LA CANTATRICE CALVA di Eugène Ionesco traduzione Gian Renzo Morteo regia MASSIMO CASTRI in collaborazione con MARCO PLINI scene e costumi Claudia Calvaresi progetto luci Roberto Innocenti musiche Arturo Annecchino assistente alla regia Thea Dellavalle con (in ordine di apparizione) Mauro Malinverno, Valentina Banci, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone, Petra Valentini, Francesco Borchi produzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana Spettacolo visto al Teatro Metastasio il 6 dicembre 2014 Recensione di Clara Arlotti Le note di un violino cristallizzano il chiacchiericcio di un pubblico giovane e impaziente. Si apre il sipario del maestoso teatro Metastasio. Come un profumo, la statica quiete del salotto «rigorosamente inglese» in scena si divulga nella platea fin sopra i palchetti, si scontra con i riverberi del vociare di una caotica domenica natalizia nel centro pratese e alla fine ha la meglio. Ad apparirci davanti è l'ambientazione fissa dell'ultima regia di Massimo Castri. Nonostante le sue gravi condizioni di salute, egli ha voluto coronare la sua esperienza professionale con la messa in scena del capolavoro di Eugène Ionesco La cantatrice calva, grazie anche alla collaborazione di Marco Plini. In un'atmosfera che non conosce tempo il pendolo suona a vuoto assecondando il nonsenso dei ragionamenti della signora e del signor Smith. Lei nella sua sedia inglese, mentre rammenda le calze, parla dei più svariati e futili argomenti scocciando il marito che, intento a leggere il suo giornale inglese, raramente l'ascolta. L'impertinente ed esuberante domestica Mary irrompe nella stanza e annuncia l'arrivo dei Martin. Gli ospiti, a lungo attesi, rimangono soli nel salotto in un momentaneo stato di trance. Nel momento della loro presa di coscienza gli Smith rientrano. I quattro, riuniti, danno inizio ad uno scambio di disconnesse affermazioni in un crescendo di ipocrisia e convenzionalità. Prende parte alla loro follia anche l'annoiato capitano dei pompieri, sempre in cerca di "un fuoco da spegnere" e di qualcuno da salvare. Il collante sociale sembra non reggere più. Ci appaiono ognuno nella propria individualità vuota, inutile e delirante. Le urla crescono e si sovrappongono fino a raggiungere un apice. Dopo quell'ultimo grido di acuta bestialità, i personaggi, ridotti a membra prive di contenuto, zittiscono. Lo spettacolo si chiude in una forma morbosamente ciclica. La prima scena viene riproposta. Questa volta però sono i Martin ad essere spiati nella loro bolla intima di monotonia, confermando con battute identiche a quelle pronunciate dagli amici la loro già ovvia impersonalità. Le coppie interscambiabili dei Martin e degli Smith non solo sono emblema dell'intera classe medio-borghese ma archetipi stessi dell'eterna condizione umana; occupati ad occuparsi come ogni essere vivente. Ionesco ci porta per mano fino ai limiti del reale. Disintegra la millenaria struttura consolatoria che l'uomo si è creato per rendersi illusoriamente meno fragile di fronte alla mobilità annientatrice del divenire. Scoppiato il sistema nulla rimane. I personaggi 'muoiono' e tutti noi moriremmo come loro. Lo scompenso dato dall'enorme tuffo nella pochezza umana spaurisce il pubblico, che consolato dalla vena comica, finge di non essere stato attaccato e torna alla sua trappola vitale di consuetudini. Partendo da un profondo studio sulla natura umana, Massimo Castri e il suo collaboratore costruiscono una griglia di gesti e espressioni in cui rinchiudere i propri attori. Quest'ultimi, diventati funzioni umane, agilmente si muovono in scena pur recitando entro i confini di una limitatissima possibilità espressiva. Mauro Malinverno, Valentina Banci, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone, Petra Valentini e Francesco Borchi inscenano così il tragicomico gioco di incomprensioni che il testo, il regista e la società stessa richiede loro. Risulta azzardata la scelta di Castri, come al tempo lo fu quella di Ionesco. La società del XXI secolo non si è ancora riscattata. La borghesia anzi è diventata massa di compratori instancabili. L'incomunicabilità si è accentuata con il subentrare della tecnologia. L'essenza unica di ogni essere è continuamente limata. Massimo Castri, come in una staffetta, alla fine della sua vita e