Thomas Hobbes 1588-1679 «La causa finale, il fine o il disegno degli uomini (che per natura amano la libertà e il dominio sugli altri) nell’introdurre sopra di sé le restrizioni, entro cui li vediamo vivere negli Stati, è la previsione di ottenere in tal modo la propria conservazione, e una vita più confortevole; cioè, di uscire dalla miserabile condizione di guerra che è la necessaria conseguenza (come si è mostrato) delle passioni naturali degli uomini, quando manca un potere visibile che li tenga in soggezione, e li vincoli, con la paura delle punizioni, all’adempimento dei loro patti e all’osservanza delle leggi di natura esposte nei capitoli quattordicesimo e quindicesimo.» (Hobbes Thomas 1651, Leviatano, Editori riuniti, Roma 1982,107) Un passaggio storico generale in atto che definisce l’età moderna (presentato in breve sintesi): «I grandi momenti della genesi delle scienze sociali possono essere descritti grossomodo come segue. Le scienze sociali e umane, nel senso più ampio del termine, appaiono sostituendosi al pensiero mitico o religioso nel momento in cui si cerca un’origine non più divina ma propriamente umana, un fondamento immanente dell’ordine sociale. In questo senso, la filosofia politica di Socrate, Platone e Aristotele rappresenta allo stesso tempo l’atto di nascita delle scienze sociali. Circa mille anni di cattolicesimo lasciano il problema in sospeso. Ma esso si riaffaccia, in termini chiaramente soggettivisti, con Hobbes, Locke ed i teorici del diritto naturale. Non è che si sia smesso d’esser credenti; piuttosto, si vuole pensare e inventare delle istituzioni efficaci «anche se Dio non esistesse» (Grozio; Ugo Grozio, De jure pacis ad belli 1625). Ciò che cercano i teorici del diritto naturale, fino a Rousseau, è il fondamento politico dell’ordine sociale. Le scienze sociali, nel senso stretto e moderno del termine, nascono a partire dalla fine del XVIII secolo dal riconoscimento del fatto che la società non si riduce al politico. E che la «società civile», come si incomincia allora a dire, non è sovrapponibile alla società politica. L’economia politica si costruisce a partire dal postulato che l’essenza della società civile è il bisogno, e che il suo regolatore non è lo Stato ma il mercato. La sociologia, dal canto suo fa una scommessa inversa e complementare: che la socialità non si riduce né alla socialità politica né alla socialità del bisogno.» Caillé Alain 1993 Il tramonto del politico. Crisi, rinuncia e riscatto delle scienze sociali, edizioni Dedalo Bari 1995, 6768 Sono dunque in atto due passaggi: la fondazione dello Stato e la dichiarazione di autonomia del politico; il riconoscimento che la società non si riduce al politico anche se questo, per certi versi, ne costituisce l’essenza. Il pensiero politico moderno solitamente viene fatto risalire solo al primo di questi passaggi: la ricerca dei fondamenti (naturali) del politico, l’affermazione della sua autonomia e la tesi della sovranità dello Stato. Occorre prendere atto del secondo passaggio: la non sovrapponibilità, la non riducibilità della società al politico; si tratta di un passaggio indispensabile per indicare il contesto di nascita dello Stato (quindi la sua autonomia, solitamente si parla di contratto sociale come atto di nascita dello Stato), la funzione stessa dello Stato, la costruzione dello Stato come sistema dotato di controllo (di autocontrollo) e quindi assoluto nella fondazione, non assoluto nella forma, capace di evolvere e suscettibile anche di essere abbattuto; anche in questo caso, tuttavia, la rivoluzione è solo il suggello finale che sancisce storicamente l’avvenuta autodistruzione dello Stato nella sua forma storica, ma non la distruzione o autodistruzione dello Stato in senso politico e sociale. 1. Il piano generale e gli strumenti per la sua realizzazione. «Mi ero dato alla filosofia per diletto e stavo raccogliendo i primi elementi di essa in ogni campo e li stavo esponendo a poco a poco divisi in tre sezioni, in maniera da trattare nella prima del corpo e delle sue proprietà generali; nella seconda dell’uomo e delle sue facoltà e dei suoi sentimenti, in particolare; nella terza dello Stato e dei doveri dei cittadini... Mentre completavo, ordinavo e raccoglievo lentamente e con attenzione queste cose (infatti non desidero perdermi in chiacchiere, 1 ma amo procedere con precisione matematica), accadde che, frattanto, la mia patria, qualche anno prima che scoppiasse la guerra civile, fosse in fermento per questioni riguardanti i diritti del governo e l’obbedienza dovuta dai cittadini, questioni premonitrici della guerra ormai vicina. Così accadde che quella che, per ordine, avrebbe dovuto essere l’ultima, tuttavia nel tempo e uscita per prima; tanto più che essendo fondata su principi propri, conosciuti per esperienza, non mi sembra avesse bisogno delle precedenti.» Così Thomas Hobbes nel presentare ai lettori la propria opera: De cive (1642, 1647) (Hobbes Thomas 1642,1647 De Cive, Le Monnier, Firenze 1967, 30-31) L’urgenza di affrontare questioni politiche, ormai indifferibili, spiega l’inversione dell’ordine di pubblicazione delle opere del filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679); se la logica gli suggeriva di trattare prima il corpo, poi l’uomo e infine la società civile, le tensioni e le dispute politiche accesesi in Inghilterra intorno al 1640, alla vigilia della rivoluzione, inducono Hobbes a modificare quel1’ordine: il trattato sulla società civile viene dato alle stampe nel 1642 con il titolo De cive, prima di quelli «sul corpo» e «sull’uomo», che verranno pubblicati con i titoli De corpore e De homine nel 1655 e nel 1658. 1.1. In questa nota autobiografica e storica che introduce l’opera De cive compaiono le indicazioni di metodo, il piano complessivo e i fondamenti della riflessione politica di Hobbes. Sono questi a dare alla teoria politica di Hobbes la funzione storica riconosciuta di comporre con programmatica sistematicità la teoria politica moderna. 1.1.1. La doppia urgenza di metodo, condizione per rendere corretto ed efficace lo studio e la produzione scientifica: a) l’attenzione agli eventi contemporanei (in generale all’esperienza) , b) il rispetto delle linee del rigore logico (geometrico). 1.1.2. Lo sviluppo di un piano generale. a) il piano complessivo del progetto come una “opera omnia”; b) il suo ordine naturale; c) le ragioni di una diversa sequenza e forse di una diversa priorità: le vicende storiche dell’Inghilterra, l’autonomia dei settori indagati. 1.1.3. La riflessione e la conseguente teoria politica è dotata di fondamenti propri: a) nei concetti o definizioni di partenza, b) nell’organizzazione formale del discorso (sotto il controllo formale metateorico della ragione geometrica), c) per il suo fondamento materiale: l’esperienza. «I geometri hanno assai validamente studiato il loro settore: infatti, tutto l’aiuto che è derivato alla vita umana dall’osservazione delle stelle, dalla descrizione della terra, dalla misurazione del tempo, dalle lunghe navigazioni, tutto ciò che di bello e negli edifici, di forte nelle fortezze, di meraviglioso nelle macchine; tutto ciò, in fine, che distingue il nostro tempo dalla barbarie, si può dire, che sia apporto benefico della geometria, in quanto ciò che dobbiamo alla fisica questa lo deve alla geometria. Se i filosofi morali avessero assolto il loro compito con risultati parimenti proficui, non vedo come l’umano zelo avrebbe meglio potuto contribuire alla felicità dell’uomo in questa vita.» (Hobbes, De cive, 19) 1.2. Il progetto di piano in prima presentazione: prefazione. «Lasciando ben fermo il fondamento che ho posto, dimostro, in primo luogo, che la condizione degli uomini fuori della società civile (condizione che possiamo chiamare stato di natura) altro non è se non una guerra di tutti contro tutti e che in questo stato di guerra, tutti hanno il diritto su tutto. In secondo luogo, mostro che tutti gli uomini, per una necessità insita nella loro nature hanno voluto uscire da quell’odioso e miserevole stato di natura non appena abbiano compreso tale stato di miseria: il che non poteva accadere se non, stretti patti fra di loro, ognuno avesse receduto dal proprio diritto su tutto. Inoltre mostro e spiego quale sia la natura dei patti, in che modo i diritti debbano essere trasferiti dall’uno all’altro, perché i patti siano validi; e parimenti quali diritti e a chi si debbano necessariamente conferire per stabilire la pace, cioè, quali siano i dettami della ragione, che, propriamente, possono essere chiamati leggi naturali. Tutte queste cose sono contenute in quella parte dei libro che s’intitola libertà. Dopo avere ben fissato questi concetti, mostro che cosa sia e di quante specie e come si costituisca uno Stato e la sovranità statale; quali diritti, dai singoli uomini, che si accingano a costituire uno stato, debbano essere necessariamente trasferiti alla suprema autorità, sia essa rappresentata da un solo uomo o da un gruppo di uomini, in maniera che se non sono trasferiti non è costituito nessuno 2 stato e persiste il diritto di tutti su tutto, cioè, rimane il diritto di guerra. Poi distinguo le diverse forme di Stato: monarchia, aristocrazia, democrazia; dominio paterno e dispotico; insegno in che modo si costituiscano e raffronto pregi e difetti di ognuno. Inoltre espongo quali cause distruggono gli stati e quali siano i doveri del sovrano. In fine spiego la natura della legge e della violazione della legge e distinguo la legge dal consiglio, dal patto, dal diritto, raccogliendo tutto questo sotto il titolo di Potere.» (Hobbes, De cive, 28-29) 1.2.1. Si nota da subito come il progetto di costituzione dello Stato o della realtà politica come fatto storico istituzionale ruota attorno a due componenti: 1. lo stato di natura (o la condizione naturale degli uomini, la natura umana), 2. il contratto sociale e il consenso. 2. La formazione dello Stato e la sua funzione: natura, contratto, Stato. 2.1. Tutto inizia dallo stato di natura. Da subito una avvertenza: si alternano ed equivalgono, nel testo di Hobbes, le due espressioni “stato di natura”, “indole naturale degli uomini”; nel primo caso si tende a pensare a una situazione presociale collocata cronologicamente e miticamente in una sorta di preistoria, posta alle origini dell’umanità, e sottratta ad ogni possibile verifica circa la sua esistenza e la sua forma; nel secondo caso si indica un modo di essere che caratterizza in modo costante l’umanità e definisce anzi la natura umana, considerata in una possibile astrazione dalla componente sociale e politica; descrizione della natura umana che dunque potrebbe fornire un proprio fondamento empirico. Quello stato di natura si può intendere dunque come la presentazione della natura umana; quel racconto coinvolge il lettore che vi riconosce una sorta di natura presociale: res tua agitur: «…pongo in primo luogo come principio noto a tutti per esperienza e da tutti riconosciuto che l’indole degli uomini è tale per natura che se non sono frenati dal timore di un qualche potere comune, diffidano reciprocamente l’un dell’altro e vicendevolmente si temono e che se ciascuno può a buon diritto difendersi con le proprie forze, necessariamente anche lo vuole. […] …non si può negare che lo stato di natura, prima che si costituisse la società, fosse uno stato di guerra e non di guerra semplicemente, ma di guerra di tutti contro tutti.» (Hobbes, De cive, 26-27, 38) «Infatti le leggi di natura (come la giustizia, l’equità, la modestia, la pietà, e, insomma, fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi) per se stesse, senza il terrore di un potere che ne causi l’osservanza, sono contrarie alle nostre passioni naturali, che ci inducono alla parzialità, all’orgoglio, alla vendetta e simili. E i patti, senza le spade, sono solo delle parole, prive della forza di dare agli uomini una qualsiasi sicurezza. Quindi, nonostante le leggi di natura (che ognuno osserva solo quando ne ha voglia, e può farlo con sicurezza), se non viene istituito un potere, e se tale potere non è sufficiente alla nostra sicurezza, ognuno può legittimamente ricorrere alla propria forza e alla propria astuzia per garantirsi contro gli altri.» (Hobbes, Leviatano,107) Il diritto totale di proprietà che compete a tutti in natura, per assenza di leggi, genera la guerra totale. Dallo jus in omnia, il bellum omnium contra omnes. «Prima della costituzione del potere sovrano tutti gli uomini avevano un diritto a tutte le cose, che causava necessariamente la guerra» (Hobbes Leviatano, 118) Nozioni, strumenti e note critiche sul primo elemento: lo stato di natura. 2.1.1. Lo stato di natura è luogo e nozione che ci colloca in situazione giusnaturalistica; la teoria politica che pone a postulato della costruzione dello Stato l’esistenza di diritti che per natura appartengono all’uomo e da cui occorre partire per indicare i fondamenti e le competenze e i limiti dello Stato. 