François Rastier1
Heidegger oggi – o il Movimento
riaffermato
Testo & Senso
n. 14, 2013
www.testoesenso.it
1
Directeur de recherche CNRS e INALCO-ERTIM (Parigi). Traduzione italiana di Dario Compagno, rivista e
aumentata da Antonio Perri. Una versione francese del testo è in corso di pubblicazione in EMMANUEL FAYE, éd.,
Heidegger, le sol, la communauté, la race, Paris, Beauchesne.
1
Abstract: Presentato spesso come il più grande filosofo del ventesimo secolo, Heidegger è
conosciuto anche per il suo impegno nazista. Senza riguardo per le usuali edulcorazioni questo
studio, che si fonda su principi filologici ed è sostenuto da nuovi documenti, invita a una rilettura
del corpus accessibile. Vengono infine sottolineate le ambiguità dell’heideggerismo odierno.
Parole chiave: Heidegger, teologia politica, stile, poetica, nazismo, radicalismo.
È noto sin dagli anni ’30 che Heidegger fosse nazista2; il suo attivismo è stato sanzionato nel
1945 con un’interdizione a insegnare. Il fatto storico della sua duratura adesione al nazismo ha
ricevuto conferme molteplici già da lunga data.
Si è tuttavia voluto tenere distinto l’impegno politico di Heidegger dalla sua filosofia. È luogo
comune in Francia che si sia trattato, come per Carl Schmitt, di un errore temporaneo di giudizio3 o,
come disse Heidegger in un’intervista tardiva, eine grosse Dummheit – potremmo dire la grande
sciocchezza di un adolescente. Fondandosi su alcuni scritti scoperti di recente o finora trascurati, in
un libro che ha fatto scandalo tra i filosofi francesi (Heidegger – L’introduction du nazisme dans la
philosophie, Albin Michel, Parigi, 2005), Emmanuel Faye ha mostrato che il costante impegno
politico del filosofo trovava pieno riscontro in un impegno ideologico fondamentale della sua
filosofia.
Per molto tempo si è creduto possibile dissociare le opinioni, i corsi e i discorsi
dell’accademico nazista dagli scritti fondatori del filosofo. Ciononostante, la pubblicazione nel
2001 del volume che contiene i tomi 36/37 delle Opere complete (Gesammelte Ausgabe, d’ora in
poi GA) rende ormai impossibile questa dissociazione: Heidegger vi formula, ad esempio in Sein
und Warheit [Essere e Verità], il programma dello “sterminio totale” del nemico interiore («mit
dem Ziel der völligen Vernichtung», p. 91), dando una definizione razziale della verità. Questa
pubblicazione, voluta proprio dal Maestro, integra pienamente questo genere di programma alla sua
opera filosofica4. Ma allora come mantenere inalterate le riflessioni elevate che accompagnano
normalmente la lettura della sua opera? Come attribuire uno statuto filosofico al suo appello
all’omicidio di massa?
La questione che si pone oggi, dunque, non è stabilire dei fatti storici, né intentare un processo
filosofico tardivo e fuori luogo; si tratta piuttosto di riuscire a capire in che modo avvicinare
quest’opera.
I. L’arte di scrivere
L’arte di non leggere. — La filosofia di Heidegger è ancora considerata fondante, specialmente
in Francia dove si sono succedute più generazioni di discepoli dopo che l’esistenzialismo sartriano
2
Jean-Michel Salanskis ritiene addirittura che questa possa essere la principale ragione della sua notorietà (si veda
JEAN-MICHEL SALANSKIS, Heidegger, Paris, Les Belles Lettres, 1997, p. 141).
3
Il luogo comune è lo stesso per Heidegger e per Carl Schmitt, le cui notizie biografiche, ad esempio quelle raccolte
dall’editore francese Seuil, sono visibilmente ricalcate l’una sull’altra. L’eufemizzazione riguardo a Schmitt traspare in
questa presentazione delle Éditions du Seuil: «Sostenne il regime nazista, prima di prenderne le distanze a partire dal
1936». Ora, Schmitt ha preparato attivamente l’avvento del Reich, ha fornito il quadro della sua costituzione
legalizzando lo stato di eccezione permanente; e se il suo cattolicesimo militante non ha ottenuto l’unanimità nelle SS,
egli non ha comunque mai misurato il proprio sostegno e il proprio appoggio fino al 1945, divenendo poi consigliere
giuridico di diverse dittature, specialmente sud-americane.
4
Formulato nel 1933-34, questo programma sarà convalidato nel 1942, con la messa in opera della “soluzione finale”:
Heidegger scrisse che lo sterminio (das Vernichten) è ciò che «assicura … contro la decadenza» (GA, 50, p. 70).
2
ha lasciato (a parte un breve episodio marxiano) campo aperto al decostruzionismo; al punto che
l’heideggerismo ha fornito materia all’idioma comune che fa da sfondo alla disciplina accademica.
Tre principali fattori possono rendere conto dell’ingenuità (in)volontaria di molti filosofi francesi.
(i) La filosofia di Heidegger è stata edulcorata nelle sue connotazioni politiche da Jean
Beaufret, principale responsabile della sua introduzione in Francia5: egli traduce ad esempio
abendländisch (‘occidentale’, con allusione a Spengler) ricorrendo a un lamartiniano vespéral
(‘vespertino’)6. In questa guisa, François Fédier traduce la sinistra parola Gleichschaltung (la
‘messa al passo’ delle caserme prussiane che ha finito per designare uno dei fondamenti del
Führerprinzip) con una melodiosa mise en harmonie, e sotto la sua penna il nazional-socialismo
diviene un «socialismo nazionale» decisamente più presentabile.
Inoltre la conoscenza solo accademica del tedesco non dà modo di cogliere le tecniche allusive
utilizzate da Heidegger, e favorisce l’impressione di un irreprensibile candore. Quando per esempio
i colleghi heideggeriani citano la definizione che Heidegger dà del nazismo come di ein
barbarisches Prinzip (al fine di attestare, così, una presunta opposizione del filosofo al nazismo)
essi trascurano il fatto che nel linguaggio dell’epoca, al quale Klemperer ha dato il nome di Lingua
Tertii Imperii (LTI), maneggiato con virtuosismo da Heidegger, barbarisch è valutato
positivamente, così come fanatisch7.
(ii) Heidegger, in particolare dopo la guerra, ha adoperato abilmente un doppio linguaggio;
utilizza nella corrispondenza privata la nozione di Deckname, che significa ‘parola in codice’ o, più
esattamente, ‘di copertura’: confida per esempio in una lettera del 1943 che «l’Essere dell’Ente» è
per lui spesso un Deckname, e scrive peraltro che la Vaterland è proprio l’Essere (Seyn)8.
(iii) Gli archivi principali rimangono gelosamente chiusi, e la famiglia si attiene a grandi
linee al programma di pubblicazione messo a punto dallo stesso Heidegger. Egli puntava senza
dubbio a una nuova radicalizzazione del proprio pensiero: se aveva cancellato o edulcorato certi
passaggi “brutali” dai suoi corsi (ad esempio dal suo libro su Nietzsche), i tomi delle opere
complete apparsi nel 2001 (GA 36/37) mostrano che in questo secolo la sfumatura non è più
adeguata. Il fatto che Heidegger abbia integrato dei testi apertamente nazisti nell’edizione di
riferimento, così, mostra bene che essi fanno parte della sua opera e dissociarli sarebbe tradire la sua
volontà. I testi più radicali ed espliciti appariranno senza dubbio soltanto alla fine, e possiamo ben
temere che essi non verranno allora accolti come manna dal cielo.
Il conformismo accademico francese prosegue nonostante ciò nel suo errare, e si continua a
dibattere di Kehre e di Wesung come se nulla fosse accaduto. Emmanuel Faye ha dunque fatto
scandalo cominciando a mostrare che questa filosofia è effettivamente nazista – sebbene queste due
parole stonino se messe una accanto all’altra. Egli si è basato sulle opere apparse di recente, sui
5
Sappiamo d’altronde che Beaufret inviò alcune lettere private di supporto a René Faurisson, che quest’ultimo non
mancò di pubblicare maliziosamente negli «Annales d’histoire révisionniste», 3, 1987, pp. 204-205.
6
Altri autori, come Spengler o Jünger, sono stati oggetto di traduzioni lenitive in francese.
7
Sulla LTI (Lingua Tertii Imperii) si veda l’opera pionieristica di Victor Klemperer, LTI – La langue du IIIe Reich,
Albin Michel, Parigi, 1996. Questo genere di questioni empiriche possono essere chiarite dalla linguistica del corpus.
Per esempio, in una lettera del 7 giugno 1936 Heidegger scrisse a Kurt Bauch, amico e compagno del partito: «Il
Nazional-Socialismo sarebbe bello come principio barbaro, ma non dovrebbe essere così borghese...» [«Der N.S. wäre
schön als barbarisches Prinzip, – aber er sollte nicht so bürgerlich sein...» (in Heidegger, M., 2004, Brieffolge an den
Kunsthistoriker Kurt Bauch, cit. in Stargardt, J.A., Autographen aus allen Gebieten, «Katalog», marzo 2004, p. 192)].
8
Rinvio alla sezione 2, 2 (Das Sein als Deckname) del lavoro di Emmanuel Faye Der Nationalsozialismus in die
Philosophie: Sein, Geschichtlichkeit, Technik und Vernichtung in Heideggers Werk, in Hans J. Sandkühler (a cura di)
Vergessen? Verdrängt? Errinert? Philosophie im Nationalsozialismus, Brema, Schriftenreihe der deutschen Abteilung
des Europäischen UNESCO Lehrstuhls für Philosophie, vol. 4, 2008, pp. 53-73. Heidegger scrisse per esempio a Kurt
Bauch: «Ciò che dici su “l’Essere dell’Ente” è corretto. È una formula, per me spesso una parola in codice, ma anche
un’autentica croce della filosofia. Ciò che dovrebbe dirsi non può essere detto direttamente. Ciò non dipende dalla
terminologia, ma dal discorso che lo presenta linguisticamente come una totalità. Dietro la formula, che contiene una
“distinzione”, si nasconde qualcosa di essenziale» [«Was du über das ‘Sein des Seienden’ sagst ist richtig. Es ist eine
Formel, für mich oft ein Deckname, aber auch eine wirkliche crux der Philosophie. Das, was zu sagen wäre, lässt sich in
der Vorlesung nicht unmittelbar sagen. Auf die Terminologie kommt es nicht an, sondern auf den Ducktus wie ein
Ganzes sprachlich dargestellt wird. Hinter der Formel, die ja eine ‘Unterscheidung’ enthält, verbirgt sich etwas
wesentliches»].
3
corsi conservati a Marbach che sfuggono alla censura della famiglia; ma soprattutto sulla
conoscenza del corpus nel quale questi scritti assumono il loro senso: quello dei principali ideologi
dell’epoca, ormai non più letti, ma in cui si ritrova la stessa fraseologia e le stesse tesi.
La risposta pressoché immediata dell’Istituzione è stata inserire Heidegger nel programma per
l’abilitazione all’insegnamento, in modo da farlo rientrare nel canone degli studi obbligatori. Luc
Ferry non aveva firmato la petizione per l’apertura degli archivi di Heidegger; divenuto ministro
dell’Educazione, ha favorito l’ingresso del filosofo nel programma. In una risposta obliqua a
Emmanuel Faye, Ferry ha in seguito pubblicato un articolo intitolato Heidegger, lo “stronzo”
geniale9, nel quale caratterizza l’atteggiamento di Heidegger come «antimoderno e, in questo senso,
neoconservatore», che è quantomeno un eufemismo. La fede nazista diviene nei suoi propositi una
questione di storia e non di filosofia. Il carattere straordinariamente anodino di questo articolo
rientra all’interno di una strategia di banalizzazione: Ferry dichiara che ogni filosofo degno di
questo nome (tra cui egli stesso, naturalmente) «sognerebbe di aver scritto» alcuni libri di
Heidegger. I riferimenti inesatti inoltre – Ferry afferma che l’estratto di un corso del 1935
sull’introduzione alla metafisica può esser reperito in un’intervista del 1966 allo «Spiegel» –
mostrano che Heidegger, divenuto un’icona, non ha più bisogno di essere letto.
Gli heideggeriani radicali trovano inoltre sostegno negli ambienti post-althusseriani per
screditare lo studio di Emmanuel Faye. Nella loro prefazione alle lettere di Heidegger, Alain Badiou
e Barbara Cassin riprendono la stessa provvidenziale dissociazione tra il nazista e il filosofo:
«Heidegger è certamente un grande filosofo, che è stato anche, e allo stesso tempo, un nazista molto
ordinario»10. Tuttavia Gadamer, discepolo prediletto del Maestro, aveva da tempo ricusato questa
semplificazione: «si dichiarava, per ammirazione nei confronti del grande pensatore, che il suo
smarrimento politico non avesse nulla a che fare con la sua filosofia. E dire che ci siamo in tal modo
rasserenati! Non ci rendevamo conto fino a che punto fosse insultante una simile difesa di un
pensatore così importante»11.
Nella Francia di oggi, dunque, si può essere un nazista ordinario e un grande filosofo, come se
il nazismo non avesse avuto un progetto di distruzione della cultura, e come se la liquidazione dei
pensatori ebrei e la cremazione dei loro libri lasciasse intatta la filosofia – tanto come progetto che
come corpus. Traspare lo schema agiografico: come Paolo, persecutore dei cristiani, è anche
l’apostolo fondatore12, il rettore nazista è anche il rinnovatore della filosofia.
D’ascendenza scolastica13, il pensiero di Heidegger ha mantenuto un sostrato teologico, ma la
sua teoria dello Stato l’ha radicalmente politicizzato per edificare una teologia politica
fenomenologizzata. Così egli sostiene ad esempio che il Popolo dipende degli enti, lo Stato invece
dell’Essere: il Führer si trova dunque nella situazione metafisica eminente di permettere la
mediazione tra gli enti e l’Essere.
Perché nonostante questo colui che passa per aver rifondato l’ermeneutica non viene letto come
merita, cioè a dire con attenzione, tenendo conto della totalità del suo corpus? Perché si trascura di
leggere che «il principio dell’istituzione di una selezione razziale è metafisicamente necessario»
(GA, 50, p. 56-57), o che la «motorizzazione totale della Wehrmacht» costituisce un «atto
9
LUC FERRY, Heidegger, le “salaud” génial, «Histoire», 301, 2005, pp. 21-22.