al chiudersi del sipario consegna allo spettatore il fardello del vuoto umano velato da un sorriso mitigatore. Recensione di Simone Baldassarri Spesso mi capita di andare a teatro a vedere messe in scena classiche ma le trovo noiose e “passate” in quanto non riescono a trasmettere nulla di più di quello che si vede, non c'è l'attrazione magnetica che dovrebbe esserci nel teatro, l'immedesimazione in un personaggio maschile o l'innamoramento anche se per una manciata di minuti del personaggio femminile. Questa volta è successo. Con La cantatrice calva, ho riscoperto il piacere di vedere uno spettacolo pulito e lineare, Castri ha saputo confezionare in maniera quasi perfetta il testo. Il pubblico inizialmente è distratto (forse un po' si è perso il rispetto della cultura) ancora preso dalla sua vita quotidiana e si ritrova di fronte ad una scena altrettanto quotidiana: il salotto dei coniugi Smith, perfetto, curato nei minimi dettagli, un interno borghese inglese, con poltrone inglesi. Serata inglese. Il signor Smith, inglese, nella sua poltrona e nelle sue pantofole inglesi, fuma la sua pipa inglese e legge un giornale inglese accanto a un fuoco inglese. Piano piano, succede che si entra in simbiosi con i personaggi, non si capisce il motivo ma, accade. Il testo è lì, esce dalle loro bocche senza un vero senso, senza un vero ascolto. Frivolezze e pettegolezzi. Perché accade ciò? Forse è semplice pulizia senza strafare. C'è molta verità. Gli attori credono in quello che dicono seppure sia assurdo, non fanno nulla di più che agire e reagire con frasi fatte e parole disconnesse. C'è una quarta parete molto forte che lascia spazio agli spettatori di entrare e sbirciare come da una serratura, vedere quello che accade tra le persone quando non c'è comunicazione. È la cameriera la prima a rompere la struttura con la sua poesia “il fuoco” mettendosi a correre in mezzo al pubblico. L'ultimo colpo di scena ben montato arriva nella penultima scena, quando tutti i personaggi parlano direttamente al pubblico per ritornare alla fine della scena nella loro quotidianità con un'inversione di ruoli coniugi Smith con coniugi Martin. Non so come possano essere state le prime messe in scena di Artaud ma credo che si sarebbe potuto trovare molto d'accordo con le scelte stilistiche di Castri. Il teatro dell'assurdo a volte viene considerato come tale e si cerca di fare qualcosa di estremo o stravagante per mettere in mostra quella tipologia di teatro sminuendo così il testo e l'idea originale. In questa messa in scena si mette in risalto tutto quello che accade, il pubblico ride nel vedere la goffaggine comunicativa, forse inconsciamente anche ciascuno di noi si è trovato in situazioni simili (non capisci ma rimani fisso sul tuo pensiero, dicendo cose a vanvera senza trovare un vero collegamento con chi hai di fronte). Chi è questa Cantatrice Calva? Arriverà mai? “No, si pettina sempre allo stesso modo”. Gli attori (signor Smith, Mauro Malinverno. Signora Smith, Valentina Banci. Signor Martin, Fabio Mascagni. Signora Martin, Elisa Cecilia Langone. Mary, la cameriera, Petra Valentini. Il capitano dei pompieri, Francesco Borchi) sono davvero molto bravi e riescono a far passare un testo non semplice grazie alla loro aderenza con l'azione. Recensione di Laura Buscemi Torna al Teatro Metastasio di Prato l’opera manifesto del Teatro dell’assurdo del drammaturgo francese di origini rumene Eugène Ionesco (Slatina 1909 - Parigi 1994), La cantatrice calva, uno dei 23 spettacoli della stagione, riedita dal regista Massimo Castri (Cortona 1943 - Firenze 2013) in collaborazione con Marco Plini, che meglio celebra i 50 anni dalla riapertura del Teatro Metastasio e i due anni della scomparsa del regista. A vederla oggi, non è poi così strano che un’opera così arguta sia stata accolta con tanta perplessità dal pubblico parigino nella prima messinscena del 1950. Ionesco, di fatto, sfugge totalmente al realismo e al costrutto drammaturgico razionale del Teatro tradizionale, mostrando l’assurdità di un mondo che gira a vuoto e ponendo lo spettatore dinanzi ai nodi esistenziali più complessi dell’uomo moderno: la crisi del linguaggio e della comunicazione, la falsità delle relazioni, la routine e la difficoltà a dare un senso all’esistenza. L’autore fu ispirato da un comune manuale di