2.1.2. È una situazione che, pur descritta anche con particolari, non ha alcun fondamento storico né alcun riscontro empirico in quanto per definizione esiste in forza di un’astrazione dal dato storico: si ottiene astraendo dall’uomo tutto ciò che si presume gli derivi dalla società e dalla politica. Per tratteggiare lo “stato di natura” non serve il riferimento e la descrizione di popoli dichiarati “primitivi” o “selvaggi” (rimasti allo stato di natura), poiché questa descrizione è resa possibile in tali termini solo dall’ignoranza voluta con cui li si accosta e si decide della loro diversità. Lo Stato 3 di natura diventa (è da intendere come) una regola di metodo: trova forma solo attraverso il metodo ipotetico e l’applicazione del modus tollens. Se astraiamo dal sociale togliendo leggi, costumi, consuetudini, religione, linguaggio, proprietà… allora prende forma l’uomo secondo la sola natura. Il metodo ha indirettamente l’obiettivo e la funzione di misurare il ruolo e la rilevanza di ciò che è considerato civile: patti, leggi, istituzioni. Un caso storico che può presentificare una simile situazione è quello della guerra civile ove sembra debba venir sospesa ogni situazione di legge e di diritto fino ad allora considerata fondante e garanzia di civiltà; difficile dire però, in questo caso, che si è usciti dallo stato civile e entrati (tornati) allo stato di natura. 2.1.2.1. La portata del tema delle origini per la definizione (e l’uso politico e storico) del passato, del presente e del futuro; nella riflessione di Judith Butler, applicata al tema del genere ma con valenza generale. «La storia delle origini è quindi una tattica strategica all’interno di una narrazione che, fornendo un unico resoconto autorevole di un passato irrecuperabile, dipinge la costituzione della legge come un’inevitabilità storica. Nel passato pregiuridico, alcune femministe hanno trovato tracce di un futuro utopistico, una potenziale risorsa di sovversione o insurrezione che promette di condurre alla distruzione della legge e all’insediamento di un nuovo ordine. Se il "prima" immaginario viene inevitabilmente dipinto nei termini di una narrazione preistorica che serve a legittimare lo stato attuale della legge o, in alternativa, il futuro immaginario oltre di essa, questo "prima” è tuttavia sempre già intriso delle invenzioni autogiustificatorie degli interessi presenti e futuri, siano essi femministi o antifemministi. Il postulato del "prima" nella teoria femminista diviene politicamente problematico quando costringe il futuro a materializzare una nozione idealizzata del passato o quando supporta, anche involontariamente, la reificazione di una sfera preculturale del femminile autentico. Tale ricorso a una femminilità originaria o genuina è un ideale gretto e nostalgico che respinge l’esigenza contemporanea di formulare un resoconto del genere come costruzione culturale complessa. Questo ideale tende non solo a promuovere finalità culturalmente conservative, ma anche a costituire una pratica esclusiva all’interno del femminismo, precipitando proprio il tipo di frammentazione che pretende di superare.» (Butler Judith 1990, 1999, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, Milano 2004, 56) E, più in generale, considerando la logica e l’ordine del discorso (della messa in discorso alla Foucault): «Se tale lingua è strutturata dalla legge e questa è esemplificata, anzi messa in scena, nella lingua, la descrizione, la narrazione, non solo non può sapere che cosa si trova al suo esterno (ossia prima della legge), ma la descrizione di quel "prima" sarà sempre al servizio del "dopo". In altre parole, non solo la narrazione rivendica l’accesso a un "prima" da cui è preclusa sul piano della definizione (in virtù della sua linguisticità), ma la descrizione del "prima" avviene nei termini del "dopo" e diviene pertanto un’attenuazione della legge stessa nel sito della sua assenza.» (Butler 1990, 1999, 104) 2.1.3. Allora lo “stato di natura” ospita, probabilmente, e dà corpo a qualcos’altro. Esprime “la sensazione di fragilità della nostra coesione sociale”. «La nostra vita è permeata dalla paura che questo tipo di disintegrazione dell’intero tessuto sociale possa verificarsi in qualunque momento, che un disastro naturale o tecnologico — un terremoto, un blackout elettrico o l’ormai vetusto Millenium Bug — riduca il mondo a una landa selvaggia e primitiva. Questa sensazione di fragilità della nostra coesione sociale è di per sé un sintomo sociale. Proprio quando ci si aspetterebbe uno slancio di solidarietà di fronte ai disastro, c’è la paura che esploda un egoismo sfrenato, così come è accaduto a New Orleans.» Žižek Slavoj 2007 La violenza invisibile, Rizzoli, Milano 2007, p. 97 O meglio come sembra sia accaduto a New Orleans, ad Haiti … trasformando in presunto fatto – comportamento naturale un dato sociale e politico, secondo opportunità anch’esse di tipo politico (a tale scopo le pagine 97-107 di Žižek Slavoj 2007 La violenza invisibile, Rizzoli, Milano 2007; «La disintegrazione dell’ordine sociale arrivò in una sorta di azione ritardata, come se la catastrofe naturale si ripetesse in forma di catastrofe sociale.» p.99) Di qui ha origine la situazione e la nozione di stato di natura di Hobbes: la paura che ciò che lì è descritto possa accadere. L’evento allora non è lo stato di natura, ma il sintomo di fragilità che 4 accompagna la vita nella società civile; sintomo che dovrebbe spingere alla ricerca delle cause e delle motivazioni più che alla sua estromissione (esternalizzazione) attraverso la costruzione di un mondo a parte così contrassegnato. 2.1.3.1. Non è solo segno di fragilità sociale; lo “stato si natura”, sostenuto come sede reale di un patto, seppure in uscita, è fonte di debolezza del sociale. Nello stato di natura sono in azione «meccanismi extra-sociali che giustifichino il fondamento delle norme sociali.» (Butler Judith 2004 La disfatta del genere, Meltemi, Roma 2006, 62). La ricerca di atti extrasociali da porre a fondamento del sociale, mentre sembra giustificare e rafforzare il legame sociale dandovi un fondamento stabile, e naturale, ha l’effetto di annullare l’autonomia, e soprattutto di impedire la dinamica interna che lo caratterizza come realtà di natura mobile. Come ogni fondazione ontologica, anche quella naturale o extrasociale non sorregge anzi rende marginale e apparente il divenire; divenire e molteplicità che sono invece tratti essenziali e propri della natura del sociale, della sua autonomia e della logica democratica interna. 2.1.4. L’antitesi e relazione tra jus e lex. È naturale: il diritto totale, l’uguaglianza tra tutti e la loro parità, la libertà totale, la proprietà comune; ma questo genera guerra. I tratti richiamati. Propri dello stato di natura, ricorrono nelle ideologie politiche a carattere utopistico ma, per Hobbes, si rovesciano nella massima distopia della guerra senza fine di tutti contro tutti. È sociale: il diritto limitato, la diseguaglianza, la libertà nei limiti della legge, la proprietà privata; e questo genera pace. Gli aspetti che vengono intesi sotto la voce del limite, della coercizione, dell’obbligo, del dovere si trasformano in pace e in diritti garantiti; una nuova utopia “borghese” o utopia della politica dell’ordine nel diritto e nella legge. Nel ragionamento di Hobbes è presente un movimento plurimo: [1°.] diritto e legge si oppongono come libertà e costrizione; ma [2°.] il diritto (totale, naturale) senza legge (limite e dovere) è guerra; così come accade alla natura senza società e senza Stato; [3°.] il diritto per affermare se stesso ha bisogno della legge (esiste grazie alla legge che lo enuncia e garantisce), la natura (il diritto naturale) si attua nei legami sociali (nelle sue convenzioni, tradizioni, valori…in cui prende forma e efficacia). In altra sintesi. 1. Lo stato di natura porta con sé il concetto di diritto e di diritto naturale originario e totale (nella sua più vasta espansione e accezione pura). 2. Il diritto in natura è definito in modo da rimandare per coerenza e necessità alla legge: essendo totale per tutti, crea il bellum omnium contra omnes, mette a rischio la sopravvivenza di ciascuno, vede la natura in contraddizione con se stessa. 3. L’opposizione e la relazione tra jus e lex: secondo proporzione: jus:lex=libertà:costrizione; ma lo jus senza legge è di fatto rischio e negazione del diritto; nella legge il diritto da naturale diventa positivo, contenutistico, reale e garantito. 2.2. Il contratto e la nascita della società e dello stato. Come preliminare è utile richiamare la lunga presenza e la portata storica del tema del consenso / contratto quale viene formulato nelle teorie contrattualistiche moderne. Il cammino è lungo; per estremi (alcuni): da Socrate che attraverso il dialogo cercava di costruire una polis la cui forza si fondava sul consenso condiviso (la stessa verità veniva considerata tale in quanto frutto di accordo, di omologhia, all’interno di un percorso continuo di confronto …), a Rawls che, per le società multiculturale caratterizzate da una molteplicità di posizioni e dottrine comprensive tra di loro inconciliabili, intende fondare un sistema democratico su di un consenso per intersezione; diremmo, per rendere più chiara la formula, consenso per convinzione interna o propria, consenso per adesione (e non per costrizione…). I termini del contratto e la nascita della società (unione, pactum unionis) e della sovranità (sottomissione, obbedienza, pactum subiectionis): da multitudo a civitas. «L’unico modo in cui gli uomini possono erigere un potere comune che sia in grado di difenderli dall’aggressione di stranieri e dai torti reciproci, e quindi di garantire una sicurezza tale che essi possano sostentarsi e viver bene grazie alla loro industria e ai frutti della terra, è quello di conferire tutto il loro potere e la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini, che, a maggioranza di voti, possano ridurre tutte le loro volontà ad una volontà unica. Ciò torna a dire: è che nominino un 5 uomo o un’assemblea, che sostenga la loro persona; e che ciascuno di essi riconosca come proprie (e se ne riconosca come autore) tutte le azioni che colui che in tal modo sostiene la loro persona compirà o farà compiere, in quelle cose che riguardano la pace e la sicurezza comuni; e che tutti sottomettano, a questo riguardo, le loro volontà alla sua volontà e i loro giudizi al suo giudizio. Questo è più del consenso o della concordia: si tratta di una unità reale di tutti loro in una sola e identica persona, costituita mediante il patto di ogni individuo con ciascuno degli altri; come se ognuno di essi avesse detto all’altro: io autorizzo, e cedo il mio diritto di governarmi a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a condizione che tu ceda a lui il tuo diritto, e autorizzi allo stesso modo tutte le sue azioni. Ciò fatto, la moltitudine così unita in un’unica persona è detta Stato, in latino civitas.» (Hobbes Leviatano, 110) 2.2.1. Lo stato di natura è luogo del diritto (totale e belligerante) ma è anche, per contrasto, luogo di leggi naturali che in sequenza logica (con rigore geometrico) Hobbes ricava dai tratti stessi che definiscono lo stato di natura; si tratta di un processo di deduzione: «… i precedenti precetti della legge di natura sono derivati artificialmente da un unico principio che ci spinge alla conservazione e all’incolumità…» e parla di «deduzione di tali leggi». (Hobbes, De cive, 47) Natura è diritto totale e perciò anche autoconservazione. Poiché la sopravvivenza è minacciata dalla guerra infinita di tutti contro tutti, per uscire dalla contraddizione in cui la natura stessa ci colloca donandoci la vita definita da diritti che la mettono a sicuro rischio, diventa legge di natura: 1. cercare la pace, 2. stipulare patti, 3. rispettare i patti stipulati. Leggi che si impongono per evitare la contraddizione, quindi in nome di un rigore logico. La natura che concede tutto a tutti non può con ciò mettere a rischio totale la vita; stipulare patti esprime quella libertà che uno Stato esterno al patto negherebbe mentre sorge per garantirla; rispettare i patti è coerenza «chi stringe i patti con una persona, cui non ritiene di essere obbligato a mantenere la parola data, pensa nello stesso tempo che il suo impegno sia valido e non valido insieme, il che è contraddittorio.» (Hobbes De cive, 45) 2.2.2. Le caratteristiche della legge naturale: utilitaristica e formale. 2.2.2.1. È l’utilità naturale della sopravvivenza a generarla; la legge quindi ha un’origine interna alla natura e non rimanda a entità sovrannaturali. 