Michele Amato per UNI TER - Arese IL CONTE CAMILLO BENSO DI

Michele Amato per UNI TER - Arese
IL CONTE CAMILLO BENSO DI CAVOUR
NEL BICENTENARIO DELLA NASCITA
Nel bicentenario della nascita del Conte di Cavour e nella ricorrenza dei 150 anni
dell’Unità d’Italia, proclamata ufficialmente il 17 marzo 1861 ma di fatto concretizzatasi
alcuni mesi prima, non si poteva non dedicare adeguata attenzione al grande “tessitore”
(l’appellativo con cui è passato alla Storia), dopo aver similmente celebrato (conferenza
29.3.2007), per analogo motivo, Giuseppe Garibaldi, l’altro uomo-cardine di quel grande
processo..
Sarebbe facile dire che i due “giganteschi” (soprattutto se paragonati ai loro posteri e
successori) personaggi sono stati il braccio e la mente dell’epocale periodo storico che
va sotto il nome di Risorgimento. Sarebbe facile ma riduttivo e, soprattutto, impreciso,
perchè quella terminologia andrebbe bene per individui che agiscono di concerto, quasi
in simbiosi, dividendosi, per così dire, le rispettive “zone di competenza”. Nulla di più
lontano dai due personaggi, che, anzi, hanno cercato in più occasioni di ostacolarsi a
vicenda, giungendo, ad un certo momento, almeno da parte di uno (Garibaldi) ad un
vero e proprio odio nei confronti dell’altro.
Ma veniamo all’uomo che oggi ci occupa. Possiamo, intanto, senz’altro affermare che
egli è stato il maggiore statista del nostro Paese, in tutta la sua Storia. Basti pensare
che lo storico britannico Denis Mack Smith (probabilmente il saggista straniero che
maggiormente si è dedicato al nostro Risorgimento) è arrivato a definirlo il più grande
uomo politico europeo dell’Ottocento, pur non amandolo particolarmente, criticandone
spesso l’operato e, caso mai, orientando la sua simpatia più verso Garibaldi (e dire che
quel secolo è stato straordinariamente ricco di tali personaggi, basti citare Metternich,
Bismarck, Gladstone, Disraeli, lo stesso mefistofelico Talleyrand e molti altri).
Camillo Benso nasce a Torino il 10 agosto 1810, secodogenito del Marchese Michele
Stemma dei Cavour
Targa sulla sua casa natale
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(per cui gli spetta “soltanto” il titolo di Conte) e della ginevrina –e, fino al matrimionio,
calvinista- Adele de Sellon. Siamo in pieno apogeo napoleonico, Torino e la sua regione
fanno parte integrante dell’Impero francese, e il futuro Primo Ministro viene tenuto a
battesimo dal Principe Borghese, Governatore del Piemonte (in onore del quale riceve il
nome di Camillo) e dalla di lui consorte Paolina Bonaparte.
Con la Restaurazione il Marchese Michele ha inizialmente qualche ostracismo per la
passata vicinanza agli occupanti, ma poi, grazie alla sua posizione sociale, alle sue
relazioni nonchè alla buona situazione finanziaria soprattutto della moglie (che, tra
l’altro, gli aveva consentito l’acquisto delle consistenti tenute agricole di cui si occuperà,
per un certo periodo, Camillo), avvia una progressiva opera di riavvicinamento alla
Corte, che lo fa assurgere ad importanti cariche pubbliche, culminate, nel 1835, nella
nomina a Vicario di Polizia (una sorta di Direttore Generale), incarico nel quale resta
fino al 1847.
Camillo, lo abbiamo sottolineato, era figlio cadetto; marchesato, eredità e quant’altro
spettavano al primogenito Gustavo (che, detto per inciso, gli farà pesare sempre questa
“primazia” familiare, anche quando lui sarà diventato Presidente del Consiglio) e quindi
viene avviato alla carriera delle armi, tipica destinazione, allora, di un giovane nella sua
condizione. Già a 10 anni entra nel collegio militare, poi all’Accademia, da cui esce a 17
col grado di Sottotenente del Genio. Nel frattempo, a 14 anni, era stato nominato, su
preghiera del padre, paggio di Carlo Alberto (Principe ereditario), ma due anni dopo
aveva perso tale posizione, puramente onorifica, per un suo “certo giovanil alfierismo”.