conversazione al fine di imparare l’inglese, ma esercitandosi su quel libro si accorse che i dialoghi mancavano del tutto di logica e di coerenza. D'altronde l’incomunicabilità era la norma dello scenario dell’Europa occidentale del dopoguerra, che aveva portato l’uomo a sopprimere la propria identità e a divenire un involucro di se stesso. È questa la situazione dei protagonisti della pièce (definita da Ionesco anticommedia) che Massimo Castri ripropone nella sua rivisitazione, dalla ben curata scenografia di Claudia Calvaresi e dalla cornice musicale di Arturo Annecchino: gli Smith e i Martin, due coppie di coniugi inglesi rappresentanti dello stereotipo del conformismo borghese e della condizione umana, invischiati nelle convenzioni sociali ed impregnati di luoghi comuni banali e senza senso, capaci di suscitare il sorriso nonostante l’incapacità di ragionare, di ascoltare, di provare sentimenti. Di conseguenza anche tutto ciò che circonda l’uomo e quest’opera perde consistenza: il tempo, rappresentato da una “pendola inglese”, assume un valore soggettivo e batte “rintocchi inglesi” in modo ambiguo; lo spazio, un “interno borghese inglese”, è privo di personalità, nel quale i protagonisti, accompagnati dalla domestica Mary (figura prosaica e testimone di ciò che accade) e dal capitano dei pompieri (simbolo dell'assurdità delle funzioni sociali ed ossessionato dal fuoco), sono volutamente confinati per meglio concretizzare la difficoltà degli esseri a convivere. Ma il regista e il suo collaboratore hanno saputo ben conferire un ritmo divertente agli aneddoti, ai giochi di parole e alle battute che nell’epilogo diventano sempre più frenetiche ed illogiche. I personaggi si avvicinano al pubblico e urlano gli uni alle orecchie degli altri e in coro ripetono “Non è di qua, ma è di là…” in un crescendo quasi aggressivo, rivelando ancora una volta che il linguaggio ha perso il suo ruolo d’intermediazione tra gli esseri. Concluso il delirio cala il sipario e dopo qualche secondo si ritorna al punto di partenza, ma questa volta lo stesso salotto è abitato dai coniugi Martin, a conferma dell’interscambiabilità degli individui, in un mondo in cui nulla si muove e tutto si assomiglia. Ed è così che questa geniale opera, al suo quarto anno di repliche che non solo riunisce attori e spettatori ma anche studenti universitari (nelle vesti di critici), docenti ed organizzatori, raccoglie molti applausi e suscita volontariamente perplessità nello spettatore, affinché questi possa riflettere e comprendere che l’assente cantatrice calva, che “si pettina sempre allo stesso modo”, altro non è che una manifestazione supplementare dell’incoerenza, dell’insensatezza e dell’assurdità, rappresentazione eterna della società di ieri e di oggi. Recensione di Cristina Cirigliano “Un interno borghese inglese, con poltrone inglesi. Serata inglese. Il signor Smith, inglese, nella sua poltrona e nelle sue pantofole inglesi, fuma la sua pipa inglese e legge un giornale inglese accanto a un fuoco inglese”. Inizia così l’opera teatrale di Eugène Ionesco La cantatrice calva (composta nel 1950 e messa in scena al Théâtre des Noctambules a Parigi nello stesso anno) rappresentata al Teatro Metastasio e realizzata dal regista Massimo Castri con la collaborazione di Marco Plini. Essa fornisce il primo esempio di un nuovo genere teatrale agli esordi, il teatro dell’assurdo, una parodia di una commedia. Protagonisti due coppie inglesi, gli Smith (Mauro Malinverno e Valentina Banci) e i Martin (Fabio Mascagni e Elisa Cecilia Langone), Mary la cameriera (Petra Valentini) ed il pompiere (Francesco Borchi). I signori Smith rappresentano un archetipo della coppia borghese, chiusi nella loro casa ed estraniati dal mondo, a differenza dei Martin che con i loro viaggi, con questo loro vivere all’esterno li ha portati a non riconoscersi in ciò che li circonda, quasi come a perdere anche l’identità. La scena iniziale ci mostra un dialogo tra i signori Smith i quali, dopo aver spensieratamente consumato il cibo destinato alla cena con gli invitati, vengono interrotti dalla cameriera Mary che annuncia i coniugi Martin, questi ultimi vittime del primo di una lunga serie di malintesi. Gli Smith escono di scena per cambiarsi d’abito, mentre Mary invita gli ospiti ad accomodarsi in salotto. La coppia