Thomas Hobbes - Terza Università

Thomas Hobbes 1588-1679
«La causa finale, il fine o il disegno degli uomini (che per natura amano la libertà e il dominio sugli
altri) nell’introdurre sopra di sé le restrizioni, entro cui li vediamo vivere negli Stati, è la previsione
di ottenere in tal modo la propria conservazione, e una vita più confortevole; cioè, di uscire dalla
miserabile condizione di guerra che è la necessaria conseguenza (come si è mostrato) delle passioni
naturali degli uomini, quando manca un potere visibile che li tenga in soggezione, e li vincoli, con
la paura delle punizioni, all’adempimento dei loro patti e all’osservanza delle leggi di natura esposte
nei capitoli quattordicesimo e quindicesimo.» (Hobbes Thomas 1651, Leviatano, Editori riuniti,
Roma 1982,107)
Un passaggio storico generale in atto che definisce l’età moderna (presentato in breve sintesi):
«I grandi momenti della genesi delle scienze sociali possono essere descritti grossomodo come
segue. Le scienze sociali e umane, nel senso più ampio del termine, appaiono sostituendosi al
pensiero mitico o religioso nel momento in cui si cerca un’origine non più divina ma propriamente
umana, un fondamento immanente dell’ordine sociale. In questo senso, la filosofia politica di
Socrate, Platone e Aristotele rappresenta allo stesso tempo l’atto di nascita delle scienze sociali.
Circa mille anni di cattolicesimo lasciano il problema in sospeso. Ma esso si riaffaccia, in termini
chiaramente soggettivisti, con Hobbes, Locke ed i teorici del diritto naturale. Non è che si sia
smesso d’esser credenti; piuttosto, si vuole pensare e inventare delle istituzioni efficaci «anche se
Dio non esistesse» (Grozio; Ugo Grozio, De jure pacis ad belli 1625). Ciò che cercano i teorici del
diritto naturale, fino a Rousseau, è il fondamento politico dell’ordine sociale. Le scienze sociali, nel
senso stretto e moderno del termine, nascono a partire dalla fine del XVIII secolo dal
riconoscimento del fatto che la società non si riduce al politico. E che la «società civile», come si
incomincia allora a dire, non è sovrapponibile alla società politica. L’economia politica si costruisce
a partire dal postulato che l’essenza della società civile è il bisogno, e che il suo regolatore non è lo
Stato ma il mercato. La sociologia, dal canto suo fa una scommessa inversa e complementare: che la
socialità non si riduce né alla socialità politica né alla socialità del bisogno.» Caillé Alain 1993 Il
tramonto del politico. Crisi, rinuncia e riscatto delle scienze sociali, edizioni Dedalo Bari 1995, 6768
Sono dunque in atto due passaggi: la fondazione dello Stato e la dichiarazione di autonomia del
politico; il riconoscimento che la società non si riduce al politico anche se questo, per certi versi, ne
costituisce l’essenza.
Il pensiero politico moderno solitamente viene fatto risalire solo al primo di questi passaggi: la
ricerca dei fondamenti (naturali) del politico, l’affermazione della sua autonomia e la tesi della
sovranità dello Stato. Occorre prendere atto del secondo passaggio: la non sovrapponibilità, la non
riducibilità della società al politico; si tratta di un passaggio indispensabile per indicare il contesto
di nascita dello Stato (quindi la sua autonomia, solitamente si parla di contratto sociale come atto di
nascita dello Stato), la funzione stessa dello Stato, la costruzione dello Stato come sistema dotato di
controllo (di autocontrollo) e quindi assoluto nella fondazione, non assoluto nella forma, capace di
evolvere e suscettibile anche di essere abbattuto; anche in questo caso, tuttavia, la rivoluzione è solo
il suggello finale che sancisce storicamente l’avvenuta autodistruzione dello Stato nella sua forma
storica, ma non la distruzione o autodistruzione dello Stato in senso politico e sociale.
1. Il piano generale e gli strumenti per la sua realizzazione.
«Mi ero dato alla filosofia per diletto e stavo raccogliendo i primi elementi di essa in ogni campo e
li stavo esponendo a poco a poco divisi in tre sezioni, in maniera da trattare nella prima del corpo e
delle sue proprietà generali; nella seconda dell’uomo e delle sue facoltà e dei suoi sentimenti, in
particolare; nella terza dello Stato e dei doveri dei cittadini... Mentre completavo, ordinavo e
raccoglievo lentamente e con attenzione queste cose (infatti non desidero perdermi in chiacchiere,
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ma amo procedere con precisione matematica), accadde che, frattanto, la mia patria, qualche anno
prima che scoppiasse la guerra civile, fosse in fermento per questioni riguardanti i diritti del
governo e l’obbedienza dovuta dai cittadini, questioni premonitrici della guerra ormai vicina. Così
accadde che quella che, per ordine, avrebbe dovuto essere l’ultima, tuttavia nel tempo e uscita per
prima; tanto più che essendo fondata su principi propri, conosciuti per esperienza, non mi sembra
avesse bisogno delle precedenti.» Così Thomas Hobbes nel presentare ai lettori la propria opera: De
cive (1642, 1647) (Hobbes Thomas 1642,1647 De Cive, Le Monnier, Firenze 1967, 30-31)
L’urgenza di affrontare questioni politiche, ormai indifferibili, spiega l’inversione dell’ordine di
pubblicazione delle opere del filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679); se la logica gli
suggeriva di trattare prima il corpo, poi l’uomo e infine la società civile, le tensioni e le dispute
politiche accesesi in Inghilterra intorno al 1640, alla vigilia della rivoluzione, inducono Hobbes a
modificare quel1’ordine: il trattato sulla società civile viene dato alle stampe nel 1642 con il titolo
De cive, prima di quelli «sul corpo» e «sull’uomo», che verranno pubblicati con i titoli De corpore
e De homine nel 1655 e nel 1658.
1.1. In questa nota autobiografica e storica che introduce l’opera De cive compaiono le indicazioni
di metodo, il piano complessivo e i fondamenti della riflessione politica di Hobbes. Sono questi
a dare alla teoria politica di Hobbes la funzione storica riconosciuta di comporre con programmatica
sistematicità la teoria politica moderna.
1.1.1. La doppia urgenza di metodo, condizione per rendere corretto ed efficace lo studio e la
produzione scientifica: a) l’attenzione agli eventi contemporanei (in generale all’esperienza) , b) il
rispetto delle linee del rigore logico (geometrico).
1.1.2. Lo sviluppo di un piano generale. a) il piano complessivo del progetto come una “opera
omnia”; b) il suo ordine naturale; c) le ragioni di una diversa sequenza e forse di una diversa
priorità: le vicende storiche dell’Inghilterra, l’autonomia dei settori indagati.
1.1.3. La riflessione e la conseguente teoria politica è dotata di fondamenti propri: a) nei concetti o
definizioni di partenza, b) nell’organizzazione formale del discorso (sotto il controllo formale
metateorico della ragione geometrica), c) per il suo fondamento materiale: l’esperienza.
«I geometri hanno assai validamente studiato il loro settore: infatti, tutto l’aiuto che è derivato alla
vita umana dall’osservazione delle stelle, dalla descrizione della terra, dalla misurazione del tempo,
dalle lunghe navigazioni, tutto ciò che di bello e negli edifici, di forte nelle fortezze, di meraviglioso
nelle macchine; tutto ciò, in fine, che distingue il nostro tempo dalla barbarie, si può dire, che sia
apporto benefico della geometria, in quanto ciò che dobbiamo alla fisica questa lo deve alla
geometria. Se i filosofi morali avessero assolto il loro compito con risultati parimenti proficui, non
vedo come l’umano zelo avrebbe meglio potuto contribuire alla felicità dell’uomo in questa vita.»
(Hobbes, De cive, 19)
1.2. Il progetto di piano in prima presentazione: prefazione.
«Lasciando ben fermo il fondamento che ho posto, dimostro, in primo luogo, che la condizione
degli uomini fuori della società civile (condizione che possiamo chiamare stato di natura) altro non
è se non una guerra di tutti contro tutti e che in questo stato di guerra, tutti hanno il diritto su tutto.
In secondo luogo, mostro che tutti gli uomini, per una necessità insita nella loro nature hanno voluto
uscire da quell’odioso e miserevole stato di natura non appena abbiano compreso tale stato di
miseria: il che non poteva accadere se non, stretti patti fra di loro, ognuno avesse receduto dal
proprio diritto su tutto. Inoltre mostro e spiego quale sia la natura dei patti, in che modo i diritti
debbano essere trasferiti dall’uno all’altro, perché i patti siano validi; e parimenti quali diritti e a chi
si debbano necessariamente conferire per stabilire la pace, cioè, quali siano i dettami della ragione,
che, propriamente, possono essere chiamati leggi naturali. Tutte queste cose sono contenute in
quella parte dei libro che s’intitola libertà.
Dopo avere ben fissato questi concetti, mostro che cosa sia e di quante specie e come si costituisca
uno Stato e la sovranità statale; quali diritti, dai singoli uomini, che si accingano a costituire uno
stato, debbano essere necessariamente trasferiti alla suprema autorità, sia essa rappresentata da un
solo uomo o da un gruppo di uomini, in maniera che se non sono trasferiti non è costituito nessuno
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stato e persiste il diritto di tutti su tutto, cioè, rimane il diritto di guerra. Poi distinguo le diverse
forme di Stato: monarchia, aristocrazia, democrazia; dominio paterno e dispotico; insegno in che
modo si costituiscano e raffronto pregi e difetti di ognuno. Inoltre espongo quali cause distruggono
gli stati e quali siano i doveri del sovrano. In fine spiego la natura della legge e della violazione
della legge e distinguo la legge dal consiglio, dal patto, dal diritto, raccogliendo tutto questo sotto il
titolo di Potere.» (Hobbes, De cive, 28-29)
1.2.1. Si nota da subito come il progetto di costituzione dello Stato o della realtà politica come fatto
storico istituzionale ruota attorno a due componenti: 1. lo stato di natura (o la condizione naturale
degli uomini, la natura umana), 2. il contratto sociale e il consenso.
2. La formazione dello Stato e la sua funzione: natura, contratto, Stato.
2.1. Tutto inizia dallo stato di natura.
Da subito una avvertenza: si alternano ed equivalgono, nel testo di Hobbes, le due espressioni “stato
di natura”, “indole naturale degli uomini”; nel primo caso si tende a pensare a una situazione presociale collocata cronologicamente e miticamente in una sorta di preistoria, posta alle origini
dell’umanità, e sottratta ad ogni possibile verifica circa la sua esistenza e la sua forma; nel secondo
caso si indica un modo di essere che caratterizza in modo costante l’umanità e definisce anzi la
natura umana, considerata in una possibile astrazione dalla componente sociale e politica;
descrizione della natura umana che dunque potrebbe fornire un proprio fondamento empirico.
Quello stato di natura si può intendere dunque come la presentazione della natura umana; quel
racconto coinvolge il lettore che vi riconosce una sorta di natura presociale: res tua agitur:
«…pongo in primo luogo come principio noto a tutti per esperienza e da tutti riconosciuto che
l’indole degli uomini è tale per natura che se non sono frenati dal timore di un qualche potere
comune, diffidano reciprocamente l’un dell’altro e vicendevolmente si temono e che se ciascuno
può a buon diritto difendersi con le proprie forze, necessariamente anche lo vuole. […] …non si
può negare che lo stato di natura, prima che si costituisse la società, fosse uno stato di guerra e non
di guerra semplicemente, ma di guerra di tutti contro tutti.» (Hobbes, De cive, 26-27, 38)
«Infatti le leggi di natura (come la giustizia, l’equità, la modestia, la pietà, e, insomma, fare agli altri
quello che vorremmo fosse fatto a noi) per se stesse, senza il terrore di un potere che ne causi
l’osservanza, sono contrarie alle nostre passioni naturali, che ci inducono alla parzialità,
all’orgoglio, alla vendetta e simili. E i patti, senza le spade, sono solo delle parole, prive della forza
di dare agli uomini una qualsiasi sicurezza. Quindi, nonostante le leggi di natura (che ognuno
osserva solo quando ne ha voglia, e può farlo con sicurezza), se non viene istituito un potere, e se
tale potere non è sufficiente alla nostra sicurezza, ognuno può legittimamente ricorrere alla propria
forza e alla propria astuzia per garantirsi contro gli altri.» (Hobbes, Leviatano,107)
Il diritto totale di proprietà che compete a tutti in natura, per assenza di leggi, genera la guerra
totale. Dallo jus in omnia, il bellum omnium contra omnes. «Prima della costituzione del potere
sovrano tutti gli uomini avevano un diritto a tutte le cose, che causava necessariamente la guerra»
(Hobbes Leviatano, 118)
Nozioni, strumenti e note critiche sul primo elemento: lo stato di natura.
2.1.1. Lo stato di natura è luogo e nozione che ci colloca in situazione giusnaturalistica; la teoria
politica che pone a postulato della costruzione dello Stato l’esistenza di diritti che per natura
appartengono all’uomo e da cui occorre partire per indicare i fondamenti e le competenze e i limiti
dello Stato.