Ma il raggiunto rango di ufficiale del Regio Esercito e la successiva promozione a
Tenente non riescono a domargli il carattere ribelle (e pensare a quale e quanta
pazienza ed apparente docilità farà ricorso negli anni del potere), per cui egli realizza
ben presto di non essere nato per la vita militare.
Dopo brevi esperienze di guarnigione a Modane e in altre licalità, è destinato a Genova,
dove intreccia una intensa relazione amorosa con Anna Schiaffino sposata Marchesa
Giustiniani, di 3 anni più anziana di lui e che alcuni anni più tardi si suiciderà, forse a
causa della delusione da lui procuratale, ma senza provocare alcun rimorso nel giovane
ufficiale (giacchè siamo in argomento, diciamo subito che Cavour non si è mai sposato,
pur avendo avuto molte relazioni “sentimentali”, la più duratura delle quali è stata, forse,
quella con Bianca Renzani, ballerina di origine ungherese e consorte di un ufficiale
sardo).
Nel 1831 è costretto a dare le dimissioni dall’esercito prima di esserne brutalmente
espulso. La ragione: le sue idee troppo liberali per i tempi e in particolare l’esplicita
simpatia da lui mostrata per la rivoluzione francese del luglio 1830, che aveva portato
sul trono il Re “democratico” Luigi Filippo d’Orleans).
Cavour giovane
Si dedica allora, su autorizzazione del padre, alle tenute di famiglia di Grinzane e Leri,
dove sperimenta le tecniche della più moderna agricoltura ed avvia anche un’attività di
uomo d’affari, peraltro non con grandissimo successo, ma che, anche se non gli
spalanca le porte della ricchezza, è tuttavia utile a procurargli una “notevole conoscenza
dei più disparati problemi pratici dell’economia del suo Paese” (L.Cafagna).
Ma, soprattutto, inizia in quel periodo – sempre col consenso e il supporto finanziario
del padre – a compiere una serie di viaggi in Europa (non in Italia...), con lunghi
soggiorni a Ginevra, dove risiedono i parenti materni, Parigi, Londra ed altre città
inglesi, non trascurando il Belgio e la Germania renana. Queste esperienze, che gli
consentono di conoscere importanti personaggi, fra cui il grande Toccqueville, unite alla
lettura di Constant, Guizot, Bentham e ad una sua inclinazione di partenza, gli fanno
maturare l’ideologia politica, che si ispira al liberalismo moderato e, come dire,
“dottrinario” francese ed al costituzionalismo britannico, una sorta di “just milieu” (da cui
non si distaccherà più), che concili “la libertà con la legittimità di un regime appoggiato
soprattutto dalle classi medie”.
Maturo per entrare in politica…..
E’ ormai maturo per entrare in politica. Il primo passo è la fondazione, nel 1847, del
giornale “Il Risorgimento”, che sarà lo strumento della sua battaglia, l’enunciazione
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formale delle sue opinioni politiche e sociali, fino alla chiusura, nel dicembre ’52,
quando il Conte diventa Presidente del Consiglio. Poi passa alla vera e propria azione,
ma l’esordio non è dei più felici: concessa da Carlo Alberto la Costituzione nel marzo
’48, alla prima legislatura ottiene la nomina solo in elezioni suppletive, nella seconda
non consegue voti sufficienti e solo nella terza, marzo 1849, entra decisamente in
Parlamento, di cui diviene quasi subito uno degli elementi di maggior spicco.
Entra nel gabinetto D’Azeglio nell’ottobre 1850 come Ministro dell’Agricoltura
(suscitando le “salaci” perplessità del Re), aggiungendovi nel ’51 anche il dicastero
delle Finanze. Qui mette a frutto l’esperienza dei suoi viaggi di studio, di
approfondimento e di vita nonchè la mentalità maturata con la gestione delle tenute
familiari, spingendo per l’evoluzione in senso capitalistico dell’economia piemontese e
per l’allargamento dei suoi orizzonti. Ciò avrebbe dovuto, ovviamente, comportare un
ampliamento dei mercati per le nascenti o non ancora consolidate industrie (tessili,
meccaniche, agricole) del piccolo Stato e quindi – a gioco lungo, ma non troppo – una
sua espansione territoriale (e la meta non poteva che essere Milano, da sempre oggetto
del desiderio della monarchia sabauda).