ALAIN BADIOU ET BARBARA CASSIN, Prefazione a MARTIN HEIDEGGER, “Ma chère petite âme”. Lettres à sa femme
Elfride 1915-1950, Paris, Seuil, p. 12. Aggiungono a proposito di Faye: «Heidegger viene squalificato come filosofo e
deve essere ritirato dalla biblioteche, dove potrebbe corrompere i giovani» (p. 12). Ora, a differenza di Badiou e Cassin,
Faye chiede l’apertura degli archivi – e non che Heidegger sia interdetto. Inoltre, attraverso la pretesa accusa di
«corrompere i giovani», Badiou e Cassin fanno di Heidegger un novello Socrate, accantonando Faye nel ruolo di
sicofante. Si possono anche leggere, nella prestigiosa collezione L’ordre philosophique, i propositi di Heidegger contro
l’ebraizzazione dell’università, senza che nessuno vi trovi qualcosa da ridire. Gli impegni di un accademico rimangono
senza effetto sul pensatore che fu: questa tesi oggi così ammessa, mostra quanto l’università si sia allontanata dal
pensiero critico.
11
H.-G. GADAMER, Zurück von Syrakus? in Die Heidegger-Kontroverse (1988), p. 176.
12
Badiou gli ha dedicato una grossa opera, così come Agamben, che si rifà a Heidegger e Schmitt.
13
Nel pensiero scolastico la differenza ontologica è un luogo comune, e la si trova per esempio in San Bonaventura. In
Heidegger, i riferimenti alla scolastica tardiva di Suarez sono trasparenti e a volte espliciti. Persino l’ortografia
arcaizzante di Heidegger, quando scrive Seyn e non Sein, ad esempio, rinvia ovviamente a questo passato.
10
4
metafisico» (GA, 48, p. 333)? Ecco una metafisica eugenista e un grande pensiero della tecnica. Per
mantenere la dissociazione del nazista e del filosofo, si preferirà restare agli idilli, sul Linguaggio
“pastore dell’Essere” e altre storielle14.
La posta non è soltanto filosofica: interessa anche il rapporto con la storia e soprattutto con lo
sterminio. Per esempio, dopo aver definito Heidegger, alla maniera caratteristica del diniego, come
«questo filosofo tedesco non adepto del nazismo», Élisabeth de Fontenay giunge fino alla
delegittimazione della testimonianza: «l’imperativo di comunicazione» di Primo Levi le appare
come «la più grande corruzione della realtà, del pensiero e del legame umano, e addirittura come
quel dispositivo di egemonia che rende propriamente intrasmissibile la realtà dello sterminio»15.
Arte di scrivere e doppio linguaggio. — A proposito di linguaggio, permettiamoci un inciso più
tecnico su quello di Heidegger, dando alcuni esempi delle sue procedure di riscrittura,
disseminazione ed equivoco.
1. Come stilizzare l’hitlerismo? — Il modo in cui Heidegger rielabora Hitler è particolarmente
interessante. Laddove Hitler scriveva nel Mein Kampf: «Das deutsche Reich soll ... aus diesem
Volke die wertvollsten Bestände an rassischen Urelementen nicht nur zu sammeln und zu erhalten,
sondern langsam und sicher zur beherrschenden Stellung emporzuführen» (p. 439) [«Il Reich
tedesco deve non soltanto raccogliere e preservare le più preziose riserve di questo popolo negli
elementi razziali originali, ma condurle lentamente e con sicurezza fino a una posizione di
dominio»], Heidegger parafrasa: «die Grundmöglichkeiten des urgermanischen Stammeswesens
auszuschöpfen und zur Herrschaft zu bringen» (GA, 36/37, p. 89) [«condurre le possibilità
fondamentali dell’essenza del ceppo originariamente germanico fino al dominio»]. Ecco le
principali riscritture che uniscono i due passaggi:
(i) wertvollsten Bestände ... zu sammeln und zu erhalten … → Grundmöglichkeiten;
(ii)
deutsche ... rassichen Urelementen → urgermanische;
(iii)
beherrschenden → Herrschaft;
(iv)
emporzuführen → zu bringen.
La successione degli elementi principali è conservata, come di solito accade nelle
contraffazioni – e i programmi informatici rilevatori di plagi tengono conto di questo indizio
importante.
La stilizzazione heideggeriana consiste anzitutto nell’abbreviazione e nell’affermazione
sintetica: non vi è più nulla di graduale come invece vi era in sondern langsam und sicher. Anche
l’epoca è cambiata, e si è passati dalla stesura del programma alla sua messa in opera, visto che
Hitler scriveva quel testo nel 1924 e Heidegger nel 1933-34.
L’integrazione del proposito hitleriano al discorso filosofico si mostra nell’ontologizzazione,
che prende due vie: (i) la prima, esplicita, attraverso l’introduzione del morfema wesen e la
14
Un indizio di quel che queste storie nascondono: ho pubblicato un resoconto per Kurt Flasch del libro di Emmanuel
Faye; gli autori della traduzione francese, due tesisti in filosofia, si sono rifiutati di firmarlo per non compromettere il
loro avvenire professionale. Altro indizio: al momento del suo lancio, la petizione per l’apertura degli archivi di
Heidegger (http://archives-heidegger.hermeneute.com) ha ottenuto le firme di professori di filosofia in Spagna, in Italia,
in Germania; ma in Francia, nessun professore di filosofia in attività l’ha sottoscritta. François Fédier si giustifica così:
«Io spero che gli archivi siano aperti a ricercatori che non abbiano idee preconcette» (dibattito radiofonico del 23/02/07,
Bibliothèque Médicis, sotto la direzione di Jean-Pierre Elkabbach). Il principio di piacere filosofico non si oppone in
alcun modo al principio di realtà filologica; tuttavia la domanda: “bisogna leggere il corpus di un filosofo per
comprenderlo?” sembra fuori luogo. Siccome non siamo più ai tempi della scrittura bianca di un heideggerismo
sulpiziano, la comunità accademica francese oggi si compromette col suo rifiuto di saperne di più; attraverso i suoi
dinieghi, essa si racchiude in una sorta di zona grigia. In soccorso di Fédier nel dibattito Monique Canto-Sperber,
personalità incontestabile, crede di difendere l’Istituzione negando la comprovata partecipazione di Heidegger a un
autodafé simbolico di libri e facendo solo questa concessione: «Ma quante cose, quante persone hanno lasciato che gli
eventi accadessero, nello stesso momento».
15
Conferenza alla giornata di studi “Primo Levi e la razionalità dopo Auschwitz”, organizzata a Parigi il 28 aprile 2007
dalla Fondation Auschwitz.
5
creazione di Stammeswesens (Stamm: ‘ceppo, tribù’) riprendendo il tratto semantico /originario/ di
ur; (ii) l’altra, implicita, attraverso nominalizzazione: il participio beherrschenden diviene
Herrschaft – è noto che la tradizione ontologica ha da sempre privilegiato i nomi, i quali da
Aristotele in avanti sono supposti rappresentare le sostanze.
Infine Heidegger usa morfemi che rafforzano il tema del radicamento fondamentale (Grund,
Stamm), conformemente al suo progetto di fondazione. Stamm ha il senso generico di ‘ceppo’, o
‘stirpe’, e può designare una popolazione: ma si tratta qui di fondare filosoficamente il nazismo,
poiché se per il brano di Hitler è richiesta una lettura biologica, di un positivo eugenismo, per quello
di Heidegger il dominio politico si fonda tra l’altro nell’ontologia, in un oscuro e ieratico
Stammeswesen. L’insieme delle procedure converge verso una radicalizzazione del proposito,
divenuto ancor più affermativo ed esteso alla “metafisica”.
2. Come ontologizzare l’antisemitismo? — Il 18 ottobre 1916, Martin Heidegger scriveva alla
sua fidanzata Elfride: «L’ebraizzazione della nostra cultura e delle nostre università è assolutamente
spaventosa, e penso che la razza tedesca dovrebbe riunire abbastanza forza interiore per giungere al
di sopra» [«Die Verjudung unsrer Kultur u. Universitäten ist allerdings schreckerregend u. ich
meine die deutsche Rasse sollte noch soviel innere Kraft aufbringen um in die Höhe zu
kommen»]16.
Se non si tratta soltanto di una conversazione scherzosa tra innamorati, cosa diviene questo
pensiero così forte in Sein und Zeit? Rileggiamo il §27, descrizione decisiva di una vita inautentica,
caratterizzata dalla perdita di identità e dall’oblio dell’Essere. Qui non si tratta più di colleghi ebrei,
ma di un Man intollerabile. La promiscuità tra il Dasein e il Man (il Si impersonale) viene descritta
in termini angoscianti. Infatti al posto del Dasein «che godendo di un primato sugli altri, si dedica a
tenerli sotto di lui» [«das Dasein im Vorrang über die Anderen darauf aus ist, sie niederzuhalten»,
p. 126] e al posto di regnare al di sopra [«in die Höhe», cit.], lo troviamo «in preda ad altri», e così
«il Si esercita la sua tipica dittatura» [«entfaltet das Man seine eigentliche Diktatur», p. 126] in un
quotidiano banale dove è questione di giornali e di mezzi di trasporto. Questa alienazione viene
ribadita al §38: il Si «tentatore» (e dunque diabolico) procura al Dasein una «rassicurazione»
ingannevole, invita a un affaccendarsi sbagliato, e si caratterizza per «l’assenza di suolo» (bodenlos,
p. 177) – cioè lo sradicamento (Bewegtheit17, ibid., o in altri termini il cosmopolitismo apolide). Ne
risulta una decadenza (Verfallen), in un mondo della «fatticità» e del «commercium»18. Questo
commercium evoca inevitabilmente il denaro, tanto quanto la pubblicità del §27, della quale
Martineau si preoccupa di precisare che non ha nulla a che fare con la réclame (p. 127, in nota).
Così, attraverso una semplice tecnica di diffusione semantica19, si trovano disseminati gli elementi
di un tema ben noto: la dittatura di una plutocrazia cosmopolita. La frase della lettera a Elfride
contro l’ebraizzazione dell’università, che abbiamo citato sopra, era seguita dall’esclamazione:
Allerdings das Kapital! [«Ecco là il capitale!»], che rinvia allo stesso tempo al marxismo e
all’avidità dei colleghi ebrei, parte dell’indistinto e minaccioso Si.
Lo scontro tra il Dasein e il Man traspone e smembra implicitamente la teoria che Martin Buber
espone in Ich und Du (1923): per Buber, la relazione Io-Tu lega il Me all’Altro e a Dio, mentre la
relazione Io-Esso lega il Me all’oggetto. In Heidegger, il Si è un Tu spersonalizzato che ha perduto
la sua alterità, divenendo intermediario tra il Tu e l’Esso, e minaccia di dominare il Dasein.
Così il Dasein (tedesco, e intraducibile poiché il Sein è Vaterland), deve rifiutare la dittatura
16
Martin Heidegger, “Mein liebes Seelchen!”, Briefe Martin Heidegger an seine Frau Elfride 1915-1970, a cura di
Gertrude Heidegger, DVA, Monaco, 2005, p. 51.
17
Più che ‘mobilità’, come lo traducono Courtine, Jollivet, Sommer, Bewegtheit significa ‘messa in movimento’
[l’edizione italiana di Essere e tempo nella trad. di Pietro Chiodi (Milano, Longanesi, 1970) ha “moto”]; questo termine
non è solitamente peggiorativo in Heidegger, ma lo diviene in questo caso, poiché si tratta della «“Bewegtheit” des
Verfallens» – e dato che Heidegger utilizza la parola in un senso che non gli è consueto, la mette qui tra virgolette.
18
Sein und Zeit, p. 176; rarissime in Heidegger, le parole e le radici latine sono generalmente peggiorative poiché
considerate estranee alla germanità [nell’edizione italiana troviamo, rispettivamente, effettività e commercio o talora
commercium].
19 Su questo rinviamo al nostro studio Formes sémantiques et textualité, «Langages», n. 163, 2006, pp. 99-114.
6
del Man (ebreo). Il Man è ancora più memorabile perché questo pronome germanico designa non
già uno o più esseri umani indeterminati, ma proprio quelli che non si possono o non si vogliono
nominare – la traduzione inglese potrebbe essere they. Non saranno proprio loro, i colleghi ebrei,
presto cacciati dall’Università dal rettore Heidegger, che ci tengono nella mediocrità, quelli
dell’innominabile Si [das Man] stigmatizzato nel famoso §27 di Sein und Zeit?20
Tra gli esistenziali, sorta di categorie a priori dell’esistenza, Heidegger assegna un posto
particolare alla paura, «possibilità esistenziale essenziale della situazione emotiva del Dasein in
generale» (Essere e Tempo, § 30). Ora questa paura che partecipa alla definizione stessa della
soggettività, ha una causa allo stesso tempo determinata e imprecisa: chi proviene da una contrada
straniera «ha il carattere della minaccia» (p. 124); inoltre, «la contrada essa stessa, e chi proviene da
essa, è riconosciuto come qualcosa di “inquietante”» (p. 125). A seconda del suo modo di
avvicinarsi, lo straniero (eufemizzato in «assolutamente non familiare») può scatenare lo spavento,
l’orrore o addirittura il terrore. L’angoscia alla Kierkegaard viene così rimotivata come una paura
dell’altro indeterminato: «L’(e)stranezza bracca incessantemente il Dasein e minaccia, sebbene
implicitamente, la sua quotidiana perdita nel Si»21.
L’angoscia e il timore di cui Sant’Agostino, e poi Lutero e Kierkegaard, facevano ciascuno a
suo modo un effetto del peccato originale, trova così una causa esterna, lo straniero – perfetto capro
espiatorio. Il Si della promiscuità diviene una minaccia apolide, la contrada straniera del §30
diviene un “da nessuna parte” al §40. Il «minaccioso … è già “lì” – sebbene da nessuna parte, è così
vicino che opprime e toglie il fiato – e questo sebbene non stia da nessuna parte» (p. 186)22. Con
una progressione che ricorda i romanzi fantastici, il Dasein avverte poco a poco che il tran-tran
falsamente rassicurante della quotidianità nasconde lo spaventoso23.
Il posto del nemico è così designato, senza che sia nominato, né forse nominabile: la divisione
fondamentale tra il Nemico e Noi sarà chiaramente esposta da Carl Schmitt ne Il concetto di
politico24 dove il nemico viene definito come «questo essere altro, straniero».
