Alla fiera del «lifestyle» islamico Turismo e moda secondo Allah

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Corriere della Sera Giovedì 28 Novembre 2013
Gli Emirati Arabi si candidano a essere capitale dell’economia modellata sui precetti religiosi. Un giro d’affari da migliaia di miliardi di euro
Alberghi In ossequio ai precetti «halal»
un albergo deve avere una sala da preghiera, piscine separate per sessi e ristoranti con cibo secondo le regole
Medicine e cosmetici Farmaci e prodotti di bellezza non devono contenere
sostanze proibite come sangue o derivati dei prodotti del maiale
Cibo e animali I fedeli islamici possono
mangiare animali permessi e macellati
ritualmente. Anche gli altri prodotti devono rispettare le norme «halal»
Moda L’abbigliamento deve rispettare
le norme di «modestia» previste, soprattutto per le donne, dalla tradizione
islamica. Lo stesso vale per il lusso
Alla fiera del «lifestyle» islamico
Turismo e moda secondo Allah
Conferenza a Dubai sul business in armonia con il Corano
DALLA NOSTRA INVIATA
DUBAI — I dopobarba senza una
goccia di alcol e gli hotel con saloni
per la preghiera e piscine per sole
donne. I ristoranti che servono piatti in linea con i precetti religiosi, soprattutto carne macellata recitando
formule rituali e sgozzando animali
sani. Medicine e cosmetici che non
contengono sostanze proibite, dai
derivati del maiale al sangue. L’abbigliamento che coniuga la «modestia» alla moda e perfino al lusso. I
media, i divertimenti, le linee aeree,
migliaia di prodotti di largo consumo. Il business del halal, ovvero del
lecito o senza peccato in base al Corano, è ormai enorme, diffuso in
cinque continenti, in fortissima crescita. «E va ben al di là delle ali di
pollo o dei kebab venduti dai fast fo-
od per poveri immigrati a cui pensano molti in Occidente. Halal è un logo globale, sta diventando ovunque
un brand», spiega Jonathan Wilson,
inglese convertito, direttore del
Journal of Islamic Marketing. «E va
oltre la finanza islamica, nata proprio qui a Dubai nel 1975 e ora riconosciuta come parte fondamentale
dei mercati globali, anche perché limitando i rischi più di quella convenzionale ha performance migliori», dice Tirad Mahmoud, ceo della
Abu Dhabi Islamic Bank, primo istituto del settore negli Emirati. Che
aggiunge: «Un approccio unico al
halal ora non c’è, ogni segmento è a
parte e al suo interno non ha standard e certificazione comuni. Ma
questo summit, per la prima volta,
lancia una visione universale. È
l’inizio di una nuova era».
Nei due giorni del Global Islamic
Economy Summit tenuto nell’emirato dai mille grattacieli, che dopo la
forte crisi del 2009 è tornato a correre e ora spera di aggiudicarsi l’Expo
2020, tremila persone hanno discusso e tessuto contatti frenetici.
Una presenza superiore alle previsioni, con molti partecipanti arrivati
da Stati Uniti e Europa. Per tutti, il
rapporto degli organizzatori del vertice Thompson Reuters ha confermato che halal vorrà dire successo.
Già lo dice. Qualche cifra? Nel 2012
la finanza islamica aveva asset mondiali per 1.354 miliardi di dollari, il
settore cibo un fatturato di 1.088, i
viaggi e il turismo di 137, i media di
151 e i farmaci e i cosmetici di 97.
Per tutti, poi, le previsioni sono più
che positive: nel 2018 il solo alimentare è previsto salire a 1626 miliardi
La parola
Halal
‘‘
La parola halal, in arabo,
significa «lecito», «senza
peccato». Indica tutto quanto
è permesso secondo l’Islam, in
contrasto con quanto è invece
haram, cioè «vietato»,
«peccaminoso». Dunque il
concetto di halal alla fine può
comprendere la sfera del
comportamento,
dell’alimentazione o del
vestiario. Le differenti
confessioni islamiche hanno
idee non sempre coincidenti su
ciò che va considerato halal
Banche e finanza Nata a Dubai nel
1975, la «finanza islamica» vieta usura e
investimenti rischiosi: le banche «halal»
devono rispettarne le regole
ma pure il settore più piccolo, farmaci e cosmetici, balzerà a 136.
Alla base dell’espansione del halal sono i cambiamenti demografici
e sociali dei fedeli all’Islam. Se ora
sono un quinto della popolazione
mondiale, nel 2030 saranno il 27%,
maggioranza in 49 Paesi ma numerosi anche in Occidente: solo in Europa il 6% destinato a diventare l’8%
della popolazione. Ma, cosa più importante, la crescita economica nelle
nazioni con le più numerose popolazioni musulmane (a partire da India e Indonesia) è più elevata della
media mondiale. Per Goldman Sachs, negli 11 Paesi più promettenti
per il business oltre la metà degli
abitanti sono musulmani. E questo
significa classi medie in espansione,
sempre più consumatori. «Oltre a
un maggior potere d’acquisto c’è ora
tra i musulmani una consapevolezza
della propria identità. Le ricerche
indicano che il 90% dei consumatori
che seguono l’Islam acquistano tenendo conto della fede, disposti a
pagare di più per comprare halal»,
dice Shelima Jenmohamed, vice
presidente dell’agenzia pubblicitaria Ogilvy Noor, attiva in Europa e
Medio Oriente. «Come è stato per gli
afroamericani in Usa, dopo i brand
di nicchia e locali ora anche i colossi
occidentali guardano finalmente a
questo mercato, capendo che non è
più di serie B. Un esempio? Unilever
ha sviluppato uno shampoo Sunsilk
speciale per donne con l’hijab. E ha
prodotto spot innovativi con calciatrici velate, altre al lavoro. Una svolta».
Senza contare i non musulmani:
al summit molti hanno ricordato
come in Malaysia, leader nella finanza islamica, metà dei clienti delle banche «coraniche» siano cinesi.
E che per il cibo halal, in Gran Bretagna e in Usa, ci sia un boom generale
dovuto alle maggiori garanzie di ingredienti organici, controllati e non
derivati da «animali maltrattati» da
macellazioni diverse da quella islamica. In sintesi, a Dubai è emerso da
tutti grande ottimismo reso ancora
più evidente dalla crisi di gran parte
del mondo. E dai padroni di casa è
emersa invece la chiara volontà di
fare dell’emirato il «centro globale
del halal», non tanto per la produzione di beni ma per certificarli e per
creare quei legami, ad esempio tra
finanza e industria, che ancora
mancano.
Cecilia Zecchinelli
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ILLUSTRAZIONI DI FABIO SIRONI
Il reportage
Esteri 19
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