2.2.2.2. La legge naturale indica una direzione ma non pone vincoli di contenuto, è formale; se così non fosse o dovrebbe presupporre una capacità legislativa che la precede; o riconsegnerebbe l’umanità al bellum omnium contra omnes. Dunque i termini di Hobbes per una ipotetica forma contrattuale: «… come se ognuno di essi avesse detto all’altro: io autorizzo, e cedo il mio diritto di governarmi a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a condizione che tu ceda a lui il tuo diritto, e autorizzi allo stesso modo tutte le sue azioni.» La rivoluzione o il cambiamento determinati dalla natura formale del patto è di grande rilevanza: si tratta del passaggio dal torto giuridico all’assurdo logico; il diritto trova la propria coerenza se riscritto nelle forme della logica formale e in tal senso prende la strada per costituire la forma del diritto puro [vedi Kelsen]; solo così guadagna la propria autonomia e sovranità, contemporaneamente con il proprio rigore di formulazione e di controllo. Solo così, di conseguenza, lo Stato di diritto rivendica per sé i tratti dello Stato assoluto senza avere nulla a che fare con l’assolutismo politico. Osserva Norberto Bobbio: « questo parallelo fra torto in diritto e assurdità in logica è una conseguenza, sulla quale riteniamo utile richiamare l’attenzione, della concezione puramente formale, che Hobbes ha della giustizia (concezione legalistica, della giustizia)…. Per Hobbes la giustizia è la conformità a ciò che è stabilito (non importa se sia stabilito con patto o con legge), onde si deve dire non già che un patto o una legge sono giusti, in quanto impongono questo comportamento piuttosto che quello, ma che è giusto ciò che è conforme al patto o alla legge. Questa concezione puramente formale della giustizia è, da un lato, in rapporto diretto con la considerazione della pace (o dell’ordine) come fine supremo del diritto — affinché vi sia la pace è sufficiente che le leggi siano rispettate qualunque esse siano — e dall’altro porta ad assimilare, come fa Hobbes in questo paragrafo, l’ingiustizia, intesa non come azione in contrasto ad un bene ideale, ma come incoerenza, alla contraddizione logica, cioè, all’asserzione in contrasto con le 6 premesse stabilite.» (Bobbio Norberto, in De Cive, p. 46 n.8) Una diversa impostazione porterebbe a criteri di verità e giustizia collocati all’esterno del sociale e della storia e non si sa bene dove, se non in luoghi pretestuosamente creati ad hoc e spacciati opportunamente come trascendenti o addirittura divini. (su ciò vedi le osservazioni di Spinoza). La conseguenza logica di una simile impostazione, sottolineata nella riflessione di Bobbio e che conduce al formalismo giuridico e alla teoria del diritto puro, è appunto la coincidenza torto in diritto e assurdità in sede logica. Si tratta di un proposito esplicito di metodo: Hobbes proclama nella lettera di dedica del De cive: «non desidero perdermi in chiacchiere, ma amo procedere con precisione matematica (non enim dissero, sed computo)» e dunque ora il parallelo tra diritto e logica, va inteso non tanto come trasposizione analogica ma come traduzione e riscrittura del diritto dalla sede di una generica antropologia, alla sede del diritto “puro”. «V’è una certa somiglianza fra ciò che nella vita comune si chiama torto e ciò che nella logica scolastica si suole chiamare assurdo.» (Hobbes, De cive, 46) 2.2.2.3. Sulla stessa linea il bilancio espresso da Caillé: «…Hobbes, che spiega come ogni potere sia, in un certo senso, una benedizione. Come gli autori antichi ed i popoli di ovunque e di sempre avevano ed hanno ben capito, esiste una legittimità intrinseca della forza superiore, che la rende immancabilmente «giusta» per il solo fatto che, per ipotesi, essa è la sola capace di metter fine alla lotta delle forze e delle violenze inferiori. Non appena si esce dal campo delle società selvagge, premunite contro lo Stato dalla reciprocità della violenza, una società esiste solo in quanto unificata da una forza che ha saputo imporsi contro le forze rivali sul campo e che ricava inizialmente dal suo solo trionfo la sua prima legittimità. Il politico si legittima con la sua capacità di far nascere un ordine della politica. Per ipotesi, si può parlare di società francese, inglese, americana e così via solo perché una forza superiore delimita uno spazio da cui la guerra è esclusa e dove le liti tra gli uomini si regolano di preferenza pacificamente. È stato possibile parlare di società russa (o sovietica), e di società jugoslava finché la guerra interna non le ha fatte esplodere. Il concetto di politico corrisponde dunque alla scelta autoreferenziale di una società da parte di se stessa.» Caillé Alain 1993 Il tramonto del politico. Crisi, rinuncia e riscatto delle scienze sociali, edizioni Dedalo Bari 1995, 274 2.2.3. Nella teoria di Hobbes la fusione delle due tradizioni che parevano e vengono ancora (spesso) intese come tra loro opposte: giusnaturalismo e contrattualismo. La prima tradizione indica il fondamento dello Stato nei diritti naturali, la seconda in un patto, contratto sociale. In Hobbes la tradizione politica e giuridica del contrattualismo trova un fondamento naturale e illustra il concetto stesso di stato di natura. 2.2.3.1. Il venire a patti e il rispettarli è legge naturale (un contrattualismo su basi giusnaturalistiche): la tendenza naturale alla sopravvivenza impone come legge naturale di scendere a patti e di rispettarli (stipulare un patto con l’intenzione di non rispettarlo è giuridicamente, e moralmente, non stipularlo). Il contrattualismo risulta rafforzato dalla sua collocazione in natura: è legge di natura. 2.2.3.2. Collocato in natura (nello stato di natura o come indole urgenza naturale degli uomini) il contratto acquista i propri tratti formali: non pone vincoli legislativi contenutistici al destinatario del contratto. In questa collocazione il contratto, e la tradizione contrattualistica, ne risulta (apparentemente) indebolita: quel contratto non pone condizioni, è svuotato dai presupposti di diritto naturale che fondano e limitano lo Stato, è un mandato senza vincoli di contenuto, non indica mezzi ma impone solo il fine: la pace. Ognuno infatti rinuncia non a decidere su ambiti specifici, ma alla propria volontà. Il contratto non equivale ad un trasferimento di diritti (di cui il contraente potrebbe chiedere conto) ma ad una rinuncia totale fino a determinare una coincidenza tra la volontà individuale dell’uomo nella società e la volontà dello Stato. Lo Stato è ciò che resta; resta nella potenza della natura, nella situazione della “barbarie”; è monstrum, Leviatano. Lo Stato è l’unico che resta nella potenza della natura, nella pienezza del diritto, destinatario dunque della identificazione del singolo con i propri diritti che da naturali non possono ora che essere politici (emanati e garantiti). 7 2.2.3.3. L’assenza di vincoli e di condizioni e la natura formale del patto sembrano svuotare la tradizione contrattualistica e trasforma di fatto quel pactum unionis in pactum subjectionis. Ma il fine per cui il patto sorge è molto più vincolante di qualsiasi contenuto e mette lo Stato nelle condizioni e nel compito (senza alibi) di perseguirlo: garantire la pace, in tutte le direzioni (interne e esterne) e per tutti. 2.2.4. la natura formale del patto si impone dunque per logica geometrica (o quasi): 2.2.4.1. per logica conseguenza: in natura e prima del contratto non vi è alcuna autorità che possa porre dei vincoli per legiferare; ne deriverebbe un rimando all’infinito nella ricerca del fondamento politico e quindi un’assenza di fondamento. 2.2.4.2. per opportunità politica (strategica generale, storica particolare): la natura formale del patto non vincola lo Stato ad alcun patto o limite, equivale alla nascita dello stato assoluto, l’unico considerato da Hobbes, nelle condizioni di garantire ciò per cui lo Stato nasce. Stato che è assoluto nel potere, indipendentemente dalla forma che le sue istituzioni possono storicamente assumere (monarchia o democrazia; un monarca o un’assemblea). 2.2.5. per concludere: il bivio della fondazione dello Stato moderno, natura e contratto. Nella riflessione di Hobbes sono in azione due direzioni fondative della politica: quella naturalistica, che parte e si fonda sullo stato di natura, sulla natura umana; quella del contratto o patto di società che nella rinuncia di tutti al potere individuale fa nascere il potere politico assoluto. Si tratta di due postulati, due ipotesi o due situazioni immaginate o due “esperienze di pensiero”. «Che la descrizione dello stato di natura sia una vera e propria esperienza di pensiero è confermato dal fatto che gli aspetti che ho collocato all’insegna del misconoscimento originario non risultano dalla osservazione di uno stato di fatto, ma dalla immaginazione di ciò che la vita umana sarebbe senza l’istituzione di un governo» (Ricoeur Paul 2004 Percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina, Milano 2005, 187) (infatti: non sarebbe possibile pronunciare la parola “guerra” , «prelevata all’esperienza storica» per parlare dello stato di natura; di passioni o sentimenti propri di un’etica che presuppone legami sociali). Il quesito di nuovo, in altri termini, appena leggermente diversi: all’origine del vivere sociale in forma politica si pone la natura o un contratto (un patto sociale); oppure occorre far dipendere il sociale dalla natura e il politico dal contratto? La riflessione di Hobbes mostra come si tratti però di avvii non incompatibili tra loro: il motivo della paura della morte violenta basta, tramite il calcolo, a sostenere l’intero edificio dei contratti e delle promesse che sembrano ricostituire le condizioni di un bene comune? «Questo dubbio trasforma la sfida di Hobbes in una sfida doppia, ossia la sfida della premessa naturalistica, e la sfida di un ordine contrattuale, di carattere paraetico.» (Ricoeur 2004,193) 2.4.5.1. Su tutta la teorie, e in particolare sul concetto di stato di natura, abitato da soggetti che sono già in grado di intendere e volere molto giuridicamente, e sul concetto di contratto, che si colloca in situazione pre-sociale e pre-politica e da cui viene fatta nascere la politica come evento naturale e sociale vi è il sospetto di una circolarità viziosa. Lo Stato già esistente riconosce e costituisce (fonda) quei soggetti in natura che riconoscono e costituiscono (fondano) lo Stato con un atto di riconoscimento e di contratto. Allo scopo è efficace un’osservazione di Judith Butler: «La supposizione prevalente dell’integrità ontologica del soggetto prima della legge potrebbe essere intesa come il residuo contemporaneo dell’ipotesi dello stato di natura, la favola fondazionalista costitutiva delle strutture giuridiche del liberalismo classico. L’invocazione performativa di un "prima" astorico diviene la premessa fondazionale capace di garantire un’ontologia presociale delle persone che acconsentono liberamente a essere governate e, dunque, costituiscono la legittimità del contratto sociale.» (Butler Judith 1990, 1999, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, Milano 2004, 5) Con l’invenzione dello stato di natura, oltre a nascondere il fatto performativo politico e sociale del soggetto, lo Stato procura a se stesso una fondazione ontologico-naturale e l’evento - atto performativo originario del politico: il contratto di società. 8 3. la tesi di uno stato “assoluto” «Questa è la generazione del grande Leviatano, o piuttosto (per parlare con maggiore reverenza), di quel Dio mortale, cui dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti per questa autorità, che gli è stata data da ogni singolo uomo dello Stato, gli è conferito l’uso di tanto potere e di tanta forza, da essere in grado, con il terrore da essi suscitato, di conformare le volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni. In lui risiede l’essenza dello Stato, che, per definirlo, è una persona unica, dei cui atti si sono fatti individualmente autori, mediante patti reciproci, una grande moltitudine di uomini alfine che possa usare tutta la loro forza e tutti i loro mezzi come riterrà opportuno, in vista della loro pace e della loro difesa comune. E chi sostiene questa persona è detto sovrano; e si dice che detiene il potere sovrano. Tutti gli altri sono i suoi sudditi.» (Hobbes Leviatano, 110-111) I tratti e i processi costituenti la teoria dello Stato moderno come Stato assoluto. 3.1. Un patto di società è un patto di sottomissione all’autorità politica, dal dominio, controllo e garanzia della quale è impossibile, e sarebbe disastroso, uscire. «Si dice che uno Stato è istituito, quando degli uomini in moltitudine si accordano e concludono il patto, l’uno con l’altro, che, chiunque sia l’uomo o l’assemblea di uomini cui sarà dato dalla maggioranza il diritto a rappresentare la persona di tutti (cioè di essere il loro rappresentante), ciascuno di loro, sia chi ha votato a favore, sia chi ha votato contro, autorizzerà tutte le azioni e i giudizi di quell’uomo o assemblea di uomini, esattamente come se fossero i suoi, al fine di vivere in pace ed essere protetto nei confronti degli altri. Da questa istituzione dello Stato derivano tutti i diritti e le facoltà di colui o coloro cui il potere sovrano è stato conferito dal consenso del popolo riunito in assemblea.» (Hobbes Leviatano, 112) E si tratta di un patto assolutamente originario, istituzionalizza il sociale come luogo del pattuire; nessun patto precedente vincola il patto di unione e sottomissione che costituisce il sociale, si collocherebbe in un mitico e inesistente fuori-sociale; in quanto assolutamente primo, costituente il costituire, non può essere solvibile, si confermerebbe nel suo (falso) sciogliersi. 