Poi, nel 1852, la prima, grossa “zampata”. Rilevando una certa involuzione
conservatrice in D’Azeglio, che rischiava di restare prigioniero, lui e il suo Governo,
della Destra più retriva, e per non offrire, d’altro canto, pretesti al settore più “radicale”
ed estremista della Sinistra (termini che, peraltro, non vanno intesi nell’accezione
moderna), effettua quella spregiudicata manovra parlamentare che è passata alla Storia
sotto il nome di “connubio”. Si allea, cioè, con la parte “moderata” di quello
schieramento (con linguaggio corrente lo definiremmo di Centro-sinistra e lui uomo di
Centro-destra), capeggiata da Urbano Rattazzi e determina la caduta del ministero
D’Azeglio. E sarà proprio quest’ultimo, vero galantuomo d’altri tempi, a suggerire a
Vittorio Emanuele II di nominare il Conte nuovo Capo del Governo, cosa che il Sovrano
farà, dopo molte tergiversazioni, il 4 novembre 1852, data di inizio dell’era cavouriana.
Capo del Governo
Per economia di trattazione facciamo solo un breve accenno al suo operato in politica
interna, per dedicarci più estesamente a quella estera e internazionale, vero grande
campo d’azione di Cavour e che oggi, nel periodo dei 150 anni dell’Unità d’Italia,
particolarmente ci interessa.
Si preoccupa di eliminare i privilegi della Chiesa, rafforzando le Leggi Siccardi del ’50 e
facendo approvare un altro provvedimento per la soppressione di molti ordini religiosi
puramente “parassitari” e l’incameramento dei loro cospicui beni (suscitando ambasce e
timori quasi superstiziosi nel Re, che poi, comunque, lo firma); potenzia lo sviluppo
economico, incoraggiando l’espansione industriale e promuovendo lo sviluppo delle
ferrovie (che nel 1860 supereranno gli 800 chilometri, contro i 127 del Regno delle Due
Sicilie, molto più grande e che, pure, aveva avviato, nel 1839, la prima linea ferrata
italiana, la Napoli-Portici); realizza importanti opere pubbliche, come il traforo del
Frejus, il canale che porta il suo nome ecc.; rafforza il regime parlamentare contro il
potere personale del Re, ampiamente tutelato dallo Statuto (in particolare all’articolo 5
“al Re solo appartiene il potere esecutivo”... egli “dichiara la guerra: fa i trattati di pace,
d’alleanza, di commercio e altri, dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la
sicurezza dello Stato lo consentano...” ecc.), tanto che qualche storico si è spinto ad
affermare che “Cavour è il vero artefice della evoluzione materiale in senso
parlamentaristico dello Statuto albertino”.
E veniamo alla parte più “cospicua” della sua politica, quella internazionale. Tutto il suo
modo di pensare, le convinzioni in lui radicate (dal liberalismo politico al liberismo
economico), le esperienze maturate nei viaggi europei, coniugate con l’anzidetta
ambizione sabauda all’allargamento dei confini – in particolare in direzione di Milano – e
infine la ferita non ancora rimarginata delle sconfitte del’48/49 portavano ad uno sbocco
quasi fatale: la guerra contro l’Austria. E’ questa fin dall’inizio l’idea fissa di Cavour, che
però, va subito detto, non pensava sull’immediato all’Unità d’Italia, e che sull’argomento
si trovava in perfetta sintonia col Sovrano, da cui invece lo dividevano mille altri aspetti.
Ma per giungere a tanto bisognava far uscire il Piemonte dal suo isolamento,
accattivargli le simpatie di qualche Grande Potenza, cercare addirittura di
procacciarsene l’aiuto militare, visto quanto avevano spietatamente dimostrato le citate
campagne del 1848 e, ancor più, dell’anno successivo.