Se non è mai stata un tema filosofico, la promiscuità intollerabile dello straniero resta un tema
caratteristico del discorso razzista e xenofobo25. Questa lettura non è sfuggita a George Steiner,
autore di un’opera su Heidegger e saggista insinuante, quando riprende il tema della promiscuità
esistenziale e indica il modo migliore di farla finita con la perdita identitaria: «Sentendo la nostra
identità messa in causa dalla soffocante palude dell’anonimo, siamo presi da accessi omicidi, dal
cieco desiderio di aggredire per farci spazio»26. La conclusione non si fa attendere: «I riflessi del
genocidio del ventesimo secolo, la dimensione implacabile del massacro provengono forse dalla
sgroppata dell’anima asfissiata» (op. cit., p. 64).
Per Heidegger, la restituzione dell’identità passava anzitutto per l’avvento del Führer che
avrebbe liberato il popolo tedesco dalla spoliazione e avrebbe consentito la grande Restituzione.
Sarà il giubilo: «la restituzione dell’Ente», è «l’altro inizio», in cui l’uomo «conduce la libertà
20
E non dimentichiamo gli studenti, visto che nella lettera a Bauch del 7 febbraio 1935 Heidegger categorizza così i
suoi uditori: «Ebrei dispersi, mezzi ebrei, altrimenti dei falliti, dei gesuiti e dei curati in guisa di laici, e qualche anima
bella» [«Versprengte Juden, Halbjuden, sonst Mißglückte, Jesuiten u. Schwarze in Laiengestalt u. einige Schöngeister»]
(Brieffolge an den Kunsthistoriker Kurt Bauch, in Stargardt, J. A., Autographen aus allen Gebieten, «Katalog», marzo
2004, p. 190).
21
Essere e tempo, §40; Martineau traduce con «étrang(èr)eté» [fusione di estraneità e stranezza, n.d.t.] la parola Unzuhause, letteralmente il non trovarsi più a casa propria [l’edizione italiana di Essere e tempo ha spaesamento].
22
La traduzione francese di Martineau, a p. 156: le «menaçant … est déjà ‘là’ – et pourtant nulle part, il est si proche
qu’il oppresse et coupe le souffle – et pourtant il n’est nulle part».
23
La struttura narrativa di Sein und Zeit non è stata sufficientemente studiata: essa narra le avventure dell’animaDasein, gettata in un mondo minaccioso come un tempo accadeva nei racconti iniziatici manichei. Fatto degno di nota,
il linguaggio utilizzato raddoppia l’asservimento: il lettore si vede calato in un discorso incredibile, fortemente
stereotipato secondo leggi idiosincratiche. L’ascendente iniziatico dell’opera deve senza dubbio molto al
raddoppiamento della struttura del racconto attraverso la narrazione che la enuncia – l’Anima e il Lettore attraversano le
stesse prove.
24
CARL SCHMITT, Le categorie del “politico”, il Mulino, Bologna, 1972, pp. 90-165.
25
Si veda il mio Sémiotique des sites racistes, «Mots», n. 80, 2006, pp. 73-85.
26
Nel castello di Barba-Blù, SE, Milano, 2002, corsivo mio.
7
dell’appartenere al giubilo dell’Essere» (cfr. Beiträge, GA, tome 65, p. 407, §255, §256). Nel suo
saggio Su Ernst Jünger (GA, 90), Heidegger precisa il suo programma identitario: «la forza
dell’essenza non ancora purificata dei Tedeschi è capace di preparare nelle sue fondamenta una
nuova verità dell’Essere. Questa è la nostra credenza [Glaube]». E si raccomanda al Rassegedanke,
al pensiero della razza che – scrive – «scaturisce dall’esperienza e dall’Essere come soggettività»
(cf. Faye, cit.).
3. Come trasformare i carnefici in vittime? — Dopo la guerra, Heidegger fu spinto dai suoi
partigiani a pronunziarsi sullo sterminio e, in due conferenze del 194927, abbordò l’argomento con
alcune frasi che verranno poi sempre citate per esonerarlo da ogni colpa. Dichiarò: «Centinaia di
migliaia muoiono in massa. Muoiono? Periscono. Sono uccisi. Muoiono? Diventano “pezzi di
riserva” nella fabbricazione di cadaveri. Muoiono? Sono liquidati con discrezione nei campi di
sterminio. … Dovunque in massa la disperazione di innumerevoli morti, terribili non morti – e
ciononostante l’essenza della morte resta nascosta agli uomini. L’uomo non è ancora il mortale»28.
La domanda ripetuta Sterben Sie? può mettere in dubbio la qualità della loro morte, nel senso
in cui il loro trapasso non è un decesso, non è seguito da funerali né dall’omaggio dei cari29. Ma un
altro disconoscimento si profila obliquamente: da un lato, l’interrogativo non riceve nessuna
risposta diretta; d’altro lato, sembra che a essere morta sia la morte e non le vittime (l’uomo non è
ancora il mortale). Qui di nuovo si impone l’allusione a San Paolo: «La morte è stata inghiottita
dalla vittoria. O morte, dov’è la tua vittoria? O morte, dov’è il tuo dardo?» (Lettere ai Corinzi, 15,
54).
Un’altra lettura, complementare, si appoggia all’intertesto heideggeriano. Essa viene formulata
in un’intervista inedita tra Alain Finkielkraut ed Emmanuel Faye che riconosce in questo passaggio
«la concezione nazista della morte come sacrificio dell’individuo per la comunità». La troviamo già
presente in Essere e tempo e celebrata da Heidegger nel maggio 1933 nel suo discorso che esalta
Schlageter, l’eroe dei nazisti morto fucilato dai francesi nel 1926 al fine, dice Heidegger, di «morire
per il popolo tedesco e il suo Reich». Secondo Heidegger si tratta del modo più spartano e grande di
morire. Ma coloro che sono morti nei campi di sterminio sono, scrive, grausig ungestorben,
«terribili non morti. […] Quelli non morivano la morte degli eroi, non erano per essenza nella
“custodia dell’essere”. […] quello non muore la morte degli eroi, non muore veramente... C’è qui
all’opera una sorta di negazionismo ontologico assolutamente spaventoso»30.
27
La storia di questi testi è complessa: circolavano come dattiloscritti, sono stati commentati, ma sono stati pubblicati in
tedesco soltanto nel 1994 e restano ancora inediti in francese.
28
«Hunderttausende sterben in Massen. Sterben Sie ? Sie kommen um. Sie werden umgelegt. Sterben sie? Sie werden
Bestandstücke eines Bestandes der Fabrikation von Leichen. Sterben sie? Sie werden in Vernichtungslagern unauffällig
liquidiert. [...] Massenhafte Nöte zahlloser, grausig ungestorbener Tode überall - und gleichwohl ist das Wesen des
Todes dem Menschen verstellt. Der Mensch ist noch nicht der Sterbliche» (Die Gefahr, GA, vol. 79, p. 56; trad. it. Il
pericolo, in Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano, 2002, p. 83). In risposta a Emmanuel Faye, Alain
Finkielkraut vede in queste righe una magnifica riflessione sulla morte.
29
Questo passaggio è senza dubbio una risposta all’inizio dei Carnets de Malte Laurids Brigge, alla morte di
Christoph Detlev Brigge, che contiene delle riflessioni sul saper morire come: “Sie alle haben einen eigenen Tod
gehabt” (Rilke, Werke, editore Zinn, vol. VI, p. 720 e segg.).
30
Emmanuel Faye, Entretien avec Alain Finkielkraut et Brice Couturier, trasmissione Contre-expertise, FranceCulture,
agosto,
pubblicato
online
il
10/09/2005,
consultato
il
5/06/2006.
Indirizzo:
http://skildy.blog.lemonde.fr/skildy/2005/09/je_publie_ici_l.html L’uguaglianza davanti alla morte è un topos antico;
ma per il pensiero razziale, essa diventa insopportabilmente egalitaria: è impossibile mettere sullo stesso piano la morte
gloriosa dell’eroe e la foratura dei sotto-uomini. In Sein und Zeit, al §47, Heidegger ha teorizzato la distinzione tra le
due forme di morte, riservando alla seconda il nome Verenden. Coloro che non hanno un Dasein storico non muoiono,
ma periscono: è il caso degli Ebrei (apolidi), ma anche dei Negri e dei Cafre [termine spregiativo per indicare le persone
originarie dell’Africa del Sud, n.d.t.] (GA, 38, pp. 81-83; ma non scherziamo: i Cafre hanno una storia in realtà, sia pure
«come le scimmie e gli uccelli»).
Hannah Arendt riprende, addolcendolo, il proposito del suo maestro sulle due forme della morte: «Rendendo anonima
la morte stessa (con l’impossibilità di accertare se un prigioniero era vivo o deceduto), i campi di concentramento la
spogliavano del suo significato: il termine di una vita compiuta. In un certo senso, essi sottraevano all’individuo la sua
propria morte, dimostrando che a partire da quel momento niente più gli apparteneva ed egli non apparteneva più a
8
Queste letture vengono confermate dalla cancellazione grammaticale delle vittime, designate
soltanto da un pronome (sie), come se questi innominati fossero anche innominabili. I carnefici
scompaiono, dissimulati nella nominalizzazione (Fabrikation) e dalle forme verbali passive nelle
quali il soggetto è ellittico.
Preparata dall’opacità ieratica e oracolare del proposito, ritmata dalla ripetizione come una
litania, la fine del passaggio riafferma la sua dimensione teologica, riprendendo la domanda del
Salmo 8, v. 5: «Chi è dunque il mortale?». Mentre Primo Levi rispondeva con Se questo è un
uomo31, Heidegger offusca il fatto storico dello sterminio concludendo che l’uomo non è ancora
mortale.
Il senso di questo offuscamento si chiarisce in numerose espressioni che appartengono al gergo
nazista: liquidiert; Fabrikation von Leichen (espressione caratteristica dello humour nazista, dovuta
all’SS Friedrich Entress); Stück (in Bestandstück – al posto di Bestandsteil): attraverso l’uso
dell’inanimato Stück ha luogo la disumanizzazione, ed era d’altronde il termine abituale dei
guardiani per contare i prigionieri.
Nell’altra conferenza, l’immagine dell’industrializzazione (divenuta un topos con Arendt,
Steiner, Agamben e tanti altri) ritorna a proposito della produzione agricola: «L’agricoltura è adesso
un’industria alimentare motorizzata, nella sua essenza la stessa cosa della fabbricazione di cadaveri
nelle camere a gas e nei campi di sterminio, la stessa cosa dei blocchi e della riduzione di paesi alla
fame, la stessa cosa della fabbricazione di bombe all’idrogeno»32.
Tutto s’inverte e sembra confondersi: non si parla di guerra ma di pace, non si parla dello
sterminio ma dell’agricoltura, si dice «fabbricazione di cadaveri» per indicare lo sterminio dei
viventi. Il blocco a cui si fa riferimento non è quello del ghetto di Varsavia, imposto dai nazisti, ma
quello russo di Berlino Ovest, nel 1948.
Lo sterminio nazista diviene essenzialmente la stessa cosa della politica russa e americana – gli
USA si preparano a sperimentare la bomba H. Questo tema è ancora fiorente in tutti i radicalismi
contemporanei.
Schematicamente, due serie vengono messe così in parallelo:
|Guerra|
|Pace|
|Nazisti|
|Americani/Russi|
Campi
Industria
Blocco
Agricoltura
Camere a gas
Bomba H
|Ebrei|
|Tedeschi|
Gli sfondi semantici della guerra e della pace sono impliciti; come nel passaggio citato sopra,
gli attori non sono nominati (li ho esplicitati tra barre verticali). Sebbene non lessicalizzate, alcune
forme semantiche normalmente opposte tra loro vengono sostituite (Americani-Russi e Tedeschi,
Nazisti ed Ebrei, Carnefici e Vittime); altre forme semantiche normalmente senza rapporto
reciproco vengono invece presentate come omologhe: Blocco di Berlino e Campi di sterminio,
Camere a gas e Bomba H. Questi procedimenti di assimilazione partecipano della tradizione
antinomista: si afferma l’identità dei contrari per condurre a un’assurdità presentata come unità
superiore33. Ma qui una micro-dialettica conduce dalla prima riga della nostra tabella alla seconda,
dal passato allusivo al presente e al futuro affermati, attraverso una sorta di allegoresi inversa nella
nessuno. La morte non faceva altro che suggellare il fatto che quella persona non era realmente mai esistita» (Le origini
del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2004).
31
Sulle risposte alla domanda del Salmo, si veda il nostro Ulisse a Auschwitz, Napoli, Liguori, 2009. È noto che
Heidegger, figlio di sacrestano, era all’inizio orientato a divenire prete, e cominciò studiando teologia.
32
«Ackerbau ist jetzt motorisierte Ernährungsindustrie, im Wesen das Selbe wie die Fabrikation von Leichen in
Gaskammern und Vernichtungslagern, das Selbe wie die Blockade und Aushungerung von Ländern, das Selbe wie die
Fabrikation von Wasserstoffbomben» (Das Gestell, GA, vol. 79, p. 27).
33
Heidegger si fonda qui su un topos inveterato che oppone l’agricoltura e la pace ai massacri e alla guerra. La
letteratura antica pullula di figure che concretizzano questa opposizione: ad esempio la storia di Cincinnato, le
Georgiche di Virgilio («et curvae rigidum falces conflantur in ensem», I, v. 508) e le Metamorfosi di Ovidio (I, 95 e ss.)
sul passaggio dall’età dell’argento caratterizzata dall’inizio dell’agricoltura all’età del ferro dove comincia la guerra.
9
quale il senso letterale, storico, viene nascosto, e il senso figurato invece letteralizzato nell’allusione
politica immediata. In questa allegoresi, che ricorda quella di Gioacchino da Fiore ma a cui si
accompagna inoltre un’inversione dei valori, lo sterminio degli ebrei gioca il ruolo delle profezie
dell’antica Legge e si compie nelle attuali sfortune dei Tedeschi, mutando la colpa in
vittimizzazione.
Questa scrittura antinomista distrugge il senso storico del mondo antico al fine di negarlo e
ribaltarlo in un senso nuovo, nel quale si afferma il punto di vista nazista. Richiama un’ermeneutica
antinomista, come Paul de Man (teorico del decostruzionismo post-heideggeriano) l’ha descritta in
Allegories of Reading: ogni testo avrebbe un senso contraddittorio a quello che sembra enunciare34.
La sottigliezza di Heidegger resta velata dalla struttura retorica del pathos: ripetizioni,
affermazioni oracolari, presente essenziale. Nelle due conferenze ritorna la stessa formula sulla
fabbricazione dei cadaveri, marcatamente antinomista, poiché designa invece una distruzione.
Sebbene complementare alla camera a gas, la camera crematoria viene dimenticata, malgrado faccia
sparire alla fine del processo i prodotti di questa “industria” ed indebolisca così l’antitesi.