3.2. Il patto sociale e politico è irrevocabile; non è possibile recedere dal patto. Lo Stato, il sovrano, la sovranità sono esterni al patto (è assoluto, ab solutum, sciolto dal patto, non è contrattabile). «… poiché il diritto di sostenere la persona di tutti è conferito al sovrano non mediante un patto concluso fra di lui e tutti i sudditi, ma solo mediante un patto concluso fra questi ultimi, non può aver luogo alcuna infrazione del patto da parte del sovrano, e di conseguenza nessun suddito può essere liberato della propria soggezione, con il pretesto dell’inadempienza. È chiaro che chi è fatto sovrano non conclude, in precedenza, alcun patto con i sudditi, perché dovrebbe concluderlo con l’intera moltitudine come parte del patto, oppure dovrebbe concludere un patto distinto con ciascuno degli individui. Concluderlo con tutti come una parte, non è possibile, perché essi non costituiscono ancora una persona unica; e se conclude tanti patti distinti, quanti sono gli uomini, questi parti, dopo che diviene sovrano, sono nulli… » (Hobbes Leviatano, 114) 3.3. Gli aspetti e i processi (innovativi e problematici) dello Stato assoluto derivati dalla sua doppia e parallela origine, operante in contemporanea, senza che una radice annulli l’altra: lo stato di natura, il contratto. 3.3.1. Lo Stato garantisce e conserva il passaggio dalla multitudo alla civitas, paradossalmente, in quanto resta, lui unico, nello stato di natura, nella “barbarie”. In forza della rinuncia di tutti, come da contratto, resta unico nella pienezza del diritto e della forza; è senza limiti giuridici perché è la fonte unica del diritto e, sempre in forza del patto sociale di rinuncia e quindi di sottomissione, ha il monopolio della violenza, mezzo indispensabile per garantire la pace e l’ordine (assume su di sé il male redimendolo). Si tratta di una rinuncia e di una concentrazione che ha l’effetto di una trasformazione sostanziale del diritto e della violenza finora associati nell’esito di guerra. «Hobbes concentra il male (il Leviatano), la forza gratuita allo stato puro, nelle mani del governo; così 9 facendo le fa subire una “transustanziazione”, da elemento di guerra (bellum omnium contra omnes quale era in natura) diventa elemento di ordine oltre che fonte di sovranità, pone il politico al di fuori di ogni canone morale tradizionale» (Revelli Marco 2003 La politica perduta, Einaudi, Torino.) e diventa principio di pace. 3.3.1.1. Un dubbio e una domanda. La logica del processo dimostrativo costruito da Hobbes per affermare la natura assoluta dello Stato sembra seguire un percorso circolare che indebolisce l’intero procedimento. La natura assoluta dello Stato e il monopolio del potere che gli viene riservato trova la propria legittimazione nei tratti che contraddistinguono lo stato di natura: bellum omnium contra omnes; tratti che, in assenza di verifica empirica, si presentano come a priori costruiti ad hoc. Per uscire radicalmente dall’incubo dello stato di natura si rende necessario uno Stato in cui il potere sia unico, unificato e assoluto. Questa spiegazione sembra avere un punto debole, fa sorgere il dubbio che ci si trovi di fronte a un usteron proteron. Si costruisce una premessa funzionale alla conclusione cui si vuole arrivare: il potere assoluto dello Stato è giustificato dalla guerra totale che contrassegna lo stato di natura. Nel ragionamento di Hobbes, la situazione di guerra totale, da ipotetico esito derivante da una assenza dello Stato, diventa la situazione naturale in cui si trova l’umanità per natura; l’esito è posto come inizio e causa. Inoltre, vista il carattere ipotetico dello stato di natura, non vengono prese in considerazione altre ipotesi edeniche, anch’esse certamente mitiche, dello stato di natura, come quella biblica del paradiso terrestre o sostenute (forse altrettanto funzionalmente) da altri autori. Sembra pesare sui momenti dell’impianto dimostrativo l’urgenza storica cui Hobbes è di fronte: la guerra civile e l’emergere in essa di una umanità “ferina”, quindi la necessità giuridica di fondare l’autonomia dello Stato fonte unica di diritto e di diritto positivo. 3.3.2. Il paradigma di immunizzazione. Lo Stato assoluto e il “paradigma della immunizzazione” come strumento di costruzione della sovranità dello Stato nell’età moderna. 3.3.2.1. Il tema è proposto dallo studio di Esposito Roberto 2004 Bìos. Politica e filosofia, Einaudi, Torino. Nel corso dell’età contemporanea hanno assunto la forma di teoria schemi e processi di costruzione di modelli politici; già operanti e diffusi nella tradizione del pensiero politico ora resi espliciti nella loro funzione costituente. Il riferimento va alla «produttività euristica di modelli esegetici di uso più consolidato come quelli di ‘razionalizzazione’ (Weber), di ‘secolarizzazione’ (Löwith) o di ‘legittimazione’ (Blumenberg). Ma mi pare che tutti e tre possano trarre vantaggio dalla contaminazione con una categoria esplicativa al contempo più complessa e più profonda che ne costituisce il presupposto retrostante.» (Esposito 2004, 47-48) Si tratta del «paradigma di immunizzazione»: il tema o lo schema dell’immunità, proprio dei processi (biologici) di immunizzazione degli organismi, viene utilizzato e presentato come procedura di costruzione, difesa e salvezza di sistemi politici sociali. Il primo a costruire la sovranità dello stato attraverso il ricorso alla dinamica dei processi di immunizzazione è proprio Hobbes. «… un suo prototipo va sicuramente rintracciato nella filosofia politica di Hobbes: allorché egli non soltanto pone al centro della propria prospettiva il problema della conservatio vitae, ma la condiziona alla subordinazione ad un potere costrittivo ad essa esterno, quale è quello sovrano, il principio immunitario è già virtualmente fondato.» (Esposito 2004, 42). Pur con la cautela di un supplemento interpretativo, è Hobbes che inaugura una tradizione che prende progressivamente la consistenza di una teoria in autori come Hegel («È noto che egli è il primo ad assumere il negativo non come semplice prezzo — il residuo non voluto, lo scotto necessario — da pagare all’effettuazione del positivo, ma piuttosto come il suo stesso motore, il carburante che ne consente il funzionamento.» (Esposito 2004, 43), Nietzsche («… si tratta … dell’interpretazione dell’intera civilizzazione in termini di autoconservazione immunitaria.» (Esposito 2004, 43). 3.3.2.2. la categoria di immunità è disponibile ad un trasferimento analogico, tuttavia non solo per metafora, anche per diretta definizione e come mezzo costitutivo, costituente, di costruzione politica. Il tema compare nell’opera di Durkheim Émile 1895 Le regole del metodo sociologico, (Einaudi, Torino 2008) nel capitolo: “Regole relative alla distinzione tra normale e patologico” sul 10 tema dell’utilità e del loro indispensabile legame. «…Emile Durkheim, considerando ciò che appare patologico in ambito sociale una polarità non solo ineliminabile, anche funzionale, del comportamento normale, si richiama proprio all’immunologia: «Il vaiolo, che inoculiamo col vaccino, è un vera malattia che ci diamo volontariamente e, tuttavia, esso accresce le nostre probabilità di sopravvivere. Ci sono, forse, molti altri casi in cui il turbamento causato dalla malattia è insignificante a confronto delle immunità che conferisce». (Esposito 2004, 45) Fuor di metafora (e grazie alla metafora), la violenza che costituisce e accompagna la nascita dello Stato è il vaccino che l’umanità si inietta (attraverso il contratto) per uscire dallo stato di natura reso precario e sempre sull’orlo dell’autodistruzione dalla violenza che deriva dallo ius in omnia di ciascuno. La violenza è presente nella società per la presenza e il dominio dello Stato, ma da malattia distruttiva è diventata farmaco e sistema immunitario che, liberando i cittadini da essa (impedendone con la forza, con la violenza, il farvi ricorso da parte dei cittadini), conserva la sicurezza e la pace. In altri termini (e ripetendo) Hobbes rappresenta la fondazione dello Stato attraverso un processo di immunizzazione. Nel contratto di rinuncia e di sottomissione che dà vita al legame sociale grazie alla presenza dello Stato, gli uomini di fatto trasferiscono allo Stato, al sovrano, la “malattia” che naturalmente li caratterizza, cioè lo ius in omnia, quel diritto totale che li definisce naturalmente ma che, contemporaneamente, mette a rischio sicuro la vita di tutti e li lascia in un bellum omnium contra omnes che esprime la situazione di contraddizione irrisolvibile in cui si trovano. Lo Stato che si insedia nel corpo sociale con quella “malattia”, con lo ius in omnia, provoca un processo di immunizzazione sociale, toglie la guerra che li minaccia con lo stesso potere da cui quella guerra, in natura, era generata, cioè con la violenza della emanazione del diritto da parte di un potere assoluto. Si tratta infatti di uno Stato assoluto e «solo un sovrano assoluto può liberare gli individui dalla soggezione ad altri poteri dispotici.» (Esposito 2004, 58) «L’iniziale conato autoconservativo (conatus sese praeservandi) è, infatti, destinato al fallimento dall’effetto combinato con l’altro impulso naturale che accompagna, e appunto contraddice, il primo — vale a dire quello dell’inesauribile desiderio acquisitivo su tutto che condanna gli uomini al conflitto generalizzato. Benché tesa ad autoperpetuarsi, insomma, la vita non è in grado di farlo autonomamente. È anzi sottoposta ad un potente movimento controfattuale che, quanto più spinge in direzione autoconservativa, quanto maggiori mezzi difensivi ed offensivi mobilita a questo fine, tanto più rischia di ottenere l’effetto contrario, vista la sostanziale eguaglianza degli uomini, tutti in grado di uccidere ogni altro e dunque, per lo stesso motivo, tutti soggetti ad essere uccisi: «Perciò, finché dura questo diritto naturale di ogni uomo ad ogni cosa, non ci può essere sicurezza per alcuno (per quanto forte o saggio egli sia) di vivere per tutto il tempo che la natura ordinariamente concede agli uomini di vivere» (Hobbes, Leviatano). È qui che scatta il meccanismo immunitario. Se abbandonata alle sue potenze interne, alle sue dinamiche naturali, la vita umana è destinata ad autodistruggersi perché porta dentro di sé qualcosa che la mette ineluttabilmente in contraddizione con se stessa. Perciò, per potersi salvare, ha bisogno di uscire da sé e costituire un punto di trascendenza da cui ricevere ordine e riparo. È in tale scarto, o raddoppiamento, della vita rispetto a se stessa che va collocato il passaggio dalla natura all’artificio.» (Esposito 2004, 56) 3.3.2.3. L’artificio della sovranità. Si tratta di un secondo, e più fondamentale (naturale, biologico, fisico, viscerale…), sistema immunitario che, indirettamente segnala la debolezza di quel sistema immunitario più specifico e proprio dell’umanità, più umano, costituito dalla ragione; quest’ultima non basta a garantire il sistema; gli uomini sono razionali, ma poco ragionevoli (direbbe Rawls). «Per essere conservata, la vita deve rinunciare a qualcosa che fa parte integrante, e anzi costituisce il vettore prevalente, della propria potenza espansiva — vale a dire a quella volontà acquisitiva su ogni cosa che la mette a rischio di una ritorsione mortale. È vero, infatti, che ogni organismo vitale ha al proprio interno una sorta di sistema immunitario naturale — la ragione — che lo difende dall’attacco di agenti esterni. Ma, una volta accertata la sua insufficienza, e anzi il suo effetto controproducente, esso va sostituito da un’immunità indotta, vale a dire artificiale, che insieme compie e nega la prima: non solo perché situata fuori dal corpo individuale, ma anche perché deputata al contenimento forzato della sua intensità primigenia. Questo secondo dispositivo 11 immunitario — anzi metaimmunitario, destinato a proteggere da una protezione inefficace e addirittura rischiosa — è appunto la sovranità.» (Esposito 2004, 57) 3.3.2.4. È attraverso la immunitas dunque che lo stato ferino in cui si trovano gli uomini in natura cede il posto alla communitas. Contemporaneamente la natura del politico (la sua complessità e doppiezza, o meglio ambivalenza) è evidenziata proprio dal paradigma di immunizzazione. Occorre prendere atto ancora una volta della natura delle teorie politiche. Sappiamo che non è mai esistito uno “stato di natura” (se sì, non è dato conoscerlo se non cadendo in palese contraddizione); è controversa la trasformazione di quell’ipotetico stato di natura in “indole naturale degli uomini” (violenti o solidali?); non vi è stato nessun contratto stipulato tra gli uomini (quale sarebbe il testo del contratto stipulato, quando e da chi viene sottoscritto?); quindi non c’è quell’atto che trasferendo la violenza individuale allo Stato attiverebbe quel processo immunitario su cui si fonda la sovranità. A cosa serve dunque proporre e discutere di queste situazioni? Si tratta di modelli che hanno la funzione di mettere allo scoperto la natura del politico, consentirne la lettura, decostruirlo allo scopo di costituirlo rispettandone la complessità e la funzione, senza quelle semplificazioni che ne indeboliscono o distruggono la funzione civile e sociale. Ipotesi e concetti la cui validità non si lega ad una constatazione storico empirica di esistenza, ma alla funzione costituente per cui sono sorti come postulati di sistema. Ora, le tesi di Hobbes e la loro lettura svolta a partire da un “paradigma immunitario” mettono in evidenza e pongono a tema nodi centrali in forma di irrisolte e irrisolvibili (teoriche e necessarie, non contraddittorie ma fonte di riflessione, scoperte e problemi) ambivalenze. Alcune. 