E’ di immediata evidenza che tali Paesi non possono essere che la Francia e
l’Inghilterra. Ma ben presto Cavour capisce che dalla seconda sarà da aspettarsi
appoggio diplomatico, simpatia nell’opinione pubblica, al limite anche assistenza
finanziaria (tutte cose che poi realmente si verificheranno), ma aiuto miltare no, questo
potrà arrivare soltanto dalla Francia. E, d’altra parte, gli avevano già aperto gli occhi i
suoi numerosi viaggi, l’ultimo dei quali, avvenuto pochi mesi prima di diventare Primo
Ministro, gli aveva consentito di incontrare il nuovo Capo di Stato francese, il Principe
Luigi Napoleone Bonaparte, nipote di Napoleone I.
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Questi era stato eletto nel dicembre ’48 Presidente della Repubblica, nel dicembre ’49
con un colpo di stato era stato nominato Presidente a vita (formalmente per 10 anni, ma
rinnovabili senza limiti) e nel dicembre (sempre lo stesso mese!) ’52 si autoproclama
Imperatore col nome di NapoleoneIII. Egli, per una serie di motivi, sembra essere
l’uomo del destino, quasi un inviato della Provvidenza per influire sulle sorti d’Italia.
Intanto, è quasi ossessionato dall’ambizione di emulare il grande zio (anche il titolo e il
nome che assume sono indicativi..), verso il quale, peraltro, si sente in grave ritardo
“anagrafico”, essendo nato nel 1808 e pertanto vuole bruciare i tempi per riportare la
Francia ai precedenti fastigi nonchè per la sua gloria personale. In tale intento avvia
una poltica imperialistica, che va dall’avvio della conquista dell’Indocina al
consolidamento dell’occupazione dell’Algeria, fino alla sciagurata spedizione in
Messico del 1862, che determinerà l’infelice destino di Massimiliano d’Absburgo. Ma
soprattutto il suo primo intento è bloccare lo strapotere dell’Austria, Potenza egemone
in Europa e vera padrona dell’Italia, circostanza questa che lo porta automaticamente
ad interferire nelle nostre “faccende”.
Ma verso il nostro Paese era spinto anche da motivazioni di carattere personale,
determinate da avvenimenti fra loro in contraddizione. Egli, infatti, aveva dei trascorsi
giovanili da cospiratore, che lo avevano portato a partecipare a moti carbonari nel
Centro Italia, a Modena (dove aveva conosciuto Ciro Menotti, diventandone amico) e
soprattutto nello Stato Pontificio, conosceva bene ed amava il nostro Paese e parlava
correntemente l’italiano. D’’altra parte, era anche stato l’”affossatore” della Repubblica
Romana nel 1849, lui francese ed ex rivoluzionario, avendo dovuto pagare il prezzo
della sua elezione agli ambienti cattolici e conservatori, con i cui voti era andato al
potere.
Di questo è possibile che sentisse una sorta di “rimorso” (se è lecito usare tale termine)
e quindi desiderasse “fare qualcosa”, ma è ovvio che la sua mira era sostituire
all’egemonia austriaca in Italia quella francese. Questo però non trattiene Cavour, che
ha ormai messo gli occhi su di lui e conta sull’evoluzione degli eventi, anche perchè è
convinto che “una grande partita prima o poi dovrà giocarsi in Europa” e che in quella
grande partita il posto del Piemonte è accanto alla Francia, perchè “i nostri destini
dipendono soprattutto dalla Francia”.
Occorreva però un’occasione per avviare qualcosa di concreto, e l’occasione si
presenta un paio d’anni dopo, con lo scoppio, nel 1854, della guerra di Crimea fra
Russia e Impero Ottomano, subito spalleggiato da Francia e Inghilterra, timorose che
un successo dei russi possa rafforzare le loro tendenze imperialistiche russe e ledere i
propri interessi. Sull’immediato sembra, addirittura, che debba scatenarsi un conflitto
pressochè generale, quasi ideologico, fra le grandi Potenze reazionarie, Russia zarista
ed Austria asburgica da una parte e i principali Paesi occidentali, Francia e Gran
Bretagna, dall’altra, conflitto che avrebbe sovvertito l’ordine europeo e molto
probabilmente consentito ad un piccolo Stato come il Regno di Sardegna di approfittare
dell’indebolimento della stretta austriaca sull’Italia (S.J.Woolf).