2.1.2. È una situazione che, pur descritta anche con particolari, non ha alcun fondamento storico né
alcun riscontro empirico in quanto per definizione esiste in forza di un’astrazione dal dato storico: si
ottiene astraendo dall’uomo tutto ciò che si presume gli derivi dalla società e dalla politica. Per
tratteggiare lo “stato di natura” non serve il riferimento e la descrizione di popoli dichiarati
“primitivi” o “selvaggi” (rimasti allo stato di natura), poiché questa descrizione è resa possibile in
tali termini solo dall’ignoranza voluta con cui li si accosta e si decide della loro diversità. Lo Stato
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di natura diventa (è da intendere come) una regola di metodo: trova forma solo attraverso il metodo
ipotetico e l’applicazione del modus tollens. Se astraiamo dal sociale togliendo leggi, costumi,
consuetudini, religione, linguaggio, proprietà… allora prende forma l’uomo secondo la sola natura.
Il metodo ha indirettamente l’obiettivo e la funzione di misurare il ruolo e la rilevanza di ciò che è
considerato civile: patti, leggi, istituzioni. Un caso storico che può presentificare una simile
situazione è quello della guerra civile ove sembra debba venir sospesa ogni situazione di legge e di
diritto fino ad allora considerata fondante e garanzia di civiltà; difficile dire però, in questo caso,
che si è usciti dallo stato civile e entrati (tornati) allo stato di natura.
2.1.2.1. La portata del tema delle origini per la definizione (e l’uso politico e storico) del passato,
del presente e del futuro; nella riflessione di Judith Butler, applicata al tema del genere ma con
valenza generale. «La storia delle origini è quindi una tattica strategica all’interno di una narrazione
che, fornendo un unico resoconto autorevole di un passato irrecuperabile, dipinge la costituzione
della legge come un’inevitabilità storica.
Nel passato pregiuridico, alcune femministe hanno trovato tracce di un futuro utopistico, una
potenziale risorsa di sovversione o insurrezione che promette di condurre alla distruzione della
legge e all’insediamento di un nuovo ordine. Se il "prima" immaginario viene inevitabilmente
dipinto nei termini di una narrazione preistorica che serve a legittimare lo stato attuale della legge o,
in alternativa, il futuro immaginario oltre di essa, questo "prima” è tuttavia sempre già intriso delle
invenzioni autogiustificatorie degli interessi presenti e futuri, siano essi femministi o
antifemministi. Il postulato del "prima" nella teoria femminista diviene politicamente problematico
quando costringe il futuro a materializzare una nozione idealizzata del passato o quando supporta,
anche involontariamente, la reificazione di una sfera preculturale del femminile autentico. Tale
ricorso a una femminilità originaria o genuina è un ideale gretto e nostalgico che respinge
l’esigenza contemporanea di formulare un resoconto del genere come costruzione culturale
complessa. Questo ideale tende non solo a promuovere finalità culturalmente conservative, ma
anche a costituire una pratica esclusiva all’interno del femminismo, precipitando proprio il tipo di
frammentazione che pretende di superare.» (Butler Judith 1990, 1999, Scambi di genere. Identità,
sesso e desiderio, Sansoni, Milano 2004, 56)
E, più in generale, considerando la logica e l’ordine del discorso (della messa in discorso alla
Foucault): «Se tale lingua è strutturata dalla legge e questa è esemplificata, anzi messa in scena,
nella lingua, la descrizione, la narrazione, non solo non può sapere che cosa si trova al suo esterno
(ossia prima della legge), ma la descrizione di quel "prima" sarà sempre al servizio del "dopo". In
altre parole, non solo la narrazione rivendica l’accesso a un "prima" da cui è preclusa sul piano della
definizione (in virtù della sua linguisticità), ma la descrizione del "prima" avviene nei termini del
"dopo" e diviene pertanto un’attenuazione della legge stessa nel sito della sua assenza.» (Butler
1990, 1999, 104)
2.1.3. Allora lo “stato di natura” ospita, probabilmente, e dà corpo a qualcos’altro. Esprime “la
sensazione di fragilità della nostra coesione sociale”. «La nostra vita è permeata dalla paura che
questo tipo di disintegrazione dell’intero tessuto sociale possa verificarsi in qualunque momento,
che un disastro naturale o tecnologico — un terremoto, un blackout elettrico o l’ormai vetusto
Millenium Bug — riduca il mondo a una landa selvaggia e primitiva. Questa sensazione di fragilità
della nostra coesione sociale è di per sé un sintomo sociale. Proprio quando ci si aspetterebbe uno
slancio di solidarietà di fronte ai disastro, c’è la paura che esploda un egoismo sfrenato, così come è
accaduto a New Orleans.» Žižek Slavoj 2007 La violenza invisibile, Rizzoli, Milano 2007, p. 97
O meglio come sembra sia accaduto a New Orleans, ad Haiti … trasformando in presunto fatto –
comportamento naturale un dato sociale e politico, secondo opportunità anch’esse di tipo politico
(a tale scopo le pagine 97-107 di Žižek Slavoj 2007 La violenza invisibile, Rizzoli, Milano 2007;
«La disintegrazione dell’ordine sociale arrivò in una sorta di azione ritardata, come se la catastrofe
naturale si ripetesse in forma di catastrofe sociale.» p.99)
Di qui ha origine la situazione e la nozione di stato di natura di Hobbes: la paura che ciò che lì è
descritto possa accadere. L’evento allora non è lo stato di natura, ma il sintomo di fragilità che
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accompagna la vita nella società civile; sintomo che dovrebbe spingere alla ricerca delle cause e
delle motivazioni più che alla sua estromissione (esternalizzazione) attraverso la costruzione di un
mondo a parte così contrassegnato.
2.1.3.1. Non è solo segno di fragilità sociale; lo “stato si natura”, sostenuto come sede reale di un
patto, seppure in uscita, è fonte di debolezza del sociale. Nello stato di natura sono in azione
«meccanismi extra-sociali che giustifichino il fondamento delle norme sociali.» (Butler Judith 2004
La disfatta del genere, Meltemi, Roma 2006, 62). La ricerca di atti extrasociali da porre a
fondamento del sociale, mentre sembra giustificare e rafforzare il legame sociale dandovi un
fondamento stabile, e naturale, ha l’effetto di annullare l’autonomia, e soprattutto di impedire la
dinamica interna che lo caratterizza come realtà di natura mobile. Come ogni fondazione
ontologica, anche quella naturale o extrasociale non sorregge anzi rende marginale e apparente il
divenire; divenire e molteplicità che sono invece tratti essenziali e propri della natura del sociale,
della sua autonomia e della logica democratica interna.
2.1.4. L’antitesi e relazione tra jus e lex.
È naturale: il diritto totale, l’uguaglianza tra tutti e la loro parità, la libertà totale, la proprietà
comune; ma questo genera guerra. I tratti richiamati. Propri dello stato di natura, ricorrono nelle
ideologie politiche a carattere utopistico ma, per Hobbes, si rovesciano nella massima distopia della
guerra senza fine di tutti contro tutti. È sociale: il diritto limitato, la diseguaglianza, la libertà nei
limiti della legge, la proprietà privata; e questo genera pace. Gli aspetti che vengono intesi sotto la
voce del limite, della coercizione, dell’obbligo, del dovere si trasformano in pace e in diritti
garantiti; una nuova utopia “borghese” o utopia della politica dell’ordine nel diritto e nella legge.
Nel ragionamento di Hobbes è presente un movimento plurimo: [1°.] diritto e legge si oppongono
come libertà e costrizione; ma [2°.] il diritto (totale, naturale) senza legge (limite e dovere) è guerra;
così come accade alla natura senza società e senza Stato; [3°.] il diritto per affermare se stesso ha
bisogno della legge (esiste grazie alla legge che lo enuncia e garantisce), la natura (il diritto
naturale) si attua nei legami sociali (nelle sue convenzioni, tradizioni, valori…in cui prende forma e
efficacia).
In altra sintesi. 1. Lo stato di natura porta con sé il concetto di diritto e di diritto naturale originario
e totale (nella sua più vasta espansione e accezione pura). 2. Il diritto in natura è definito in modo da
rimandare per coerenza e necessità alla legge: essendo totale per tutti, crea il bellum omnium contra
omnes, mette a rischio la sopravvivenza di ciascuno, vede la natura in contraddizione con se stessa.
3. L’opposizione e la relazione tra jus e lex: secondo proporzione: jus:lex=libertà:costrizione; ma lo
jus senza legge è di fatto rischio e negazione del diritto; nella legge il diritto da naturale diventa
positivo, contenutistico, reale e garantito.
2.2. Il contratto e la nascita della società e dello stato.
Come preliminare è utile richiamare la lunga presenza e la portata storica del tema del consenso /
contratto quale viene formulato nelle teorie contrattualistiche moderne.
Il cammino è lungo; per estremi (alcuni): da Socrate che attraverso il dialogo cercava di costruire
una polis la cui forza si fondava sul consenso condiviso (la stessa verità veniva considerata tale in
quanto frutto di accordo, di omologhia, all’interno di un percorso continuo di confronto …), a
Rawls che, per le società multiculturale caratterizzate da una molteplicità di posizioni e dottrine
comprensive tra di loro inconciliabili, intende fondare un sistema democratico su di un consenso per
intersezione; diremmo, per rendere più chiara la formula, consenso per convinzione interna o
propria, consenso per adesione (e non per costrizione…).
I termini del contratto e la nascita della società (unione, pactum unionis) e della sovranità
(sottomissione, obbedienza, pactum subiectionis): da multitudo a civitas.
«L’unico modo in cui gli uomini possono erigere un potere comune che sia in grado di difenderli
dall’aggressione di stranieri e dai torti reciproci, e quindi di garantire una sicurezza tale che essi
possano sostentarsi e viver bene grazie alla loro industria e ai frutti della terra, è quello di conferire
tutto il loro potere e la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini, che, a maggioranza di
voti, possano ridurre tutte le loro volontà ad una volontà unica. Ciò torna a dire: è che nominino un
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uomo o un’assemblea, che sostenga la loro persona; e che ciascuno di essi riconosca come proprie
(e se ne riconosca come autore) tutte le azioni che colui che in tal modo sostiene la loro persona
compirà o farà compiere, in quelle cose che riguardano la pace e la sicurezza comuni; e che tutti
sottomettano, a questo riguardo, le loro volontà alla sua volontà e i loro giudizi al suo giudizio.
Questo è più del consenso o della concordia: si tratta di una unità reale di tutti loro in una sola e
identica persona, costituita mediante il patto di ogni individuo con ciascuno degli altri; come se
ognuno di essi avesse detto all’altro: io autorizzo, e cedo il mio diritto di governarmi a quest’uomo
o a questa assemblea di uomini, a condizione che tu ceda a lui il tuo diritto, e autorizzi allo stesso
modo tutte le sue azioni. Ciò fatto, la moltitudine così unita in un’unica persona è detta Stato, in
latino civitas.» (Hobbes Leviatano, 110)
2.2.1. Lo stato di natura è luogo del diritto (totale e belligerante) ma è anche, per contrasto, luogo di
leggi naturali che in sequenza logica (con rigore geometrico) Hobbes ricava dai tratti stessi che
definiscono lo stato di natura; si tratta di un processo di deduzione: «… i precedenti precetti della
legge di natura sono derivati artificialmente da un unico principio che ci spinge alla conservazione e
all’incolumità…» e parla di «deduzione di tali leggi». (Hobbes, De cive, 47)
Natura è diritto totale e perciò anche autoconservazione. Poiché la sopravvivenza è minacciata dalla
guerra infinita di tutti contro tutti, per uscire dalla contraddizione in cui la natura stessa ci colloca
donandoci la vita definita da diritti che la mettono a sicuro rischio, diventa legge di natura: 1.
cercare la pace, 2. stipulare patti, 3. rispettare i patti stipulati. Leggi che si impongono per evitare la
contraddizione, quindi in nome di un rigore logico. La natura che concede tutto a tutti non può con
ciò mettere a rischio totale la vita; stipulare patti esprime quella libertà che uno Stato esterno al
patto negherebbe mentre sorge per garantirla; rispettare i patti è coerenza «chi stringe i patti con una
persona, cui non ritiene di essere obbligato a mantenere la parola data, pensa nello stesso tempo che
il suo impegno sia valido e non valido insieme, il che è contraddittorio.» (Hobbes De cive, 45)
2.2.2. Le caratteristiche della legge naturale: utilitaristica e formale.
2.2.2.1. È l’utilità naturale della sopravvivenza a generarla; la legge quindi ha un’origine interna
alla natura e non rimanda a entità sovrannaturali.
2.2.2.2. La legge naturale indica una direzione ma non pone vincoli di contenuto, è formale; se così
non fosse o dovrebbe presupporre una capacità legislativa che la precede; o riconsegnerebbe
l’umanità al bellum omnium contra omnes. Dunque i termini di Hobbes per una ipotetica forma
contrattuale: «… come se ognuno di essi avesse detto all’altro: io autorizzo, e cedo il mio diritto di
governarmi a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a condizione che tu ceda a lui il tuo
diritto, e autorizzi allo stesso modo tutte le sue azioni.»
La rivoluzione o il cambiamento determinati dalla natura formale del patto è di grande rilevanza: si
tratta del passaggio dal torto giuridico all’assurdo logico; il diritto trova la propria coerenza se
riscritto nelle forme della logica formale e in tal senso prende la strada per costituire la forma del
diritto puro [vedi Kelsen]; solo così guadagna la propria autonomia e sovranità,
contemporaneamente con il proprio rigore di formulazione e di controllo. Solo così, di conseguenza,
lo Stato di diritto rivendica per sé i tratti dello Stato assoluto senza avere nulla a che fare con
l’assolutismo politico.