3.3.2.4.1. Il legame tra nòmos e bìos, tra politica e biopolitica tratto specifico, per il modo in cui è posto, della moderna concezione dello Stato e problema tuttora centrale, grave, irrisolto. (vedi Foucault). «Perché la vita possa conservarsi, e anche svilupparsi, insomma, essa deve venire ordinata da procedure artificiali in grado di sottrarla ai suoi rischi naturali. Qui passa la doppia linea che distingue la politica moderna, da un lato, da ciò che la precede e, dall’altro, dalla condizione che la segue. … a differenza di quanto accadrà in una fase che possiamo per ora chiamare seconda modernità, il rapporto tra politica e vita passa per il problema dell’ordine e delle categorie storicoconcettuali — sovranità, proprietà, libertà, potere — in esso innervate.» (Esposito 2004, 53). «Ma legare il soggetto moderno all’orizzonte dell’assicurazione immunitaria vuol dire riconoscere l’aporia in cui la sua esperienza resta presa: quella di cercare il riparo della vita nelle stesse potenze che ne interdicono lo sviluppo.» (Esposito 2004, 54) E nelle quali storicamente la biopolitica si trasforma (in forma estremamente graduate, imprevedibili ma terribili e inquietanti) in tanatologia. 3.3.2.4.2. L’irrisolto legame tra immunitas con societas e communitas. La società è costituita da coloro che hanno acquisito l’immunità; la società diventa così comunità. Quei meccanismi di immunità diventano barriere protettive identitarie e anche meccanismi di distanza e di esclusione, ma in due direzioni: 1. dentro e in coincidenza con lo Stato, 2. contro e in opposizione allo Stato. Accade in particolare di fronte alle ricerche identitaria di riflesso o negative, costruite cioè solo o per lo più per reazione e contrasto, per opposizione e contraddizione. «… così la richiesta di immunizzazione identitaria delle piccole patrie non è che il controeffetto, o la crisi di rigetto allergico, della contaminazione globale.» (Esposito 2004, 46) «Si è detto, sul piano generale, che l’immunitas, proteggendo colui che ne è portatore dal contatto rischioso con coloro che ne sono privi, ripristina i confini del ‘proprio’ messi a repentaglio dal ‘comune’.» (Esposito 2004, 47) «Si è già visto come il significato più incisivo dell’immunitas si inscriva nel rovescio logico della communitas — immune è il ‘non essere’ o il ‘non avere’ nulla in comune. […] Ciò che va immunizzata, insomma, è la comunità stessa in una forma che insieme la conserva e la nega — o meglio la conserva attraverso la negazione del suo originario orizzonte di senso. Da questo punto di vista si potrebbe arrivare a dire che l’immunizzazione, più che un apparato difensivo sovrapposto alla comunità, sia un suo ingranaggio interno.» (Esposito 2004, 48) Insomma: da una parte l’immunitas come strumento di costruzione dello Stato, del patto di società e di unità civile, del patto stesso di umanità razionale e resa ragionevole, mette a rischio le pretese identitarie delle 12 comunità, le spinte identitarie di gruppi e gruppuscoli fondate su un’infinità di pretesti tutti a rischio di società (fonte di bellum omnium contra omnes): religione, lingua, etnia, diritto di nascita, luogo di nascita e abitazione, ideologia…; dall’altra ogni comunità può rivendicare per sé quello stesso principio di immunità che ha dato origine alla società, allo Stato, per costituirsi come Stato in esclusione violenta di chi non vi fa parte, per alimentare, soprattutto oggi, la logica della tribù dentro il contesto dilatato e avvolgente, vissuto e temuto come inesorabile, della globalizzazione. 3.3.3. Meraviglia e spavento: il “monstrum” del potere politico, del potere assoluto, il Leviatano. Il patto che istituisce la società in forza di una rinuncia di tutti allo ius in omnia, a favore di un sovrano unico, lascia il potere, e solo il sovrano, nella situazione dello stato di natura: egli possiede lo ius totale senza lex, se non quella da lui stesso emanata; resta nella condizione ferina in cui si trovavano gli uomini in natura e per il potere ora accumulato, in quanto unico detentore dello ius, è monstrum (nel senso ambiguo della parola, maestoso e terrificante), Leviatano, Dio terreno. La conseguenza raggiunta è la pace, a risolvere il bellum omnium contra omnes. Ma tale esito non è stato raggiunto attraverso l’eliminazione della violenza, ma attraverso la sua assunzione, a scopi immunitari e attraverso il suo trasferimento al principio della società. L’esito, e la situazione, emergono nella loro ambivalenza. 3.3.3.1. È proprio questa violenza e suprema potenza che permette al sovrano di imporre il rispetto della legge e fornire la garanzia dei diritti. L’immunità dalla violenza interna che il corpo sociale acquista attraverso l’assunzione della forza nel potere coercitivo dello Stato la trasferisce ma non la elimina, la trasforma in strumento di ordine e di pace, lega, controlla e conserva vita e legge, bìos e nòmos, vita e politica, libertà e regole… Ribadendo: « Anziché sovrapposti — o giustapposti — in una forma esterna che sottomette l’uno al dominio dell’altro, nel paradigma immunitario, bios e nòmos, vita e politica risultano i due costituenti di un unico, inscindibile, insieme che assume senso soltanto a partire dal loro rapporto. L’immunità non è solo la relazione che connette la vita al potere, ma il potere di conservazione della vita.» (Esposito 2004, 41) 3.3.3.2. Tuttavia, emerge una “aporia”. «Ma legare il soggetto moderno all’orizzonte dell’assicurazione immunitaria vuol dire riconoscere l’aporia in cui la sua esperienza resta presa: quella di cercare il riparo della vita nelle stesse potenze che ne interdicono lo sviluppo.» (Esposito 2004, 54) Questa è l’aporia: che l’uomo, individuo, e il sociale sono sempre esposti al rischio del potere di quella sovranità che li salva. Si rende allora necessario un sistema di controllo, autocontrollo, della stessa sovranità salvifica; è assoluta per poter essere salvifica (una trascendenza immanente, Dio terreno), richiede controllo (un autocontrollo, altrimenti non sarebbe assoluta) per evitare che si traduca in quella situazione di pericolo autodistruttivo che è nata per sanare o impedire, situazione che travolgerebbe lo Stato stesso quando lo include nella guerra civile, rendendolo parte in causa e non più sovranità, negandolo cioè come Stato, come “assoluto”, annientandone la funzione civile (di civitas). «Ma la neutralizzazione del conflitto non comporta affatto la sua eliminazione — piuttosto il suo incorporamento nell’organismo immunizzato come un antigene necessario alla formazione continua di anticorpi. Neanche la protezione assicurata dal sovrano ai sudditi ne è esente. Anzi proprio essa lo manifesta nella forma più stridente. Intanto, in ordine allo strumento adoperato per lenire la paura di morte violenta provata da ciascuno nei confronti dell’altro — che è ancora una paura, più accettabile perché concentrata su un unico obiettivo, ma non per questo diversa in essenza da quella debellata. Anzi, in un certo senso, intensificata dalla condizione asimmetrica in cui viene a trovarsi il suddito nei confronti di un sovrano che conserva quel diritto naturale deposto da tutti gli altri al momento dell’ingresso nello stato civile.» (Esposito 2004, 60) 3.3.4. Lo Stato detiene il potere assoluto, ma non si tratta di arbitrio o arbitrarietà (e, ante litteram, di totalitarismo): un “assoluto” che in realtà si legittima per i fini, per l’origine e per i conseguenti vincoli. 13 3.3.4.1. il suo potere è vincolato al fine per cui è stato istituito e che deve perseguire e garantire: la sicurezza e la pace (in tale senso lo legittimità dello Stato è in forma di autolegittimazione). L’assolutezza con il conseguente monopolio del diritto e della forza (della violenza) è finalizzata alla pacificazione (interna) e alla sicurezza (difesa, esterna). Si può richiamare (in anticipo) l’idealtipo di Weber sul potere carismatico, introdotto allo scopo di porre il fondamento del potere nella autorità, dove la «signoria» «si fonda sul riconoscimento al leader di una capacità di «aumentare» le possibilità di comprensione e di salvezza rispetto a una crisi epocale. Comunque anche in questo caso il fine del potere carismatico non è mai l’affermazione in sé dell’autorità del leader (come sarebbe nel caso della manipolazione demagogica), ma la preservazione dell’ordine sociale…» Pombeni Paolo 2010 La ragione e la passione. Le forme della politica nell’Europa contemporanea, il Mulino Bologna, p. 552 3.3.4.2. il suo potere deve essere legittimo come origine e tale legittimazione, che non può provenire da quello Stato che deve essere legittimato perché possa “legittimamente” sorgere, rimanda a una sede di autorità e a un concetto di legittimazione diversa dalla sede politica e dunque posta in due soli altri ambiti possibili: la natura (origine giusnaturalistica del potere politico), il contratto (origine contrattualistica del potere politico). Natura e contratto sono strumenti/ concetti astratti la cui sede reale è data, inesorabilmente, dalla società (più o meno civile). Se per autorità, auctoritas (augere), si intende «un qualcosa che conferisce un livello più alto e più universale (mi permetterei di dire un qualcosa che carica di significato) a una esperienza di relazioni, regolandola nel momento stesso in cui le conferisce un senso » (Pombeni 2010 La ragione 546), allora non è accettabile la riduzione dell’autorità all’ambito del politico; anzi l’autorità del politico, meglio, il potere, sorge e si legittima in quanto fa riferimento (in modalità definite e definibili storicamente, culturalmente e giuridicamente, cioè “nella categoria della legittimità”) alla più vasta sfera dell’autorità collocata nella “società civile”. Anzi, si può pensare al «problema della legittimazione come saldatura fra la dimensione di autorità che deriva dalla sfera sociale (dove, in definitiva, si verificano le esperienze che trasformano le individualità nell’adesione a una autorità che conferisce senso e significato a quanto si va a fare) e la dimensione del potere che deriva dalla sfera politica (dove si regolano le convivenze di questi sensi e significati attraverso momenti unificanti che consentono di creare reciproche «obbligazioni politiche» e «solidarietà» istituzionali).» (Pombeni 2010, 555, 556) In senso più ampio, prende forma e funzione qui la distinzione separazione tra società e politica. Il contratto presuppone che vi siano dei (almeno due) contraenti fisicamente e giuridicamente distinti, capaci di stipulare un accordo, un contratto. Si presuppongono quindi due soggetti e implicitamente il contratto originario, collocato idealmente all’origine del sociale-politico, in uscita dallo stato di natura, li pone in esistenza. Il contratto quindi introduce la separazione tra stato e società, separazione e distinzione che era tutt’altro che scontata considerata le affermazioni di Hobbes sugli effetti del contratto secondo cui «sia chi ha votato a favore, sia chi ha votato contro, autorizzerà tutte le azioni e i giudizi di quell’uomo o assemblea di uomini, esattamente come se fossero i suoi, al fine di vivere in pace ed essere protetto nei confronti degli altri.» 3.3.4.3. la questione e il principio del potere legittimo introduce un’altra caratteristica della sovranità e del diritto emanato: non è sul fondamento della forza che si innesta il vincolo delle norme, ma sulla correttezza della loro emanazione. Hobbes, presentando lo Stato come Leviatano, riservando ad esso il monopolio della forza, potenza, violenza (uno Stato che resta l’Individuo unico, qui fattosi istituzione in forza di un contratto di rinuncia e riconoscimento, ma conserva la barbarie, senza alcuna norma o vincolo, che è propria dello stato di natura), sembra segnalare che lo Stato imponga il rispetto della legge attraverso la forza; tale centralità della forza mette in secondo piano l’evento originario del contratto, e quindi dell’accordo, come fonte dei diritto riservato allo Stato ad emanare leggi normative e cogenti; la forza di cui lo Stato si può avvalere deriva in realtà dalla forza del contratto che vi ha dato origine e dalla sua irrevocabilità. «Una regola non può essere vincolante solo perché così vuole un soggetto più forte. Occorre avere l’autorità per emanare la regola, e questa può derivare soltanto da un’altra regola già obbligatoria per coloro a cui si 14 rivolge. È questa la differenza tra il diritto valido e gli ordini di un bandito.» (Dworkin Ronald 1977 I diritti presi sul serio, il Mulino, Bologna 2010, 45) 3.3.5. Lo Stato è fonte unica del diritto: ha il monopolio del diritto e non esiste alcun diritto se non quello emanato (la posizione del positivismo giuridico o giuspositivismo). La recta ratio della dottrina del diritto naturale si muta nella ratio civitatis, ossia nella ragion di Stato (si potrebbe dire: dal giusnaturalismo il giuspositivismo). 3.3.5.1. Esplicita e vincolante, sul tema del monopolio giuridico dello Stato, è l’affermazione lapidaria di Hobbes: auctoritas non veritas facit legem. Il concetto di verità pretenderebbe per sé una sede autonoma dal diritto, trascendente ad esso, vincolo e limite del diritto stesso; ciò equivale a negare l’autonomia dello Stato e la sovranità che la teoria moderna intende attribuirgli, a maggior ragione equivarrebbe a negare la sua sovranità assoluta. 