di invitati entra e inizia a dialogare ridicolamente come farebbero due sconosciuti, giungendo finalmente alla conclusione di essere marito e moglie solo dopo essersi resi conto dell’esistenza di una serie di circostanze che lo provano. Non appena questa surreale discussione giunge al termine gli Smith fanno ingresso in salotto per dare accoglienza ai due ospiti. Il loro dialogare viene interrotto dal suono insistente del campanello e, dopo diversi tentativi falliti della signora Smith di accogliere l’ospite misterioso, il signor Smith riesce finalmente a scovare il nuovo arrivato: un pompiere alla ricerca disperata di un fuoco da spegnere. Ionesco crea un alone di mistero sin dall’inizio: l’ambiguità del titolo dell’opera genera una sorta di agonia che accompagna lo spettatore per tutta la durata dello spettacolo, spingendolo a cercare di capirne il significato. In questa concezione di assurdità l’importanza del ruolo della cantatrice calva risiede proprio nella sua inesistenza. L’intero spettacolo si evolve in modo sorprendente, si sviluppa in varie contraddizioni e termina all’undicesima scena con un finale singolare e strano, una parvenza di epilogo. Un’improvvisa aggressività cresce nei protagonisti, iniziano a parlare freneticamente alzando il tono di voce, enunciano concetti che diventano sempre più irrazionali e si trasformano in suoni privi di significato. Tutto ciò mette maggiormente in risalto una delle caratteristiche che si ripropone continuamente nell’intera opera: l'incomunicabilità tra le persone. Un altro elemento di sorpresa di questo epilogo viene sottolineato da una ripresa dell'azione. Infatti, dopo il clima di agitazione creato fino a questo punto dell’opera si ritorna nuovamente ad un’atmosfera calma e serena. Tutto ricomincia in quell'universo di noia, quel mondo monotono dove tutto è statico. A renderlo esplicito è la comparsa dei coniugi Martin che riproducono nuovamente la scena iniziale sostituendo il ruolo degli Smith. L’opera si compone in un unico atto suddiviso in undici scene. Anche il tempo svolge un ruolo importante: si crea un gioco di silenzi e ripetizioni che mettono in risalto il modo di vivere dei personaggi, un modo di vivere schematizzato dove ogni cosa, ogni atteggiamento, ogni elemento caratteriale è influenzato da ossessioni cresciute nel loro “io”. Tutto questo li ha portati ad essere simili a delle marionette, tanti cloni che non riflettono e per questo non riescono a formulare un ragionamento logico, involucri che si appropriano indebitamente di tutto ciò che li circonda. La loro mancanza di carattere porta questo genere di individui ad essere schiavi di tutto. L’opera è ambientata solo ed esclusivamente all’interno del salotto dei signori Smith e la scena è formata da pochi accessori; questa scelta di utilizzare un’unica scenografia incrementa maggiormente la visione limitata di questi uomini che vivono alle spalle del mondo reale, costruendosi un loro mondo che li porta a sorprendersi anche nel vedere un uomo che si ferma in mezzo alla strada per allacciarsi le scarpe. Ciò che Ionesco ha rappresentato è l’estremizzazione di ogni singola sfaccettatura del comportamento dei personaggi. Inizialmente tutto questo lascia gli spettatori un po’ confusi e sorpresi, ma dopo un’attenta riflessione ci si accorge che la rappresentazione fornitaci dall’autore non è altro che uno specchio del nostro mondo, una follia che si riscontra ogni giorno in tutti i luoghi della società ed in tutte le epoche. Un mondo dove la gente parla ma spesso senza la guida del lume della ragione. La cantatrice calva rappresenta anche un’amara parodia dell’ambiente familiare di oggi dove non sempre regna una grande armonia e una buona capacità comunicativa. I personaggi sono stati molto professionali e hanno saputo rappresentare a pieno tutte queste caratteristiche, questo denota una loro buona preparazione artistica ed attoriale. Nonostante ciò a mio parere ho trovato l’interpretazione del comandante dei pompieri un po’ incerta e imprecisa. La regia di Massimo Castri è semplice, efficace e presenta un allestimento con un impianto molto realistico. Recensione di Chiara Collina Discorsi vuoti, personaggi senza spessore e humor tipicamente inglese. Questi sono gli ingredienti principali de La cantatrice calva di Ionesco, rimessa