La gestione dei tumori germinali maligni dell`ovaio Il

Periodico
di aggiornamento
professionale
per il ginecologo
Oncologia
La gestione dei tumori
germinali maligni dell’ovaio
Clinica quotidiana
Il dolore pelvico cronico nella donna
in età fertile: quale approccio?
Risk Management
Menopausa e rischio cardiovascolare:
che cosa fare?
Vulvologia
Vulvodinia: tra mito e realtà
2a di copertina
vuota
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E
ditoriale
Questa nuova rivista medica rappresenta una sfida nel variegato mondo dell’informazione medico-scientifica soprattutto in una disciplina complessa come quella della ginecologia. Infatti diventa di fondamentale importanza non solo trasmettere agli specialisti in modo chiaro ed essenziale i nuovi e sempre crescenti contributi della ricerca medica in questo settore ma anche favorirne la divulgazione verso i mass-media nel
modo più corretto.
È nostra intenzione affrontare temi controversi o che attualmente suscitano maggior interesse ma anche argomenti più noti rivisitati secondo
le più recenti acquisizioni. I contributi di questa iniziativa verranno affidati a clinici di alto profilo, che garantiranno la scientificità dei contenuti,
ma saranno presentati come una comunicazione semplice e chiara, affiancata da key-messages che guideranno a una lettura più rapida e saranno accompagnati da un apparato bibliografico essenziale.
Un particolare ringraziamento a Finderm, sponsor di questa iniziativa, all’Editore e a tutti i Colleghi che hanno aderito all’iniziativa già da ora e a
quelli che aderiranno in futuro.
Ci auguriamo vivamente che questa pubblicazione diventi in breve tempo non una delle solite “riviste” ma uno strumento utile e qualificato per
la professione che svolgiamo.
Giovanni Scambia
Direttore Dipartimento per la Salute della Donna
e della Vita Nascente
Policlinico Universitario Agostino Gemelli, Roma
3
FINDERM Farmaceutici s.r.l.
Via A. De Gasperi, 165/B - 95127 Catania
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S
ommario
Clinica
Oncologia
La gestione dei tumori germinali maligni dell’ovaio
6
di Giorgia Mangili, Serena Montoli, Elisabetta Garavaglia, Riccardo Viganò
Clinica quotidiana
Il dolore pelvico cronico nella donna in età fertile:
quale approccio?
11
di Lucia Lazzeri, Stefano Luisi, Valentina Ciani, Giuseppe Morgante, Vincenzo De Leo, Felice Petraglia
Risk management
Menopausa e rischio cardiovascolare: che cosa fare?
18
di Paola Villa, Rosanna Suriano, Francesca Macrì, Luigi Ricciardi,
Barbara Costantini, Antonio Lanzone, Giovanni Scambia
Vulvologia
26
Vulvodinia: tra mito e realtà
di Leonardo Micheletti
Scienza e società
34
di Luciano Sterpellone
Periodico di aggiornamento professionale
per il Ginecologo n. 1
Registrazione N. 125 del 28 febbraio 2007
presso il Tribunale di Milano
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Stampa
La Fenice Grafica soc. coop. a r.l.
Borghetto Lodigiano - LO
Chiuso in tipografia
21 ottobre 2008
Coordinamento scientifico
Giovanni Scambia
Referenze fotografiche
in copertina, Fotolia.com © Shuva Rahim
pag. 7-11 © Astoria, pag. 9 © Alexey Khlobystov,
pag. 19 © Stock.xchng, pag. 27 © matttilda,
pag. 32 © Kirsty Pargeter
Hanno collaborato a questo numero
Valentina Ciani, Barbara Costantini,
Vincenzo De Leo, Elisabetta Garavaglia,
Antonio Lanzone, Lucia Lazzeri, Stefano
Luisi, Francesca Macrì, Giorgia Mangili,
Leonardo Micheletti, Serena Montoli,
Giuseppe Morgante, Felice Petraglia,
Luigi Ricciardi, Giovanni Scambia,
Luciano Sterpellone, Rosanna Suriano,
Riccardo Viganò, Paola Villa.