Osserva Norberto Bobbio: « questo parallelo fra torto in diritto e assurdità in logica è una
conseguenza, sulla quale riteniamo utile richiamare l’attenzione, della concezione puramente
formale, che Hobbes ha della giustizia (concezione legalistica, della giustizia)…. Per Hobbes la
giustizia è la conformità a ciò che è stabilito (non importa se sia stabilito con patto o con legge),
onde si deve dire non già che un patto o una legge sono giusti, in quanto impongono questo
comportamento piuttosto che quello, ma che è giusto ciò che è conforme al patto o alla legge.
Questa concezione puramente formale della giustizia è, da un lato, in rapporto diretto con la
considerazione della pace (o dell’ordine) come fine supremo del diritto — affinché vi sia la pace è
sufficiente che le leggi siano rispettate qualunque esse siano — e dall’altro porta ad assimilare,
come fa Hobbes in questo paragrafo, l’ingiustizia, intesa non come azione in contrasto ad un bene
ideale, ma come incoerenza, alla contraddizione logica, cioè, all’asserzione in contrasto con le
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premesse stabilite.» (Bobbio Norberto, in De Cive, p. 46 n.8) Una diversa impostazione porterebbe
a criteri di verità e giustizia collocati all’esterno del sociale e della storia e non si sa bene dove, se
non in luoghi pretestuosamente creati ad hoc e spacciati opportunamente come trascendenti o
addirittura divini. (su ciò vedi le osservazioni di Spinoza). La conseguenza logica di una simile
impostazione, sottolineata nella riflessione di Bobbio e che conduce al formalismo giuridico e alla
teoria del diritto puro, è appunto la coincidenza torto in diritto e assurdità in sede logica. Si tratta di
un proposito esplicito di metodo: Hobbes proclama nella lettera di dedica del De cive: «non
desidero perdermi in chiacchiere, ma amo procedere con precisione matematica (non enim dissero,
sed computo)» e dunque ora il parallelo tra diritto e logica, va inteso non tanto come trasposizione
analogica ma come traduzione e riscrittura del diritto dalla sede di una generica antropologia, alla
sede del diritto “puro”. «V’è una certa somiglianza fra ciò che nella vita comune si chiama torto e
ciò che nella logica scolastica si suole chiamare assurdo.» (Hobbes, De cive, 46)
2.2.2.3. Sulla stessa linea il bilancio espresso da Caillé: «…Hobbes, che spiega come ogni potere
sia, in un certo senso, una benedizione. Come gli autori antichi ed i popoli di ovunque e di sempre
avevano ed hanno ben capito, esiste una legittimità intrinseca della forza superiore, che la rende
immancabilmente «giusta» per il solo fatto che, per ipotesi, essa è la sola capace di metter fine alla
lotta delle forze e delle violenze inferiori. Non appena si esce dal campo delle società selvagge,
premunite contro lo Stato dalla reciprocità della violenza, una società esiste solo in quanto unificata
da una forza che ha saputo imporsi contro le forze rivali sul campo e che ricava inizialmente dal suo
solo trionfo la sua prima legittimità. Il politico si legittima con la sua capacità di far nascere un
ordine della politica.
Per ipotesi, si può parlare di società francese, inglese, americana e così via solo perché una forza
superiore delimita uno spazio da cui la guerra è esclusa e dove le liti tra gli uomini si regolano di
preferenza pacificamente. È stato possibile parlare di società russa (o sovietica), e di società
jugoslava finché la guerra interna non le ha fatte esplodere. Il concetto di politico corrisponde
dunque alla scelta autoreferenziale di una società da parte di se stessa.» Caillé Alain 1993 Il
tramonto del politico. Crisi, rinuncia e riscatto delle scienze sociali, edizioni Dedalo Bari 1995,
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2.2.3. Nella teoria di Hobbes la fusione delle due tradizioni che parevano e vengono ancora (spesso)
intese come tra loro opposte: giusnaturalismo e contrattualismo. La prima tradizione indica il
fondamento dello Stato nei diritti naturali, la seconda in un patto, contratto sociale. In Hobbes la
tradizione politica e giuridica del contrattualismo trova un fondamento naturale e illustra il concetto
stesso di stato di natura.
2.2.3.1. Il venire a patti e il rispettarli è legge naturale (un contrattualismo su basi
giusnaturalistiche): la tendenza naturale alla sopravvivenza impone come legge naturale di scendere
a patti e di rispettarli (stipulare un patto con l’intenzione di non rispettarlo è giuridicamente, e
moralmente, non stipularlo). Il contrattualismo risulta rafforzato dalla sua collocazione in natura: è
legge di natura.
2.2.3.2. Collocato in natura (nello stato di natura o come indole urgenza naturale degli uomini) il
contratto acquista i propri tratti formali: non pone vincoli legislativi contenutistici al destinatario del
contratto. In questa collocazione il contratto, e la tradizione contrattualistica, ne risulta
(apparentemente) indebolita: quel contratto non pone condizioni, è svuotato dai presupposti di
diritto naturale che fondano e limitano lo Stato, è un mandato senza vincoli di contenuto, non indica
mezzi ma impone solo il fine: la pace. Ognuno infatti rinuncia non a decidere su ambiti specifici,
ma alla propria volontà. Il contratto non equivale ad un trasferimento di diritti (di cui il contraente
potrebbe chiedere conto) ma ad una rinuncia totale fino a determinare una coincidenza tra la volontà
individuale dell’uomo nella società e la volontà dello Stato. Lo Stato è ciò che resta; resta nella
potenza della natura, nella situazione della “barbarie”; è monstrum, Leviatano. Lo Stato è l’unico
che resta nella potenza della natura, nella pienezza del diritto, destinatario dunque della
identificazione del singolo con i propri diritti che da naturali non possono ora che essere politici
(emanati e garantiti).
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2.2.3.3. L’assenza di vincoli e di condizioni e la natura formale del patto sembrano svuotare la
tradizione contrattualistica e trasforma di fatto quel pactum unionis in pactum subjectionis. Ma il
fine per cui il patto sorge è molto più vincolante di qualsiasi contenuto e mette lo Stato nelle
condizioni e nel compito (senza alibi) di perseguirlo: garantire la pace, in tutte le direzioni (interne e
esterne) e per tutti.
2.2.4. la natura formale del patto si impone dunque per logica geometrica (o quasi):
2.2.4.1. per logica conseguenza: in natura e prima del contratto non vi è alcuna autorità che possa
porre dei vincoli per legiferare; ne deriverebbe un rimando all’infinito nella ricerca del fondamento
politico e quindi un’assenza di fondamento.
2.2.4.2. per opportunità politica (strategica generale, storica particolare): la natura formale del patto
non vincola lo Stato ad alcun patto o limite, equivale alla nascita dello stato assoluto, l’unico
considerato da Hobbes, nelle condizioni di garantire ciò per cui lo Stato nasce. Stato che è assoluto
nel potere, indipendentemente dalla forma che le sue istituzioni possono storicamente assumere
(monarchia o democrazia; un monarca o un’assemblea).
2.2.5. per concludere: il bivio della fondazione dello Stato moderno, natura e contratto.
Nella riflessione di Hobbes sono in azione due direzioni fondative della politica: quella
naturalistica, che parte e si fonda sullo stato di natura, sulla natura umana; quella del contratto o
patto di società che nella rinuncia di tutti al potere individuale fa nascere il potere politico assoluto.
Si tratta di due postulati, due ipotesi o due situazioni immaginate o due “esperienze di pensiero”.
«Che la descrizione dello stato di natura sia una vera e propria esperienza di pensiero è confermato
dal fatto che gli aspetti che ho collocato all’insegna del misconoscimento originario non risultano
dalla osservazione di uno stato di fatto, ma dalla immaginazione di ciò che la vita umana sarebbe
senza l’istituzione di un governo» (Ricoeur Paul 2004 Percorsi del riconoscimento, Raffaello
Cortina, Milano 2005, 187) (infatti: non sarebbe possibile pronunciare la parola “guerra” ,
«prelevata all’esperienza storica» per parlare dello stato di natura; di passioni o sentimenti propri di
un’etica che presuppone legami sociali). Il quesito di nuovo, in altri termini, appena leggermente
diversi: all’origine del vivere sociale in forma politica si pone la natura o un contratto (un patto
sociale); oppure occorre far dipendere il sociale dalla natura e il politico dal contratto? La
riflessione di Hobbes mostra come si tratti però di avvii non incompatibili tra loro: il motivo della
paura della morte violenta basta, tramite il calcolo, a sostenere l’intero edificio dei contratti e delle
promesse che sembrano ricostituire le condizioni di un bene comune? «Questo dubbio trasforma la
sfida di Hobbes in una sfida doppia, ossia la sfida della premessa naturalistica, e la sfida di un
ordine contrattuale, di carattere paraetico.» (Ricoeur 2004,193)
2.4.5.1. Su tutta la teorie, e in particolare sul concetto di stato di natura, abitato da soggetti che
sono già in grado di intendere e volere molto giuridicamente, e sul concetto di contratto, che si
colloca in situazione pre-sociale e pre-politica e da cui viene fatta nascere la politica come evento
naturale e sociale vi è il sospetto di una circolarità viziosa. Lo Stato già esistente riconosce e
costituisce (fonda) quei soggetti in natura che riconoscono e costituiscono (fondano) lo Stato con un
atto di riconoscimento e di contratto. Allo scopo è efficace un’osservazione di Judith Butler: «La
supposizione prevalente dell’integrità ontologica del soggetto prima della legge potrebbe essere
intesa come il residuo contemporaneo dell’ipotesi dello stato di natura, la favola fondazionalista
costitutiva delle strutture giuridiche del liberalismo classico. L’invocazione performativa di un
"prima" astorico diviene la premessa fondazionale capace di garantire un’ontologia presociale delle
persone che acconsentono liberamente a essere governate e, dunque, costituiscono la legittimità del
contratto sociale.» (Butler Judith 1990, 1999, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni,
Milano 2004, 5) Con l’invenzione dello stato di natura, oltre a nascondere il fatto performativo
politico e sociale del soggetto, lo Stato procura a se stesso una fondazione ontologico-naturale e
l’evento - atto performativo originario del politico: il contratto di società.
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3. la tesi di uno stato “assoluto”
«Questa è la generazione del grande Leviatano, o piuttosto (per parlare con maggiore reverenza), di
quel Dio mortale, cui dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti per
questa autorità, che gli è stata data da ogni singolo uomo dello Stato, gli è conferito l’uso di tanto
potere e di tanta forza, da essere in grado, con il terrore da essi suscitato, di conformare le volontà di
tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni. In lui risiede l’essenza dello
Stato, che, per definirlo, è una persona unica, dei cui atti si sono fatti individualmente autori,
mediante patti reciproci, una grande moltitudine di uomini alfine che possa usare tutta la loro forza
e tutti i loro mezzi come riterrà opportuno, in vista della loro pace e della loro difesa comune. E chi
sostiene questa persona è detto sovrano; e si dice che detiene il potere sovrano. Tutti gli altri sono i
suoi sudditi.» (Hobbes Leviatano, 110-111)
I tratti e i processi costituenti la teoria dello Stato moderno come Stato assoluto.
3.1. Un patto di società è un patto di sottomissione all’autorità politica, dal dominio, controllo e
garanzia della quale è impossibile, e sarebbe disastroso, uscire.
«Si dice che uno Stato è istituito, quando degli uomini in moltitudine si accordano e concludono il
patto, l’uno con l’altro, che, chiunque sia l’uomo o l’assemblea di uomini cui sarà dato dalla
maggioranza il diritto a rappresentare la persona di tutti (cioè di essere il loro rappresentante),
ciascuno di loro, sia chi ha votato a favore, sia chi ha votato contro, autorizzerà tutte le azioni e i
giudizi di quell’uomo o assemblea di uomini, esattamente come se fossero i suoi, al fine di vivere in
pace ed essere protetto nei confronti degli altri.
Da questa istituzione dello Stato derivano tutti i diritti e le facoltà di colui o coloro cui il potere
sovrano è stato conferito dal consenso del popolo riunito in assemblea.» (Hobbes Leviatano, 112)
E si tratta di un patto assolutamente originario, istituzionalizza il sociale come luogo del pattuire;
nessun patto precedente vincola il patto di unione e sottomissione che costituisce il sociale, si
collocherebbe in un mitico e inesistente fuori-sociale; in quanto assolutamente primo, costituente il
costituire, non può essere solvibile, si confermerebbe nel suo (falso) sciogliersi.
3.2. Il patto sociale e politico è irrevocabile; non è possibile recedere dal patto. Lo Stato, il
sovrano, la sovranità sono esterni al patto (è assoluto, ab solutum, sciolto dal patto, non è
contrattabile).
«… poiché il diritto di sostenere la persona di tutti è conferito al sovrano non mediante un patto
concluso fra di lui e tutti i sudditi, ma solo mediante un patto concluso fra questi ultimi, non può
aver luogo alcuna infrazione del patto da parte del sovrano, e di conseguenza nessun suddito può
essere liberato della propria soggezione, con il pretesto dell’inadempienza. È chiaro che chi è fatto
sovrano non conclude, in precedenza, alcun patto con i sudditi, perché dovrebbe concluderlo con
l’intera moltitudine come parte del patto, oppure dovrebbe concludere un patto distinto con
ciascuno degli individui. Concluderlo con tutti come una parte, non è possibile, perché essi non
costituiscono ancora una persona unica; e se conclude tanti patti distinti, quanti sono gli uomini,
questi parti, dopo che diviene sovrano, sono nulli… » (Hobbes Leviatano, 114)
3.3. Gli aspetti e i processi (innovativi e problematici) dello Stato assoluto derivati dalla sua
doppia e parallela origine, operante in contemporanea, senza che una radice annulli l’altra: lo stato
di natura, il contratto.