in scena da Castri al teatro Metastasio. L'opera si apre con un dialogo tra i coniugi Smith (Valentina Banci e Mauro Malinverno). La scenografia ricrea perfettamente l'atmosfera di piccolo salotto borghese inglese, elemento su cui fin dall'inizio si punta l'attenzione dello spettatore. Il dialogo ha un carattere leggero, se non banale, basato su luoghi comuni a cui nemmeno il signor Smith partecipa se non con un ostentato sbattere del giornale. Si discute poi su un certo Billy e grazie all'omonimia di cui sembra sia affetta l'intera sua famiglia si ottiene dell'humor (rigorosamente inglese come tutto il resto). L'introduzione dei coniugi Martin (Fabio Mascagni e Elisa Cecilia Langone) non fa che aumentare il senso di disagio nello spettatore. Introdotti infatti come il signor e la signora Martin sembra in realtà che non si conoscano e il loro dialogo si conclude ciclicamente con un 'curioso' e 'non me ne ricordo'. Anche l'arrivo del capo dei vigili del fuoco (Francesco Borchi) non altera la trama, se non per la rivelazione di un rapporto con la cameriera degli Smith (Petra Valentini). Segue un momento da tipico salotto borghese (inglese) in cui a turno ogni personaggio racconta una storia che stupisce i vari personaggi, ma che il pubblico trova spesso senza senso e per questo un po' il riflesso dei personaggi stessi. Ma ecco che proprio il vigile del fuoco nomina la cantatrice calva e cala un silenzio di tomba. I personaggi sono imbarazzati e solo la signora Smith riesce a rispondere con apparente noncuranza che tale cantatrice calva 'ha sempre la stessa pettinatura'. Segue un cambio violento. I personaggi alzano sempre più la voce e sebbene sembrano voler parlare tra loro, in realtà seguono ognuno un proprio flusso di coscienza fino ad arrivare ad un vero concertato di follia sul proscenio. Buio. Luce: gli ex signori Martin replicano la scena iniziale chiamandosi loro stessi signori Smith. Non si procede verso niente, la fine è l'inizio e si sa che seguiranno le medesime conversazioni. Le storie che vengono raccontate riflettono i personaggi: sono vuote, conosciute, sempre le stesse dette e ridette, sono monotone come la loro vita. Ciò che viene presentato loro come novità altro non è che la novità del giorno prima. Ma nonostante tutto loro si sorprendono, sono increduli e il pubblico lo è più di loro. Si ride per i loro commenti e le loro azioni ma solo fino al momento in cui non ci si accorge dell'importanza che loro attribuiscono alla banalità che li circonda nelle cose che dicono e nelle regole della loro vita. Il pubblico sa che dietro alla propria risata si cela qualcosa di più, forse addirittura un po' d'amarezza, e allora la lezione pirandelliana non ci sembra più così lontana e ritorna in quest'opera come una possibile chiave di lettura. Gli attori hanno saputo portare il pubblico nel teatro dell'assurdo e lasciargli qualcosa su cui meditare, che non viene colto immediatamente durante la messa in scena, ma che torna a casa col singolo spettatore. Recensione di Clarissa del Fa Massimo Castri mette in scena la prima opera teatrale di Eugène Ionesco, La cantatrice calva del 1950. I protagonisti, gli Smith e i Martin, incarnano la tipica famiglia borghese secondo i canoni del teatro dell’assurdo: gli Smith, ad esempio, abitano in una villetta impeccabilmente ammobiliata, sono elegantemente abbigliati e trascorrono il tempo spettegolando su amici e vicini. La coppia è comodamente seduta nel proprio salotto dove tutto appare perfettamente all’inglese. La cameriera, Mary, annuncia l’arrivo dei coniugi Martin. Le coppie cominciano a dialogare, quando il campanello suona più volte. Fa il suo ingresso il capitano dei pompieri alla disperata ricerca di un fuoco da spengere. I personaggi cominciano a parlare, a raccontarsi storie divertenti per poi iniziare ad urlare frasi incomprensibili. Ad accentuare l’assurdità del momento, contribuisce la pendola che, posta su un lato quasi nascosto della scena, suona a caso rintocchi il cui numero cambia ogni volta. Lo spettacolo è diviso in undici scene e tutte si svolgono nel salotto degli Smith. La scenografia, semplice ma efficace, mostra un classico interno borghese inglese. Gli attori avevano un ottimo ritmo ed è stato facile seguire i loro discorsi, se pur privi di senso; sono riusciti perfettamente