3.3.5.2. Se lo Stato è fonte unica del diritto l’unico diritto esistente è quello emanato dallo stato, cioè il diritto positivo. Alla teoria di Hobbes si può far risalire quindi (oltre a posizioni giusnaturalistiche e contrattualistiche) anche la tradizione del positivismo giuridico (o del giuspositivismo). La tesi comporta negare l’esistenza del diritto naturale per la formazione e nascita del solo diritto positivo; è diritto il diritto emanato (vedi Kelsen). In realtà non viene escluso assolutamente il diritto naturale ma si deve considerare naturale un diritto positivo se e in quanto emanato come naturale, proclamato come naturale, cioè come valido in assoluto. (Non è proclamato come in sé naturale; sarebbe non emanato e quindi non diritto.) 4. la teoria politica di Hobbes nodo irrisolto e produttivo. Le direzioni e le questioni. 4.1. il punto e l’intreccio. Un quadro sinottico in una tabella tradizionalmente vincolante Gli strumenti concettuali ricorrenti e in intreccio, nella costruzione delle teorie politiche dell’età moderna: tre concetti/elementi, tre fasi/sedi, tre tipologie di diritti, tre componenti dei sistemi teorici politici, tre tradizioni delle dottrine politiche natura stato di natura diritti naturali postulati giusnaturalismo indole naturale degli uomini società società civile leggi naturali assiomi contrattualismo (utilitarismo) Stato Stato politico leggi positive teoremi positivismo giuridico leggi politiche / civili (utilitarismo) 4.1.1. gli intrecci tra gli elementi in vista di una teoria: 4.1.1.1. le teorie liberali si fondano sul rispetto di queste distinzioni, considerate presupposto/condizione di libertà in due direzioni: a garanzia dello Stato e della sua funzione civile, a garanzia del cittadino e dei suoi diritti. I sistemi totalitari (e derivati o affini) si battono per la coincidenza dei tre livelli, riducono il 2° al 3° e il 3° al 1°. 4.1.1.2. la distinzione a tre livelli è dettata dall’esigenza di formulare il concetto di sovranità come concetto politico trascendentale, non trascendente: il concetto di sovranità è fondamento dello stato moderno se la sovranità è considerata un principio immanente, a priori e (perciò) assoluto (non derivato). La trascendenza del potere (assolutismo antico e medievale) si trasforma in esercizio trascendentale dell’autorità nella nuova sede giuridica del popolo. 4.1.1.3. la definizione specifica dei tre livelli è fortemente ipotecata dalla forma politica che si intende legittimare (varia da teoria a teoria: Stato assoluto, liberale, democratico), ma la distinzione nei tre livelli permette di cogliere la forma politica come un mezzo e non come un fine. La tendenza di una forma politica a presentarsi come un fine e non come un mezzo (ad es. la forma democratica è fine di ogni moderna società) deriva solo dalla sua maggior vicinanza al riconoscimento e alla garanzia dei diritti e resta comunque un mezzo… magari dichiarato come il più adatto. 15 4.1.1.4. le teorie politiche, e le competenze dello stato, fanno riferimento alla società come struttura di base; non hanno applicazione diretta nelle istituzioni e associazioni esistenti nella società, come imprese, sindacati, chiese, università, famiglie… ; queste devono sottostare a vincoli derivanti dalla loro appartenenza al sociale, vincoli che pongono condizioni formali di giustizia – equità; viceversa, i vincoli e le regole di singole istituzioni (chiese, partiti…) non possono essere estese alla società di base. 4.2. le tre situazioni (natura, società, Sato) e le tre tradizioni (anzi quattro: giusnaturalismo, contrattualismo, positivismo giuridico e utilitarismo giuridico) richiamate e rilanciate e composte in intreccio dalla riflessione di Hobbes. 4.2.1. le situazioni, i luoghi e i momenti di un viaggio di costituzione dello Stato: stato di natura, contratto sociale, stato politico e il loro intreccio. Non si tratta di momenti storici in successione cronologica avvenuti nel corso del tempo e accaduti una volta per tutte, si tratta di elementi che formano in continuazione la storia dell’umanità e ne costituiscono l’intreccio politico irrisolto o consegnato a soluzioni storiche contingenti. Siamo sempre nello stato di natura, pronti a sbranarci reciprocamente, predisposti al bellum omnium contra omnes, contenuti solo dalla paura per la nostra sorte, fortuna, sopravvivenza. Siamo sempre di fronte all’urgenza di prendere in considerazione una tregua, stipulare un contratto a beneficio di tutti o in vista del male minore; regolarmente infatti siamo di fronte al rinnovo contrattuale… in tutte le situazioni sociali (famigliari, generazionali, condominiali, lavorative, religiose, culturali, sociali, politiche ecc.), non avrebbero altrimenti ruolo e senso sociale i molti anniversari, le ricorrenze regolari, i riti che li fanno accadere e l’urgenza di sottolineare come non si tratta di un richiamo formale o retorico. Siamo sempre di fronte all’esigenza di formulare norme di comportamento, che hanno valore in quanto stipulate, legalmente emanate e che hanno successo per la loro coerenza interna e chiarezza applicativa. 4.2.2. le tradizioni (o le scuole) e l’intreccio di giusnaturalismo, contrattualismo, positivismo giuridico, utilitarismo giuridico. Il diritto naturale, totale e universale (giusnaturalismo) impone, per coerenza di conservazione, un contratto sociale di rinuncia e sottomissione (contrattualismo) che lascia in esistenza quel diritto totale nelle mani di un unico, lo Stato, il quale lo emana nelle forme della legge, di un diritto codificato (positivismo giuridico), per garantire a ciascuno sicurezza e pace (utilitarismo giuridico). 4.2.2.1. La riflessione di Hobbes si rende dunque complessa per la sua caratteristica di comporre a sistema le diverse possibili impostazioni della riflessione politica e giuridica sulla nascita e sulla validità del diritto. La pienezza del potere dello Stato – Leviatano si afferma su di un fondamento [1] giusnaturalistico e [2] contrattualistico; tale monopolio trasforma ogni diritto, perché diventi reale, in diritto positivo ([3] positivismo giuridico), il fine della pace e della sicurezza che contribuire a rendere legittimo lo Stato assoluto trasforma l’emanazione del diritto positivo nell’emanazione del diritto utile: entra in scena e si compone con le precedenti un quarta tradizione, quella [4] dell’utilitarismo giuridico. È giusto il diritto positivo utile alla realizzazione dei fini per cui lo Stato detiene una sovranità assoluta. 4.2.2.2. Si tratta di una teoria della complessità; la bontà di quell’intreccio, del doppio intreccio sta nella sua capacità di rispettare il dato dell’esperienza nella sua ricchezza imprevedibile (Hobbes: «fondata su principi propri, conosciuti per esperienza») e l’urgenza di una composizione razionale, controllata, condivisa, “geometrica” (Hobbes: «non desidero perdermi in chiacchiere, ma amo procedere con precisione matematica»). Il rigore formale di questa esigenza si piega con flessibilità all’esperienza sociale e umana ricca, mutevole e imprevedibile (come attesta l’osservazione dei fatti storici). 4.2.2.3. C’è una logica in questo intreccio (in questi intrecci); la coglie e illustra con evidenza teorica e applicativa (sia pur in altri contesti e per altri soggetti) Urlich Beck usando le espressioni: 16 potere e contro-potere. Beck Urlich 2002 Potere e contropotere nell’età globale, Laterza RomaBari 2010 4.3. Il contesto culturale in cui Hobbes intende collocare la propria riflessione politica e l’intero suo lavoro filosofico è costituito dai successi del meccanicismo nel campo della fisica e della filosofia naturale e, come metodo, dall’adozione generalizzata del processo dimostrativo geometrico. Dunque una teoria politica costruzionistica. Sembrano radici lontane dal settore politico ma ne spiegano la costruzione teorica: la geometria, la fisica meccanicistica producono l’effetto (questa è l’ipotesi) di una politica su fondamento giuridico presentato nella forma del positivismo giuridico. La sequenza è del resto quella stessa dei tre trattati di Hobbes, De corpore, De homine, De Cive, e diventa anche la trama del suo ragionare politico condotto secondo il rigore geometrico. E c’è una coerenza nell’impostazione tra la centralità della geometria come metodo della ragione, la definizione meccanicistica della natura (De corpore), la definizione del potere dello Stato in termini di positivismo giuridico e lo Stato come costruzione continua. 4.3.1. Come la geometria, la politica è scienza di cui l’uomo è artefice; dunque è una scienza “trasparente a se stessa, decostruttiva nella ricerca dei propri assunti di base, ricostruttiva nel ricomporre un corpo statuale che garantisca la convivenza”; così nota Briguglia Gianluca 2006 Il corpo vivente dello Stato, Bruno Mondadori, Milano. «E nel Leviatano la geometria, proprio per il suo essere costruita dalle definizioni dell’uomo, è considerata come «la sola scienza che fino a questo momento Dio si sia compiaciuto di concedere agli uomini». Per contro, noi non siamo gli artefici del mondo, la natura non è la nostra arte, ma l’arte di Dio attraverso cui egli «ha fatto e governa il mondo»; e dunque la fisica, per esempio, le cui cause non possiamo dimostrare, ma solo ipotizzare, si configura come una scienza a posteriori, che parte dagli effetti. L’etica e la politica sono invece scienze umane e nel progetto di Hobbes vanno considerate al pari della geometria, perché le cause della giustizia, cioè le leggi e i patti, «le abbiamo fatte noi». L’impresa teorica di Hobbes poggia proprio su questo fondamento: una scienza politica a priori. Dunque l’arte dell’uomo, così intesa, è capace d’imitare l’arte di Dio e lo fa costruendo un animale artificiale, un automa, cioè una «macchina semovente per mezzo di molle e ruote, come un orologio». È un primo ed essenziale — ma non sufficiente, vedremo— livello metaforico, che ha peraltro la funzione di porre da subito l’opera in un contesto apertamente meccanicistico, ed evoca la premessa metodologica esplicitata dalla Prefazione al De cive: «[…] ogni oggetto viene conosciuto nel modo migliore a partire dalle cose che lo costituiscono. Come in un orologio o in un’altra macchina un poco complessa non si può sapere quale sia la funzione di ogni parte e di ogni ruota, se non lo si scompone, e si esaminano separatamente la materia, la figura, il moto delle parti, così nell’indagine sul diritto dello Stato, e sui doveri dei cittadini si deve, se non certo scomporre lo Stato, considerarlo come scomposto, per intendere correttamente quale sia la natura umana, in quali cose sia adatta o inadatta a costruire lo Stato, e come debbano accordarsi gli uomini che intendono riunirsi.» Il metodo del De cive consente così di condurre l’analisi dello Stato nei termini di una preliminare scomposizione nei suoi costituenti, in modo da poterne poi ricostruire, in modo corretto e razionale, il meccanismo.» (Briguglia 2006, 125-127) Richiamando, criticamente, Hobbes, Durkheim osserva: «L’uomo è quindi naturalmente refrattario alla vita comune, e può rassegnarsi ad essa soltanto se costretto con la forza.» (Durkheim 1895 Le regole 114) L’individuo è dunque collocato a forza nell’organizzazione sociale, e «questa organizzazione — il cui scopo è di ostacolarlo e di contenerlo — può essere concepita soltanto come un’organizzazione artificiale. Essa non è fondata nella natura, poiché è destinata a farle violenza impedendole di produrre le sue conseguenze anti-sociali: è un'opera d'arte, una macchina costruita interamente dalla mano dell'uomo che — come tutti i prodotti di questo genere — è tale 17 soltanto perché gli uomini l'hanno voluta così; un decreto della volontà l'ha creata, un altro decreto può trasformarla. Né Hobbes né Rousseau danno l’impressione di aver scorto quanto c'è di contraddittorio nell’ammettere che l'individuo stesso sia l'autore di una macchina che ha come funzione essenziale quella di dominarlo e di sottoporlo a costrizioni; o per lo meno è sembrato loro che — per far sparire questa contraddizione — bastasse dissimularla agli occhi di coloro che ne sono le vittime, mediante l’abile artificio del contratto sociale.» (Durkheim 1895 Le regole 114) 4.3.2. Un meccanicismo antropologico alla radice della definizione della macchina dello stato «Quest’immaginaria dissoluzione conduce ad analizzare la natura degli uomini, che rappresentano la materia del corpo politico e a immaginarli in uno stato di natura, che è uno stato di guerra, cioè in una condizione d’individualismo precedente ogni aggregazione politica. Tale operazione troverebbe un preciso corrispettivo metodologico nell’ipotesi della annihilatio mundi, con la quale Hobbes, nella sua philosophia prima, riesce a fondare il proprio meccanicismo filosofico sui principi primi di corpo, spazio e tempo. Che cos’è questo «annullamento del mondo»? si tratta di un esperimento mentale in cui si sospende tutto ciò che sappiamo, o crediamo di sapere, del mondo e ci rivolgiamo ai suoi costituenti di base. I corpi, innanzitutto, che non sono altro che enti che occupano uno spazio. In secondo luogo lo spazio stesso, che è la forma, la possibilità di esistenza, dei corpi. […] …l’unico modello possibile di spiegazione della realtà è dato da corpi e movimento, da un sistema «meccanico». E lo stesso Hobbes nel solco del proprio