Mentre il principio del pensiero analitico (e della dialettica, secondo Platone) consiste nel
distinguere per poi articolare, qui si tratta al contrario di confondere tanto le forme che gli sfondi
semantici e i momenti, attraverso l’intervento provvidenziale di un’identità metafisica che risiede
nell’Essenza, im Wesen. L’essenzializzazione permette di uscire dalla storia creando un’ontologia:
la cancellazione degli agenti e le nominalizzazioni essenzializzano la Morte e la Tecnica giudicata
assassina di per se stessa. Ma il messaggio politico resta chiaro sotto le “parole in codice”: nel 1949,
le vittime sono i Tedeschi.
L’uso congiunto di formule scritturali, di linguaggio metafisico e del gergo nazista, il tutto
legato nella prosodia della “grande maniera”, getta delle esche seducenti: ciascuno può leggervi la
magnifica meditazione che preferisce, e se in questo doppio linguaggio il senso resta celato in
evidenza (qual’è il ruolo della bomba H in una meditazione sull’Essere?), chi oserebbe separarlo,
correndo il grosso rischio di vedersi stigmatizzato da un cuore devoto o semplicemente di indignare
il mondo accademico?
Dopo un tale annebbiamento storico, non potremmo pietosamente concludere con Marcel
Conche: «Il nazional-socialismo in sé stesso non ha molto a che vedere con Auschwitz»35?
Formulata da un professionista rispettato, questa concezione quasi eterea presiede alla ricezione
irenica di Heidegger: non vi sono “parole in codice” (Decknamen), non vi è doppio linguaggio né
strategie di confusione, non vi è “arte di scrivere”. Non si dirà mai che l’introduzione del nazismo
nella filosofia la condanna alla servitù ideologica; come sarebbe scortese inoltre insinuare che dei
colleghi abbiano potuto, in buona fede o meno, fare carriera su un autore quantomeno dubbio.
Certo piena di cautela, la strategia heideggeriana di doppio linguaggio non solleva alcun
dubbio. Auto-generato, l’idioletto filosofico heideggeriano si chiude su se stesso, e non può essere
commentato se non nei suoi propri termini – cioè nella sua propria lingua. Il che produce
insondabili problemi di traduzione: ad esempio la parola Dasein, confidava Heidegger, non può
essere tradotta. Il tedesco diviene così «la lingua dell’Essere»: le più piccole sue contingenze, come
le famiglie di derivazione, o le assonanze, divengono le condizioni di un «pensiero più elevato»36, e
asserviscono così la filosofia a un nazionalismo linguistico insensato37.
Paralogismi diversi sono indotti da una folla di paronomasie, i cui esempi vanno letteralmente
dalla A alla Z: dalla «Anwesen des Anwesenden» (la ‘presenza della cosa presente’), «Das Dingen
34
Scoperto tardivamente, il passato di attivista pro-nazista di Paul de Man chiarisce i lussi di questa ermeneutica che
permette di riscrivere la storia.
35
Heidegger par gros temps, Paris, Les Cahiers de l’Égaré, 2004, p. 84. Intento nobile, ma nefasto nelle sue
conseguenze: dichiariamo dunque innocente il nazismo per salvare Heidegger?
36
Si veda Die Frage nach der Technik, Vorträge und Aufsätze, Pfüllingen, Neske 1985 [1954], p. 23.
37
Accade lo stesso per la caratteristica scomposizione delle parole tedesche (per esempio Dasein, §28), come se una
verità originale sgorgasse da ciascuno dei loro morfemi se separati.
10
des Dinges», «das Nichten des Nichtes», al famoso «Die Welt weltet», all’indimenticabile « Zeigen
des Zeichens» [mostrazione del segno] detto a proposito del «Zeigzeug» [strumento, mezzo di
indicazione]38. Voegelin avvicina, non senza malizia, questo tipo di formule al Wagala weia!
Wallala weiala! Weia! dell’inizio de L’oro del Reno. In un testo filosofico, le paronomasie non
sono soltanto degli ornamenti gorgiani: esse lo sottraggono al dibattito, poiché né un’assonanza né
un’allitterazione possono essere contraddette. Esse suppongono al contrario un’unità oscura,
dell’ordine della tautologia, certo sempre vera, ma proprio per questo priva di senso. Potremmo
naturalmente stupirci del legame stabilito tra alcuni caratteri semantici globali (come il
nazionalismo) e alcuni caratteri espressivi locali (come le paronomasie). Ben inteso, la paronomasia
non è in sé nazionalista; tuttavia, lasciando per principio l’iniziativa alle parole, essa dà al discorso
un’apparenza di profondità espressiva, analogica e non logica, che si accorda in questo caso con la
regressione del pensiero verso l’autorità ieratica delle radici germaniche.
Il testo heideggeriano resta così criptato attraverso la diffusione di forme concettuali in uno
stile rapsodico, che lascia poco spazio alla razionalità. I concetti apparenti sono nominati con
perifrasi idiosincratiche divenute parole composte, mentre le nozioni cruciali non sono lessicalizzate
ma sempre diffuse attraverso le loro componenti semantiche. Queste strategie dell’equivoco creano
una sotto-determinazione che ha autorizzato le letture ieratiche e i commenti indefiniti; ma esse
permettono anche di infestare il discorso filosofico con un’ideologia politica diffusa sin dalle prime
opere. Ricoeur riteneva con certezza che Sein und Zeit «non è un libro nazista», poiché non contiene
né etica né politica, e ipotizzava che l’hitlerismo avesse in seguito colmato queste lacune. Questa
opinione, già contestabile per l’etica, può oggi essere ridiscussa anche per la politica.
Mi si obietterà che la mia lettura sembra decostruttiva. Ma anche se fosse così sarebbe fuori
luogo, visto che l’ermeneutica decostruzionista è stata fondata proprio da Derrida attraverso la
lettura di Heidegger, ed è speculare alle letture che praticava Heidegger stesso? Il decostruzionismo
pecca ciononostante di una certa esteriorità, indicando come essenziali alcune tesi puntualmente
espresse o suggerite, come se la lingua di Heidegger fosse principalmente filosofica. Questo
pregiudizio di buon senso va riconsiderato alla luce degli studi sulla LTI da una parte, e sulla
scrittura heideggeriana dall’altra. La LTI infatti non si limita a un vocabolario, né a un rapporto
sociale con la lingua stessa: essa si è formata in un pathos costante, di cui le traduzioni non riescono
a rendere la cadenza e il portamento. Più che una filosofia, è una “poetica” nazista che Heidegger
elabora a partire da questo gergo d’epoca.
La densità soffocante degli artifici, spesso derivati dal sermone che ha tanto ispirato lo stile dei
periodici tedeschi, la composizione rapsodica con ripetizione di leitmotiv, i periodi numerosi, le
clausole, le gradazioni valutative, le anafore continue, i rilanci ritmici, le allitterazioni iniziali
riprese dall’antica poesia germanica, la saturazione emozionale attraverso l’alternanza di violenza e
leziosaggine: tutto questo compone uno stile oracolare dell’ispirazione, beatifica il pensatore e
soggioga i lettori come gli ascoltatori.
Ecco un piccolo esempio: «A ogni nuovo momento, il Führer e il popolo si legheranno più
strettamente, al fine di mettere in opera l’essenza del loro stato, e dunque del loro essere; crescendo
congiuntamente, opporranno il loro essere e il loro volere storici e sensati alle due potenze
minacciose che sono la morte e il diavolo, cioè la corruzione e la decadenza della loro essenza
autentica»39. La cheville40 interna della prima parte del periodo marca un culmine prosodico, che si
rilancia nel “combattimento” ultimo della seconda parte. Questa struttura si raddoppia en abîme,
attraverso la dualità ossessiva delle dittologie che compongono un universo dualista nel quale due
38
«Lo strumento della mostrazione in quanto mostrazione del segno» («L’outil de monstration en tant que monstration
du signe», Sein und Zeit, trad. franc. Martineau, 1984, Paris, Authentica, p. 77-78; questo ‘segno che designa lo
strumento a fare segno’ non è altro che la freccia di direzione delle automobili di allora...)
39
«In jedem neuen Augenblick werden sich Führer und Volk enger verbinden, um das Wesen ihres Staates, also ihres
Seins zu erwirken; aneinander wachsend werden sie den beiden bedrohenden Mächten Tod und Teufel, d.h.
Vergänglichkeit und Abfall vom eigenen Wesen, ihr sinnvolles, geschichtliches Sein und Wollen entgegensetzen» (cfr.
E. FAYE, Heidegger – L’introduction du nazisme, cit., pp. 230-231).
40
In francese il termine cheville (‘caviglia’) viene utilizzato per indicare una parola aggiunta al verso poetico col solo
scopo di raggiungere il desiderato numero di sillabe, n.d.t.
11
potenze binarie si combattono. Il futuro profetico, l’unione in un climax fusionale, l’equilibrio nella
lotta dell’essere e del volere mescolano il teologico e lo storico, il che indica precisamente una
teologia politica. Lo sfondo ontologico ordinario (Wesen, Sein) rimane, ma cosa c’entra in questo
contesto il Diavolo? Semplice: nel Mein Kampf, Teufel designa gli ebrei.
Mentre la lingua di legno sovietica, rustica e tecnica, non ha mai potuto infiammarsi, in materia
di linguaggio il nazismo ha creato una dizione, una prosodia e un pathos specifici. Heidegger, per il
quale il ductus prosodico prevale41, ha contribuito alla loro elaborazione, riconciliando la filosofia e
la poesia in un linguaggio che non rimanda più né all’una né all’altra, bensì a quelle mitologie
degradate che chiamiamo ideologie.
I procedimenti del linguaggio legato, l’oratio vincta con la quale gli antichi poeti indoeuropei
creavano o mimavano il linguaggio degli dèi e di cui troviamo eco ad esempio in Eraclito, gran
sacerdote dell’Artemide di Efeso, vengono ripresi per creare un linguaggio dei Superuomini.
La riunificazione della poesia e della filosofia, separate dopo Platone, era stata già tentata da
alcuni mistici. Fu la grande ambizione e la scommessa dei romantici di Jena. Nel suo progetto per
delegittimare la razionalità, Heidegger ritorna alle seduzioni di un parola oracolare; e, di fatto, le
correnti post-heideggeriane (decostruzionismo in testa) hanno tutte prodotto saggi che si sforzano di
avvicinarsi allo stile letterario, sebbene ogni sorta di conciliazione tra poesia e filosofia vada sempre
a detrimento sia dell’una che dell’altra.
I procedimenti “poetici” concorrono qui al pathos42, e tale pathos costante del linguaggio
heideggeriano appartiene più all’esaltazione teologico-politica che alla filosofia.
II. Un avvenire radioso?
L’avvenire di una mitologia politica. – Gli scritti di Heidegger sono spesso suscettibili di una
lettura filosofica ovvia (ontologica) e di una lettura politica nascosta. Come regola generale, gli
elementi nascosti sono determinanti: qual è allora l’importanza della menzione dell’etnia a pagina
384 di Sein und Zeit? [nell’ed. it. «das Geschehen der Gemeinschaft, des Volkes» è reso come «lo
storicizzarsi della comunità, del popolo», p. 461]. Il Dasein «si sbarazza della sua libera scelta al
momento della morte secondo un’opzione lasciata in eredità ma liberamente scelta» e trova il suo
«destino destinale» nell’«avvento della comunità del popolo-etnia» [das Geschehen der
Gemeinschaft, des Volkes], che si libera nel combattimento [im Kampf wird die Macht des
Geschickes erst frei]. È là che si trova la salvezza.
Il dispositivo evangelico nascondeva il senso spirituale ed esibiva il senso storico, per
trasformare la storia umana in storia di Salvezza: Cristo era l’operatore che legava il senso della
scrittura, perché le tribolazioni di questo delinquente palestinese in rotta con la messa al bando
giudaica mostravano i disegni divini. Qui, al contrario, Heidegger passa dalla storia (storica) della
Salvezza a quella degli uomini. Subordina così il tempo storico al tempo apocalittico
dell’Evento/Avvento (Ereignis), per ricusare la storia e imbastire una teologia melliflua:
storicizzato, originato, profetizzato, il tempo diviene impensabile per la storia43.
Uno dei principi della teologia politica moderna è che si può fare la storia, soprattutto grazie
allo Stato totale e alla sua Guida o Conduttore (Führer) per metà divinizzato. Costoro non
realizzano la Provvidenza, ma la domano, si sostituiscono a essa.
I Saggi preparano la venuta di Dio: secondo Heidegger, «sono soltanto i solitari, grandi e
nascosti, che arriveranno a creare il silenzio per il passaggio di Dio, e, tra loro, creeranno l’accordo
41
Cfr. la lettera a Bauch cit. supra.
Per un approfondimento, si veda il nostro Croc de boucher et rose mystique – Le pathos sur l’extermination, in
Michael Rinn (a cura di), Émotions et discours – L’usage des passions dans la langue, Presses universitaires de Rennes,
2008, pp. 249-273.
43
La storia non scompare, ma resta subordinata alle grandi gesta dell’eroe che la fa accadere: «Wenn das Flugzeug
freilich den Führer von München zu Mussolini nach Venedig bringt, dann geschieht Geschichte» (GA, 38, p. 83).
Quando Hitler prende l’aereo per incontrare Mussolini, egli fa così accadere la Storia, asservimento caratteristico della
teologia politica.
42
12
tacito di coloro che si tengono pronti»44. Scrive in altri luoghi di un Reich segreto di cui il Reich
storico è la precondizione e di cui egli stesso sarà il Saggio45. Così si scopre richiesta una lettura
segreta dell’opera e della storia. Il settarismo attribuito ad alcuni heideggeriani ha origine nell’opera
del Maestro: la strategia di scrittura iniziatica istituisce il gruppo chiuso.
Al di là del nazismo, la lettura fondata sul mito identitario permette di fare comunicare le
membra sparse del corpus heideggeriano oggi disponibile. Una lettura esclusivamente politica
sarebbe infatti sicuramente riduttiva, così come una lettura esclusivamente teologica, perché se le
radici del Seyn sono scolastiche diversi teologemi utilizzati da Heidegger trovano una loro coerenza
soltanto in una lettura politica. La descrizione delle strategie di annebbiamento, delle quali i filosofi
(perlomeno in Francia) sembrano disinteressarsi, diviene compito degli storici del pensiero.
Non si tratta di leggere Heidegger secondo una “nuova” chiave. L’interpretazione non consiste
nel moltiplicare le letture piatte, monodiche, ma nel problematizzare l’interazione fra le letture che
sono evocate e rifiutate dall’opera: è soprattutto a questa interazione che l’interpretazione deve la
propria complessità.