Guerra di Crimea
Ma l’Austria, forse timorosa proprio per l’eventualità di cui sopra, non scende in campo,
e non lo fa neppure dalla parte anglo-francese, che glielo aveva offerto (probabilmente
si sentiva ancora diplomaticamente indebitata per l’intervento russo che nel 1848 aveva
sedato la rivolta ungherese), ed allora ecco il colpo di genio di Cavour, da cui scaturirà
tutto il prosieguo.
Decide di far entrare nel conflitto il suo piccolo Reno di Sardegna, così, semplicemente,
“gratuitamente”, senza nessun impegno nè promessa da parte delle due Potenze
occidentali, suscitando polemiche ed opposizioni di Governo e Parlamento (composti da
uomini non certo della “statura” del Conte), stupore nell’opinione pubblica (che neanche
sapeva dove si trovava la Crimea), ma ottenendo l’entusiastica approvazione del Re,
cui, secondo lo Statuto Albertino, spettava ogni decisione in materia. Il suo talento di
grande statista e l’eccezionale fiuto politico gli avevano fatto presagire che, nonostante
sulla carta il Piemonte avesse tutto da perdere e nessuna utilità, era quella la strada
giusta per farlo uscire dall’isolamento e per avviare quella paziente opera di
accostamento nei confronti dei Paesi “giusti”,cui da tempo mirava.
Parte nella primavera del 1855 un corpo di spedizione di 15.000 uomini (tanti per un
piccolo Stato, che per di più non aveva preparato per tempo l’intervento), al comando
del Generale Alfonso Lamarmora, con in sottordine il fratello Alessandro, il creatore del
corpo dei Bersaglieri, che sarà una delle numerose vittime mietute dal colera più che
dai fucili russi. Le truppe piemontesi si comportano più che dignitosamente, in
particolare nella vittoriosa battaglia della Cernaia e contribuiscono alla positiva
conclusione del conflitto.
Al successivo Congresso di Parigi del febbraio/aprile ’56, Cavour non ottiene nessun
vantaggio materiale, ma un grande riconoscimento morale e psicologico, la conferma
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dell’amicizia di Francia e Inghilterra e soprattutto la possibilità di parlare in un grande
consesso internazionale di una vera e propria “questione italiana”, di farsi tacitamente
riconoscere come lo Stato guida, o quanto meno portavoce del nostro Paese. Egli ha
anche l’accortezza diplomatica di non mettere esplicitamente sotto accusa l’Austria, ma
di portare abilmente il discorso sul malgoverno e la pessima situazione di due altri stati
della penisola (spalleggiato particolarmente dai plenipotenziari britannici): il Regno delle
Due Sicilìe e lo Stato Pontificio (e riguardo a quest’ultimo non manca di sottolineare la
perdurante presenza di guarnigioni austriache a Perugia e nel resto dell’Umbria...).
Congresso di Parigi
Ma ottiene anche una conseguenza assolutamente imprevista sul piano interno italiano:
la partecipazione al Congresso, la discussione della “questione italiana”, i
riconoscimenti tributatigli procurano al Regno di Sardegna, nell’ambito del nostro
Paese, un prestigio senza precedenti e incrementano quel fenomeno di “afflusso” e
concentrazione nel suo territorio, in particolare a Torino, di esuli, fuorusciti ed
insoddisfatti (invero non soltanto italiani). Molti di loro sono “pentiti” mazziniani e non
pochi ottengono, dopo breve periodo, posti di rilievo nell’amministrazione civile e
militare piemontese (alla vigilia della II guerra d’indipendenza, dei cinque generali di
divisione ben tre sono extraregnicoli),
Cavour decide allora di “battere il ferro finchè è caldo”. Sul piano interno, per accelerare
ulteriormente la disgregazione del movimento democratico-rivoluzionario, promuove la
nascita della Società Nazionale , che si prefigge d raggiungere l’indipendenza e
l’unificazione del Paese (come si vede, il Conte comincia ad essere unitarista..) “che
sarà per la Casa Savoia finchè la Casa Savoia sarà per il Paese (ne diventerà Vice
Presidente Garibaldi).
