Medioevo europeo, non molto lontana da una schiavitù vera e propria. C’erano poi alcune città vicine a Sparta la cui popolazione, pur sottomessa agli Spartiati, aveva tuttavia potuto mantenere i diritti civili e autogovernarsi, almeno entro certi limiti. A Sparta per indicare queste popolazioni si parlava di Perieci, termine che rimanda all’idea di vicinanza (da peri, intorno, e oikeo, abito). La costituzione spartana è stata fissata in un lungo arco di tempo, ma la tradizione la fissava in un tempo originario e la attribuiva all’opera di un legislatore, Licurgo, per noi figura semileggendaria. Le sue istituzioni erano rigidamente oligarchiche, e lo stile di vita degli Spartani era di tipo militare, con forti tradizioni comunitarie. Spazio La nozione greca di spazio è associata nel mito alla genesi del mondo: così ad esempio nella Teogonia (→) di Esiodo lo spazio cambia completamente volto quando dal Caos originario si passa al mondo ordinato in cui – a seguito di terribili violenze tra gli dèi – il Cielo e la Terra hanno assunto la loro configurazione definitiva. In filosofia, lo spazio diviene problema esplicitamente posto quando nasce la domanda sulla sua identità rispetto al complesso della natura, il che accade nell’età di Democrito e di Platone che pongono le stesse domande (in estrema sintesi: che cos’è lo spazio? qual è la sua natura rispetto alla materia e ai corpi?) e danno due risposte diametralmente opposte: - per Platone (Timeo, 51-52) è un carattere della materia stessa, per cui non è possibile che esista spazio vuoto; sulla stessa linea Aristotele, che lo definisce “Il limite estremo ed immobile di ciò che contiene” (Fisica, IV); non è quindi identico con la materia, ma le è connesso, sicché non può esistere senza i corpi (per conseguenza anche per Aristotele il vuoto non esiste); - per Democrito, e poi per tutto l’atomismo antico, lo spazio è totalmente separato dagli atomi (che sono materia piena) ed è postulato come loro contenitore; è quindi logicamente necessario che lo spazio vuoto esista perché è la condizione stessa d’esistenza e di movimento degli atomi. Queste due teorie (lo spazio come qualità posizionale della materia, oppure come contenitore delle particelle di materia che si aggregano nel vuoto a formare i corpi) si sono confrontate per tutta l’antichità. Sul significato metaforico di espressioni spaziali come lassù e quaggiù, o in alto e in basso, si veda la voce Alto / Basso (→). Specie Vedi Genere e specie Spiegazioni multiple Nell’ambito dell’Epicureismo sono le teorie specifiche, alternative le une alle altre, costruite per spiegare razionalmente, sulla base della teoria generale dell’atomismo, fenomeni complessi sui quali non è possibile raggiungere una certezza scientifica. Sono utili sia a fini scientifici, sia perché mostrano come non sia mai necessario ricorrere a enti o a forze soprannaturali oppure occulte per la soluzione di problemi fisici. La razionalità trova sempre una (possibile) spiegazione di tipo naturalistico, e l’atomismo si dimostra una teoria generale utile come base per qualsiasi teoria specifica. Le spiegazioni multiple sono proposte da Epicuro soprattutto sui fenomeni celesti, sui quali più forte è il pericolo di spegazioni di tipo mitologico che ricorrono all’intervento degli dèi. Spirito / Realtà spirituali I termini sono moderni. Tuttavia la nozione filosofica di spirito – e quindi di realtà spirituale non virtuale, ma esistente in una forma oggettivamente rilevabile – nasce con Platone ed è legata a due diverse matrici: - la tradizione religiosa che parla di esseri la cui natura è certo indefinita, come è tipico dei racconti mitologici o delle rivelazioni delle religioni dei misteri, ma non è interamente riconducibile alla fisicità dei corpi (demoni, tra cui la stessa anima umana per alcune tradizioni misteriche, dèi e molte altre figure