3.3.1. Lo Stato garantisce e conserva il passaggio dalla multitudo alla civitas, paradossalmente, in
quanto resta, lui unico, nello stato di natura, nella “barbarie”. In forza della rinuncia di tutti, come
da contratto, resta unico nella pienezza del diritto e della forza; è senza limiti giuridici perché è la
fonte unica del diritto e, sempre in forza del patto sociale di rinuncia e quindi di sottomissione, ha il
monopolio della violenza, mezzo indispensabile per garantire la pace e l’ordine (assume su di sé il
male redimendolo). Si tratta di una rinuncia e di una concentrazione che ha l’effetto di una
trasformazione sostanziale del diritto e della violenza finora associati nell’esito di guerra. «Hobbes
concentra il male (il Leviatano), la forza gratuita allo stato puro, nelle mani del governo; così
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facendo le fa subire una “transustanziazione”, da elemento di guerra (bellum omnium contra omnes
quale era in natura) diventa elemento di ordine oltre che fonte di sovranità, pone il politico al di
fuori di ogni canone morale tradizionale» (Revelli Marco 2003 La politica perduta, Einaudi,
Torino.) e diventa principio di pace.
3.3.1.1. Un dubbio e una domanda. La logica del processo dimostrativo costruito da Hobbes per
affermare la natura assoluta dello Stato sembra seguire un percorso circolare che indebolisce
l’intero procedimento. La natura assoluta dello Stato e il monopolio del potere che gli viene
riservato trova la propria legittimazione nei tratti che contraddistinguono lo stato di natura: bellum
omnium contra omnes; tratti che, in assenza di verifica empirica, si presentano come a priori
costruiti ad hoc. Per uscire radicalmente dall’incubo dello stato di natura si rende necessario uno
Stato in cui il potere sia unico, unificato e assoluto.
Questa spiegazione sembra avere un punto debole, fa sorgere il dubbio che ci si trovi di fronte a un
usteron proteron. Si costruisce una premessa funzionale alla conclusione cui si vuole arrivare: il
potere assoluto dello Stato è giustificato dalla guerra totale che contrassegna lo stato di natura. Nel
ragionamento di Hobbes, la situazione di guerra totale, da ipotetico esito derivante da una assenza
dello Stato, diventa la situazione naturale in cui si trova l’umanità per natura; l’esito è posto come
inizio e causa. Inoltre, vista il carattere ipotetico dello stato di natura, non vengono prese in
considerazione altre ipotesi edeniche, anch’esse certamente mitiche, dello stato di natura, come
quella biblica del paradiso terrestre o sostenute (forse altrettanto funzionalmente) da altri autori.
Sembra pesare sui momenti dell’impianto dimostrativo l’urgenza storica cui Hobbes è di fronte: la
guerra civile e l’emergere in essa di una umanità “ferina”, quindi la necessità giuridica di fondare
l’autonomia dello Stato fonte unica di diritto e di diritto positivo.
3.3.2. Il paradigma di immunizzazione. Lo Stato assoluto e il “paradigma della immunizzazione”
come strumento di costruzione della sovranità dello Stato nell’età moderna.
3.3.2.1. Il tema è proposto dallo studio di Esposito Roberto 2004 Bìos. Politica e filosofia, Einaudi,
Torino. Nel corso dell’età contemporanea hanno assunto la forma di teoria schemi e processi di
costruzione di modelli politici; già operanti e diffusi nella tradizione del pensiero politico ora resi
espliciti nella loro funzione costituente. Il riferimento va alla «produttività euristica di modelli
esegetici di uso più consolidato come quelli di ‘razionalizzazione’ (Weber), di ‘secolarizzazione’
(Löwith) o di ‘legittimazione’ (Blumenberg). Ma mi pare che tutti e tre possano trarre vantaggio
dalla contaminazione con una categoria esplicativa al contempo più complessa e più profonda che
ne costituisce il presupposto retrostante.» (Esposito 2004, 47-48)
Si tratta del «paradigma di immunizzazione»: il tema o lo schema dell’immunità, proprio dei
processi (biologici) di immunizzazione degli organismi, viene utilizzato e presentato come
procedura di costruzione, difesa e salvezza di sistemi politici sociali. Il primo a costruire la
sovranità dello stato attraverso il ricorso alla dinamica dei processi di immunizzazione è proprio
Hobbes. «… un suo prototipo va sicuramente rintracciato nella filosofia politica di Hobbes: allorché
egli non soltanto pone al centro della propria prospettiva il problema della conservatio vitae, ma la
condiziona alla subordinazione ad un potere costrittivo ad essa esterno, quale è quello sovrano, il
principio immunitario è già virtualmente fondato.» (Esposito 2004, 42). Pur con la cautela di un
supplemento interpretativo, è Hobbes che inaugura una tradizione che prende progressivamente la
consistenza di una teoria in autori come Hegel («È noto che egli è il primo ad assumere il negativo
non come semplice prezzo — il residuo non voluto, lo scotto necessario — da pagare
all’effettuazione del positivo, ma piuttosto come il suo stesso motore, il carburante che ne consente
il funzionamento.» (Esposito 2004, 43), Nietzsche («… si tratta … dell’interpretazione dell’intera
civilizzazione in termini di autoconservazione immunitaria.» (Esposito 2004, 43).
3.3.2.2. la categoria di immunità è disponibile ad un trasferimento analogico, tuttavia non solo per
metafora, anche per diretta definizione e come mezzo costitutivo, costituente, di costruzione
politica. Il tema compare nell’opera di Durkheim Émile 1895 Le regole del metodo sociologico,
(Einaudi, Torino 2008) nel capitolo: “Regole relative alla distinzione tra normale e patologico” sul
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tema dell’utilità e del loro indispensabile legame. «…Emile Durkheim, considerando ciò che appare
patologico in ambito sociale una polarità non solo ineliminabile, anche funzionale, del
comportamento normale, si richiama proprio all’immunologia: «Il vaiolo, che inoculiamo col
vaccino, è un vera malattia che ci diamo volontariamente e, tuttavia, esso accresce le nostre
probabilità di sopravvivere. Ci sono, forse, molti altri casi in cui il turbamento causato dalla malattia
è insignificante a confronto delle immunità che conferisce». (Esposito 2004, 45) Fuor di metafora (e
grazie alla metafora), la violenza che costituisce e accompagna la nascita dello Stato è il vaccino
che l’umanità si inietta (attraverso il contratto) per uscire dallo stato di natura reso precario e
sempre sull’orlo dell’autodistruzione dalla violenza che deriva dallo ius in omnia di ciascuno. La
violenza è presente nella società per la presenza e il dominio dello Stato, ma da malattia distruttiva è
diventata farmaco e sistema immunitario che, liberando i cittadini da essa (impedendone con la
forza, con la violenza, il farvi ricorso da parte dei cittadini), conserva la sicurezza e la pace.
In altri termini (e ripetendo) Hobbes rappresenta la fondazione dello Stato attraverso un processo di
immunizzazione. Nel contratto di rinuncia e di sottomissione che dà vita al legame sociale grazie
alla presenza dello Stato, gli uomini di fatto trasferiscono allo Stato, al sovrano, la “malattia” che
naturalmente li caratterizza, cioè lo ius in omnia, quel diritto totale che li definisce naturalmente ma
che, contemporaneamente, mette a rischio sicuro la vita di tutti e li lascia in un bellum omnium
contra omnes che esprime la situazione di contraddizione irrisolvibile in cui si trovano. Lo Stato che
si insedia nel corpo sociale con quella “malattia”, con lo ius in omnia, provoca un processo di
immunizzazione sociale, toglie la guerra che li minaccia con lo stesso potere da cui quella guerra, in
natura, era generata, cioè con la violenza della emanazione del diritto da parte di un potere assoluto.
Si tratta infatti di uno Stato assoluto e «solo un sovrano assoluto può liberare gli individui dalla
soggezione ad altri poteri dispotici.» (Esposito 2004, 58)
«L’iniziale conato autoconservativo (conatus sese praeservandi) è, infatti, destinato al fallimento
dall’effetto combinato con l’altro impulso naturale che accompagna, e appunto contraddice, il primo
— vale a dire quello dell’inesauribile desiderio acquisitivo su tutto che condanna gli uomini al
conflitto generalizzato. Benché tesa ad autoperpetuarsi, insomma, la vita non è in grado di farlo
autonomamente. È anzi sottoposta ad un potente movimento controfattuale che, quanto più spinge
in direzione autoconservativa, quanto maggiori mezzi difensivi ed offensivi mobilita a questo fine,
tanto più rischia di ottenere l’effetto contrario, vista la sostanziale eguaglianza degli uomini, tutti in
grado di uccidere ogni altro e dunque, per lo stesso motivo, tutti soggetti ad essere uccisi: «Perciò,
finché dura questo diritto naturale di ogni uomo ad ogni cosa, non ci può essere sicurezza per
alcuno (per quanto forte o saggio egli sia) di vivere per tutto il tempo che la natura ordinariamente
concede agli uomini di vivere» (Hobbes, Leviatano). È qui che scatta il meccanismo immunitario.
Se abbandonata alle sue potenze interne, alle sue dinamiche naturali, la vita umana è destinata ad
autodistruggersi perché porta dentro di sé qualcosa che la mette ineluttabilmente in contraddizione
con se stessa. Perciò, per potersi salvare, ha bisogno di uscire da sé e costituire un punto di
trascendenza da cui ricevere ordine e riparo. È in tale scarto, o raddoppiamento, della vita rispetto a
se stessa che va collocato il passaggio dalla natura all’artificio.» (Esposito 2004, 56)
3.3.2.3. L’artificio della sovranità. Si tratta di un secondo, e più fondamentale (naturale, biologico,
fisico, viscerale…), sistema immunitario che, indirettamente segnala la debolezza di quel sistema
immunitario più specifico e proprio dell’umanità, più umano, costituito dalla ragione; quest’ultima
non basta a garantire il sistema; gli uomini sono razionali, ma poco ragionevoli (direbbe Rawls).
«Per essere conservata, la vita deve rinunciare a qualcosa che fa parte integrante, e anzi costituisce
il vettore prevalente, della propria potenza espansiva — vale a dire a quella volontà acquisitiva su
ogni cosa che la mette a rischio di una ritorsione mortale. È vero, infatti, che ogni organismo vitale
ha al proprio interno una sorta di sistema immunitario naturale — la ragione — che lo difende
dall’attacco di agenti esterni. Ma, una volta accertata la sua insufficienza, e anzi il suo effetto
controproducente, esso va sostituito da un’immunità indotta, vale a dire artificiale, che insieme
compie e nega la prima: non solo perché situata fuori dal corpo individuale, ma anche perché
deputata al contenimento forzato della sua intensità primigenia. Questo secondo dispositivo
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immunitario — anzi metaimmunitario, destinato a proteggere da una protezione inefficace e
addirittura rischiosa — è appunto la sovranità.» (Esposito 2004, 57)
3.3.2.4. È attraverso la immunitas dunque che lo stato ferino in cui si trovano gli uomini in natura
cede il posto alla communitas. Contemporaneamente la natura del politico (la sua complessità e
doppiezza, o meglio ambivalenza) è evidenziata proprio dal paradigma di immunizzazione.
Occorre prendere atto ancora una volta della natura delle teorie politiche. Sappiamo che non è mai
esistito uno “stato di natura” (se sì, non è dato conoscerlo se non cadendo in palese contraddizione);
è controversa la trasformazione di quell’ipotetico stato di natura in “indole naturale degli uomini”
(violenti o solidali?); non vi è stato nessun contratto stipulato tra gli uomini (quale sarebbe il testo
del contratto stipulato, quando e da chi viene sottoscritto?); quindi non c’è quell’atto che
trasferendo la violenza individuale allo Stato attiverebbe quel processo immunitario su cui si fonda
la sovranità. A cosa serve dunque proporre e discutere di queste situazioni? Si tratta di modelli che
hanno la funzione di mettere allo scoperto la natura del politico, consentirne la lettura, decostruirlo
allo scopo di costituirlo rispettandone la complessità e la funzione, senza quelle semplificazioni che
ne indeboliscono o distruggono la funzione civile e sociale. Ipotesi e concetti la cui validità non si
lega ad una constatazione storico empirica di esistenza, ma alla funzione costituente per cui sono
sorti come postulati di sistema. Ora, le tesi di Hobbes e la loro lettura svolta a partire da un
“paradigma immunitario” mettono in evidenza e pongono a tema nodi centrali in forma di irrisolte e
irrisolvibili (teoriche e necessarie, non contraddittorie ma fonte di riflessione, scoperte e problemi)
ambivalenze. Alcune.
3.3.2.4.1. Il legame tra nòmos e bìos, tra politica e biopolitica tratto specifico, per il modo in cui è
posto, della moderna concezione dello Stato e problema tuttora centrale, grave, irrisolto. (vedi
Foucault).