Se la lettura ontologica è promossa da Heidegger stesso quando tratta di politica, la lettura
secondo l’ideologia politica non è meno lecita: la sua stessa estensione, la sua capacità di
elucidazione comincia soltanto a essere messa alla prova, ma viene riconosciuta da molti: «Così
come molti altri, io considero che nulla nel pensiero di Heidegger sia certamente estraneo alla sua
compromissione personale con il regime nazista»46. Se questo dubbio non ha affatto modificato le
abitudini, i tipi di lettura non si escludono. Se l’isotopia ontologica è apparente e onnipresente,
l’isotopia politica, meno densa, spesso latente, inegualmente ripartita, rimane da provare
sistematicamente.
L’elaborazione linguistica caratteristica di Heidegger è consistita nel creare un idioma
germanico che mescoli, nascondendo le loro suture, il discorso dell’ontologia filosofica, quello del
mito identitario e quello del radicalismo politico. Dal discorso ontologico, Heidegger riprende
essenzialmente un lessico che egli arricchisce attraverso un gran numero di derivazioni e che
ricopre ogni frase; dal mito identitario, una struttura narrativa rapsodica; dal discorso politico, un
pathos sintattico e l’armonia retorica.
I tre campi semantici sono intrecciati in un’interazione costante. Ricordiamo per esempio la
qualifica di «atto metafisico» data alla «motorizzazione totale della Wehrmacht» (GA, 48, p. 333),
giustificazione filosofica del Blitzkrieg. La stessa unzione filosofica tocca alla selezione razziale
durante l’inverno 1941-1942: «Il principio dell’istituzione di una selezione razziale è
metafisicamente necessario» (GA, pp. 56-57; la conferenza di Wannsee si tenne il 20 gennaio
1942)47. Infine, in numerosi passi, i tre campi semantici si succedono e fondono in un’espressione
come «l’essenza [termine ontologico] non ancora purificata [mito identitario della razza pura] dei
Tedeschi [categoria politica]» – e ahimè, dopo diversi programmi di purificazione etnica sappiamo
ormai come purificare l’essenza di un popolo.
Così la rimitizzazione della filosofia permette di narrare nei suoi termini le alte gesta del Reich.
In questo dispositivo, il mito identitario consente la mediazione tra il campo ontologico e il campo
politico. Gli ideologi – Hitler in primo luogo – si erano sforzati, non senza successo, di fondere i
due campi, utilizzando il mito identitario per fondare il radicalismo politico. Heidegger
ricategorizza il loro discorso per fondare l’ontologia nel mito identitario, rivelando per esempio che
il Seyn è Vaterland. Prestiamo attenzione all’orientamento metaforico: non è il Vaterland che sta
44
Beiträge, cit., p. 409, n. 256
Cfr. Beiträge, cit., p. 61, n. 25. Ritroviamo qui il profetismo esoterico del circolo di Stefan George: «Holten die
Himmlischen gnädig / Ihr letzt geheimnis… sie wandten / Stoffes gesetze und schufen / Neuen raum in den raum…»
(Geheimes Deutschland, §5, vv. 3-6, in Das Neue Reich,1928) [«Benevoli, i Celesti mostrano / il loro ultimo segreto,
essi cambiano / le leggi del reale e creano / nello spazio un nuovo spazio»].
46
J.-M. SALANSKIS, Heidegger, cit., p. 144.
47
I dignitari nazisti non disdegnarono il linguaggio dell’ontologia; per esempio, per spiegare perché la plutocrazia e il
bolscevismo si confondono, Goebbels il 22 giugno 1941 dichiarò: «Una chiarificazione assoluta dell’essenza della
plutocrazia e del bolscevismo è infine necessaria. Entrambi hanno un’origine giudaica» (cit. in PETER LONGRICH, “Nous
ne savions pas”. Les Allemands et la solution finale, Paris, Héloïse d’Ormesson, 2008, p. 205).
45
13
per il Seyn, ma l’inverso: in altri termini, il senso “spirituale” diviene il senso letterale, al servizio di
un mito identitario che rimane da scoprire e, da ultimo, di un programma politico che gioca il ruolo
finale del senso anagogico. I tre campi semantici gerarchizzati dell’ontologia, del mito identitario e
del politico comunicano così attraverso costanti omologazioni.
L’arte di scrivere dei perseguitati è stata ben analizzata da Leo Strauss, mentre quella dei
persecutori non è stata sufficientemente presa in considerazione. Per esempio, la “colossale
menzogna” hitleriana non nasconde nulla delle proprie intenzioni, ma le ostenta con tale violenza
che esse divengono inverosimili e possono apparire insincere, forzate o dettate dalle circostanze. Il
Discorso del rettorato ha notoriamente beneficiato di tali indulgenze.
L’arte di scrivere dei filosofi perseguitati si rivolge a più gradi di intelligenza, in modo che
ciascuno possa leggervi qualcosa, ma l’intenzione dell’opera rimane inaccessibile se non ai lettori a
cui essa è davvero diretta. Heidegger riprende questo dispositivo, indicando sotto forma di rifiuto
alcune tra le direzioni di ricerca; ponendo la paura dell’altro come categoria fondamentale
dell’esistenza, egli per esempio scrive: «Nostro compito non è affatto di riferire onticamente quali
enti possano, in diverso modo e per lo più, essere ‘temibili’» (Sein und Zeit, §30)48. Ritradotto nel
linguaggio dell’ontologia, questo seguite il mio sguardo iniziale orienta la lettura verso il Man
allogeno e senza radici.
Infine, e Leo Strauss ha trattato poco questo modo di espressione, Heidegger utilizza uno stile
che indica il modo di lettura desiderato. L’opera si indirizza ai Tedeschi “autentici” e, specialmente
attraverso i suoi legami con il linguaggio nazista, non è pienamente accessibile se non a quanti
sappiano scoprire questa “destinazione” – per mezzo di un vocabolario idiosincratico che esalta le
possibilità derivative e la morfosintassi tedesca.
Così il rifiuto di un impegno nazista resta sempre possibile, anche quando non è convincente.
Heidegger, ponendosi come vittima di sordide insinuazioni, vi ha fatto ampio ricorso dopo la
guerra; e i suoi partigiani, talvolta con reale candore, continuano a farvi ricorso con una crescente
indignazione, senza rendersi troppo conto che i veri perseguitati non assumono mai il ruolo di
vittime.
Non ci sembra qui necessario argomentare sulla finalità della filosofia e obiettare, per esempio,
che essa ha come fine la comprensione e quindi l’emancipazione. Questa sembrerebbe una
concessione ai Lumi disonorati da Heidegger, il quale vede in essi l’inizio di un universale
imbrunire. Si ripete d’altronde spesso e volentieri che i Lumi hanno condotto allo sterminio,
rendendone responsabile specialmente la razionalità tecnica, quando non si giunga a citare finanche
Aristotele o Cartesio49.
Soffermiamoci allora su due ragioni metodologiche in virtù delle quali la filosofia si è separata
dalla mitologia: la ricerca di argomenti confutabili e la tecnica dialogica. (i) La razionalità non può
essere etnocentrica perché i suoi principi tendono a un’universalità non imposta, ma concessa – al
pari dei principi matematici. (ii) La tecnica dialogica oltrepassa la cerchia dei discepoli o dei
fellows, poiché ogni tesi deve essere sottomessa alla prova dello straniero, poco importa che venga
da Mantinea o da Elea. Ogni proposizione può essere contestata da uno sconosciuto e il filosofo è
tenuto a rispondere. Per questo, l’appello allo sterminio (Vernichtung) squalifica una filosofia in
quanto tale, poiché l’invita all’omicidio dello straniero, cioè di chi, giustamente, può portare
obiezioni.
48
[Nella trad. it. di Chiodi il passo appare come segue: «La ricerca non può assumere la forma del reperimento ontico
dell’ente che può “far paura” più spesso e di più», cit., p. 179].
49
Nietzsche affermava che la Ragione è ebrea perché permette di nascondere i nasi adunchi: «Nulla è in effetti più
democratico della logica; essa ignora ogni considerazione personale e considera i nasi adunchi come dritti» (La gaia
scienza, §263). E conclude a proposito degli ebrei: «il loro compito fu sempre quello di portare un popolo à la raison»
(ibid.). Essendo la ragione colpevole di tutto, deve esserlo anche dello sterminio: Auschwitz sarebbe l’apogeo della
Ragione tecnica occidentale, come sostengono Geoge Steiner e molti altri al seguito di Heidegger.
14
Sebbene l’ossessione ontologica sia caratteristica della tradizione occidentale la metafisica
avrebbe commesso, secondo Heidegger, un peccato originale: l’oblio dell’Essere. Perché dire
questo? L’Essere è il dio dei filosofi, si sa, che ne hanno fatto il garante dell’unità del cosmo. Si è
provato, come hanno fatto i tomisti, a conciliarlo con un Dio meno ellenico, quello di Abramo e
Giacobbe. Nel XIX secolo, con l’espansione del nazionalismo tedesco, si è invece preferito opporli,
come Atene e Gerusalemme. Spetterà ad Heidegger annientare, attraverso il ritorno all’Essere, un
Eterno intollerabilmente giudaico.
Se la nozione stessa di sostanza è stata ricusata da oltre un secolo dai fisici, che hanno poi eroso
tutti gli attributi tradizionali dell’Essere, quest’ultimo ha conservato qualcosa di ieratico dalla sua
lunga storia e dalla sua oscura indeterminazione50: parlare in suo nome fa di voi un profeta e vi
contorna di un’aura di religiosità. Inoltre, proclamare che il destino – non dell’umanità, poiché il
genere umano non esiste in Heidegger – degli individui e dei popoli sarebbe dipendente da una
filosofia dell’Essere è una posizione che piace molto ai filosofi i quali, heideggeriani o meno, si
sentono davvero lusingati di rivestire un’importanza che fu già dei teologi; e, di fatto, un
corporativismo quasi metafisico presiede, come abbiamo visto, la ricezione del Maestro.
Il proposito identitario di Heidegger si oppone tuttavia alla tradizione ontologica, e conduce a
diverse aporie.
(i) Creando la Natura, la Physis, i presocratici avevano allontanato il pensiero di un cosmo
animato dagli dèi. Congedando il Pantheon, Anassimandro e Senofane avevano rotto con il mito e
aperto lo spazio del pensiero filosofico. Quando Parmenide creò l’Essere, lo raffigurò come una
sfera: l’assenza di ogni antropomorfismo fece immediatamente uscire l’ontologia e la metafisica
future dal mondo degli dèi greci51.
L’indeterminazione dell’Essere lo definisce in modo assoluto: senza inizio né fine, immobile,
continuo (cfr. Parmenide, frammento VIII). Se tuttavia, come afferma Heidegger, il Seyn è
Vaterland, esso esce stranamente dalla sua indeterminazione. Ma conserva altre preziose qualità,
poiché dopo Parmenide l’Essere è definito come identità a sé, e Heidegger devia la tradizione
ontologica per fondare su di essa un’ideologia identitaria, quella dell’essenza originaria
(Stemmeswesen) del popolo chiamato al dominio. Per lui, l’Occidente è depositario dell’Essere, o
meglio, l’Essere è «il destino spirituale dell’Occidente»52. Ora il centro dell’Occidente è la
Germania e il popolo tedesco, «il più minacciato, è il più metafisico»53. Ne segue che il tedesco è la
lingua dell’Essere (cfr. supra). Il linguaggio, «pastore dell’essere», sarebbe dunque un pastore
tedesco? È la lingua tedesca a divenire la lingua dell’Essere, e l’ontologia si trova così annessa a un
mito nazionalista.
(ii) Quando Heidegger fa il nome della Rassegedanke, ‘pensiero della Razza’, rinuncia ipso
facto stsso a concepire la nozione di umanità. La notoria assenza dell’etica nella sua opera ne
deriva, conformemente alla tradizione nietzcheana che fa dell’etica una religione per schiavi,
mentre l’estetica occupa il pensiero dei superuomini.
Se la filosofia occidentale ha dopo Platone privilegiato l’astrazione è per una ricerca
dell’universalità, che presiede alla definizione stessa dell’essere sostanziale degli enti, sia loro
trascendente o immanente; per esempio gli individui differiscono in virtù dei loro tratti accidentali,
ma possiedono una “sostanza comune” che costituisce il genere umano. La ragione assume come
proprio compito definire le leggi logiche delle relazioni tra individui, che si esprimono attraverso il
rapporto tra concetti e relazioni universali (la proposizione Socrate è un uomo è esemplare, e si
costruisce allo stesso modo per tutti gli individui appartenenti al genere umano, si chiamino pure
Isacco o Giacobbe). Infine, legandosi al bene, l’etica da parte sua definisce un’esigenza parallela
50
Cfr. FRANÇOIS RASTIER, L’Être naquit dans le langage – Un aspect de la mimésis philosophique, «Methodos», I,
Lille, Presses du Septentrion, 2001, pp. 103-132.
51
Cfr. ivi, II, 1.
52
M. HEIDEGGER, Einführung in die Metaphysik, Tubinga, Narr, 1987, p. 29.
53
Ivi, p. 29.
15
alla logica – che tratta del vero e del falso egualmente per ogni persona.
Alla nozione stessa di astrazione, tuttavia, Heidegger oppone la retorica della concretezza e
dell’autenticità, in modo tale che entrambe si oppongano a qualsiasi sguardo universalizzante.
Conformemente al suo progetto identitario, rifiuta di fatto ogni universalità nei tre modi in cui
l’abbiamo appena ricordata: quello che fa appello all’umanità, quello che richiama il suo
fondamento razionale nella logica e quello che privilegia la sua espressione morale nell’etica. Così
moltiplica gli attacchi contro tutte le forme della razionalità, ridotta alla tecnica (aborrita) e alla
scienza (che «non pensa»). Hitler non diceva forse nella stessa epoca che «siamo arrivati alla fine
dell’era della ragione»54? Con un esito incredibile, l’irrazionalismo si imbatte di nuovo nella
negazione dell’umanità – e del resto, come abbiamo visto, Nietzsche aveva già definito la ragione
come ebrea.
Quel che vale per la logica vale qui per l’etica, perché il fondamento etico dell’universalità
umana fu attaccato alla stessa maniera. Hitler confidava che la coscienza – la coscienza morale – è
«un’invenzione degli ebrei, essa è l’equivalente di una circoncisione»55. La nozione stessa di
crimine, centrale per ogni etica, viene superata e sembra sparire insieme agli ebrei sterminati; così,
sempre secondo Hitler, «la parola crimine è una reliquia di un mondo passato»56.