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento, totale o parziale
con qualsiasi mezzo, compresi i microfilm e le copie
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ONCOLOGIA
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a gestione dei tumori
germinali maligni
dell’ovaio
Rare, aggressive, tipiche dell’età adolescenziale, ma con una prognosi
sostanzialmente buona se trattate in modo corretto. Ecco perché è
essenziale che queste neoplasie vengano affrontate e gestite
presso centri specializzati in ginecologia oncologica.
di Giorgia Mangili, Serena Montoli, Elisabetta Garavaglia, Riccardo Viganò
Clinica Ostetrica Ginecologica, Ginecologia Oncologica, IRCCS San Raffaele - Milano
I
6
tumori germinali maligni dell’ovaio costituiscono circa il
20% di tutte le neoplasie ovariche riscontrabili nei paesi occidentali: il 95% di questi è rappresentato dai teratomi maturi o cisti
dermoidi di natura benigna, mentre i tumori germinali dell’ovaio
(TGMO) sono meno del 5%.
La maggior parte dei TGMO è diagnosticata nelle prime decadi di
vita, con un picco di incidenza a
18 anni: negli Stati Uniti sono segnalati circa 900 nuovi casi/anno,
con una frequenza di 1/50.000 a
18 anni. Prima dell’avvento di
schemi polichemioterapici contenenti il cisplatino, la loro prognosi era quasi inesorabilmente infausta; negli ultimi 30 anni, invece, i tassi di sopravvivenza hanno
raggiunto percentuali comprese
tra l’85% e il 100%, in relazione
allo stadio e al tipo istologico, grazie alla disponibilità di antiblastici efficaci. L’ottima prognosi di
queste neoplasie, che vengono
diagnosticate in età giovanile, impone un trattamento finalizzato
non soltanto alla cura del tumore ma anche alla conservazione
della fertilità e della funzionalità
gonadica.
I TGMO, che derivano tutti dalla
cellula germinale primordiale,
spesso in ovaie disgenetiche, si
suddividono in disgerminomi,
non-disgerminomi e teratomi (tabella 1). Di solito unilaterali, diffondono prevalentemente nella
cavità addominale e difficilmente
metastatizzano per via linfatica ed
ematica; in fase diagnostica, infatti, le localizzazioni extraddominali sono raramente osservabili.
Fa eccezione il disgerminoma, che
può coinvolgere entrambe le gonadi e presenta uno spiccato linfotropismo.
Altra caratteristica di queste neoplasie è il frequente riscontro di
forme miste: in circa il 20% dei
casi l’esame istologico evidenzia
la compresenza di istotipi differenti; i più rappresentati sono il
disgerminoma, il tumore del seno endodermico e il teratoma.
Manifestazioni
cliniche
I TGMO sono neoplasie altamente aggressive caratterizzate da rapida crescita.
All’esordio circa l’85% delle pazienti presenta una massa addominale palpabile (diametro medio
alla diagnosi 16 cm) accompagnata da una sintomatologia algica
addomino-pelvica. Nel 10% dei
casi il dolore addominale è acuto
e si associa a peritonismo, derivante da rottura o torsione della
neoformazione annessiale. Prima
della diffusione delle metodiche
radiologiche (TC ed ecografia) la
diagnosi era spesso effettuata du-
ONCOLOGIA
rante una laparotomia d’urgenza
eseguita nel sospetto di un’appendicite acuta. Nel 4-25% dei
casi, invece, le pazienti sono asintomatiche e la diagnosi è occasionale.
Sintomi meno frequenti sono rappresentati da febbre, perdite ematiche atipiche vaginali e pubertà
precoce nella bambina. Sporadicamente sono riportati segni e sintomi di virilizzazione, sindrome di
Cushing, sindrome da carcinoide,
distiroidismi e altre sindromi paraneoplastiche, prevalentemente
determinate da teratomi, anche
nella forma matura, che presentano al loro interno aree ormonosecernenti.