«Perché la vita possa conservarsi, e anche svilupparsi, insomma, essa deve venire ordinata da
procedure artificiali in grado di sottrarla ai suoi rischi naturali. Qui passa la doppia linea che
distingue la politica moderna, da un lato, da ciò che la precede e, dall’altro, dalla condizione che la
segue. … a differenza di quanto accadrà in una fase che possiamo per ora chiamare seconda
modernità, il rapporto tra politica e vita passa per il problema dell’ordine e delle categorie storicoconcettuali — sovranità, proprietà, libertà, potere — in esso innervate.» (Esposito 2004, 53). «Ma
legare il soggetto moderno all’orizzonte dell’assicurazione immunitaria vuol dire riconoscere
l’aporia in cui la sua esperienza resta presa: quella di cercare il riparo della vita nelle stesse potenze
che ne interdicono lo sviluppo.» (Esposito 2004, 54) E nelle quali storicamente la biopolitica si
trasforma (in forma estremamente graduate, imprevedibili ma terribili e inquietanti) in tanatologia.
3.3.2.4.2. L’irrisolto legame tra immunitas con societas e communitas. La società è costituita da
coloro che hanno acquisito l’immunità; la società diventa così comunità. Quei meccanismi di
immunità diventano barriere protettive identitarie e anche meccanismi di distanza e di esclusione,
ma in due direzioni: 1. dentro e in coincidenza con lo Stato, 2. contro e in opposizione allo Stato.
Accade in particolare di fronte alle ricerche identitaria di riflesso o negative, costruite cioè solo o
per lo più per reazione e contrasto, per opposizione e contraddizione. «… così la richiesta di
immunizzazione identitaria delle piccole patrie non è che il controeffetto, o la crisi di rigetto
allergico, della contaminazione globale.» (Esposito 2004, 46) «Si è detto, sul piano generale, che
l’immunitas, proteggendo colui che ne è portatore dal contatto rischioso con coloro che ne sono
privi, ripristina i confini del ‘proprio’ messi a repentaglio dal ‘comune’.» (Esposito 2004, 47) «Si è
già visto come il significato più incisivo dell’immunitas si inscriva nel rovescio logico della
communitas — immune è il ‘non essere’ o il ‘non avere’ nulla in comune. […] Ciò che va
immunizzata, insomma, è la comunità stessa in una forma che insieme la conserva e la nega — o
meglio la conserva attraverso la negazione del suo originario orizzonte di senso. Da questo punto di
vista si potrebbe arrivare a dire che l’immunizzazione, più che un apparato difensivo sovrapposto
alla comunità, sia un suo ingranaggio interno.» (Esposito 2004, 48) Insomma: da una parte
l’immunitas come strumento di costruzione dello Stato, del patto di società e di unità civile, del
patto stesso di umanità razionale e resa ragionevole, mette a rischio le pretese identitarie delle
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comunità, le spinte identitarie di gruppi e gruppuscoli fondate su un’infinità di pretesti tutti a rischio
di società (fonte di bellum omnium contra omnes): religione, lingua, etnia, diritto di nascita, luogo
di nascita e abitazione, ideologia…; dall’altra ogni comunità può rivendicare per sé quello stesso
principio di immunità che ha dato origine alla società, allo Stato, per costituirsi come Stato in
esclusione violenta di chi non vi fa parte, per alimentare, soprattutto oggi, la logica della tribù
dentro il contesto dilatato e avvolgente, vissuto e temuto come inesorabile, della globalizzazione.
3.3.3. Meraviglia e spavento: il “monstrum” del potere politico, del potere assoluto, il Leviatano. Il
patto che istituisce la società in forza di una rinuncia di tutti allo ius in omnia, a favore di un
sovrano unico, lascia il potere, e solo il sovrano, nella situazione dello stato di natura: egli possiede
lo ius totale senza lex, se non quella da lui stesso emanata; resta nella condizione ferina in cui si
trovavano gli uomini in natura e per il potere ora accumulato, in quanto unico detentore dello ius, è
monstrum (nel senso ambiguo della parola, maestoso e terrificante), Leviatano, Dio terreno. La
conseguenza raggiunta è la pace, a risolvere il bellum omnium contra omnes. Ma tale esito non è
stato raggiunto attraverso l’eliminazione della violenza, ma attraverso la sua assunzione, a scopi
immunitari e attraverso il suo trasferimento al principio della società. L’esito, e la situazione,
emergono nella loro ambivalenza.
3.3.3.1. È proprio questa violenza e suprema potenza che permette al sovrano di imporre il rispetto
della legge e fornire la garanzia dei diritti. L’immunità dalla violenza interna che il corpo sociale
acquista attraverso l’assunzione della forza nel potere coercitivo dello Stato la trasferisce ma non la
elimina, la trasforma in strumento di ordine e di pace, lega, controlla e conserva vita e legge, bìos e
nòmos, vita e politica, libertà e regole… Ribadendo: « Anziché sovrapposti — o giustapposti — in
una forma esterna che sottomette l’uno al dominio dell’altro, nel paradigma immunitario, bios e
nòmos, vita e politica risultano i due costituenti di un unico, inscindibile, insieme che assume senso
soltanto a partire dal loro rapporto. L’immunità non è solo la relazione che connette la vita al
potere, ma il potere di conservazione della vita.» (Esposito 2004, 41)
3.3.3.2. Tuttavia, emerge una “aporia”. «Ma legare il soggetto moderno all’orizzonte
dell’assicurazione immunitaria vuol dire riconoscere l’aporia in cui la sua esperienza resta presa:
quella di cercare il riparo della vita nelle stesse potenze che ne interdicono lo sviluppo.» (Esposito
2004, 54) Questa è l’aporia: che l’uomo, individuo, e il sociale sono sempre esposti al rischio del
potere di quella sovranità che li salva. Si rende allora necessario un sistema di controllo,
autocontrollo, della stessa sovranità salvifica; è assoluta per poter essere salvifica (una trascendenza
immanente, Dio terreno), richiede controllo (un autocontrollo, altrimenti non sarebbe assoluta) per
evitare che si traduca in quella situazione di pericolo autodistruttivo che è nata per sanare o
impedire, situazione che travolgerebbe lo Stato stesso quando lo include nella guerra civile,
rendendolo parte in causa e non più sovranità, negandolo cioè come Stato, come “assoluto”,
annientandone la funzione civile (di civitas).
«Ma la neutralizzazione del conflitto non comporta affatto la sua eliminazione — piuttosto il suo
incorporamento nell’organismo immunizzato come un antigene necessario alla formazione continua
di anticorpi. Neanche la protezione assicurata dal sovrano ai sudditi ne è esente. Anzi proprio essa
lo manifesta nella forma più stridente. Intanto, in ordine allo strumento adoperato per lenire la paura
di morte violenta provata da ciascuno nei confronti dell’altro — che è ancora una paura, più
accettabile perché concentrata su un unico obiettivo, ma non per questo diversa in essenza da quella
debellata. Anzi, in un certo senso, intensificata dalla condizione asimmetrica in cui viene a trovarsi
il suddito nei confronti di un sovrano che conserva quel diritto naturale deposto da tutti gli altri al
momento dell’ingresso nello stato civile.» (Esposito 2004, 60)
3.3.4. Lo Stato detiene il potere assoluto, ma non si tratta di arbitrio o arbitrarietà (e, ante litteram,
di totalitarismo): un “assoluto” che in realtà si legittima per i fini, per l’origine e per i conseguenti
vincoli.
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3.3.4.1. il suo potere è vincolato al fine per cui è stato istituito e che deve perseguire e garantire: la
sicurezza e la pace (in tale senso lo legittimità dello Stato è in forma di autolegittimazione).
L’assolutezza con il conseguente monopolio del diritto e della forza (della violenza) è finalizzata
alla pacificazione (interna) e alla sicurezza (difesa, esterna). Si può richiamare (in anticipo)
l’idealtipo di Weber sul potere carismatico, introdotto allo scopo di porre il fondamento del potere
nella autorità, dove la «signoria» «si fonda sul riconoscimento al leader di una capacità di
«aumentare» le possibilità di comprensione e di salvezza rispetto a una crisi epocale. Comunque
anche in questo caso il fine del potere carismatico non è mai l’affermazione in sé dell’autorità del
leader (come sarebbe nel caso della manipolazione demagogica), ma la preservazione dell’ordine
sociale…» Pombeni Paolo 2010 La ragione e la passione. Le forme della politica nell’Europa
contemporanea, il Mulino Bologna, p. 552
3.3.4.2. il suo potere deve essere legittimo come origine e tale legittimazione, che non può
provenire da quello Stato che deve essere legittimato perché possa “legittimamente” sorgere,
rimanda a una sede di autorità e a un concetto di legittimazione diversa dalla sede politica e dunque
posta in due soli altri ambiti possibili: la natura (origine giusnaturalistica del potere politico), il
contratto (origine contrattualistica del potere politico). Natura e contratto sono strumenti/ concetti
astratti la cui sede reale è data, inesorabilmente, dalla società (più o meno civile).
Se per autorità, auctoritas (augere), si intende «un qualcosa che conferisce un livello più alto e più
universale (mi permetterei di dire un qualcosa che carica di significato) a una esperienza di
relazioni, regolandola nel momento stesso in cui le conferisce un senso » (Pombeni 2010 La
ragione 546), allora non è accettabile la riduzione dell’autorità all’ambito del politico; anzi
l’autorità del politico, meglio, il potere, sorge e si legittima in quanto fa riferimento (in modalità
definite e definibili storicamente, culturalmente e giuridicamente, cioè “nella categoria della
legittimità”) alla più vasta sfera dell’autorità collocata nella “società civile”. Anzi, si può pensare al
«problema della legittimazione come saldatura fra la dimensione di autorità che deriva dalla sfera
sociale (dove, in definitiva, si verificano le esperienze che trasformano le individualità nell’adesione
a una autorità che conferisce senso e significato a quanto si va a fare) e la dimensione del potere che
deriva dalla sfera politica (dove si regolano le convivenze di questi sensi e significati attraverso
momenti unificanti che consentono di creare reciproche «obbligazioni politiche» e «solidarietà»
istituzionali).» (Pombeni 2010, 555, 556)
In senso più ampio, prende forma e funzione qui la distinzione separazione tra società e politica. Il
contratto presuppone che vi siano dei (almeno due) contraenti fisicamente e giuridicamente distinti,
capaci di stipulare un accordo, un contratto. Si presuppongono quindi due soggetti e implicitamente
il contratto originario, collocato idealmente all’origine del sociale-politico, in uscita dallo stato di
natura, li pone in esistenza. Il contratto quindi introduce la separazione tra stato e società,
separazione e distinzione che era tutt’altro che scontata considerata le affermazioni di Hobbes sugli
effetti del contratto secondo cui «sia chi ha votato a favore, sia chi ha votato contro, autorizzerà
tutte le azioni e i giudizi di quell’uomo o assemblea di uomini, esattamente come se fossero i suoi,
al fine di vivere in pace ed essere protetto nei confronti degli altri.»
3.3.4.3. la questione e il principio del potere legittimo introduce un’altra caratteristica della
sovranità e del diritto emanato: non è sul fondamento della forza che si innesta il vincolo delle
norme, ma sulla correttezza della loro emanazione. Hobbes, presentando lo Stato come Leviatano,
riservando ad esso il monopolio della forza, potenza, violenza (uno Stato che resta l’Individuo
unico, qui fattosi istituzione in forza di un contratto di rinuncia e riconoscimento, ma conserva la
barbarie, senza alcuna norma o vincolo, che è propria dello stato di natura), sembra segnalare che lo
Stato imponga il rispetto della legge attraverso la forza; tale centralità della forza mette in secondo
piano l’evento originario del contratto, e quindi dell’accordo, come fonte dei diritto riservato allo
Stato ad emanare leggi normative e cogenti; la forza di cui lo Stato si può avvalere deriva in realtà
dalla forza del contratto che vi ha dato origine e dalla sua irrevocabilità. «Una regola non può
essere vincolante solo perché così vuole un soggetto più forte. Occorre avere l’autorità per emanare
la regola, e questa può derivare soltanto da un’altra regola già obbligatoria per coloro a cui si
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rivolge. È questa la differenza tra il diritto valido e gli ordini di un bandito.» (Dworkin Ronald 1977
I diritti presi sul serio, il Mulino, Bologna 2010, 45)
3.3.5. Lo Stato è fonte unica del diritto: ha il monopolio del diritto e non esiste alcun diritto se non
quello emanato (la posizione del positivismo giuridico o giuspositivismo). La recta ratio della
dottrina del diritto naturale si muta nella ratio civitatis, ossia nella ragion di Stato (si potrebbe dire:
dal giusnaturalismo il giuspositivismo).
3.3.5.1. Esplicita e vincolante, sul tema del monopolio giuridico dello Stato, è l’affermazione
lapidaria di Hobbes: auctoritas non veritas facit legem. Il concetto di verità pretenderebbe per sé
una sede autonoma dal diritto, trascendente ad esso, vincolo e limite del diritto stesso; ciò equivale a
negare l’autonomia dello Stato e la sovranità che la teoria moderna intende attribuirgli, a maggior
ragione equivarrebbe a negare la sua sovranità assoluta.
