L'epatite Virale Post-trasfusionale: qualche riflessione sul rischio residuo ed in chiave di tutela sociale A. Flores, Specialista in Medicina Legale ed in Ematologia Clinica e di Laboratorio Domande e commenti? Clicca qui I colleghi trasfusionisti, che come chi scrive, non sono più di primo pelo trasfusionistico si ricordano certamente gli anni Settanta-Ottanta con la “caccia alle streghe“ ad un agente virale infettante, che sfuggiva quasi fosse araba fenice od un ufo ai tentativi più insistiti di utili marcatori surrogati. Epoca in cui si doveva ammettere, come affermava Dammaco(1), che “...Malgrado gli indubbi progressi registrati negli ultimi anni per quanto riguarda la possibilità di svelare i donatori infetti mediante opportuni marcatori, l'insorgenza di epatite conseguente alla somministrazione di sangue ed emoderivati rimane una complicanza ancora elevata, essendo la sua frequenza dell'ordine del 1020%. E se è vero che l'epatite di tipo B, grazie alla ricerca dell'HBsAg con metodiche sempre più sensibili, corrisponde ormai al 3-5% delle epatiti post-trafusionali (EPT), è vero anche che in almeno l'80% dei casi l'EPT è sostenuta da virus non A non B e che la mancanza di marcatori specifici per questa forma di epatite non ha consentito di ridurne l'incidenza in misura significativa“. Tra il 1975 e i primi anni '80 sono numerosissimi, in diversi Paesi, gli studi retrospettivi e, soprattutto, prospettici che delineano dati di prevalenza e incidenza dell'EPT. La sua frequenza, nei sei mesi seguenti una trasfusione, oscilla, alla luce dei dati epidemiologici riportati in Letteratura, tra l'8% e il 17% nelle casistiche U.S.A., è del 15% in Francia, del 2% in Australia e del 4% in Olanda. Incidenza ancora più alta, fino al 27%, si rileva in casistiche descritte nel 1979 in Giappone. Le percentuali citate restano elevate anche dopo correzione, come suggerito dallo studio di Aach(2), tenendo conto dell' incidenza di epatite acuta “spontanea”, ovvero non secondaria a trasfusioni. Le ricerche succitate hanno mostrato una netta preponderanza di epatite NANB, variabile dal 78% al 97%, mentre il virus HBV risulta responsabile del 2-20% dei casi e il Cytomegalovirus tra lo 0 e il 3%. Come è noto verso la fine degli anni ‘80 Houghton e coll.(3) della Chiron Corporation, aderendo all'ipotesi di Bradley ed utilizzando quale ospite lo scimpanzé e lavorando su grosse quantità di plasma di scimpanzé altamente infettante, hanno potuto isolare il virus dell'epatite C (HCV) ed identificarlo con il virus NANB(4). Ciò ha consentito di attribuire a tale agente infettivo, la causa della grande maggioranza delle EPT. Si è così potuto finalmente isolare e purificare un polipeptide (c100-3) utilizzato poi nella preparazione dei test diagnostici per la ricerca dell'anticorpo corrispondente anti-HCV(5). Anche le precedenti ipotesi relative all'esistenza di più virus NANB sono cadute: l'HCV è infatti un virus ad elevata variabilità genotipica, solo in parte riconducibile alla diversa distribuzione geografica, capace inoltre di reagire alla pressione ambientale con la generazione di ceppi mutanti (c.d. “quasispecie”), il che può spiegare la notevole variabilità di espressione clinica ed evolutiva dell'infezione e la sua diversa sensibilità alle terapie antivirali. Il test iniziale, o di I generazione, evidenziava anticorpi diretti contro l'antigene c100-3, risultando comunque in grado di abbattere in modo significativo l'incidenza di epatite post trasfusionale. In Italia il test sarà reso poi obbligatorio con il noto D.M. 21 luglio 1990. Il limite anche dei