L’intervallo tra la comparsa dei sintomi e la diagnosi è di solito breve (in media 1-3 mesi).
Queste neoplasie spesso esprimono marcatori tumorali specifici
che, in presenza di una massa pelvica riscontrata in pazienti in gio-
Tabella 1
vane età, possono orientare la diagnosi. La produzione di AFP (alfa-fetoproteina) in caso di tumore del seno endodermico e di
ßhCG nel coriocarcinoma ovarico
sono patognomoniche, mentre il
carcinoma embrionale spesso sintetizza entrambi i marcatori. Nelle donne questi ultimi due tumori sono molto rari nella forma pura. Il disgerminoma si associa a un
rialzo della lattico deidrogenasi
(LDH) e del CA125 e, occasionalmente, produce bassi livelli di
ßhCG. Il teratoma immaturo, invece, può determinare un incremento di numerosi marcatori sierici (tabella 2).
Nel 60-70% dei casi la malattia
alla diagnosi è al I-II stadio, nel 2030% al III stadio e raramente il tumore si presenta al IV stadio.
L’interessamento ovarico bilaterale è relativamente raro, a eccezione del disgerminoma che interessa entrambe le gonadi nel 1015% dei casi.Il riscontro di una
massa annessiale in una giovane
paziente deve quindi suggerire il
sospetto di un TGMO. La valutazione iniziale prevede l’esecuzione di esami ematochimici, la ricerca dei marcatori tumorali, la
radiografia del torace e l’ecografia pelvica, eventualmente completata dall’esame TC dell’addo-
I tumori germinali dell’ovaio
■ Forme miste
■ Disgerminomi
■ Non disgerminomi
• Tumore del seno endodermico (Yolk sac tumour)
• Carcinoma embrionale
• Corioncarcinoma
• Poliembrioma
■ Teratomi
• Maturi
• Immaturi
me; quando vi è il sospetto di disgenesia gonadica è opportuno
effettuare l’analisi del cariotipo.
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Protocolli
terapeutici:
dalla chirurgia
conservativa…
Nei TGMO la chirurgia conservativa rappresenta il trattamento primario standard. Infatti, questi tumori sono diagnosticati prevalentemente in età giovanile, sono
quasi sempre unilaterali e, anche
agli stadi avanzati, hanno un alto tasso di risposta al trattamento chemioterapico. L’isterectomia
con annessiectomia bilaterale non
determina miglioramenti in termini di sopravvivenza rispetto all’approccio conservativo.
La maggior parte degli Autori propone una stadiazione chirurgica
simile a quella dei tumori epiteliali dell’ovaio anche se i dati riportati in letteratura non ne chiariscono il ruolo prognostico-terapeutico.
La stadiazione chirurgica, determinando l’estensione della malattia,
può essere utile nel management
postoperatorio. Le pazienti devono essere sottoposte ad annessiectomia monolaterale con esame
istologico estemporaneo. L’identificazione intraoperatoria del tipo
istologico è essenziale nella prosecuzione dell’intervento chirurgico,
soprattutto in caso di disgerminoma e di teratoma immaturo. La stadiazione chirurgica nei TGMO comprende la valutazione della citologia peritoneale, l’esplorazione dell’intera cavità addominale, l’omentectomia e l’esecuzione di biopsie
peritoneali multiple.
L’ovaio controlaterale deve esse-
7
ONCOLOGIA
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re attentamente ispezionato: se è
apparentemente indenne da malattia non sembra necessario effettuare in modo sistematico una
biopsia, foriera di aderenze periannessiali, sanguinamenti e,
quindi, potenziale causa di infertilità; al contrario, qualora fosse
riconoscibile una lesione macroscopica, può essere effettuata una
tumorectomia. L’approccio conservativo è indicato anche nei casi di malattia avanzata.
La linfadenectomia pelvica e lomboaortica è mandatoria nel disgerminoma, data la precoce metastatizzazione di questo tumore per via
linfatica; per gli altri TGMO non vi
è ancora evidenza che questo tempo chirurgico sia necessario.