3.3.5.2. Se lo Stato è fonte unica del diritto l’unico diritto esistente è quello emanato dallo stato,
cioè il diritto positivo. Alla teoria di Hobbes si può far risalire quindi (oltre a posizioni
giusnaturalistiche e contrattualistiche) anche la tradizione del positivismo giuridico (o del
giuspositivismo). La tesi comporta negare l’esistenza del diritto naturale per la formazione e nascita
del solo diritto positivo; è diritto il diritto emanato (vedi Kelsen). In realtà non viene escluso
assolutamente il diritto naturale ma si deve considerare naturale un diritto positivo se e in quanto
emanato come naturale, proclamato come naturale, cioè come valido in assoluto. (Non è proclamato
come in sé naturale; sarebbe non emanato e quindi non diritto.)
4. la teoria politica di Hobbes nodo irrisolto e produttivo. Le direzioni e le questioni.
4.1. il punto e l’intreccio. Un quadro sinottico in una tabella tradizionalmente vincolante
Gli strumenti concettuali ricorrenti e in intreccio, nella costruzione delle teorie politiche dell’età
moderna: tre concetti/elementi, tre fasi/sedi, tre tipologie di diritti, tre componenti dei sistemi teorici
politici, tre tradizioni delle dottrine politiche
natura
stato di natura
diritti naturali
postulati
giusnaturalismo
indole naturale degli uomini
società
società civile
leggi naturali
assiomi
contrattualismo
(utilitarismo)
Stato
Stato politico
leggi positive
teoremi
positivismo giuridico
leggi politiche / civili
(utilitarismo)
4.1.1. gli intrecci tra gli elementi in vista di una teoria:
4.1.1.1. le teorie liberali si fondano sul rispetto di queste distinzioni, considerate
presupposto/condizione di libertà in due direzioni: a garanzia dello Stato e della sua funzione civile,
a garanzia del cittadino e dei suoi diritti. I sistemi totalitari (e derivati o affini) si battono per la
coincidenza dei tre livelli, riducono il 2° al 3° e il 3° al 1°.
4.1.1.2. la distinzione a tre livelli è dettata dall’esigenza di formulare il concetto di sovranità come
concetto politico trascendentale, non trascendente: il concetto di sovranità è fondamento dello stato
moderno se la sovranità è considerata un principio immanente, a priori e (perciò) assoluto (non
derivato). La trascendenza del potere (assolutismo antico e medievale) si trasforma in esercizio
trascendentale dell’autorità nella nuova sede giuridica del popolo.
4.1.1.3. la definizione specifica dei tre livelli è fortemente ipotecata dalla forma politica che si
intende legittimare (varia da teoria a teoria: Stato assoluto, liberale, democratico), ma la distinzione
nei tre livelli permette di cogliere la forma politica come un mezzo e non come un fine. La tendenza
di una forma politica a presentarsi come un fine e non come un mezzo (ad es. la forma democratica
è fine di ogni moderna società) deriva solo dalla sua maggior vicinanza al riconoscimento e alla
garanzia dei diritti e resta comunque un mezzo… magari dichiarato come il più adatto.
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4.1.1.4. le teorie politiche, e le competenze dello stato, fanno riferimento alla società come struttura
di base; non hanno applicazione diretta nelle istituzioni e associazioni esistenti nella società, come
imprese, sindacati, chiese, università, famiglie… ; queste devono sottostare a vincoli derivanti dalla
loro appartenenza al sociale, vincoli che pongono condizioni formali di giustizia – equità; viceversa,
i vincoli e le regole di singole istituzioni (chiese, partiti…) non possono essere estese alla società di
base.
4.2. le tre situazioni (natura, società, Sato) e le tre tradizioni (anzi quattro: giusnaturalismo,
contrattualismo, positivismo giuridico e utilitarismo giuridico) richiamate e rilanciate e
composte in intreccio dalla riflessione di Hobbes.
4.2.1. le situazioni, i luoghi e i momenti di un viaggio di costituzione dello Stato: stato di natura,
contratto sociale, stato politico e il loro intreccio. Non si tratta di momenti storici in successione
cronologica avvenuti nel corso del tempo e accaduti una volta per tutte, si tratta di elementi che
formano in continuazione la storia dell’umanità e ne costituiscono l’intreccio politico irrisolto o
consegnato a soluzioni storiche contingenti.
Siamo sempre nello stato di natura, pronti a sbranarci reciprocamente, predisposti al bellum omnium
contra omnes, contenuti solo dalla paura per la nostra sorte, fortuna, sopravvivenza.
Siamo sempre di fronte all’urgenza di prendere in considerazione una tregua, stipulare un contratto
a beneficio di tutti o in vista del male minore; regolarmente infatti siamo di fronte al rinnovo
contrattuale… in tutte le situazioni sociali (famigliari, generazionali, condominiali, lavorative,
religiose, culturali, sociali, politiche ecc.), non avrebbero altrimenti ruolo e senso sociale i molti
anniversari, le ricorrenze regolari, i riti che li fanno accadere e l’urgenza di sottolineare come non si
tratta di un richiamo formale o retorico.
Siamo sempre di fronte all’esigenza di formulare norme di comportamento, che hanno valore in
quanto stipulate, legalmente emanate e che hanno successo per la loro coerenza interna e chiarezza
applicativa.
4.2.2. le tradizioni (o le scuole) e l’intreccio di giusnaturalismo, contrattualismo, positivismo
giuridico, utilitarismo giuridico. Il diritto naturale, totale e universale (giusnaturalismo) impone, per
coerenza di conservazione, un contratto sociale di rinuncia e sottomissione (contrattualismo) che
lascia in esistenza quel diritto totale nelle mani di un unico, lo Stato, il quale lo emana nelle forme
della legge, di un diritto codificato (positivismo giuridico), per garantire a ciascuno sicurezza e pace
(utilitarismo giuridico).
4.2.2.1. La riflessione di Hobbes si rende dunque complessa per la sua caratteristica di comporre a
sistema le diverse possibili impostazioni della riflessione politica e giuridica sulla nascita e sulla
validità del diritto. La pienezza del potere dello Stato – Leviatano si afferma su di un fondamento
[1] giusnaturalistico e [2] contrattualistico; tale monopolio trasforma ogni diritto, perché diventi
reale, in diritto positivo ([3] positivismo giuridico), il fine della pace e della sicurezza che
contribuire a rendere legittimo lo Stato assoluto trasforma l’emanazione del diritto positivo
nell’emanazione del diritto utile: entra in scena e si compone con le precedenti un quarta tradizione,
quella [4] dell’utilitarismo giuridico. È giusto il diritto positivo utile alla realizzazione dei fini per
cui lo Stato detiene una sovranità assoluta.
4.2.2.2. Si tratta di una teoria della complessità; la bontà di quell’intreccio, del doppio intreccio sta
nella sua capacità di rispettare il dato dell’esperienza nella sua ricchezza imprevedibile (Hobbes:
«fondata su principi propri, conosciuti per esperienza») e l’urgenza di una composizione razionale,
controllata, condivisa, “geometrica” (Hobbes: «non desidero perdermi in chiacchiere, ma amo
procedere con precisione matematica»). Il rigore formale di questa esigenza si piega con flessibilità
all’esperienza sociale e umana ricca, mutevole e imprevedibile (come attesta l’osservazione dei fatti
storici).
4.2.2.3. C’è una logica in questo intreccio (in questi intrecci); la coglie e illustra con evidenza
teorica e applicativa (sia pur in altri contesti e per altri soggetti) Urlich Beck usando le espressioni:
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potere e contro-potere. Beck Urlich 2002 Potere e contropotere nell’età globale, Laterza RomaBari 2010
4.3. Il contesto culturale in cui Hobbes intende collocare la propria riflessione politica e l’intero
suo lavoro filosofico è costituito dai successi del meccanicismo nel campo della fisica e della
filosofia naturale e, come metodo, dall’adozione generalizzata del processo dimostrativo
geometrico. Dunque una teoria politica costruzionistica.
Sembrano radici lontane dal settore politico ma ne spiegano la costruzione teorica: la geometria, la
fisica meccanicistica producono l’effetto (questa è l’ipotesi) di una politica su fondamento giuridico
presentato nella forma del positivismo giuridico. La sequenza è del resto quella stessa dei tre trattati
di Hobbes, De corpore, De homine, De Cive, e diventa anche la trama del suo ragionare politico
condotto secondo il rigore geometrico. E c’è una coerenza nell’impostazione tra la centralità della
geometria come metodo della ragione, la definizione meccanicistica della natura (De corpore), la
definizione del potere dello Stato in termini di positivismo giuridico e lo Stato come costruzione
continua.
4.3.1. Come la geometria, la politica è scienza di cui l’uomo è artefice; dunque è una scienza
“trasparente a se stessa, decostruttiva nella ricerca dei propri assunti di base, ricostruttiva nel
ricomporre un corpo statuale che garantisca la convivenza”; così nota Briguglia Gianluca 2006 Il
corpo vivente dello Stato, Bruno Mondadori, Milano.
«E nel Leviatano la geometria, proprio per il suo essere costruita dalle definizioni dell’uomo, è
considerata come «la sola scienza che fino a questo momento Dio si sia compiaciuto di concedere
agli uomini». Per contro, noi non siamo gli artefici del mondo, la natura non è la nostra arte, ma
l’arte di Dio attraverso cui egli «ha fatto e governa il mondo»; e dunque la fisica, per esempio, le
cui cause non possiamo dimostrare, ma solo ipotizzare, si configura come una scienza a posteriori,
che parte dagli effetti. L’etica e la politica sono invece scienze umane e nel progetto di Hobbes
vanno considerate al pari della geometria, perché le cause della giustizia, cioè le leggi e i patti, «le
abbiamo fatte noi».
L’impresa teorica di Hobbes poggia proprio su questo fondamento: una scienza politica a priori.
Dunque l’arte dell’uomo, così intesa, è capace d’imitare l’arte di Dio e lo fa costruendo un animale
artificiale, un automa, cioè una «macchina semovente per mezzo di molle e ruote, come un
orologio».
È un primo ed essenziale — ma non sufficiente, vedremo— livello metaforico, che ha peraltro la
funzione di porre da subito l’opera in un contesto apertamente meccanicistico, ed evoca la premessa
metodologica esplicitata dalla Prefazione al De cive: «[…] ogni oggetto viene conosciuto nel modo
migliore a partire dalle cose che lo costituiscono. Come in un orologio o in un’altra macchina un
poco complessa non si può sapere quale sia la funzione di ogni parte e di ogni ruota, se non lo si
scompone, e si esaminano separatamente la materia, la figura, il moto delle parti, così nell’indagine
sul diritto dello Stato, e sui doveri dei cittadini si deve, se non certo scomporre lo Stato,
considerarlo come scomposto, per intendere correttamente quale sia la natura umana, in quali cose
sia adatta o inadatta a costruire lo Stato, e come debbano accordarsi gli uomini che intendono
riunirsi.»