Su quello internazionale, convinto ormai che solo dalla Francia potrà avere un aiuto
militare, avvia una forte opera di circuizione, una vera e propria seduzione nei confronti
di Napoleone III, impostando una diplomazia parallela a quella ufficiale, con il compito di
convincere definitivamente l’Imperatore a sposare la causa italiana e di abbattere le
opposizioni in seno agli ambienti parigini, opposizioni particolarmente vivaci da parte di
importanti personaggi quali l’Imperatrice Eugenia e il Ministro degli Esteri Conte
Walewski (figlio naturale di Napoleone I e di Maria Walewska). I due perni di tale
strategia sono il giovane diplomatico Costantino Nigra e, soprattutto, la splendida, non
ancora ventenne ma già sposata, Virginia Oldoini Contessa di Castiglione, che con “i
rispettivi mezzi”, riescono nel loro intento (ma non va trascurato il rilevante aiuto offerto
da un personaggio storicamente meno conosciuto, Alexandre Bixio, fratello maggiore di
Nino, da tempo stabilitosi a Parigi, cittadino francese ma non dimentico delle sue origini
genovesi, che secondo qualche autore “fu l’ombra e il riferimento di Cavour in molte
circostanze”).
La contessa di Castiglione
In ogni caso, l’opera di convincimento riesce così bene che nel 1858 è lo stesso
Imperatore – nonostante un terribile attentato subìto all’inizio dell’anno ad opera del
mazziniano Felice Orsini, da cui era uscito miracolosamente illeso, ma che aveva
seminato una quindicina di vittime tra la folla davanti al Teatro dell’Opera – a prendere
l’iniziativa e ad invitare Cavour a Plombières per stendere un piano d’azione e stipulare
i relativi accordi.
E anche qui emerge l’intelligenza politica, per non dire la genialità, del Conte. Egli, che
comunque non pensa ancora ad una Italia unita, sa perfettamente che il vero intento di
Napoleone è fare del nostro Paese un satellite della Francia, sostituendo la sua
egemonia a quella austriaca: a tale intento mira la creazione di 4 Stati (Alta Italia sotto i
Savoia, Centro Italia al cugino Gerolamo, Sud ad un erede Murat e Lazio al Papa, che
sarebbe stato compensato per la perdita di territori con la Presidenza di una
costitiuenda Confederazione). Ma lo asseconda, perchè già prevede che saranno le
circostanze e gli avvenimenti a determinare il corso della Storia ed inoltre non gli sfugge
che l’Inghilterra impedirebbe in tutti i modi un eccessivo amplamento della potenza
francese. E così sarà. Va aggiunto che gli accordi, peraltro piuttosto fumosi e lasciati nel
vago, prevedevano come “conditio sine qua non” per l’intervento francese che il
Piemonte fosse attaccato dall’Austria, si trattasse cioè di una guerra difensiva; che, a
suggello, venisse celebrato il matrimonio fra il citato principe Gerolamo e la principessa
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Clotilde, quindicenne figlia di Vittorio Emanuele II; e che alla Francia a compenso di
quanto andava ad operare passasseo Nizza e la Savoia.
Scoppia nell’aprile ’59 la seconda guerra di indipendenza, che, però, dopo una serie di
vittorie dei franco-piemontesi (Montebello, Palestro, sopattutto Magenta e Solferino/San
Martino) e la conquista della Lombardia, si ferma a metà dell’opera per iniziativa
dll’Imperatore francese, che ai primi di luglio, offre all’omologo austraco l’armistizio di
Villafranca, rinunziando alla conquista del Veneto.
Il Generale McMahon a Solferino
Qui, per un momento, Cavour non si comporta da Cavour. Va in escandescenze,
piomba al quartier generale del Re e a quello dell’Imperatore, li prega, implora, insulta,
tenta addirittura di convincere Vittorio Emanuele II a proseguire la guerra da solo
(proprio lui che aveva tessuto tutta la trama nella convinzione dell’impossibilità per il
Regno Sardo di sconfiggere da solo militarmente l’Austria) e quando vede che è tutto
inutile rassegna le dimissioni, immediatamente accettate dal Re. Ma lo sconforto è di
breve durata, si stanno vivendo momenti storici epocali che il nuovo gabinetto
Lamarmora-Rattazzi non è in grado di gestire ed è lo stesso Sovrano che, “obtorto
collo” ed anche su pressioni internazionali, richiama Cavour a formare il nuovo Governo
nel gennaio successivo.