a rendere una storia assurda facile da seguire e adatta ad un qualsiasi pubblico. Il teatro dell’assurdo mette in scena l’alienazione dell’uomo, la crisi, la solitudine, l’impossibilità di comunicazione attraverso situazioni e dialoghi surreali. Si crea un effetto comico e tragico al tempo stesso. Recensione di Francesca Flori Il circolo se lo coccoli troppo diventa vizioso... È questa una delle tante frasi che riempiono d'assurdo quest'opera che si apre mostrando allo spettatore tutto il contrario di quello che in realtà è. Una tipica famiglia inglese, gli Smith, seduti nel loro tipico salotto inglese, in una tipica serata inglese, intenti a trattenere una tipica conversazione borghese che si trasformerà ben presto in una delle più atipiche situazioni. Fin dalle prime battute s'inizia infatti a percepire l'inutilità delle parole, la banalità dei discorsi che, da stupidamente logici, diventano sempre più assurdi. E il tutto s'intreccia ancor di più con l'entrata in scena di una fin troppo vispa cameriera, uno svanito pompiere e l'altra tipica coppia inglese, i Martin; una conviviale serata tra amici, che, a poco a poco, culmina in un vorticoso turbinio fatto di battute, frasi fatte, proverbi e modi di dire che si rincorrono in un continuo "botta e risposta" senza tregua e senza scopo. Nemmeno la cantatrice calva riesce a riallacciare le fila del discorso, lei che, a detta del titolo doveva essere la protagonista, con la sua assenza lascia spiazzato chi la aspetta che invece di cercarla si perde allegramente in questo incredibile gioco. Dinamicità, scambi di posto e di ruoli in un ritmo incalzante danno per un po' nuova vita alle tinte stanche del vecchio salotto inglese prima che tutto torni all'assurda normalità. Uno spettacolo per tutte le età, per chi vuole ridere senza pensare e per chi vuole pensare col riso sulle labbra.Recensione di Julia Margaret Pagliuca Una famiglia inglese con un soggiorno inglese e una vita inglese, ecco come inizia e si svolge la messa in scena de La cantatrice calva. Il tempo viene scandito dalle lancette dell'orologio e i coniugi Smith (interpretati con grande passione da Mauro Malinverno e Valentina Banci) sono troppo impegnati nelle vicende della loro piccola e monotona vita. Con ritmo molto lento si svolge la prima scena quasi a voler far stancare lo spettatore che cerca in qualche modo di dare senso a ciò che viene detto. Il pessimo umorismo inglese sarà un tema forte per tutta la rappresentazione. Tra maschere e finti sorrisi arrivano anche i coniugi Martin (Fabio Mascagni e Elisa Cecilia Langone) e la scena poi si accentra su loro due e il rapporto che avevano e che non ricordavano. Più freddi e distaccati appaiono e circondati dalla costante aura di falsità. Lo spettacolo prosegue con la presenza dei quattro personaggi che pongono le loro conversazioni, banali e senza fine, su cose accadute a loro stessi o cose che hanno visto. Traspare una finzione e un disinteresse verso la vita stessa, nelle inutilità degli avvenimenti e s’impone la necessità di trovare futili modi per passare il tempo. I gesti fortemente teatrali degli attori sottolineano questa falsità borghese assieme all'insensatezza. Le due coppie vengono interrotte nei loro inutili dialoghi dal suono del campanello che suona tre volte e poi vede l’arrivo di un altro personaggio, il capitano dei pompieri (Francesco Borchi). Parte nuovamente una discussione che verte sull’esserci o meno di una persona alla porta al suonar del campanello e risolta dal capitano che dà ragione ad entrambi i coniugi Smith che sembrano bambini intenti ad ottenere la loro vittoria. Con una successione di storie no-sense i ritmi cominciano ad incalzare. La cantatrice calva non compare mai e di lei c’è solo un piccolo accenno verso la fine della rappresentazione in cui un crescendo di parole senza emozioni e reale senso vengono dette. Lo spettacolo più che essere dominato di azioni, si svolge principalmente sui dialoghi e da un tempo non definito. Ogni personaggio non ha una sua personalità ma vive secondo le convenzioni e gli obblighi sociali, parlando senza dire nulla. Nessun senso profondo quindi si va a ricercare in tutto questo, ma semplicemente basta guardare e lasciarsi straniare dalle conversazioni che si susseguono che colpiscono e criticano l'ambiente inglese.