più recenti test di screening è semmai costituito dalla specificità, che può essere relativamente ridotta nei soggetti immunodepressi e più in generale a basso rischio, originando falsi positivi, che richiedono l'utilizzo di metodiche di conferma, immunologica (RIBA) o biomolecolare, attraverso la ricerca diretta del RNA virale nel siero con amplificazione genica PCR/NAT. Quest'ultima venne poi introdotta per lo screening nella produzione di emoderivati con D.M. 29/3/99 e raccomandata dal ministro Veronesi anche nella pratica trasfusionale di sangue ed emocomponenti mediante circolare del 30/10/00. L'epatite post trasfusionale può così ritenersi, a decorrere circa dalla seconda metà degli anni ‘90, un problema virtualmente risolto sotto il profilo della prevenzione attiva sui donatori, mediante una sempre più affinata capacità diagnostica, come pure attraverso una sempre più attenta selezione dei donatori e candidati tali, tanto che già nel 1996 Schreiber e coll.(6) stimavano il rischio di contrarla pari ad 1:100.000 unità di sangue trasfuse e Rizzetto(7) indicava in Italia un rischio di contrarre una EPT pari a 0,4/milione. Purtroppo, a fronte di tale entusiasmante approdo, sta un percorso doloroso, disseminato da centinaia di migliaia di casi di malattia in tutto il mondo. Solo in Italia Colombo(8), nella sua comunicazione al Congresso di Palermo del marzo 1989, proprio a poche settimane di distanza dalla scoperta dell'HCV, riteneva che in Italia, a fronte di 2.200.000 unità di sangue/ emocomponenti trasfuse per anno a 500.000 riceventi, vi fossero ben 50.000 nuovi caso/anno di EPT acuta (10%), di cui 25.000 (la metà circa) destinate a cronicizzare, 10.000 (20%) a progredire in cirrosi nel giro di alcuni anni ed un numero non precisabile, comunque nell'ordine delle migliaia, a subire a lungo termine la trasformazione in epatocarcinoma. E ciò in quanto, come abbiamo già ricordato, fino alla fine degli anni ‘80 non era disponibile alcun test specifico per la ricerca nei donatori dello agente virale coinvolto e che veniva indicato, per mero criterio di esclusione ed “ignoranza“ tecnico diagnostica, con acronimo NANB. Solo con la disponibilità tecnica di un test diagnostico specifico si apriva l' era della possibile diagnosi preventiva sui donatori. L'introduzione di tale test ridusse drammaticamente il rischio di epatite post-trasfusionale. I dati riportati da Parravicini e coll.(9) mostrano infatti una caduta dell'indice di rischio all'1,5% per il ‘91, per poi assestarsi prossimo allo 0% per gli anni ‘92, ‘93 , ‘94. Gli stessi Autori, sulla base dei dati riguardanti il Centro Trasfusionale del Policlinico di Milano, certamente uno dei maggiori della Lombardia per numero di unità distribuite, indicavano negli anni ‘80 una incidenza di epatite post-trasfusionale NonA, Non-B pari all'11% dei pazienti trasfusi. Da quanto sopra ben emerge come per gli anni ‘70 ed ‘80, praticamente nulla fosse la possibilità diagnostica preventiva per rilevare nei donatori i portatori cosi detti “sani” degli agenti virali dell'epatite HCV correlata. Non deve quindi sorprendere, ed i dati epidemiologici sopra ricordati ne sono una più che utile ed opportuna conferma, come sino agli anni ‘90, soprattutto in modo residuale per quanto riguarda il virus HCV, l'incidenza della trasmissione trasfusionale dell'agente virale fosse certamente elevata e si assestasse attorno almeno al 10% dei pazienti trasfusi. Solo infatti con l'introduzione dello specifico test diagnostico per la ricerca degli anticorpi anti-HCV si potè finalmente e drasticamente abbattere tale