Sì perchè, accanto al timore di un intervento prussiano ed alla preoccupazione per il
gran numero di caduti francesi a Magenta e Solferino (e al pensiero di quelli, forse
ancor maggiori, che sarebbero venuti dal prosieguo della campagna con l’assedio delle
assai munite fortezze del Quadrilatero), uno dei motivi, forse il principale, del
voltafaccia di Napoleone era stato l’abbrivio, assolutamente contrario ai suoi piani,
preso dalle vicende italiane.
Non erano neppure cominciate le ostilità che Firenze era insorta cacciando il Granduca
e poco dopo l’avevano seguita Modena, Parma, Bologna con le Romagne e tutte si
erano affrettate a chiedere l’annessione al Regno di Sardegna, altro che Stato del
Centro Italia,,! Gli accordi di Villafranca e la successiva Pace di Zurigo prevedevano, a
parte il passaggio dellla Lombardia ai Savoia, la ricostituzione dello “statu quo”, con il
ritorno dei vecchi sovrani, ma senza l’intervento di armi straniere, e la nascita di una
Confederazione di tutti gli Stati italiani (quindi anche del Veneto austriaco!...) sotto la
Presidenza del Papa.
Tutti eventi irrealizzabili ma che tenevano con il fiato sospeso le Cancellerie europee,
tanto più che in Toscana ed Emilia-Romagna si erano addirittura costituiti Governi
provvisori, che avevano formalmente votato per l’annessione al Piemonte ed i cui
rappresentanti (Ricasoli, Farini, che diventeranno entrambi Primi Ministri del nuovo
Regno) si erano recati di persona a Torino per chiederla. Il Re era in grave imbarazzo,
giacchè non voleva rifiutare ma non poteva neppure andare contro gli anzidetti trattati e
soprattutto contro la volontà di Napoleone III, perciò si era limitato ad “accoglire” ma
non ad “accettare” il desiderio dei plenipotenziari; nè, d’altra parte, il duo LamarmoraRattazzi era in grado di risolvere la questione.
Ci voleva Cavour e infatti Cavour, appena rientrato al suo posto, viene quasi subito a
capo del problema, con un nuovo colpo di genio, che “a posteriori” sembra l’uovo di
Colombo, ma che nessunio era stato in grado di immaginare. Scrive, dunque, una
lettera ai principali Governi d’Europa, comunicando che Vittorio Emanuele II non
avrebbe potuto a lungo opporsi ai voleri delle popolazioni e nel contempo persuade
l’Imperatore francese che la situazione così com’era rischiava di deflagrare,
trasformando l’Italia e forse l’Europa in una polveriera.
Ottiene subito l’accordo di Napoleone, al cui convincimento non è estranea la cessione
di Nizza e Savoia offertagli da Cavour, nonostante che, per l’interruzione delle ostilità da
parte dei francesi e quindi per il loro mancato rispetto degli accordi di Plombières, a
tanto non fosse più obbligato il Regno di Sardegna. Poi, sicuro dell’appoggio francese e
di quello inglese, organizza già per i primi di marzo in Emilia e in Toscana i plebisciti,
che danno una valanga di consensi all’annessione. Così, nella primavera del 1860, il
Regno di Sardegna si incrementa con altre due grandi regioni, pur perdendo le zone
anzidette (dove altri plebisciti avevano dato un risultato uguale e contrario a quelli di cui
sopra...), con il che Cavour provoca la passeggera dispiacenza del Re (che lo
rimprovera di avergli tolto la culla dei suoi avi), ma si crea un acerrimo nemico in
Garibaldi, che non gli perdonerà mai di averlo reso “straniero in Patria”.