Alla nozione di umanità Heidegger sostituisce infine quella di stirpe, come ricorda Emmanuel
Faye: «Lo stesso anno di Sein und Zeit Heidegger si impegna, nel suo corso del semestre estivo del
1927, a distruggere la nozione di genere (genos) umano, rimpiazzando abusivamente il genos greco
con le parole “lignaggio, stirpe”, e parlando ormai di “stirpi” al plurale, in modo da non chiamare
più in causa il genere umano universale»57.
All’indomani della prima guerra mondiale, nell’ambizione della pace, il malmesso concetto di
umanità era in via di riforma in due maniere egualmente intollerabili per Heidegger: per quanto
riguarda l’etica, Franz Rosenzweig e Martin Buber lo avevano riproposto in una filosofia che
perseguiva il giudaismo dei Lumi; per ciò che attiene alla razionalità Ernst Cassirer, erede di
Hermann Cohen, lo aveva inserito in una filosofia antropologica delle forme culturali che intendeva
ricostruire il concetto di umanità attraverso il metodo comparativo (impresa di cui il Saggio
sull’uomo sintetizzerà il programma). Queste due correnti di riflessione rimangono tanto più
innovative in quanto esse legano il particolare al generale, l’individuale all’universale, come ha
sottolineato Bachelard a proposito di Buber.
La reazione di Heidegger consisterà da una parte nell’invertire, in Sein und Zeit, il proposito da
cui muoveva Ich und Du di Buber (1922), ridefinendo l’altro non come un Tu ma come un Si
minaccioso; d’altra parte, nel 1929 tenterà di ricusare Cassirer in quella “giornata degli ingannati”
ricordata col nome di Controversia di Davos58. Avendo perfettamente compreso la posta in gioco
connessa alla scomparsa del concetto di umanità Herbert Marcuse scriveva nel 1934, a proposito di
Sein und Zeit: «I caratteri dell’esistenza vera, la risoluta disposizione alla morte, la decisione, il
rischio della vita, l’accettazione del destino sono stati separati da ogni rapporto con la reale felicità
e infelicità degli uomini, con gli obiettivi ragionevoli dell’umanità. Sotto questa forma astratta, tutti
questi caratteri divengono le categorie fondamentali della concezione razzista del mondo»59.
Dopo la seconda guerra mondiale e lo sterminio, il problema della ridefinizione dell’umanità si
54
Cit. in HERMANN RAUSCHNING, Hitler m’a dit, Paris, Hachette, 1985, p. 298.
Ivi, p. 299.
56
Ivi, p. 301
57
E. FAYE, postfazione alla traduzione tedesca del suo Heidegger. Il procedimento, del resto, è generale: comparando
corpora razzisti e anti-razzisti in tre lingue, abbiamo constatato nei primi l’assenza dei termini homme, Mann e man.
L’umanità è così rigettata nell’indicibile e, dunque, nell’impensabile.
58
Nel 1929, Cassirer aveva appena pubblicato l’ultimo volume della sua Filosofia delle forme simboliche ed era anche
stato nominato rettore della propria università – egli fu il primo ebreo a occupare questa posizione in Germania. Il
pericolo, per Heidegger, si delineava tanto sul piano intellettuale che accademico.
59
HERBERT MARCUSE, La filosofia tedesca, 1871-1933, opera redatta nel 1934 da Marcuse quando era in esilio a
Ginevra. Il testo originale, in francese, è stato pubblicato per la prima volta da Emmanuel Faye nel Nachwort alla
traduzione tedesca del suo libro (Heidegger – Die Einführung des Nationalsozialismus in die Philosophie, Berlin,
Matthes & Seitz, 2009, trad. Tim Trzaskalik).
55
16
pose in modo nuovo, specialmente con il processo di Norimberga e l’elaborazione della nozione
giuridica di crimine contro l’umanità ma anche con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
(1948), e poi con l’adozione da parte delle Nazioni Unite, nel 1951, della convenzione contro il
genocidio. Il concetto di umanità estendeva così il campo della sua validità al diritto, ed entrava (per
così dire) nella storia. La recente creazione della Corte penale internazionale prosegue questa
estensione. Paradossalmente, così, proprio lo sterminio avrebbe finito per dare il via alla
rifondazione del concetto di umanità che esso intendeva nella pratica distruggere.
Nel campo dell’estetica, in modo ancora più inatteso, la nozione di crimine contro l’umanità
produsse l’idea di un’apertura universale nell’universo dei destinatari della testimonianza letteraria,
e diede un nuovo contenuto al concetto stesso di letteratura mondiale60. L’espèce humaine, Se
questo è un uomo sono opere che pongono a tutti domande fondamentali sulla natura dell’umanità;
gli autori vi affermano infatti che i loro carnefici erano degli uomini (spesso, per di più, uomini
qualunque) e non dei demoni, dei superuomini o dei sotto-uomini.
Rispondendo a questa nuova situazione Heidegger, nella Lettera sull’umanismo estratta da una
corrispondenza del 1945 a Jean Beaufret, nega obliquamente la novità dello sterminio dichiarando:
«non può essere realizzato se non quel che esiste già», come se il genocidio fosse da sempre
esistito. Peraltro, l’abbiamo visto, le sue conferenze di Brema nel 1949 sviavano le responsabilità
dello sterminio sull’Occidente e la ragione tecnica: questo tema è sopravvissuto fino ai nostri giorni
anche nei migliori intellettuali.
Spettri di Heidegger. – La strumentalizzazione di Heidegger abbassa la filosofia alla servitù
ideologica, e lo stesso Heidegger ha in realtà formulato una giustificazione “filosofica” del nazismo
piuttosto che introdurre il nazismo nella filosofia. Questa giustificazione realizza il voto di quel che
egli chiama Abbau o Destruktion della filosofia, e che Derrida ha eufemisticamente tradotto con la
parola decostruzione, promessa al successo universale.
La decostruzione tuttavia, principale eredità heideggeriana su scala internazionale, non ha
tentato di decostruire Heidegger; e possiamo dubitare che essa rinnovi la propria lettura alla luce dei
dati testuali e storici apparsi recentemente.
Il tema nietzscheano dell’inversione dei valori, erede del satanismo romantico, resta troppo
eroico per chi vuole constatare la fine delle “grandi narrazioni”. Andando più lontano di un
semplice relativismo, l’indifferenziazione dei valori ha finito per creare una zona grigia categoriale
che rifiuta ogni giudizio. Avendo preso domicilio nella via di mezzo, rifiutando ogni termine di
un’opposizione concettuale attraverso l’altro, i decostruzionisti non possono pronunciarsi sul
nazismo di Heidegger. Così, dopo aver constatato che Heidegger si era sbagliato sulla realtà
dell’hitlerismo ma non sulla verità del nazismo, Lacoue-Labarthe conclude che la questione di
sapere in nome di chi e di cosa si giudica non si pone più61.
Evitando ogni giudizio di valore, l’anomismo risparmia così l’inversione dei valori. Ma in
questo modo protegge specialmente Heidegger, che sfugge alla “assoluzione” tanto quanto alla
disapprovazione. Oltre vent’anni fa Derrida riteneva che Heidegger avrebbe potuto ottenere,
formulando una sola frase di rimorso, un’assoluzione senza pena; ma poiché egli non l’ha mai fatto,
questo ci darebbe modo di interrogarci sul fenomeno «sempre impensato» del nazionalsocialismo62. Con il suo silenzio, insomma, Heidegger ci avrebbe permesso di mettere in
discussione il suo pensiero, ci avrebbe in un certo qual modo messi alla prova.
Un tale confortevole accecamento non privo di esempi nella tradizione del pensiero marrano,
che abbiamo già segnalato per il suo antinomismo. Il principale messia di questa corrente, Sabbataï
Zevi, affermava per esempio che il compimento della legge risiede nella sua trasgressione. Quando
si convertì all’Islam alcuni suoi fedeli ne furono turbati ma, senza cessare di vedere in lui l’Inviato,
convennero che questa apparente vicissitudine era per loro una prova destinata ad acuire la loro
60
Cfr. FRANÇOIS RASTIER, Témoignages inadmissibles, «Littérature», 117, pp. 108-129.
Cfr. HASSAN GIVSAN, Eine bestürzende Geschichte: Warum Philosophen sich durch den “Fall Heidegger”
korrumpieren lassen, Würtzburg, Königshausen & Neumann, 1998, pp. 85-86.
62
Per un’analisi, cfr. H. GIVSAN, op. cit., cap. X.
61
17
comprensione dei disegni divini.
Su scala differente, Heidegger fece allo stesso modo scandalo, e la sua apparente conversione
permetterà infine di comprendere il fenomeno impensato del nazional-socialismo. Derrida dà al
silenzio di Heidegger il valore di una domanda che ci viene posta per educarci. L’ermeneutica di un
silenzio è sempre difficile; ma perché mai quella di Heidegger non potrebbe essere piuttosto una
risposta, una confessione tacita che prolunga la sua adesione a ciò che egli stesso chiamava «la
grandezza interna del Movimento» nazional-socialista? Da Blanchot a Steiner, in molti hanno
interrogato il silenzio del filosofo che prendono per oracolo, trascurando il fatto che i suoi scritti e le
sue parole lo accusano ben più del suo preteso silenzio – altrove, peraltro, rotto dalla pubblicazione
delle conferenze di Brema.
L’essenziale è che non se ne dia alcun giudizio. La rivendicazione di un pensiero debole – alla
maniera di Gianni Vattimo, principale autore dell’heideggerismo italiano – tutto sommato non
dispiace, poiché si presta volentieri all’aneddotismo. Ma, soprattutto, la dichiarazione di debolezza
permette di differire le domande imbarazzanti, schivando ogni critica. Posizione comoda, il
“debolismo” presuppone una tesi molto forte: che il pensiero filosofico possa eludere ogni
responsabilità etica e ogni giudizio aletico, per prendere domicilio in una zona grigia dove viene
teorizzata l’impossibilità di giudicare, in nome del «lavoro del negativo», tema hegeliano riveduto
da Lacan. Se alcuni autori, come Derrida, ci hanno preso a testimoni di leggeri tormenti di
coscienza, non hanno per questo rivisto le loro letture e tutto ha continuato ad andare come al solito.
La questione rimane tuttavia spalancata per chiunque si preoccupi della responsabilità del
pensiero. Salanskis conclude la sua presentazione di Heidegger con uno slogan che ha l’aspetto di
una parola d’ordine: «Partecipare alla sua canonizzazione come autore di massima dignità, perché
questo è il modo di destinarlo per l’eternità allo sguardo critico riguardo a quel che di lui ci è andato
di traverso»63. Possiamo stupirci che in filosofia la canonizzazione possa precedere e condizionare
la critica; ma infatti restiamo ben al di qua della critica, visto che qui si parla d’amore. Le
inquietudini di Derrida, le promesse di Salanskis si chiariscono quando quest’ultimo rivela
innocentemente la molla della fascinazione e risponde così a chi vorrebbe minimizzare l’impegno
nazista di Heidegger: «Non si può senza dubbio far di più che chieder loro cosa resti come oggetto
d’amore in Heidegger, una volta che l’hanno a tal punto esonerato»64. Questo argomento pietista
ricorda che in amore, come ha ben detto Proust, i benché sono dei perché di cui si decide di
ignorare il senso.
Una rilettura impossibile? – Nella doxa dominata dall’ordinario nietzschismo, la questione del
nazismo di Heidegger è sempre considerata sotto l’angolo del risentimento e dell’eterno ritorno, e i
vari Faye si succedono di generazione in generazione65. Si trascura così che uno studio possa
rinnovare tale domanda fondandosi su nuovi documenti – per esempio, la lettera a Baur nella quale
Heidegger utilizza la nozione Deckwort è divenuta accessibile soltanto nel 2004. Ma il dubbio
cresce con la conoscenza, e si oppone alla canonizzazione.
La storia interna degli sviluppi dell’opera ne determina la storia esterna e la sua ricezione. A
questo proposito bisogna interrogarsi sulla teoria del “tornante” (la Kehre), con la quale Heidegger
articola l’evoluzione della propria opera. Formulata dopo la guerra, essa inaugura una divisione
divenuta abituale, e autori eccellenti parlano come fosse un’ovvietà di un primo e di un secondo
Heidegger. Accettarla però vuol dire elidere il Reich, e considerare le opere apertamente naziste
come operette di circostanza.
Se facciamo riferimento alle tecniche di scrittura il periodo 1927-1933 è quello
dell’insinuazione, mentre quello 1933-1945 è il periodo dell’affermazione (Behauptung); l’ultimo
periodo, a partire dal 1945 e noto come periodo dell’attenuazione, sviluppa considerazioni che
63
J.-M. SALANSKIS, Heidegger, cit., p. 150.
Ivi, p. 142.
65
Parlare dei vari Faye, come fanno Michel Deguy o di Gérard Guest (che se ne prende gioco con la firma Faye and
Sons, inc.), è un modo per annegare l’apporto decisivo di Emmanuel Faye in un fatum immemorabile che ricorda quello
dei Rougon-Macquard.
64
18
sembrano lontane da ogni politica e coincide con le soppressioni o eufemizzazioni dei passaggi più
“duri” nelle riedizioni delle opere. Inizialmente edificata negli anni ’50 a partire dai testi del primo
periodo, e specialmente a partire da Sein und Zeit, la doxa heideggeriana si consolidò negli anni ’70
su testi pubblicati nel terzo periodo. Così gli scritti “politici” del secondo periodo vennero annessi
come aneddoto biografico, senza essere considerati come parte integrante dell’opera. Infine, se la
divisione in tre parti isola i testi specificamente hitleriani, essa tuttavia non esclude che i testi
dell’ultima epoca possano essere ideologicamente nazisti: se l’Essere è Vaterland, se il Linguaggio
è la lingua tedesca (o greca, quando manchi il riferimento al tedesco), resta lecito interrogarsi sul
Linguaggio dell’Essere.
Il mondo accademico non ama affatto rivedere le proprie certezze né i propri corsi, e come si è
visto di recente con la scoperta dei nuovi manoscritti di Saussure preferisce concludere che non vi
sia nulla di nuovo sotto il sole. Allo stato della questione si sostituisce il rapporto di forza, al
dibattito gli attacchi ad hominem e le minacce legali.
Sono due le linee che vogliono oggi richiudere il dibattito: l’orientamento conservatore,
rappresentato dagli Ortodossi e dai Decostruzionisti, domina la ricezione accademica, mentre
l’orientamento movimentista-radicale domina la ricezione politica. Esse, comunque, non si
oppongono e i programmi identitari a volte rivendicati in certi distretti dei Cultural Studies
sembrano compatibili con l’affermazione razzialista.