elevata incidenza. L'uso ormai consolidato del test immunoenzimatico di III generazione ha di fatto ulteriormente e drasticamente ridotto il rischio di trasmissione. Zanetti(10), ricordando una ricerca a livello regionale in Lombardia nel quinquennio 1996–2000, segnala infatti come su oltre 2 milioni e mezzo di unità raccolte si 27 9 L'EPATITE VIRALE POST-TRASFUSIONALE potessero stimare solo in circa 7/milione le unità risultate negative al test, ma potenzialmente in grado di trasmettere al ricevente l'agente virale HCV in quanto raccolte durante la c.d. “fase finestra”. L' introduzione poi a fine 2000 della ricerca NAT del genoma virale su tutte le unità destinate ad uso omologo ha di fatto abbattuto ulteriormente il rischio residuale all'1/milione di unità. Sin qui abbiamo percorso sull'arco di circa un trentennio l'evolversi delle capacità tecnico-diagnostiche e preventive in tema di epatiti post-trasfusionali. Per quanto invece attiene al profilo della tutela del ricevente è da rilevarsi come il legislatore italiano si sia fatto carico ed abbia affrontato il problema giungendo ad un provvedimento normativo ad hoc di cui alla legge n. 210 del 25 febbraio 1992 “Indennizzo a favore di soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati". E' stata così posta in essere una forma di tutela individuale e sociale identificando modalità e requisiti soggettivi e biologici per il riconoscimento di un indennizzo per danni biologici conseguenti a specifici trattamenti sanitari, se non anche obbligatori come Ie vaccinazioni. Normativa quindi di notevole rilievo sociale, che tuttavia non ha mancato di suscitare alcune perplessita sia di ordine generale, ma soprattutto applicativo. Mazzeo(11) ha infatti ben rilevato come la normativa susciti suggestioni di indennizzo, ma lasci lacune di tutela. Vedremo quindi di analizzare gli aspetti pratico-applicativi di tale norma nella sua applicazione, che nel concreto ha interessato certamente un elevato numero di soggetti, non pochi dei quali inoltre presentavano trattamenti trasfusionali "antichi" e che si colIocavano in era "pre-test", con conseguente difficolta di ricostruire sia I'iter analitico suI singolo donatore, ma soprattutto nella evidente impossibilita di accertare in concreto la negativita e/o positività per i marcatori del virus C, allora per altro neppure ancora isolato. E ciò si connette anche, come evidente, con l'ostacolo posto da altra norma, allora vigente, ovvero la previsione degli artt. 34 e 35 del D.M. 27 dicembre 1990, che prevedevano per la conservazione delle registrazioni tempi relativamente brevi. Nella fattispecie per quanto riguardava Ie registrazioni relative aIle schede dei donatori, indagini prescritte dalla legge sulle unita di sangue, preparazione di emocomponenti e destinazione finale dell'unita di sangue e/o emocomponenti, la conservazione veniva limitata ad almeno cinque anni. In tal senso ben più opportuno sarebbe stato proporre, in prima applicazione una fase di sanatoria "sociale" col riconoscimento di un equo indennizzo una tantum per coloro i quali erano stati sottoposti a trattamenti trasfusionali in epoca preanalitica e che mostravano sieroconversione per I'HCV (o per HIV) con documentato danno irreversibile. Non gravando in tal modo l'interessato con ulteriore onere di una prova diabolica rendendo così più rapida e snella l' istruttoria della pratica senza defatiganti e del tutto inutili richieste di accertamenti, che non potevano esistere. Di fatto ciò ha comportato un appesantimento di procedure giudiziali avanti il competente Tribunale del Lavoro, che