sospese tra l’umano e il divino, il mortale e l’immmotale, il fisico e lo spirituale: ninfe, satiri, e così via); - la ricerca filosofica sulla natura della conoscenza umana e quindi sulla natura dell’anima come soggetto del conoscere. La teoria platonica Le due matrici si distinguono bene in molti passi dei dialoghi di Platone; in altri si confondono o si sovrappongono, come accade ad esempio nella narrazione dei miti platonici o nei moltissimi cenni, sparsi nelle sue opere, a credenze religiose. Ferma restando questa origine, la teoria platonica mette capo ad una precisa e filosoficamente molto complessa teoria dell’esistenza di due dintinti livelli dell’essere: - il livello della materia, soggetta al tempo e al divenire, instabile e inafferrabile con pienezza dal punto di vista dell’intelletto (ma Platone definisce per lo più attraverso miti che cosa debba intendersi per materia); - il livello delle realtà spirituali (idee platoniche, realtà divine, anime) descritto in parte in termini dialettici, quindi intellettivamente chiari, in parte attraverso miti. Le caratteristiche delle realtà spirituali sono l’eternità, l’intelleggibilità (non piena per noi, perché la nostra mente è intrisa di fisicità e quindi risente dei limiti della materia e del tempo che la domina: da qui la necessità di ricorrere al mito) e, per alcune di esse (non per l’anima) l’immutabilità. Platone però non chiarisce di che cosa sono fatte le realtà spirituali. Le teorie dopo Platone La sua concezione dello spirito viene discussa e in parte respinta da Aristotele, che ne mantiene solo alcuni elementi (ma le discussioni tra gli interpreti su questo punto sono durate per tutto il Medioevo, e dividono ancora oggi gli studiosi), ad esempio nella concezione di Dio come motore immobile. L’elemento caratterizante lo spirito è in Aristotele il puro pensiero, e dunque la realtà spirituale di Dio è coerentementemente definita “pensiero di pensiero” (chiamiamo spirituale quella realtà indipendente dalla fisicità dell’universo che è caratterizzata dal pensiero che ha come oggetto non la realtà fisica ma se stesso). Le nozioni di spirito e di realtà spirituale sono respinte come inesistenti da Democrito ed Epicuro, per i quali ad esistere solo solo gli atomi pieni e lo spazio vuoto. Quelle che Platone ha concepito come realtà spirituali o non esistono (le idee platoniche) o se esistono come l’anima umana sono in realtà anch’essi corpi composti di atomi. Sono quindi materiali. Le nozioni di spirito e di realtà spirituale sono poi riprese dagli Stoici e da Plotino, che sulla base della lettura stoica di questo concetto interpreta i testi platonici. - Per gli Stoici lo spirito è energia (→), che plasma la materia, la rende vivente e, in alcuni esseri come gli animali, cosciente, fino ai più alti gradi della coscienza nell’uomo, che comprende la piena razionalità del Tutto che dall’energia spirituale è guidato; materia e spirito non sono quindi come in Platone due livelli separati dell’essere, ma due livelli che si integrano nell’unità della natura (cioè del Tutto), come la vita (energia) si integra con il corpo materiale dei viventi; - Per Plotino le correnti di energia che vivificano la realtà materiale sono l’estrema propaggine della realtà spirituale originaria dell’Uno: lo spirito quindi è sì energia vivente, come per gli Stoici, ma produttiva e creatrice, e la materia ne è per così dire il grado quasi-zero (il grado zero sarebbe il nulla): della creatività dello spirito e della sua trasparenza a se stesso attraverso la perfetta luce della coscienza razionale ed emotiva, nella materia rimane poco. I problemi Lungo l’arco di questa secolare vicenda di ricerche teoriche, a parte il rapporto con le tradizioni religiose (che però hanno un peso soprattutto in Platone e, molto più debolmente, negli Stoici), i problemi filosofici legati alle nozioni di