Ma l’opera del Conte non è finita. Egli, in qualche modo, “partecipa” anche alla più
entusiasmante e romanticamente coinvolgente impresa del Risorgimento, a quella che
ha dato gloria imperitura a Garibaldi, la spedizione dei Mille. Egli interviene in vari
momenti, inizialmente preoccupato che la vecchia miltanza mazziniana e repubblicana
riprenda il sopravvento nell’Eroe dei due mondi, poi, quando si convince della sua lealtà
sabauda, attento a dare una connotazione monarchica, “moderata”, all’impresa e ad
“utilizzare” la stessa per un’ ulteriore espansione territoriale del Regno (in aggiunta
all’ingente “regalo” portato dal nizzardo).
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Lo scoglio di Quarto
A questi intenti rispondono i tentativi non riusciti di suscitare in Napoli una insurrezione
popolare che chiedesse subito l’annessione al Piemonte e togliesse, in qualche modo, a
Garibaldi il merito della conquista; quelli, andati invece a buon fine, di dirottare verso
Sud una spedizione mazziniana diretta a Roma; e, in particolar modo, la decisione di far
intervenire le truppe regolari piemontesi, che nel settembre’60 invadono lo Stato
Pontificio, ne sconfiggono l’esercito a Castelfidardo ed occupano le Marche e l’Umbria,
lasciando al potere temporale dei Papi il solo Lazio.
Garibaldi a Napoli
E’ questo un passo veramente audace, spregiudicato e soprattutto molto pericoloso;
esso poteva provocare un intervento straniero e ci voleva il carisma, il sangue freddo di
un grande uomo di Stato per metterlo in atto. E anche in questo caso Cavour dimostra
le straordinarie doti politiche di cui è fornito, perchè riesce, prima di tutto, ad ottenere
abbastanza agevolmente il benestare preventivo di Napoleone (che significava anche la
tacita acquiescenza delle altre Potenze), convincendolo che l’intervento è più che
opportuno, necessario, per impedire pericolosi colpi di testa di Garibaldi e ottenendone
il “placet” esplicitato dalla famosa frase “fate, ma fate presto”. Poi dà il via
all’operazione, che, guardata asetticamente, si potrebbe definire di pura pirateria
intenazionale, giacchè fra i due Stati non vi erano contenziosi o rivendicazioni in atto ed
occorre un ultimatum assolutamente pretestuoso per giustificarla almeno formalmente.
A gioco fatto l’intervento in questione, operata la giusta tara all’aspetto etico che però in
politica non esiste, si può definire un vero colpo da maestro, poichè, in una sola volta,
ottiene, come si diceva sopra, un ulteriore ampliamento di quello che è ancora il Regno
di Sardegna; riesce a bloccare sul nascere l’eventualità di un pericoloso sconfinamento
garibaldino verso Roma (quello sì non sarebbe stato tollerato); riveste di una patina di
“regolarità” quella che era stata un’impresa rivoluzionaria, mostrando al mondo “la
differenza fra la legalità e l’irregolarità” (L.Villari).
L’ultima grande impronta di sè Cavour la lascia col discorso alla Camera del 25 marzo
1861, otto giorni dopo la proclamazione del Regno d’Italia, quando ribadisce – lui che
certo non amava nè conosceva la Città Eterna – la necessità storica di Roma capitale,
perchè “senza Roma capitale l’Italia non s ipuò costituire”. E immediatamente avvia
trattative col Vaticano per risolvere pacificamente la questione, ma esse naufragano sia
per l’intransigenza di Pio IX e sia, soprattutto, per il prematuro decesso del grande
Statista, avvenuto a Torino il 6 giugno 1861, probabilmente per una forma di malaria
perniciosa. Sembra che anche sul letto di morte abbia ribadito, nel delirio dell’agonia, al
cappuccino che gli impartiva i sacramenti il suo fermo convincimento di “libera Chiesa in
libero Stato”, mentre è certo che il frate (si chiamava Giacomo da Poirino) verrà
sospeso “a divinis” per avergli somministrato l’estrema unzione senza imporgli –
com’era stabilito – la ritrattazione degli atti compiuti contro l’interesse della Chiesa e
soltanto nel 1884, anziano e malato, otterrà il perdono da Leone XIII.
Da ultimo non si può fare a meno di rilevare come la prematura morte del grande
statista abbia contribuito al non felice decollo del nuovo Stato, sia stata, anzi, molto
probabilmente per non dire sicuramente, una delle cause principali della non soluzione
di tutti i problemi che sono emersi quasi immediatamente.
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