meccanicismo, metaforizza, nel De cive e in apertura del Leviatano, lo Stato come corpo meccanico, come orologio, come automa.» (Briguglia 2006, 127-129) 4.3.3. la sovranità è l’anima del corpo-Stato (del macroantropo) «Non basta dare vita a un congegno, non è sufficiente creare un animale artificiale. Lo Stato è un corpo, ma un corpo vivo. Un corpo dotato di un’anima. L’uomo artificiale ha dunque per Hobbes un’anima artificiale, la sovranità. […] «Quasi tutti coloro che sono soliti paragonare lo Stato e i cittadini con l’uomo e le sue membra, dicono che chi detiene il potere supremo sullo Stato è nei confronti dell’intero Stato, quello che la testa è nei confronti dell’intero uomo. Ma […] risulta chiaro che chi è stato innalzato a tale potere (sia egli un uomo, o una curia), si trova con lo Stato nel rapporto dell’anima, non della testa. Infatti è grazie all’anima che l’uomo ha una volontà, cioè può volere e non volere. Così è mediante chi ha il potere supremo, e non altrimenti, che lo Stato ha una volontà, e può volere e non volere. Con la testa va piuttosto paragonata l’assemblea di consiglieri, o quell’unico consigliere, del cui solo consiglio (se è unico), chi ha il potere supremo nel governo dello Stato si avvale, riguardo alle cose di maggiore importanza. Il compito della testa infatti e consigliare, come quello dell’anima è comandare.» (De cive, VI, 19).» (Briguglia 2006, 134) 4.3.4. Dunque lo Stato come grande macchina-vivente in perenne costruzione (con fini, processi di controllo, rischi di errore e di degenerazione). «L’origine dello Stato non è naturale, ma è un atto creativo — l’uomo artificiale di Hobbes viene creato dai patti e dalle convenzioni, che assumono la funzione del fiat divino —, ed è tale creazione che rende possibile pensare, in maniera più diretta, alle relazioni tra anima e corpo, alla materia dello Stato e al suo «artefice»; nulla è dato, ma tutto viene costruito.» (Briguglia 2006, 137) Si inserisce in questo processo di costruzione dello Stato, e ne esprime il piano e il progetto, il noto passo del Leviatano: «È questa la generazione di quel grande LEVIATANO, o piuttosto (per parlare con maggior rispetto) di quel dio mortale, al quale dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, grazie a questa autorità datagli da ogni singolo uomo dello Stato, egli dispone di tanta potenza e di tanta forza a lui conferite, che col terrore da esse suscitato è in grado di modellare le volontà di tutti i singoli in funzione della pace, in patria, e dell’aiuto reciproco contro i nemici di fuori.» (Leviatano II, 17) «Definire allora lo Stato come un «dio mortale», non evoca soltanto il timore e il rispetto a esso dovuti — ciò che pure è centrale — ma ne evidenzia il carattere creativo autonomo. L’uomo non ha solo creato un meccanismo semovente, né soltanto un uomo artificiale che ha volontà, ma un dio capace di costruire una seconda natura, d’innescare un meccanismo di cambiamento del mondo, di «plasmare le volontà di tutti i singoli». Lo Stato non è allora solo il comando e la forza, ma un 18 processo continuo di trasformazione degli elementi che lo compongono, gli uomini. In funzione di se stesso, lo Stato crea una seconda natura per gli uomini. E in questo modo l’arte umana giunge a costruire ciò che a sua volta autonomamente costruisce, e che così si pone a un livello superiore rispetto al suo stesso creatore. […] In fondo il destino dell’artificio statale è proprio questo: plasmare le volontà degli uomini, per renderli capaci di stare assieme. In qualche modo ciò è la conseguenza del tipo di dissoluzione, di scomposizione, a cui Hobbes ha preliminarmente sottoposto la comunità politica e la lezione che ne ha tratto: l’uguaglianza originaria degli individui. Si tratta, per così dire, di un’uguaglianza logica, correlata a un individualismo che fa degli uomini, coerentemente con il meccanicismo hobbesiano, gli ingranaggi di base dell’orologio politico. […] Individualismo e uguaglianza in questo modo diventano i presupposti di una costruzione razionale che parte da elementi-base indifferenziati in via di diritto, i quali vengono poi sottoposti al lavorio incessante dell’ambiente artificiale, che attribuisce loro una seconda natura. Questo ambiente artificiale è lo Stato come meccanismo, ciò che trasforma gli uomini è lo Stato come dio. (Briguglia 2006, 145-150 passim) 4.4. Il consenso e definizione dei limiti di competenza e di azione dello Stato. Le strade percorse per gestire il processo di costruzione dello stato: consenso, violenza, contingenza. « ossia il principio per cui ogni autorità legittima deriva dal consenso di coloro sui quali è esercitata, in altre parole, che gli individui sono tenuti solo a ciò cui hanno acconsentito.» (Manin Bernard 1997 Principi del governo rappresentativo, il Mulino, Bologna 2010, 94). Una lunga tradizione che rappresenta il senso e la forza del contrattualismo. Del resto si tratta «di un principio di origine romana: Quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet («Ciò che tocca tutti deve essere ponderato e approvato da tutti»).» (Manin Bernard 1997, 98) 4.4.1. «Le tre rivoluzioni moderne furono portate a termine in nome di tale principio. […] Nei Putney Debates (ottobre 1647) fra l’ala radicale e quella conservatrice dell’esercito di Cromwell, che costituiscono uno dei documenti più interessanti sulle convinzioni dei rivoluzionari inglesi, Rainsborough, il portavoce dei livellatori, dichiara: «Ogni uomo che deve vivere sotto un governo deve prima di tutto porre se stesso sotto quel governo col proprio consenso; e ritengo che anche l’uomo più povero d’Inghilterra non abbia alcun obbligo in senso stretto nei confronti di un governo se non ha avuto alcuna voce in capitolo nel decidere se porsi sotto di esso.» Nella sua replica Ireton, il portavoce principale del gruppo più conservatore, non mise in discussione il principio del consenso, ma sostenne che il diritto al consenso spettava solo a coloro che avevano un «interesse fisso e permanente nel regno». Centotrent’anni dopo, la Dichiarazione di indipendenza si apriva con queste parole: «Noi riteniamo che queste verità siano di per sé evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dotati dal loro Creatore di certi inalienabili diritti fra i quali quelli alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità; che per salvaguardarli vengono istituiti fra gli uomini i governi, i quali derivano i propri giusti poteri dal consenso dei governati.» Infine, in Francia, una figura chiave nei primi mesi della rivoluzione, Thouret, all’inizio del 1789 pubblicò un abbozzo di dichiarazione dei diritti che includeva l’articolo seguente: ««Tutti i cittadini devono avere il diritto di concorrere, individualmente o attraverso i loro rappresentanti, alla formazione delle leggi, e di sottomettersi solo a quelle alle quali hanno acconsentito liberamente». La convinzione che il consenso costituisca l’unica fonte di autorità legittima e rappresenti la base dell’obbligo politico era condivisa da tutti i teorici del diritto naturale, da Grozio a Rousseau, compresi Hobbes, Pufendorf e Locke.» Manin Bernard 1997, 94-95) 4.4.2. Una volta che la fonte del potere e dell’obbligo politico era stata localizzata in questo modo nel consenso o nella volontà dei governati, Hobbes la richiama, le attribuisce un posto centrale nella costruzione dello Stato e fissa tale consenso come originario e irrevocabile; anche perché sottolinea come lo Stato sia il prodotto di tale consenso e non uno dei contraenti. 19 L’indissolubilità dello stato e della società civile, il potere assoluto dello Stato non possono tuttavia annullare ciò che nel consenso è stato costruito: lo Stato ha come fine la sicurezza e la pace dei sudditi; sudditi alla legge, non ad una persona, perciò cittadini. 4.4.3. Il contratto come fonte dello Stato elimina ogni trascendenza che, posta al di sopra e al di fuori del politico, inevitabilmente la rende suddita, la colloca sotto giudizio, permette ai sudditi, attraverso l’appello a Dio o alla propria coscienza, di rendere vano quel contratto e sottrarsi all’obbedienza dovuta, mettendo a rischio la sicurezza e la pace. «E per quanto alcuni uomini, per giustificare la loro disubbidienza al sovrano, abbiano avanzato il pretesto di un nuovo patto, concluso non con gli uomini, ma con Dio, anche questa è ingiustizia: perché non si possono concludere patti con Dio, se non grazie alla mediazione di qualcuno che rappresenti la persona di Dio; e ciò può essere fatto solo dal luogotenente di Dio, che detiene, sotto di lui, la sovranità. Ma questo pretesto di un patto con Dio è una menzogna tanto palese, anche alla coscienza di chi lo avanza, da renderlo l’atto di un carattere non solo ingiusto, ma vile e debole». (Hobbes, Leviatano, 114) Osserva Latour Bruno 1991 Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, ed. Elèuthera, Milano 1995: « Il sovrano creato con il contratto, «questo Iddio mortale cui noi dobbiamo, sotto l’Iddio immortale, la nostra pace e la nostra protezione», non è che il rappresentante della moltitudine. «È l’unità di colui che rappresenta e non del rappresentato che rende una la persona». Hobbes è ossessionato da questa unità della Persona che è, per utilizzare i suoi termini, l’Attore i cui Autori siamo noi cittadini [Hobbes, 1971]. Per questo non ci può essere trascendenza. Le guerre civili continueranno a infuriare finché esisteranno entità sovrannaturali, che i cittadini si sentiranno in diritto di implorare quando le autorità di questo basso mondo li perseguitano. La lealtà della vecchia società medievale, Dio e il Re, non è più possibile se chiunque può rivolgersi direttamente a Dio o designare il suo re. Hobbes vuoi fare tabula rasa di qualunque appello a entità superiori a quella civile. Vuol ricomporre l’unità cattolica, ma chiudendo ogni accesso alla trascendenza divina. Per Hobbes il potere è conoscenza, il che significa che non può esistere che un’unica conoscenza e un unico potere se si vuol mettere termine alle guerre civili. Ecco perché la parte più rilevante del Leviathan è un’esegesi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Uno dei maggiori pericoli per la pace civile deriva dal credere nell’esistenza di corpi immateriali, come gli spiriti, i fantasmi o le anime, cui la gente si rivolge contro il giudizio del potere civile. […] Questo riduzionismo non porta a uno Stato totalitario, perché Hobbes lo applica anche alla Repubblica: il sovrano non è mai altro che un attore designato dal contratto sociale. Non esiste un diritto divino, un’istanza superiore, che il sovrano possa invocare per poter agire come vuole e smantellare il Leviatano. In questo regime nuovo, nel quale conoscenza e potere si identificano, tutto è ridotto: il sovrano, Dio, la materia e la moltitudine. Hobbes si vieta perfino di trasformare la sua stessa scienza dello Stato in un’evocazione di una trascendenza qualsiasi. A tutte le sue conclusioni scientifiche non arriva con l’opinione, l’osservazione o la rivelazione, ma con una dimostrazione matematica, l’unico metodo di argomentazione capace di costringere chiunque a dare il suo assenso; e a questa dimostrazione non arriva con calcoli trascendentali, come il re di Platone, ma con uno strumento di calcolo puro, il cervello meccanico, un computer ante litteram. Perfino il famoso contratto sociale non è che il risultato di un calcolo cui arrivano tutti insieme i cittadini terrorizzati che cercano di affrancarsi dallo stato di natura. Tale è il costruttivismo generalizzato di Hobbes, teso a pacificare i conflitti civili: nessuna trascendenza di qualsivoglia genere, nessun ricorso a Dio, a una materia attiva, a un potere di diritto divino, e nemmeno alle idee matematiche.» (Latour 1991, 31-33) 4.5. Il tema di una forza e di una violenza «illegale» che fonda la norma della legge stessa e la rende cogente, rendendo contemporaneamente oggettivo l’ordine e invisibile la violenza (violenza nascosta nelle forme dell’ordine); è qui l’intera teoria di Hobbes. 4.5.1. La forza e la violenza dello Stato è quella dello stato di natura, esistente prima di ogni legge e dunque senza limiti. È monopolio dello Stato, unico rimasto nella condizione naturale di potere e 20 diritto totale dopo il contratto di rinuncia e di associazione da parte di tutti gli uomini espresso nello stato di natura. Si giustifica sulla base della necessità unanimemente condivisa di por fine allo stato universale di guerra e in questa finalità trova la sua legittimazione. La storia che inizia con il contratto registra nel suo primo evento il fatto che la violenza nasce nello Stato, e nello Stato nasce e resta in forma nuova: come funzione politica; costituisce il modo di essere dello Stato, permea della sua logica l’intera vita civile, sorregge, si manifesta, e spesso si nasconde, nelle forme dell’ordine garantito. 