Il metodo del De cive consente così di condurre l’analisi dello Stato nei termini di una preliminare
scomposizione nei suoi costituenti, in modo da poterne poi ricostruire, in modo corretto e razionale,
il meccanismo.» (Briguglia 2006, 125-127)
Richiamando, criticamente, Hobbes, Durkheim osserva: «L’uomo è quindi naturalmente refrattario
alla vita comune, e può rassegnarsi ad essa soltanto se costretto con la forza.» (Durkheim 1895 Le
regole 114) L’individuo è dunque collocato a forza nell’organizzazione sociale, e «questa
organizzazione — il cui scopo è di ostacolarlo e di contenerlo — può essere concepita soltanto
come un’organizzazione artificiale. Essa non è fondata nella natura, poiché è destinata a farle
violenza impedendole di produrre le sue conseguenze anti-sociali: è un'opera d'arte, una macchina
costruita interamente dalla mano dell'uomo che — come tutti i prodotti di questo genere — è tale
17
soltanto perché gli uomini l'hanno voluta così; un decreto della volontà l'ha creata, un altro decreto
può trasformarla. Né Hobbes né Rousseau danno l’impressione di aver scorto quanto c'è di
contraddittorio nell’ammettere che l'individuo stesso sia l'autore di una macchina che ha come
funzione essenziale quella di dominarlo e di sottoporlo a costrizioni; o per lo meno è sembrato loro
che — per far sparire questa contraddizione — bastasse dissimularla agli occhi di coloro che ne
sono le vittime, mediante l’abile artificio del contratto sociale.» (Durkheim 1895 Le regole 114)
4.3.2. Un meccanicismo antropologico alla radice della definizione della macchina dello stato
«Quest’immaginaria dissoluzione conduce ad analizzare la natura degli uomini, che rappresentano
la materia del corpo politico e a immaginarli in uno stato di natura, che è uno stato di guerra, cioè in
una condizione d’individualismo precedente ogni aggregazione politica. Tale operazione troverebbe
un preciso corrispettivo metodologico nell’ipotesi della annihilatio mundi, con la quale Hobbes,
nella sua philosophia prima, riesce a fondare il proprio meccanicismo filosofico sui principi primi
di corpo, spazio e tempo. Che cos’è questo «annullamento del mondo»? si tratta di un esperimento
mentale in cui si sospende tutto ciò che sappiamo, o crediamo di sapere, del mondo e ci rivolgiamo
ai suoi costituenti di base. I corpi, innanzitutto, che non sono altro che enti che occupano uno
spazio. In secondo luogo lo spazio stesso, che è la forma, la possibilità di esistenza, dei corpi. […]
…l’unico modello possibile di spiegazione della realtà è dato da corpi e movimento, da un sistema
«meccanico». E lo stesso Hobbes nel solco del proprio meccanicismo, metaforizza, nel De cive e in
apertura del Leviatano, lo Stato come corpo meccanico, come orologio, come automa.» (Briguglia
2006, 127-129)
4.3.3. la sovranità è l’anima del corpo-Stato (del macroantropo)
«Non basta dare vita a un congegno, non è sufficiente creare un animale artificiale. Lo Stato è un
corpo, ma un corpo vivo. Un corpo dotato di un’anima. L’uomo artificiale ha dunque per Hobbes
un’anima artificiale, la sovranità. […] «Quasi tutti coloro che sono soliti paragonare lo Stato e i
cittadini con l’uomo e le sue membra, dicono che chi detiene il potere supremo sullo Stato è nei
confronti dell’intero Stato, quello che la testa è nei confronti dell’intero uomo. Ma […] risulta
chiaro che chi è stato innalzato a tale potere (sia egli un uomo, o una curia), si trova con lo Stato nel
rapporto dell’anima, non della testa. Infatti è grazie all’anima che l’uomo ha una volontà, cioè può
volere e non volere. Così è mediante chi ha il potere supremo, e non altrimenti, che lo Stato ha una
volontà, e può volere e non volere. Con la testa va piuttosto paragonata l’assemblea di consiglieri, o
quell’unico consigliere, del cui solo consiglio (se è unico), chi ha il potere supremo nel governo
dello Stato si avvale, riguardo alle cose di maggiore importanza. Il compito della testa infatti e
consigliare, come quello dell’anima è comandare.» (De cive, VI, 19).» (Briguglia 2006, 134)
4.3.4. Dunque lo Stato come grande macchina-vivente in perenne costruzione (con fini, processi di
controllo, rischi di errore e di degenerazione). «L’origine dello Stato non è naturale, ma è un atto
creativo — l’uomo artificiale di Hobbes viene creato dai patti e dalle convenzioni, che assumono la
funzione del fiat divino —, ed è tale creazione che rende possibile pensare, in maniera più diretta,
alle relazioni tra anima e corpo, alla materia dello Stato e al suo «artefice»; nulla è dato, ma tutto
viene costruito.» (Briguglia 2006, 137)
Si inserisce in questo processo di costruzione dello Stato, e ne esprime il piano e il progetto, il noto
passo del Leviatano: «È questa la generazione di quel grande LEVIATANO, o piuttosto (per
parlare con maggior rispetto) di quel dio mortale, al quale dobbiamo, sotto il Dio immortale, la
nostra pace e la nostra difesa. Infatti, grazie a questa autorità datagli da ogni singolo uomo dello
Stato, egli dispone di tanta potenza e di tanta forza a lui conferite, che col terrore da esse suscitato è
in grado di modellare le volontà di tutti i singoli in funzione della pace, in patria, e dell’aiuto
reciproco contro i nemici di fuori.» (Leviatano II, 17)
«Definire allora lo Stato come un «dio mortale», non evoca soltanto il timore e il rispetto a esso
dovuti — ciò che pure è centrale — ma ne evidenzia il carattere creativo autonomo. L’uomo non ha
solo creato un meccanismo semovente, né soltanto un uomo artificiale che ha volontà, ma un dio
capace di costruire una seconda natura, d’innescare un meccanismo di cambiamento del mondo, di
«plasmare le volontà di tutti i singoli». Lo Stato non è allora solo il comando e la forza, ma un
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processo continuo di trasformazione degli elementi che lo compongono, gli uomini. In funzione di
se stesso, lo Stato crea una seconda natura per gli uomini. E in questo modo l’arte umana giunge a
costruire ciò che a sua volta autonomamente costruisce, e che così si pone a un livello superiore
rispetto al suo stesso creatore. […] In fondo il destino dell’artificio statale è proprio questo:
plasmare le volontà degli uomini, per renderli capaci di stare assieme. In qualche modo ciò è la
conseguenza del tipo di dissoluzione, di scomposizione, a cui Hobbes ha preliminarmente
sottoposto la comunità politica e la lezione che ne ha tratto: l’uguaglianza originaria degli individui.
Si tratta, per così dire, di un’uguaglianza logica, correlata a un individualismo che fa degli uomini,
coerentemente con il meccanicismo hobbesiano, gli ingranaggi di base dell’orologio politico. […]
Individualismo e uguaglianza in questo modo diventano i presupposti di una costruzione razionale
che parte da elementi-base indifferenziati in via di diritto, i quali vengono poi sottoposti al lavorio
incessante dell’ambiente artificiale, che attribuisce loro una seconda natura. Questo ambiente
artificiale è lo Stato come meccanismo, ciò che trasforma gli uomini è lo Stato come dio. (Briguglia
2006, 145-150 passim)
4.4. Il consenso e definizione dei limiti di competenza e di azione dello Stato. Le strade percorse
per gestire il processo di costruzione dello stato: consenso, violenza, contingenza. « ossia il
principio per cui ogni autorità legittima deriva dal consenso di coloro sui quali è esercitata, in altre
parole, che gli individui sono tenuti solo a ciò cui hanno acconsentito.» (Manin Bernard 1997
Principi del governo rappresentativo, il Mulino, Bologna 2010, 94). Una lunga tradizione che
rappresenta il senso e la forza del contrattualismo. Del resto si tratta «di un principio di origine
romana: Quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet («Ciò che tocca tutti deve
essere ponderato e approvato da tutti»).» (Manin Bernard 1997, 98)
4.4.1. «Le tre rivoluzioni moderne furono portate a termine in nome di tale principio. […] Nei
Putney Debates (ottobre 1647) fra l’ala radicale e quella conservatrice dell’esercito di Cromwell,
che costituiscono uno dei documenti più interessanti sulle convinzioni dei rivoluzionari inglesi,
Rainsborough, il portavoce dei livellatori, dichiara: «Ogni uomo che deve vivere sotto un governo
deve prima di tutto porre se stesso sotto quel governo col proprio consenso; e ritengo che anche
l’uomo più povero d’Inghilterra non abbia alcun obbligo in senso stretto nei confronti di un governo
se non ha avuto alcuna voce in capitolo nel decidere se porsi sotto di esso.»
Nella sua replica Ireton, il portavoce principale del gruppo più conservatore, non mise in
discussione il principio del consenso, ma sostenne che il diritto al consenso spettava solo a coloro
che avevano un «interesse fisso e permanente nel regno». Centotrent’anni dopo, la Dichiarazione di
indipendenza si apriva con queste parole: «Noi riteniamo che queste verità siano di per sé evidenti,
che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dotati dal loro Creatore di certi inalienabili diritti
fra i quali quelli alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità; che per salvaguardarli
vengono istituiti fra gli uomini i governi, i quali derivano i propri giusti poteri dal consenso dei
governati.»
Infine, in Francia, una figura chiave nei primi mesi della rivoluzione, Thouret, all’inizio del 1789
pubblicò un abbozzo di dichiarazione dei diritti che includeva l’articolo seguente: ««Tutti i cittadini
devono avere il diritto di concorrere, individualmente o attraverso i loro rappresentanti, alla
formazione delle leggi, e di sottomettersi solo a quelle alle quali hanno acconsentito liberamente».
La convinzione che il consenso costituisca l’unica fonte di autorità legittima e rappresenti la base
dell’obbligo politico era condivisa da tutti i teorici del diritto naturale, da Grozio a Rousseau,
compresi Hobbes, Pufendorf e Locke.» Manin Bernard 1997, 94-95)
4.4.2. Una volta che la fonte del potere e dell’obbligo politico era stata localizzata in questo modo
nel consenso o nella volontà dei governati, Hobbes la richiama, le attribuisce un posto centrale nella
costruzione dello Stato e fissa tale consenso come originario e irrevocabile; anche perché sottolinea
come lo Stato sia il prodotto di tale consenso e non uno dei contraenti.
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L’indissolubilità dello stato e della società civile, il potere assoluto dello Stato non possono tuttavia
annullare ciò che nel consenso è stato costruito: lo Stato ha come fine la sicurezza e la pace dei
sudditi; sudditi alla legge, non ad una persona, perciò cittadini.
4.4.3. Il contratto come fonte dello Stato elimina ogni trascendenza che, posta al di sopra e al di
fuori del politico, inevitabilmente la rende suddita, la colloca sotto giudizio, permette ai sudditi,
attraverso l’appello a Dio o alla propria coscienza, di rendere vano quel contratto e sottrarsi
all’obbedienza dovuta, mettendo a rischio la sicurezza e la pace.
«E per quanto alcuni uomini, per giustificare la loro disubbidienza al sovrano, abbiano avanzato il
pretesto di un nuovo patto, concluso non con gli uomini, ma con Dio, anche questa è ingiustizia:
perché non si possono concludere patti con Dio, se non grazie alla mediazione di qualcuno che
rappresenti la persona di Dio; e ciò può essere fatto solo dal luogotenente di Dio, che detiene, sotto
di lui, la sovranità. Ma questo pretesto di un patto con Dio è una menzogna tanto palese, anche alla
coscienza di chi lo avanza, da renderlo l’atto di un carattere non solo ingiusto, ma vile e debole».
(Hobbes, Leviatano, 114)
Osserva Latour Bruno 1991 Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, ed.
Elèuthera, Milano 1995: « Il sovrano creato con il contratto, «questo Iddio mortale cui noi
dobbiamo, sotto l’Iddio immortale, la nostra pace e la nostra protezione», non è che il
rappresentante della moltitudine. «È l’unità di colui che rappresenta e non del rappresentato che
rende una la persona». Hobbes è ossessionato da questa unità della Persona che è, per utilizzare i
suoi termini, l’Attore i cui Autori siamo noi cittadini [Hobbes, 1971]. Per questo non ci può essere
trascendenza. Le guerre civili continueranno a infuriare finché esisteranno entità sovrannaturali, che
i cittadini si sentiranno in diritto di implorare quando le autorità di questo basso mondo li
perseguitano. La lealtà della vecchia società medievale, Dio e il Re, non è più possibile se chiunque
può rivolgersi direttamente a Dio o designare il suo re. Hobbes vuoi fare tabula rasa di qualunque
appello a entità superiori a quella civile. Vuol ricomporre l’unità cattolica, ma chiudendo ogni
accesso alla trascendenza divina.
Per Hobbes il potere è conoscenza, il che significa che non può esistere che un’unica conoscenza e
un unico potere se si vuol mettere termine alle guerre civili. Ecco perché la parte più rilevante del
Leviathan è un’esegesi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Uno dei maggiori pericoli per la pace
civile deriva dal credere nell’esistenza di corpi immateriali, come gli spiriti, i fantasmi o le anime,
cui la gente si rivolge contro il giudizio del potere civile. […] Questo riduzionismo non porta a uno
Stato totalitario, perché Hobbes lo applica anche alla Repubblica: il sovrano non è mai altro che un
attore designato dal contratto sociale. Non esiste un diritto divino, un’istanza superiore, che il
sovrano possa invocare per poter agire come vuole e smantellare il Leviatano. In questo regime
nuovo, nel quale conoscenza e potere si identificano, tutto è ridotto: il sovrano, Dio, la materia e la
moltitudine. Hobbes si vieta perfino di trasformare la sua stessa scienza dello Stato in
un’evocazione di una trascendenza qualsiasi. A tutte le sue conclusioni scientifiche non arriva con
l’opinione, l’osservazione o la rivelazione, ma con una dimostrazione matematica, l’unico metodo
di argomentazione capace di costringere chiunque a dare il suo assenso; e a questa dimostrazione
non arriva con calcoli trascendentali, come il re di Platone, ma con uno strumento di calcolo puro, il
cervello meccanico, un computer ante litteram. Perfino il famoso contratto sociale non è che il
risultato di un calcolo cui arrivano tutti insieme i cittadini terrorizzati che cercano di affrancarsi
dallo stato di natura. Tale è il costruttivismo generalizzato di Hobbes, teso a pacificare i conflitti
civili: nessuna trascendenza di qualsivoglia genere, nessun ricorso a Dio, a una materia attiva, a un
potere di diritto divino, e nemmeno alle idee matematiche.» (Latour 1991, 31-33)
4.5. Il tema di una forza e di una violenza «illegale» che fonda la norma della legge stessa e la
rende cogente, rendendo contemporaneamente oggettivo l’ordine e invisibile la violenza (violenza
nascosta nelle forme dell’ordine); è qui l’intera teoria di Hobbes.
4.5.1. La forza e la violenza dello Stato è quella dello stato di natura, esistente prima di ogni legge e
dunque senza limiti. È monopolio dello Stato, unico rimasto nella condizione naturale di potere e
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diritto totale dopo il contratto di rinuncia e di associazione da parte di tutti gli uomini espresso nello
stato di natura. Si giustifica sulla base della necessità unanimemente condivisa di por fine allo stato
universale di guerra e in questa finalità trova la sua legittimazione. La storia che inizia con il
contratto registra nel suo primo evento il fatto che la violenza nasce nello Stato, e nello Stato nasce
e resta in forma nuova: come funzione politica; costituisce il modo di essere dello Stato, permea
della sua logica l’intera vita civile, sorregge, si manifesta, e spesso si nasconde, nelle forme
dell’ordine garantito.
4.5.2. Come ogni macchina, nell’età moderna, nasconde il proprio meccanismo sotto funzionali
forme che la rendono anche prodotto estetico, e rinnovano modalità e abitudini percettive e i giudizi
della sensibilità, così accade alla macchina dello Stato di nascondere e collocare sotto le forme della
“civiltà” la propria forza e la propria violenza. Si tratta di una violenza invisibile consegnata alle
forme della normalità e del progresso, efficaci quindi nel plasmare e ordinare senza comparire come
espressione di forza; prendono forma l’ordine e la pace di una violenza invisibile.