Anche il ruolo della chirurgia citoriduttiva negli stadi avanzati non
è chiaro: l’asportazione delle localizzazioni macroscopiche sembra essere utile, ma manovre citoriduttive estreme non sono indicate in quanto possono aumentare la morbilità, determinando
un ritardo nella somministrazione della chemioterapia.
...alla chemioterapia
La chemioterapia ha drasticamente modificato la prognosi delle pazienti affette da TGMO. Prima del
1970 la terapia era rappresentata
dalla sola chirurgia e talvolta dalla
Tabella 2
8
radioterapia: tutte le pazienti con
malattia avanzata erano destinate
a morire e anche nei casi al I stadio
veniva riportata una sopravvivenza
del 5-20%.
La combinazione di vincristina, actinomicina D e ciclofosfamide (VAC)
è stato il primo schema chemioterapico a determinare un significativo miglioramento prognostico; a
partire dal 1977, dopo i successi ottenuti nel tumore del testicolo, fu
utilizzato lo schema cisplatino, vinblastina e bleomicina (PVB). In seguito, la polichemioterapia con
bleomicina, etoposide e cisplatino
(BEP), garantendo una sopravvivenza che sfiora il 100% nei primi stadi e di almeno il 75% negli stadi
avanzati, è diventata il trattamento adiuvante standard nei TGMO.
Soltanto le pazienti con disgerminoma allo stadio IA con stadiazione completa, comprendente la linfadenectomia pelvica e lomboaortica, e le pazienti con teratoma immaturo al I stadio possono non effettuare chemioterapia adiuvante,
riservando il trattamento alla recidiva. Nelle forme miste deve essere sempre trattata la componente
istologica più aggressiva.
Il numero dei cicli di BEP da somministrare varia in relazione allo stadio e all’andamento di eventuali
marcatori sierici. I risultati dell’approccio chirurgico conservativo seguito da chemioterapia adiuvante
La BEP
ha nettamente
migliorato
la prognosi
secondo schema BEP sono estremamente incoraggianti anche ai fini della conservazione della fertilità e della funzionalità endocrina.
Gli studi pubblicati negli ultimi decenni riportano che 69-99% delle
pazienti ha riacquisito una normale regolarità dei cicli mestruali al termine della chemioterapia e molte
di loro hanno concepito e portato
a termine numerose gravidanze (tabella 3).
Lo schema BEP, però, è gravato
da importanti tassi di tossicità sia
acuta che a lungo termine. Oltre
ad alopecia e a mielotossicità,
molte pazienti sviluppano durante il trattamento un’amenorrea
ipergonadotropa, nella maggior
parte dei casi transitoria. È riportata inoltre l’insorgenza di seconde neoplasie dopo l’utilizzo di
questo schema chemioterapico,
in particolare la leucemia mieloide acuta. Altra complicanza grave descritta è rappresentata dalla fibrosi polmonare, strettamen-
Marcatori tumorali nel TGMO
Istotipo
AFP
HCG
LDH
CA125
CA19-9
CEA
Disgerminoma
Tumore seno endodermico
Teratoma immaturo
Corioncarcinoma
Carcinoma embrionale
Poliembrioma
+
+/+
+/-
+/+/+
+
+
+
+/+/-
+
+/+/-
+/+
-
+/+
-
ONCOLOGIA
te correlata alla somministrazione di bleomicina; questo effetto
collaterale è dose-dipendente.
Management:
l’importanza
dell’istotipo
Disgerminoma
Equivalente istologico del seminoma maschile, è l’istotipo più comune e rappresenta circa il 50% di tutti i TGMO. Nella forma pura è costituito da elementi cellulari grandi, poliedrici con citoplasma chiaro e nuclei prominenti, che non presentano differenziazione in strutture embrionali o extraembrionali.
Il disgerminoma è anche l’istotipo
più frequentemente riscontrato nelle forme miste, di solito associato
a tumore del seno endodermico
e/o al teratoma immaturo.