Verso l’affermazione. – Oltre Heidegger, è la questione del “buon nazismo” che oggi si pone.
Nel 1953, in una lettera al quotidiano «Die Zeit», Heidegger afferma che il suo corso del 1935
sull’introduzione alla metafisica aveva per obiettivo di condurre l’uditore all’elogio de «la verità
interna e la grandezza del movimento» nazional-socialista [der inneren Wahrheit und Grösse dieser
Bewegung – Bewegung è una delle parole chiave del nazismo, che si definisce come «völkische
Bewegung»].
Questa dichiarazione, che ha all’epoca inquietato alcuni autori come Habermas, inaugura
simbolicamente il “buon nazismo”, addobbato di virtù metafisiche, estetiche e anche etiche. Questo
nazismo dal volto (super)umano sfuma, al bisogno, il suo intimo rapporto con l’hitlerismo66. Di
fatto alcuni prendono le distanze dallo scacco del Reich; alcuni critici di Hitler gli rimproverano di
avere perso, di essersi circondato di persone non all’altezza, di non aver dato al Reich la grandezza
intellettuale – in breve di non aver ascoltato sufficientemente Heidegger: questo tema è presente in
Beaufret come in Pöggeler e Gadamer.
Facendo come se la lotta tra le frazioni in seno al nazismo esonerasse i minoritari, ricordiamo le
critiche di cui Heidegger fu bersaglio da parte di Krieck; quelle di cui Schmitt, ideologicamente
vicino alle SA, fu oggetto dalla parte de «Das schwarze Korps», giornale delle SS. Si racconta anche
la leggenda secondo cui Jünger sarebbe stato legato alla congiura contro Hitler. In breve, tutti
avrebbero degli oppositori segreti.
Più in generale, si vogliono far dimenticare le volgarità dell’hitlerismo con il ricorso a un
galante elitismo nazista. Da una parte, si ripete lo stereotipo del nazista chic, istruito. Jünger, figlio
di bottegaio, acquisisce così una figura aristocratica, da Junker. Il Max Aue di Littell appare
perfettamente raffinato, fin nella sua omosessualità e intellettualità. Questo topos è presente anche
in Steiner, nel personaggio romanzesco di Gervinus Röthling e nella figura onnipresente del nazista
amante di musica classica.
Tutto ciò non prepara necessariamente il trionfo postumo di Hitler67, né la sua completa
66
Cfr. le parole di Vladimir Jirinovski, presidente di un partito ultra-nazionalista che è la terza forza politica della
Russia: «Il nazismo non ha nulla in comune con l’hitlerismo» (in ZAKI LAÏDI, Un monde privé de sens, Paris, Hachette,
2009, p. 99).
67
Oggigiorno non ci sono più esposizioni d’arte che non strizzino l’occhiolino a Hitler. I fratelli Chapman rivendono a
caro prezzo alcuni suoi acquerelli, opportunamente rielaborati. Anche i protagonisti dei media vogliono la loro fetta di
torta e la star televisiva Jeroen Meus ha realizzato in diretta da Berchtesgaden il piatto preferito di Hitler, la trota al
burro (28/10/2008). Alla riabilitazione estetica del nazismo risponde la degradazione “artistica” delle vittime. Per
esempio Santiago Serra ha presentato nel 2006 un’opera consistente nel riempire un’autentica sinagoga, quella di
19
riabilitazione, anche se alcune biografie laudative riscuotono successo. È piuttosto l’annuncio di un
nazismo rinnovato, senza nostalgia eccessiva, che annebbia le frontiere politiche “rosso-nero”,
senza plutocrati né soviet: un Movimento radicale, al di là della politica, che distrugge infine il
vecchio mondo.
La questione non è più solamente quella del nazismo passato di Heidegger ma quella del suo
successo presente, anche se la sua entusiasta compromissione non è più in dubbio. Fino a oggi, la
sua lettura restava intessuta di disprezzo; oggi, di denegazioni e di consenso accademico attorno al
Grande Autore del programma di aggregazione; ben presto, e certi heideggeriani di nuova
generazione lo presagiscono, essa suggellerà l’adesione a un Movimento “de complessato”.
In occasione della recente comparsa dell’ottantunesimo tomo dell’opera completa di Heidegger
Botho Strauss, drammaturgo e scrittore di grande notorietà, fece un commento entusiastico sulla
poesia heideggeriana («FAZ», 04/10/2008) citando i presocratici, Goethe, Möricke, Trakl, Rilke.
Esaltando una leziosaggine augurale che vuole eguagliare Stefan George ma non supera la toccante
Frederike Kempner («l’usignolo della Slesia») Strauss, il cui anti-occidentalismo militante si
ricopre di un pathos jüngeriano, loda Heidegger per il suo linguaggio «runico» e vede nella sua
lettura una prova del fuoco (Feuerprobe, il termine è militare), poi a fortiori nella sua poesia un
«fuoco purificatore»: «un fuoco che brucia un cumulo di sporcizie sedimentate nel tempo. Una
pulizia» [«ein Feuer, das einen Haufen zeitgeschichteten Müll verbrennt. Eine Reinigung»]. Questo
‘cumulo sedimentato’ non sarà una parte essenziale della cultura – Heine, Freud, Cassirer, eccetera?
Il fuoco purificatore, lo conosciamo bene, Heidegger lo evocò in occasione de “l’autodafé
simbolico” di libri (symbolischer Verbrennungsakt von Schmutz- und Schundliteratur) del 24
giugno 1933, in occasione del quale pronunciò il suo Feuerspruch (GA 16, p. 131) che comincia
così: «Fiamme, annunciateci, illuminateci, mostrateci il cammino da dove non c’è più ritorno»68.
Questo Aufklärung paradossale o, piuttosto, Erlechtung incendiario merita oggi di essere meditato
alla luce di queste parole di Primo Levi: «il cammino della sottomissione e del consenso… è senza
ritorno»69.
Se il diniego domina ancora, soprattutto in Francia, se l’eufemizzazione arriva fino a
presentare, come in Rüdiger Safranski, la Gleichschaltung delle università tedesche del 1933-1935
come un movimento comparabile a quello del Maggio 1968, allora è necessario rendersi davvero
conto che si è passati dalla negazione, ovvero dal negazionismo, all’affermazione e a quel che
potremmo chiamare affermazionismo70.
Senza più pretendere di sfumare il nazismo di Heidegger, certuni si fondano su di lui per
riconsiderare la storia del Reich e definire i compiti della filosofia oggi, tracciando l’avvenire del
Movimento lungo due vie complementari. (i) La storia “storica” deve essere sorpassata da una
storia “storiale”, dipendente dalle categorie heideggeriane: visto che la storia non permette di
pensare Heidegger, è allora la riflessione heideggeriana a permettere di ripensare la storia. (ii)
D’altronde, l’hitlerismo avrebbe fallito nel fondare filosoficamente la visione del mondo nazista e
avrebbe abbassato la filosofia a semplice Weltanschauung: ora, ed è compito dell’avvenire, il
Stommeln, a Pulheim, di monossido di carbonio: gli spettatori potevano entrarvi con una maschera a gas. Già nel 2002
l’esposizione Mirroring Evil al Jewish Museum di New York presentava modellini di campo di concentramento, l’uno
di Lego e firmato Zbiniew Libera, l’altro fatto con borse Prada, opera di Tom Sachs. Quest’ultimo decora le scatole di
Zyklon B con i colori di Chanel ed Hermès per denunciare il legame tra fashion e fascism: non sarebbe meglio parlare
di nazismo alla moda?
68
E. FAYE, Heidegger, cit., p. 91.
69
Alla ricerca delle radici, corsivo nostro.
70
Anche il titolo Heidegger à plus forte raison, scelto dagli heideggeriani ortodossi per affliggere collettivamente
Emmanuel Faye, può essere letto così: sono soltanto a dispetto delle critiche, ma in piena conoscenza di causa.
Nell’opera In Defense of Lost Causes, Žižek afferma chiaramente che Heidegger è grande non malgrado il suo impegno
nazista, ma proprio grazie ad esso [«Heidegger is ‘great’ not in spite of, but because of his Nazi Engagement»], ben
criticando Hitler per non essere stato «abbastanza violento» (si veda SLAVOJ ŽIŽEK, Why Heidegger Made the Right
Step in 1933, in «International Journal of Žižek Studies», vol. 1, n. 4, 2007).
20
pensiero heideggeriano permette di fondare filosoficamente questa “visione del mondo”.
Se tuttavia la filosofia potesse fondare una doxa, essa non farebbe altro che esaltare il
pregiudizio. Tanto in Platone quanto in Aristotele ed Epicuro, la filosofia come conoscenza si è in
effetti fondata sul rifiuto e sulla critica della doxa, non per confortarla ma per distruggerla
infrangendo gli idoli del foro: in effetti, la doxa non è che un ammasso di pregiudizi immemorabili
– o, più eufemisticamente, di rappresentazioni collettive. Ipostatizzata attraverso il nazionaliamo
razziale, la stupidaggine atavica può ciononostante diventare «l’essenza fondamentale»
(Stammeswesen) del Popolo.
Heidegger è oggi il filosofo contemporaneo più citato, al pari di Wittgenstein. In Europa il suo
prestigio ha oltrepassato il campo del pensiero filosofico, ovvero del pensiero tout court: diversi
neonazisti, alcuni ideologi del Vlaams Belang si rifanno a lui; naturalmente questi autori non
padroneggiano le mezze-tinte ermeneutiche, ma hanno perfettamente colto la radicalità del suo
proposito identitario.
Il suo lustro è grande nelle antiche potenze dell’Asse: dall’Italia, con il “pensiero debole” di
Vattimo o la teologia politica di Agamben fino al Giappone, in autori così diversi come Kimura in
psicopatologia, Watsuji nel campo dell’etica e Nishitani nell’ontologia religiosa.
In alcuni paesi il suo antisemitismo non sembra imbarazzare, come in Iran, dove dopo la lettura
esaltata di Ahmad Fardid Heidegger ha fatto scuola dapprima presso alcuni islamizzati, poi presso
certi islamisti oggi al potere71.
Alcuni ideologi islamisti, conformemente al loro programma identitario, raccomandano
addirittura un’appropriazione esclusiva; Umar Ibrahim Vadillo scrive: «Egli è più importante per
noi, musulmani, che per chiunque altro. Noi possiamo comprendere Heidegger in un modo che resta
fuori dalla portata degli infedeli»72.
La radicalizzazione in corso si appoggia sul ripudio di un mondo attuale considerato sotto
l’angolatura di una triplice globalizzazione (economica, tecnica e scientifica); sul rifiuto della
razionalità e di ogni universalità; sulla contestazione della democrazia, assimilata a una menzogna
occidentale e/o liberale73. Si cerca allora la salvezza in un ritorno alle fonti del Popolo – di cui la
democrazia e i diritti dell’uomo vorrebbero fare dimenticare la specificità identitaria. Dopo l’era
delle indipendenze, i nazionalismi assumono in effetti un risvolto identitario e la lotta contro il
terrorismo o l’occidentalismo resuscita il nemico interno da annientare.
È sempre possibile nobilitare un’ideologia radicale facendo ricorso agli orpelli di un alto
pensiero dell’Essere. Ricorrendo a un confronto brusco ma rivelatore tra Heidegger e «i gruppi
marxisti-rivoluzionari più radicali», Salanskis scrive: «suggerisco al mio lettore di leggere con
questo spirito Dépassement de la métaphysique di Heidegger: a mio avviso, chiudendo gli occhi è
addirittura possibile ascoltare il portavoce della rivoluzione ultima, se egli ha almeno una volta
inteso il canto di questa sirena nella sua vita»74. Passi la “sirena”; ma perché il lettore dovrebbe
chiudere gli occhi?
Oggi diversi radicalismi politici, riuniti dai comuni riferimenti a Heidegger e più di recente a
71
Fardid ha coniato la nozione di «intossicazione per l’Occidente» (Westoxication) per rigettare come allogeni i diritti
dell’uomo, la democrazia, la tolleranza e auspicare il ritorno «all’autentico Me orientale». Questo ritorno libera un
antisemitismo giustificato da una teoria tradizionale del complotto.
72
Heidegger and the Muslims, p. 1. («And it is even more important to us, Muslims, than to anybody else. We can
understand Heidegger in a way the kaffir never will»). Fonte: www.understanding.islam.org
(http://uiforum.uaeforum.org/showthread.php?t=2454, consultato le 16 mai 2009).
73
Alla democrazia si contrappone la Comunità: si vedano in La démocratie, dans quel état?, Paris, La Fabrique, 2009, i
contributi di Giorgio Agamben, Alain Badiou, Jean-Luc Nancy e Slavoj Žižek. La Comunità resta sempre uno dei
maggiori temi petainisti, come lo testimonia La France nouvelle – Principes de la Communauté di Pétain, Paris,
Fasquelle, 1941. Comunità traduce Gemeinschaft. Questo tema è stato ripreso da molti autori della tradizione
heideggeriana, da Maurice Blanchot (La comunità inconfessabile, 1983) a Giorgio Agamben (La comunità che viene,
1990), da Jean-Luc Nancy (La comunità affrontata, 2001) a Roberto Esposito, Communitas (2000; prefazione di JeanLuc Nancy). In Badiou come in Žižek, un radicalismo “rosso-nero” usa l’equivoco tra comunismo e comunità per
restituire il carattere lustrale della violenza; insieme hanno curato due opere collettive su questo tema. Si veda anche
Violence di Žižek, 2008.
74
J.-M. SALANSKIS, Heidegger, cit., p. 110.
21
Carl Schmitt (in Agamben e Negri, in particolare) stanno rifondando sul “Popolo” e sulla
“Comunità” la teoria della Sovranità e quella del Soggetto, come fino a poco tempo fa il Dasein
heideggeriano era fondato sul Volk75. Si tratta di progettare una grande unità dei radicalismi, al di là
della divisione democratica tra destra e sinistra, oltrepassata dal Movimento.
La critica politica del nazismo è stata sviluppata essenzialmente dai partiti comunisti, almeno a
partire dalla linea classe-contro-classe degli anni ’20 e dopo la rottura del patto tedesco-sovietico.
Essa ha dato sostanza all’interpretazione resistenzialista della seconda guerra mondiale.