in pratica, mediante ausilio di accertamento tecnico medico-legale, poteva ricostruire il rapporto causale tra patologia e trattamento trasfusionale omologo, mediante un opportuno e corretto giudizio biologico ed epidemiologico del rischio di trasmissione virologica mediante la trasfusione di emocomponenti od infusione di emoderivati. E ciò in particolare per soggetti affetti da patologia eredo-familiare, come i talassemici e gli emofilici, che per necessità clinica “quoad vitam” sono sottoposti a continui, periodici ed inomissibili trattamenti trasfusionali omologhi. Se quindi per il passato ancora pendono avanti i Giudici competenti cause per il riconoscimento del dovuto indennizzo, per il futuro e per merito dell'evolozione scientifiica e tecnologica tutto ciò, per fortuna, sarà solo un ricordo potendosi certamente ritenere del tutto attualmente ridotto e quasi virtuale il rischio di tramissione di epatite post-trasfusionale. Ma tale condizione di buona sicurezza trasfusionale non deve indurre a facili entusiasmi in quanto il mondo virale è sempre in attiva mutazione (ed esempio ben noto a tutti sono i virus influenzali) e soprattutto l'elevata possibilità e rapidità degli spostamenti in un mondo globalizzato, potrebbero comportare la comparsa, ma speriamo proprio di no, di nuovi ceppi virali mutanti, che purtoppo potrebbero in un attimo sconvolgere la nostra acquisita capacità diagnostico-preventiva in campo trasfusionale(12). L'abbassare l'attenzione, o come si suol dire, la guardia può risultare estremamente insidioso ed in tal senso, un preciso ed allarmante esempio scaturisce proprio in tema di patologia virusepatitica, con il sempre attuale ed incombente rischio di epatiti a trasmissione iatrogena e/o nosocomiale(13). BIBLIOGRAFIA 1) Dammacco G.: Le complicanze dell' emotrasfusione: un problema spesso sottovalutato. La Ricerca in Clinica e in Laboratorio, XIV, Suppl.1,1984 2) Aach R.D. et al.: Post-transfusion hepatitis: analysis of risk factors. Acta Haematol Pol., 1980, 11,159 3) Houghton M. et al.: Molecular biology of the hepatitis C viruses: implication for diagnosis, development and control of viral disease. Hepatology, 1991, 2, 381 4) Choo Q.L., Kuo G., Weiner A.J. et al.: Isolation of a cDNA clone derived from a blood borne non-A,non-B viral hepatitis genome. Science 1989, 244, 359 5) Kuo G., Choo Q.L., Alter H.J. et al.: An assay for circulating antibodies to a major etiologic virus of human non-A,non-B hepatitis. Science 1989, 244, 362 6) Schreiber G.B. e al.: The risk of post-transfusion hepatitis C virus infection. N Engl J Med, 1996, 334, 1685 7) Rizzetto M.: Epatite C. Trasmissione ed epidemiologia. Epatology Review, 1998, 1, 10 8) Colombo M.: Recenti acquisizioni sull'epatite nonA-nonB. Congresso “ Epatiti virali: profilassi e prospettive di trattamento“, Palermo, 17-18 Marzo 1989 9) Parravicini A., Marconi M., Morelati F., Rebulla P., Riccardi D., Silvani C.: Manuale di Terapia Trasfusionale. Centro Trasfusionale del Policlinico di Milano Ed., 1995, pag. 75 10) Zanetti A. Il rischio Trasfusionale: le infezioni trasmissibili. SIMTI Ed., Milano, 2003, pag 38 11) Mazzeo E.: Suggestioni di indennizzo e lacune di tutela nella legge 25 febbraio 1992, n.210. Zacchia,1993,XI, 27 12) Flores A.: Alcune riflessioni in chiave normativa e medicolegale in merito alla donazione di sangue da parte di soggetti immigrati non comunitari. Il Bassini XXVII (1), 61, 2007 13) Flores A.: Epatite virale a trasmissione nosocomiale: Riflessioni interpretative e valutative di un rischio sottovalutato. Arch. Med. Leg. 1, 1, 2001 27 9