4.5.2. Come ogni macchina, nell’età moderna, nasconde il proprio meccanismo sotto funzionali forme che la rendono anche prodotto estetico, e rinnovano modalità e abitudini percettive e i giudizi della sensibilità, così accade alla macchina dello Stato di nascondere e collocare sotto le forme della “civiltà” la propria forza e la propria violenza. Si tratta di una violenza invisibile consegnata alle forme della normalità e del progresso, efficaci quindi nel plasmare e ordinare senza comparire come espressione di forza; prendono forma l’ordine e la pace di una violenza invisibile. Ne tratta una lunga tradizione di filosofia e sociologia critica (a partire dai Cinici fino alla Scuola di Francoforte). Il problema può venire così tematizzato: «. Il mito del potere. Le maschere del potere. Il potere è sempre esistito o nella forma truculenta della tirannide o in quella legale dello Stato. In entrambi i casi si tratta di un potere visibile, a cui ci si può opporre oppure riconoscerlo. Oggi il potere è diventato più subdolo, più mascherato, più nascosto, ma proprio per questo più pervasivo, fino a permeare il nostro inconscio, al punto da farci apparire ovvia quella che in realtà è una sua imposizione. Per rendercene conto dobbiamo domandarci se a volte non abbiamo del potere un concetto troppo grossolano al punto da non riconoscerlo proprio là dove ci assedia. Il potere non si presenta mai come tale, ma indossa sempre i panni del prestigio, dell’ambizione, dell’ascendente, della reputazione, della persuasione, del carisma, della decisione, del veto, del controllo, e dietro queste maschere non è facile riconoscere le due leve su cui si fonda: il controllo assoluto delle nostre condizioni di vita e la massima efficienza delle prestazioni che ci sono richieste. Il mito dell’efficienza, che molti sembrano condividere applaudendo i leader politici che promettono di garantirla, fu sperimentato su larga scala come macchina di potere nei lager nazisti, dove il problema era di “sistemare” in ventiquattro ore i convogli dei deportati che quotidianamente arrivavano.» (Galimberti Umberto 2009 I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, p. 115) 4.5.2.1. In direzione critica (e forse in pessimismo, ma per senso critico) allo scopo di conservare l’attenzione sugli esiti di una politica che nasce dall’incontro di forza (violenza) e potere, e secondo cui, come in Hobbes, pur con fini di pace, lo Stato conserva la violenza e resta nello stato di natura; sguardo e attenzione riservati soprattutto alle forme nelle quali la violenza si affida e fa leva sulla propria non visibilità agendo, di conseguenza, con maggior efficacia, valgano le analisi di Michel Foucault espresse in Microfisica del potere. Interventi politici. «Universo di regole che non è destinato ad addolcire, ma al contrario a soddisfare la violenza. Si avrebbe torto a credere, secondo lo schema tradizionale, che la guerra generale, esaurendosi nelle proprie contraddizioni finisce per rinunciare alla violenza ed accetta di sopprimere se stessa nelle leggi della pace civile. La regola, e il piacere calcolato dell’accanimento, e il sangue promesso. Permette di rilanciare senza posa il gioco della dominazione; mette in scena una violenza meticolosamente ripetuta. Il desiderio di pace, la dolcezza del compromesso, l’accettazione tacita della legge, lungi dall’essere la grande conversione morale, o l’utile calcolo che hanno dato nascita alla regola, non ne sono che il risultato e a dir vero la perversione… […] L’umanità non progredisce lentamente di lotta in lotta fino ad una reciprocità universale, dove le regole si sostituiranno per sempre alla guerra; essa insedia ciascuna delle sue violenze in un sistema di regole, ed avanza così di dominazione in dominazione.» Foucault Michel Microfisica del potere. Interventi politici 1971, Einaudi, Torino 1977, p. 40 Il pensiero corre a quelle trattative e a quegli accordi di pace, a fine guerra, che diventano l’occasione (forse non intenzionale ma certo ben utilizzata) per nuovi progetti, piani e azioni di guerra. 21 4.5.2.2. Sul tema interviene l’opera di Žižek Slavoj 2007 La violenza invisibile, Rizzoli, Milano 2007 che, per l’analisi, mette a disposizione la distinzione tra violenza oggettiva, violenza soggettiva e violenza simbolica. La violenza oggettiva è la violenza invisibile in quanto diventata normalità nel sistema codificato (divenuta violenza simbolica) nel quale si viene educati e che viene riconosciuto come proprio mondo identitario, comune, condiviso, normale nelle forme della legge, diritto e costume. La violenza soggettiva (quella commessa e quella che avvertiamo come subita) prende forma solo su questo sfondo e sulla sua diffusa condivisione (costume, legge, cultura morale…). Possiamo anche avvertire la violenza oggettiva (che deve la propria efficacia al fatto di non rendersi visibile e non essere avvertita) in particolari situazioni: negli intoppi del percorso del processo formativo, per lo più adolescenziale, nel confronto tra civiltà e modelli, nell’osservazione fenomenologica del sentire morale e del vivere sociale per le discontinuità e contraddizioni che li caratterizzano, nello studio sulla natura del dovere e del diritto quando lo studio su di loro è di carattere storico e pone l’attenzione sui modi e sulle ragioni del loro mutare. La violenza simbolica sociale, politica e religiosa, paradossalmente invisibile nella palese visibilità e proclamazione delle sue forme, è forse in grado di esprimere entrambe le forme e il loro operare in una connessione tematicamente non percepita a livello immediato. Ad esempio la violenza nei simboli del potere (monumentistica e documentaristica, rituale e celebrativa, di congressi e raduni ecc.) di cui una società si nutre, si circonda e che venera allo scopo di tenersi nelle forme di una “società civile” e di uno Stato, nelle forme di una condivisione dei ruoli e delle conseguenti gerarchie scandite da gesti e riti quotidiani di comportamento. «Il problema è che non è possibile percepire la violenza soggettiva e quella oggettiva dallo stesso punto d’osservazione: la violenza soggettiva si coglie come tale sullo sfondo di una totale assenza di violenza, di perfetta nonviolenza. D’altra parte la violenza oggettiva è proprio quella insita in uno stato di cose «normale», pacifico. La violenza oggettiva è invisibile perché sta alla base dello stesso sfondo neutro rispetto al quale percepiamo qualcosa come soggettivamente violento. La violenza sistemica è dunque simile alla famosa «materia oscura» della fisica, la gemella invisibile di una violenza soggettiva fin troppo visibile. Ma, per quanto invisibile, è necessario tenerne conto se si vuole trovare una spiegazione a quelle che altrimenti sembrano esplosioni «irrazionali» di violenza soggettiva.»(Žižek Slavoj 2007, 8) «…quando percepiamo qualcosa come un atto di violenza [violenza soggettiva], lo misuriamo in base a un ipotetico standard [violenza simbolica] di ciò che è una «normale» situazione non violenta, e la massima forma di violenza è l’imposizione di questi standard [violenza oggettiva] in riferimento al quale alcuni eventi appaiono “violenti”». (Žižek Slavoj 2007, 69) Alcuni esempi non del tutto banali: quando in una situazione artificiale creata nelle fiction stile “grande fratello” o “isola dei famosi” televisivi un partecipante si comporta in modo violento nei confronti di un altro (una violenza soggettiva), ciò avviene in forza e in dimenticanza di una violenza oggettiva che sta alla base e crea l’intera situazione (violenza oggettiva), imponendo standard di vita e di interpretazioni da considerare normali (violenza simbolica). Quando in un pullman stanno stipate e strette molte persone e vengono meno le distanze considerate normali e di rispetto proprio del vivere quotidiano (violenza simbolica), una persona può trattare con violenza il vicino che, a sua impressione, lo lede (violenza soggettiva), ma la radice sta nella violenza oggettiva della situazione dei trasporti in quella circostanza. Si tratta della violenza dei “cinici”: le loro performances violente nei confronti del vivere civile e di molte situazioni della polis (violenza soggettiva), in spregio di normalità condivise (violenza simbolica) sono atti di denuncia nei confronti di quella violenza non percepita ma di fondamento e quasi totale che è la costrizione a vivere secondo convenzioni non naturali (violenza oggettiva e violenza simbolica). In proposito Žižek cita una frase di J.G.K.Chesterton: «…la moralità è il più oscuro e ardito dei complotti» [tesi alla Nietzsche; e a p. 74:] … è il tema di una violenza «illegale» che fonda la norma della legge stessa, diventa ad un tempo legale, invisibile, oggettiva e, educativamente, soggettiva. Žižek riporta l’aneddoto: « Stando a un famoso aneddoto, durante la Seconda guerra mondiale un ufficiale tedesco fece visita a Picasso nel suo studio parigino. Vide Guernica e, scioccato dal «caos» 22 modernistico del dipinto, chiese al pittore: «L’avete fatto voi?». Al che Picasso rispose con calma: «No, voi l’avete fatto!».(Žižek Slavoj 2007, 17) Il dipinto mette sotto gli occhi la violenza che cercava ancora di essere consegnata alla non visibilità o a una forma estetico simbolica. 4.5.2.3. La violenza oggettiva è quanto aveva previsto intuito Hobbes quando descrive la forza la violenza come essenza dello Stato e quindi della legge e del sistema che essa garantisce. L’efficacia e la potenza dello Stato è posta nella sua irresponsabilità (immunità). Lo Stato è depositario legittimo della violenza in forza di un contratto sociale irrisolvibile; il contratto è formale, di rinuncia, non pone limiti di contenuto all’esercizio della forza che ha lasciato allo Stato. Per giunta, lo Stato non è uno dei contraenti, non è responsabile, resta nello stato di natura e proprio per questo la sua potenza è senza limiti (è monstrum e Leviatano); è fuori dalla polis, non viene coinvolto nel sociale e nelle sue trame, il diritto è puro e perciò capace di garantire l’ordine di cui ogni società ha e sente il bisogno. «Come tale, il Creatore è «hupsipolis apolis» (Antigone, verso 370): sta al di fuori e al di sopra della polis e del suo ethos; è svincolato da ogni regola di «moralità» (regole che sono soltanto una forma degenerata dell’ethos) e solo in quanto tale può porre le basi di una nuova forma di ethos, di un essere collettivo in una polis…» (Žižek Slavoj 2007, 73-74). Ecco perché lo Stato di Hobbes e il Sovrano sono indicati come Dio terreno, Dio mortale. 4.6. Paradossalmente in Hobbes si fondono, sono in stretto rimando e (nonostante l’apparente paradossalità) in coerenza logica, il carattere assoluto e la contingenza del politico. Pur nell’ambito di una concezione assoluta del potere, di un diritto unicamente positivo… sono poste le condizioni di limite al potere stesso, limiti alla potenza, e ciò in sedi plurime. Il contesto logico è dato dalla visione meccanicistica complessiva (e dunque costruzionistica) propria delle posizioni di Hobbes. 4.6.1. Nel campo specifico del diritto: il diritto come autolimite alla potenza. Quando la volontà sovrana si trasforma in diritto, assume la forma del diritto, allora entra nei limiti delle espressione e definizione di sé secondo coerenza e controllo. 4.6.2. Nel campo della morale e dei costumi per la loro connessione con il campo del diritto (e del diritto positivo) e della politica. «H. Morgenthau (La politica tra le nazioni 1948) ha indagato soprattutto le relazioni internazionali come sistema di rapporti di potenza, ma ha ammesso anche la possibilità del diritto come limite della potenza. […] per Morgenthau «il potere genera una rivolta tanto universale quanto lo è la stessa aspirazione al potere». Questa rivolta si esprime attraverso la morale, i costumi e il diritto, che storicamente hanno mantenuto entro limiti accettabili le aspirazioni al potere.» (Gozzi Gustavo 2010 Diritti e civiltà. Storia e filosofia del diritto internazionale, il Mulino, Bologna, p. 209) «Celandosi dietro la maschera dell’efficienza, scrive Hillman, il potere ottiene da un lato l’ubbidienza dei subordinati, inducendo in loro un pensiero a breve scadenza, per cui non si guarda più intorno e in avanti e a lungo termine sui valori di fondo della vita con conseguente atrofizzazione dei sentimenti, e dall’altro lato quella diffusa insensatezza per cui i “fini” raggiunti diventano “mezzi” per fini ulteriori, dove il semplice “fare” trova la sua giustificazione indipendentemente da ciò che si fa. Ma là dove l’efficienza rappresenta di per sé una ragione sufficiente per l’agire umano, l’inefficienza diventa uno dei modi per sabotare la tirannia dell’efficienza, una sorta di “etica” adottata per protestare contro lo smarrimento di senso e di fini (causa finale), contro lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali (causa materiale), contro l’abolizione dell’etica e dell’estetica in ogni processo di produzione e consumo (causa formale).» (Galimberti Umberto 2009 I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, 116-117) 4.6.3. Come più volte richiamato, nel fine per cui viene stipulato un patto sociale di unione, rinuncia, sottomissione e obbedienza: la sicurezza, la pace, la garanzia dei diritti. Tale fine contrattuale diventa compito e limite dello Stato nell’essere fonte unica del diritto secondo le forme della legge; rende mutevoli i mezzi che permettono di giungere al fine. Scrive Durkheim. «Dove regna il finalismo, regna anche una contingenza più o meno larga: infatti nessuno scopo – e 23 soprattutto nessun mezzo – si impone necessariamente a tutti gli uomini, neppure quando li supponiamo situati nelle stesse circostanze.» (Durkheim 1895 Le regole 94) 24