Se è chiaro che il nazismo è estrema destra tuttavia questa caratterizzazione, senza essere falsa,
non dà conto dell’aspetto seduttore del suo discorso rivoluzionario. Nemmeno la nozione di
totalitarismo è chiarificatrice: essa attirò l’attenzione sull’emulazione e sui “prestiti” tra il fascismo
italiano, il nazismo e il socialismo stalinista ma dissuase dal comprendere le loro differenze.
L’espansione ovunque in Europa di “populismi” violentemente xenofobi, l’emergere di movimenti
“rosso-neri” in Germania, la convergenza tra neocomunisti ultranazionalisti e i neonazisti in Russia
meritano però oggi una grande attenzione. Gli assassini neonazisti che sono recentemente passati
all’azione in Norvegia, in Germania, in Italia non sono dei “lupi solitari”.
È poco utile discutere accademicamente le loro tesi, poiché il nazismo e le altre ideologie
politiche non sono corpi dottrinari ma credenze che si appoggiano su di un sostrato religioso, pur
non essendo vere e proprie religioni secolarizzate.
È l’ideologia messianica della rottura liberatrice che è in gioco. Pétain stesso caratterizzava la
Rivoluzione nazionale come «liberazione e rinnovamento». Lo stereotipo si è talmente banalizzato,
diffuso in ogni parte dello spettro politico ma così anche nell’estetica, nell’etica, che i dibattiti
riguardano la natura della rottura e della liberazione – generalmente formulate in termini presi in
prestito dalle teologie politiche “secolarizzate” – e non vertono sulla necessità e l’obiettivo stesso di
una rottura che lascerebbe intatto il sistema economico dominante, “oltrepassando” la democrazia e
i diritti dell’uomo76.
Epilogo: non c’è nessun affaire Heidegger. — A partire da un articolo di Herbert Marcuse edito
nel 1933 il carattere nazista della filosofia heideggeriana è stato oggetto di numerose analisi,
penetranti quanto intempestive, nelle quali si è voluto vedere altrettanti affaires speciosi e
diffamatori. Con la pubblicazione dei Quaderni Neri (Schwartzen Hefte), nei quali Heidegger ha
redatto i suoi diari dal 1930 al 1970, quelle analisi cominciano a ricevere dallo stesso Maestro
conferme postume ma irrefutabili, che hanno messo in grande agitazione i suoi discepoli (cfr. GA,
tomi 93 e 94, che vedranno la luce nel marzo 2014).
Non c’è dubbio che Heidegger, dopo la guerra, avesse riscritto i suoi testi meno equivoci
ammantandosi in un peculiare ermetismo. La sua famiglia e i suoi editori, per di più, hanno proibito
sino ad oggi di accedere ai suoi archivi. Heidegger stesso, tuttavia, aveva pianificato già prima di
morire la pubblicazione delle sue opere complete predisponendone l’uscita secondo un processo di
radicalizzazione progressiva: così se nel 2001 fu pubblicato un testo nel quale si esortava a portare a
compimento lo «sterminio totale» del nemico interno oggi si annuncia, per completare quel ciclo, la
75
Leggendo Sein und Zeit attraverso Kierkegaard, Sartre e tanti altri hanno voluto vedervi una teoria del soggetto
individuale, trascurando il fatto che esso si trova assorbito nel Mitgeschehen della Volksgemeinschaft (Cfr. Sein un Zeit,
§74).
76
Ho il piacere di ringraziare Emmanuel Faye per i suoi consigli. Ho spesso seguito da vicino le sue analisi e ripreso le
sue traduzioni, in poche parole, i miei piccoli furti sono così numerosi da render superfluo l’onere di segnalarli tutti.
Ringrazio anche Georges-Arthur Goldschmidt, del quale ho superato il pensiero riguardo alle riflessioni circa il § 27 di
Sein und Zeit, e che mi ha informato del fascino poetico di Frederike Kempner. Ho tratto profitto dai suoi seminari su
Heidegger e la lingua tedesca, i testi dei quali sono apparsi nella rivista «Lendemains» in sei fascicoli, a partire dal
numero 117 (2005). Una prima versione di questo studio, in questa sede rivista e aumentata, è apparsa in francese nella
rivista «Labyrinthe», n. 33, 2009 (2), pp. 71-108.
22
pubblicazione di nuovi volumi che riuniscono i Quaderni Neri. Gli estratti di quei quaderni
pubblicati sinora, e resi pubblici dal dicembre 2013, riprendono negli stessi termini le identiche tesi
di Hitler e Rosenberg riguardo al «dominio mondiale giudaico».
Stranamente il curatore dei Quaderni Neri – Peter Trawny, direttore dell’Istituto Martin
Heidegger – sembra prender le distanze, scrivendo che questo dominio è «per metà immaginario»
(«Le Monde», 21 gennaio 2014): ma il suo è un modo sottile per affermare che è almeno per metà
vero. Senza dubbio i brani citati sono antisemiti; scegliendoli, però, Trawny sembra fare inevitabili
concessioni all’antisemitismo (che in apparenza considera come alcunché di banale e veniale) per
evitare di affrontare la questione del nazismo. Chiediamoci allora: davvero l’albero antisemita può
nascondere la foresta nazista?
Paradossalmente Heidegger supera a destra l’hitlerismo, ricorrendo a una radicalizzazione
metafisica dell’antisemitismo. L’immagine drammatizzata del mondo contemporaneo e della
modernità scientifica e tecnica che ci presenta è infatti legata essenzialmente alla sua concezione
degli ebrei e del loro dominio mondiale (Weltjudentum): se persino Trawny, nella sua curiosa
apologia, ricorre al confronto fra l’intento heideggeriano e i Protocolli dei savi di Sion allora questo
dominio cessa di esser nascosto nell’oscurità di un complotto, manifestandosi alla luce del sole
proprio nello sviluppo tecnico-scientifico.
Nelle sue denunce, allora – come quella nei confronti delle dighe che sfigurano il bacino tedesco
del Reno – era possibile cogliere una banale continuazione del Kulturpessimismus del periodo
bismarkiano, ma l’innovazione di Heidegger consiste nel considerare lo stato del mondo moderno
come il risultato del dominio ebraico. In questo modo generalizza la teoria dell’essere-assieme –
teoria legata al mondo degli affari, al commercium (cfr. Sein und Zeit, §27).
Il mondo ebraicizzato resta nell’oblio dell’Essere non soltanto perché gli ebrei, privi di patria e
cosmopoliti, sono anche privi di un Dasein (letteralmente di un Esserci) – gli ebrei, infatti, non
risiedono in alcun luogo specifico dunque continuano ad essere privi di mondo (Weltlos) – ma
perché la modernità è dominata dalla «facoltà di calcolo e dal mercanteggiare», dal «dono
esasperato per la contabilità», dalla «tenace abilità a contare» e dal «calcolo vuoto»77. Così il tema
medievale dell’usuraio calcolatore, tutto intento a fare il conto dei denari di Giuda, finisce
addirittura per esser trasposto alle scienze e tecniche contemporanee nella misura in cui questo
mondo fondato sul calcolo ha bisogno delle matematiche e si fonda sui loro modelli – al punto da
concretizzarsi nell’orribile tecno-scienza della cibernetica. L’estensione senza precedenti di uno
stereotipo odioso, così, è sufficiente a condannare il mondo moderno e a sostenere che «la scienza
non pensa» (dato che è incarnata e resa tecnologica dagli ebrei)78. La relativa indifferenza di
Heidegger nei confronti del razzismo biologico si fonda proprio su questo: la biologia, infatti, era
una scienza altrettanto ebraicizzata e infestata di razionalità di tutte le altre79.
Nel 1949, nella conferenza dal titolo Die Gehfar (‘il Pericolo’) Heidegger sostenne, come
abbiamo visto, che estendendo il suo dominio sul mondo la tecno-scienza fu anche responsabile
dello sterminio. Gli ebrei tuttavia non sono stati uccisi, e del resto la loro scomparsa non è degna di
esser chiamata morte: da una parte, poiché rimangono confinati all’ambito degli enti, non hanno
alcun rapporto con l’Essere e dunque non vivono – quasi fossero accidenti senza sostanza;
dall’altra, soprattutto, è la tecnica l’unica vera responsabile della loro scomparsa e ciò giustifica la
reiterata immagine dell’industrializzazione (motorisierte, Fabrikation, cfr. GA, 79, p. 27), destinata
a esaudire la speranza heideggeriana che l’ebraismo «si escludesse da sé» (così traduce François
Fédier), come semplice effetto collaterale della Machenschaft (‘regno dell’efficienza’) di cui è il
principale responsabile.
La pregnante metafora industriale, più volte ripresa da Hannah Arendt ad Agamben, ha
contribuito al ritardo che caratterizza la storiografia dello sterminio – sino al punto da indurre
trascurare, per mezzo secolo, quella che sarebbe stata chiamata la “Shoah delle pallottole”. Anche
77
Cito le traduzioni fornite da Hadrien France-Lanord in France-Culture del 7 dicembre 2013.
Die Wissenschaft denkt nicht, in Was heißt Denken?, quarta ediz., Tübingen, Niemeyer, 1984, p. 4.
79
Heidegger tuttavia fa un’eccezione per la Rassenkunde [‘conoscenza delle razze’] tedesca, pretendendo in qualità di
rettore l’apertura di una cattedra specifica dedicata a quell’insegnamento.
78
23
se trasformata, insomma – posto che assassinare non significa soltanto produrre cadaveri – la
metafora ha continuato ha sostenere il luogo comune secondo cui la modernità tecno-scientifica era
responsabile dello sterminio80.
Non c’è dubbio che Heidegger continua ad essere celebrato come un profondo pensatore della
tecnica, e le citazioni laudatorie a tal riguardo abbondano ovunque. Ma pensare vuol forse dire
condannare tout court, rinunciando a qualunque presa di distanza critica? Formatosi in un periodo
nel quale la filosofia accademica temeva che le scienze usurpassero i suoi oggetti di studio,
Heidegger sceglie di far ritorno alle tradizioni scolastiche della storia dell’Essere e della differenza
ontologica; il suo intento però è creare il vuoto attorno ad esse, perseguendo il progetto
antiumanista di eliminazione dell’etica e dell’antropologia filosofica ma anche degli oggetti di
studio rivendicati dalle scienze sociali – come la diversità delle culture e delle lingue, posto che il
tedesco gli è sufficiente per dire e pensare ogni cosa – fino alle scienze della natura e della vita
(fatta eccezione per la Rassenkunde, come abbiamo visto) e senza trascurare, naturalmente, le
discipline logico-formali.
Se questa brutale chiusura ha favorito l’oscurantismo delle adesioni settarie, la cosiddetta
filosofia heideggeriana dell’Identico si fonda su vuote tautologie ontologiche che tradiscono
l’ossessione identitaria persino nelle loro stesse ripetizioni; tuttavia escludendo qualunque alterità e,
dunque, privandosi di oggetto il solo obiettivo che le rimane consiste nel diffondere l’odio
identitario, che oggi esplode tanto nell’opera del Maestro quanto nell’attualità che ci circonda. C’è
da temere, anzi, che in passato si è sostenuto la filosofia heideggeriana proprio per questa ragione, e
ormai lo si faccia in forma palese.
Trawny ritiene che in quegli anni le idee antisemite fossero diffuse (ma da chi? forse che si tratta
solo di una patina vintage?), e tuttavia sostiene anche che con la volontà di pubblicare le proprie
Heidegger dà prova di una «notevole libertà di pensiero». Alla fine, insomma, Heidegger sembra
opporsi al nazismo – quantunque le riserve che avrebbe formulato nei confronti del nazismo
sembrino limitarsi a semplici critiche di destra, che ricordano quelle di ambienti esoterici della
Germania segreta: in poche parole, gli hitleriani non avrebbero saputo spingersi abbastanza
lontano.
Così discolpato, Heidegger continua ovviamente a rimanere «uno dei più grandi pensatori del
XX secolo». Gli heideggeriani francesi, i quali pure sono soliti ribadire il medesimo giudizio di
Trawny, se la prendono con lui giudicandolo un carrierista che ripete sempre una stessa «fesseria»
(stando a quanto dice François Fédier). In Francia, infatti, traduzioni “lenitive” ed eminenti
commenti hanno fatto di Heidegger un inevitabile autore di riferimento. Eppure la divergenza fra le
due posizioni, a ben vedere, è di natura esclusivamente tattica: mentre i francesi si sono ormai da
molto tempo chiusi in un ostinato diniego Trawny ha capito molto bene che Heidegger, ipotizzando
a coronamento della sua opera completa la pubblicazione di nove volumi dal carattere
scopertamente nazista, pensava – ahimé, non senza qualche ragione – che sarebbero stati accolti
come una mareggiata in periodo di carestia, e scommetteva sul superamento di un hitlerismo
invecchiato, finalmente vinto da un ultranazismo attualizzato e ormai privo di complessi. Ora che il
negazionismo ha fatto il suo tempo, insomma, siamo giunti nell’epoca dell’affermazionismo.
A giudicare della prime reazioni, le ripercussioni nel mondo accademico su scala internazionale
saranno notevoli. L’antirazionalismo militante, il rifiuto dell’etica e la sopravvalutazione
dell’estetica, il ripudio della tecnica e del pensiero scientifico: tutto questo ha sedotto radicalismi
universitari di destra e di sinistra che da decenni si riconoscono nel programma heideggeriano
dell’Abbau, la ‘riduzione’ o ‘smontaggio’, nota con la denominazione eufemistica di
“decostruzione”.
Non appena Heidegger ha sviluppato uno stile oracolare, pomposo e accortamente ipnotico,
ricodificando nel vocabolario dell’ontologia le categorie del nazismo, non si è più saputo o voluto
individuarvi il doppio linguaggio da lui stesso rivendicato in privato. L’affaire Heidegger, in
definitiva, finisce per ridursi all’accecamento (talora complice) di vari ambiti accademici e molti
80
E, più in generale, che la responsabilità andasse ascritta alla razionalità. Mi è addirittura capitato di udire un
Presidente della Sorbona concludere un convegno con l’affermazione che Aristotele era responsabile della Shoah…
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intellettuali di fama.
Ma una filosofia che fa appello al massacro è davvero diversa da un’ideologia pericolosa? Di
fatto alcuni ultranazionalisti russi di rilievo, come Alexandr Dugin, o islamisti come Omar Ibrahim
Vadillo si fondano già da tempo su Heidegger per proclamare la superiorità razziale e la guerra
totale. Se questo è il panorama nero programmato da Heidegger, allora la radicalizzazione inscritta
nel suo progetto editoriale può addirittura assumere un valore educativo, ergendosi a interprete di
un antisemitismo rinnovato ma anche di un nazismo radicalizzato e filosoficamente legittimato.
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