Ne tratta una lunga tradizione di filosofia e sociologia critica (a partire dai Cinici fino alla Scuola di
Francoforte). Il problema può venire così tematizzato: «. Il mito del potere. Le maschere del potere.
Il potere è sempre esistito o nella forma truculenta della tirannide o in quella legale dello Stato. In
entrambi i casi si tratta di un potere visibile, a cui ci si può opporre oppure riconoscerlo. Oggi il
potere è diventato più subdolo, più mascherato, più nascosto, ma proprio per questo più pervasivo,
fino a permeare il nostro inconscio, al punto da farci apparire ovvia quella che in realtà è una sua
imposizione.
Per rendercene conto dobbiamo domandarci se a volte non abbiamo del potere un concetto troppo
grossolano al punto da non riconoscerlo proprio là dove ci assedia. Il potere non si presenta mai
come tale, ma indossa sempre i panni del prestigio, dell’ambizione, dell’ascendente, della
reputazione, della persuasione, del carisma, della decisione, del veto, del controllo, e dietro queste
maschere non è facile riconoscere le due leve su cui si fonda: il controllo assoluto delle nostre
condizioni di vita e la massima efficienza delle prestazioni che ci sono richieste.
Il mito dell’efficienza, che molti sembrano condividere applaudendo i leader politici che
promettono di garantirla, fu sperimentato su larga scala come macchina di potere nei lager nazisti,
dove il problema era di “sistemare” in ventiquattro ore i convogli dei deportati che quotidianamente
arrivavano.» (Galimberti Umberto 2009 I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, p. 115)
4.5.2.1. In direzione critica (e forse in pessimismo, ma per senso critico) allo scopo di conservare
l’attenzione sugli esiti di una politica che nasce dall’incontro di forza (violenza) e potere, e secondo
cui, come in Hobbes, pur con fini di pace, lo Stato conserva la violenza e resta nello stato di natura;
sguardo e attenzione riservati soprattutto alle forme nelle quali la violenza si affida e fa leva sulla
propria non visibilità agendo, di conseguenza, con maggior efficacia, valgano le analisi di Michel
Foucault espresse in Microfisica del potere. Interventi politici. «Universo di regole che non è
destinato ad addolcire, ma al contrario a soddisfare la violenza. Si avrebbe torto a credere, secondo
lo schema tradizionale, che la guerra generale, esaurendosi nelle proprie contraddizioni finisce per
rinunciare alla violenza ed accetta di sopprimere se stessa nelle leggi della pace civile. La regola, e
il piacere calcolato dell’accanimento, e il sangue promesso. Permette di rilanciare senza posa il
gioco della dominazione; mette in scena una violenza meticolosamente ripetuta. Il desiderio di pace,
la dolcezza del compromesso, l’accettazione tacita della legge, lungi dall’essere la grande
conversione morale, o l’utile calcolo che hanno dato nascita alla regola, non ne sono che il risultato
e a dir vero la perversione… […] L’umanità non progredisce lentamente di lotta in lotta fino ad una
reciprocità universale, dove le regole si sostituiranno per sempre alla guerra; essa insedia ciascuna
delle sue violenze in un sistema di regole, ed avanza così di dominazione in dominazione.»
Foucault Michel Microfisica del potere. Interventi politici 1971, Einaudi, Torino 1977, p. 40 Il
pensiero corre a quelle trattative e a quegli accordi di pace, a fine guerra, che diventano l’occasione
(forse non intenzionale ma certo ben utilizzata) per nuovi progetti, piani e azioni di guerra.
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4.5.2.2. Sul tema interviene l’opera di Žižek Slavoj 2007 La violenza invisibile, Rizzoli, Milano
2007 che, per l’analisi, mette a disposizione la distinzione tra violenza oggettiva, violenza
soggettiva e violenza simbolica. La violenza oggettiva è la violenza invisibile in quanto diventata
normalità nel sistema codificato (divenuta violenza simbolica) nel quale si viene educati e che viene
riconosciuto come proprio mondo identitario, comune, condiviso, normale nelle forme della legge,
diritto e costume. La violenza soggettiva (quella commessa e quella che avvertiamo come subita)
prende forma solo su questo sfondo e sulla sua diffusa condivisione (costume, legge, cultura
morale…). Possiamo anche avvertire la violenza oggettiva (che deve la propria efficacia al fatto di
non rendersi visibile e non essere avvertita) in particolari situazioni: negli intoppi del percorso del
processo formativo, per lo più adolescenziale, nel confronto tra civiltà e modelli, nell’osservazione
fenomenologica del sentire morale e del vivere sociale per le discontinuità e contraddizioni che li
caratterizzano, nello studio sulla natura del dovere e del diritto quando lo studio su di loro è di
carattere storico e pone l’attenzione sui modi e sulle ragioni del loro mutare. La violenza simbolica
sociale, politica e religiosa, paradossalmente invisibile nella palese visibilità e proclamazione delle
sue forme, è forse in grado di esprimere entrambe le forme e il loro operare in una connessione
tematicamente non percepita a livello immediato. Ad esempio la violenza nei simboli del potere
(monumentistica e documentaristica, rituale e celebrativa, di congressi e raduni ecc.) di cui una
società si nutre, si circonda e che venera allo scopo di tenersi nelle forme di una “società civile” e di
uno Stato, nelle forme di una condivisione dei ruoli e delle conseguenti gerarchie scandite da gesti e
riti quotidiani di comportamento.
«Il problema è che non è possibile percepire la violenza soggettiva e quella oggettiva dallo stesso
punto d’osservazione: la violenza soggettiva si coglie come tale sullo sfondo di una totale assenza
di violenza, di perfetta nonviolenza. D’altra parte la violenza oggettiva è proprio quella insita in uno
stato di cose «normale», pacifico. La violenza oggettiva è invisibile perché sta alla base dello stesso
sfondo neutro rispetto al quale percepiamo qualcosa come soggettivamente violento. La violenza
sistemica è dunque simile alla famosa «materia oscura» della fisica, la gemella invisibile di una
violenza soggettiva fin troppo visibile. Ma, per quanto invisibile, è necessario tenerne conto se si
vuole trovare una spiegazione a quelle che altrimenti sembrano esplosioni «irrazionali» di violenza
soggettiva.»(Žižek Slavoj 2007, 8)
«…quando percepiamo qualcosa come un atto di violenza [violenza soggettiva], lo misuriamo in
base a un ipotetico standard [violenza simbolica] di ciò che è una «normale» situazione non
violenta, e la massima forma di violenza è l’imposizione di questi standard [violenza oggettiva] in
riferimento al quale alcuni eventi appaiono “violenti”». (Žižek Slavoj 2007, 69)
Alcuni esempi non del tutto banali: quando in una situazione artificiale creata nelle fiction stile
“grande fratello” o “isola dei famosi” televisivi un partecipante si comporta in modo violento nei
confronti di un altro (una violenza soggettiva), ciò avviene in forza e in dimenticanza di una
violenza oggettiva che sta alla base e crea l’intera situazione (violenza oggettiva), imponendo
standard di vita e di interpretazioni da considerare normali (violenza simbolica). Quando in un
pullman stanno stipate e strette molte persone e vengono meno le distanze considerate normali e di
rispetto proprio del vivere quotidiano (violenza simbolica), una persona può trattare con violenza il
vicino che, a sua impressione, lo lede (violenza soggettiva), ma la radice sta nella violenza oggettiva
della situazione dei trasporti in quella circostanza. Si tratta della violenza dei “cinici”: le loro
performances violente nei confronti del vivere civile e di molte situazioni della polis (violenza
soggettiva), in spregio di normalità condivise (violenza simbolica) sono atti di denuncia nei
confronti di quella violenza non percepita ma di fondamento e quasi totale che è la costrizione a
vivere secondo convenzioni non naturali (violenza oggettiva e violenza simbolica). In proposito
Žižek cita una frase di J.G.K.Chesterton: «…la moralità è il più oscuro e ardito dei complotti» [tesi
alla Nietzsche; e a p. 74:] … è il tema di una violenza «illegale» che fonda la norma della legge
stessa, diventa ad un tempo legale, invisibile, oggettiva e, educativamente, soggettiva.
Žižek riporta l’aneddoto: « Stando a un famoso aneddoto, durante la Seconda guerra mondiale un
ufficiale tedesco fece visita a Picasso nel suo studio parigino. Vide Guernica e, scioccato dal «caos»
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modernistico del dipinto, chiese al pittore: «L’avete fatto voi?». Al che Picasso rispose con calma:
«No, voi l’avete fatto!».(Žižek Slavoj 2007, 17) Il dipinto mette sotto gli occhi la violenza che
cercava ancora di essere consegnata alla non visibilità o a una forma estetico simbolica.
4.5.2.3. La violenza oggettiva è quanto aveva previsto intuito Hobbes quando descrive la forza la
violenza come essenza dello Stato e quindi della legge e del sistema che essa garantisce. L’efficacia
e la potenza dello Stato è posta nella sua irresponsabilità (immunità). Lo Stato è depositario
legittimo della violenza in forza di un contratto sociale irrisolvibile; il contratto è formale, di
rinuncia, non pone limiti di contenuto all’esercizio della forza che ha lasciato allo Stato. Per giunta,
lo Stato non è uno dei contraenti, non è responsabile, resta nello stato di natura e proprio per questo
la sua potenza è senza limiti (è monstrum e Leviatano); è fuori dalla polis, non viene coinvolto nel
sociale e nelle sue trame, il diritto è puro e perciò capace di garantire l’ordine di cui ogni società ha
e sente il bisogno.
«Come tale, il Creatore è «hupsipolis apolis» (Antigone, verso 370): sta al di fuori e al di sopra della
polis e del suo ethos; è svincolato da ogni regola di «moralità» (regole che sono soltanto una forma
degenerata dell’ethos) e solo in quanto tale può porre le basi di una nuova forma di ethos, di un
essere collettivo in una polis…» (Žižek Slavoj 2007, 73-74). Ecco perché lo Stato di Hobbes e il
Sovrano sono indicati come Dio terreno, Dio mortale.
4.6. Paradossalmente in Hobbes si fondono, sono in stretto rimando e (nonostante l’apparente
paradossalità) in coerenza logica, il carattere assoluto e la contingenza del politico.
Pur nell’ambito di una concezione assoluta del potere, di un diritto unicamente positivo… sono
poste le condizioni di limite al potere stesso, limiti alla potenza, e ciò in sedi plurime. Il contesto
logico è dato dalla visione meccanicistica complessiva (e dunque costruzionistica) propria delle
posizioni di Hobbes.
4.6.1. Nel campo specifico del diritto: il diritto come autolimite alla potenza. Quando la volontà
sovrana si trasforma in diritto, assume la forma del diritto, allora entra nei limiti delle espressione e
definizione di sé secondo coerenza e controllo.
4.6.2. Nel campo della morale e dei costumi per la loro connessione con il campo del diritto (e del
diritto positivo) e della politica. «H. Morgenthau (La politica tra le nazioni 1948) ha indagato
soprattutto le relazioni internazionali come sistema di rapporti di potenza, ma ha ammesso anche la
possibilità del diritto come limite della potenza. […] per Morgenthau «il potere genera una rivolta
tanto universale quanto lo è la stessa aspirazione al potere». Questa rivolta si esprime attraverso la
morale, i costumi e il diritto, che storicamente hanno mantenuto entro limiti accettabili le
aspirazioni al potere.» (Gozzi Gustavo 2010 Diritti e civiltà. Storia e filosofia del diritto
internazionale, il Mulino, Bologna, p. 209)
«Celandosi dietro la maschera dell’efficienza, scrive Hillman, il potere ottiene da un lato
l’ubbidienza dei subordinati, inducendo in loro un pensiero a breve scadenza, per cui non si guarda
più intorno e in avanti e a lungo termine sui valori di fondo della vita con conseguente
atrofizzazione dei sentimenti, e dall’altro lato quella diffusa insensatezza per cui i “fini” raggiunti
diventano “mezzi” per fini ulteriori, dove il semplice “fare” trova la sua giustificazione
indipendentemente da ciò che si fa. Ma là dove l’efficienza rappresenta di per sé una ragione
sufficiente per l’agire umano, l’inefficienza diventa uno dei modi per sabotare la tirannia
dell’efficienza, una sorta di “etica” adottata per protestare contro lo smarrimento di senso e di fini
(causa finale), contro lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali (causa materiale), contro
l’abolizione dell’etica e dell’estetica in ogni processo di produzione e consumo (causa formale).»
(Galimberti Umberto 2009 I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, 116-117)
4.6.3. Come più volte richiamato, nel fine per cui viene stipulato un patto sociale di unione,
rinuncia, sottomissione e obbedienza: la sicurezza, la pace, la garanzia dei diritti. Tale fine
contrattuale diventa compito e limite dello Stato nell’essere fonte unica del diritto secondo le forme
della legge; rende mutevoli i mezzi che permettono di giungere al fine. Scrive Durkheim. «Dove
regna il finalismo, regna anche una contingenza più o meno larga: infatti nessuno scopo – e
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soprattutto nessun mezzo – si impone necessariamente a tutti gli uomini, neppure quando li
supponiamo situati nelle stesse circostanze.» (Durkheim 1895 Le regole 94)
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