Caratteristiche peculiari del disgerminoma sono la frequente bilateralità (fino al 10-15% dei casi), la
prevalente diffusione per via linfatica e la radiosensibilità.
Non esprime marcatori tumorali
specifici, anche se in circa 1/3 dei
casi si riscontrano elevati livelli di
lattico-deidrogenasi (LDH). Il CA125
è spesso alterato senza raggiungere valori elevati; saltuariamente si
riscontra un rialzo di ßhCG, CEA e
GICA. Durante la chirurgia primaria è essenziale un accurato staging
comprendente la linfadenectomia
pelvica e lomboaortica, soprattutto nella malattia apparentemente
al I stadio A. In questo caso non è
indicato un trattamento antiblastico, ma solo uno stretto follow-up
poiché la chemioterapia effettuata alla recidiva non sembra compromettere la prognosi. Altra caratteristica del disgerminoma è la
spiccata radiosensibilità. Fino agli
anni Ottanta la radioterapia era il
trattamento adiuvante di prima
scelta, mentre attualmente essa è
indicata solo in casi selezionati.
Tumore del seno
endodermico
(Yolk sac tumour)
È la neoplasia germinale di più
frequente riscontro dopo il disgerminoma e rappresenta il
20% di tutti i TGMO; deriva dalla cellula germinale primitiva destinata a formare il sacco vitellino
(differenziazione extraembrionale). I tumori
del seno endodermico
sono neoplasie a rapida crescita, quasi esclusivamente monolaterali; caratteristica è la produzione di elevati livelli di AFP. Questo marcatore ha un ruolo essenziale in fase diagnostica, nella valutazione della risposta alla
chemioterapia e nel follow-up.
L’aggressività e la biologia di questo tumore impongono sempre
un trattamento chemioterapico
adiuvante anche quando la malattia è diagnosticata agli stadi
iniziali.
senta il 95% dei casi di teratoma. La cisti dermoide può originare non solo dall’ovaio, ma
anche da altri organi e tessuti
lungo il percorso che le cellule
germinali primordiali compiono
per giungere alla gonade durante l’organogenesi. È bilaterale nel 15% dei casi ed è costituita da una grande varietà
di tessuti ben differenziati di derivazione ectodermica, mesodermica ed endodermica. La
presenza di aree secernenti nel
loro contesto può determinare
manifestazioni cliniche da produzione ormonale ectopica.
• Teratomi immaturi: quasi sempre unilaterali, costituiscono il
15% dei TGMO e in meno della metà dei casi si osserva la
produzione di marcatori (tabella 3). Microscopicamente sono
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È essenziale
conoscere la storia
naturale e la biologia
di ogni istotipo
Teratoma
• Teratoma cistico maturo (benigno) o cisti dermoide: rappre-
composti da tessuti maturi e
immaturi derivanti dai tre foglietti embrionali; nel loro contesto, accanto a tessuti ben differenziati (cartilagine e osso),
si riscontrano elementi immaturi, specialmente di origine
neurale. Si distinguono tre gradi di maturità in relazione alla
quantità di tessuto neuronale
immaturo. La diffusione del teratoma immaturo avviene prevalentemente per dissemina-
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zione peritoneale ed è tanto più
rapida quanto più il tumore è
di grado 3. La stadiazione chirurgica deve comprendere numerose biopsie peritoneali, sia
random sia delle aree sospette, al fine di diagnosticare
eventuali impianti peritoneali immaturi e definirne il grado. Il trattamento chemioterapico non è infatti indicato
in caso di impianti di grado 0
o 1 perché la neoplasia non
è chemiosensibile. In presenza di impianti peritoneali di
grado 2 o 3 è invece necessario eseguire un trattamen-
Tabella 3
Conclusioni
to antiblastico secondo lo
schema BEP.
In presenza di impianti peritoneali è utile eseguire un followup laparoscopico per valutare
l’eventuale progressione o regressione del grado di maturità.
La rarità di questo gruppo di neoplasie altamente aggressive, ma
con ottima prognosi, che colpiscono in età adolescenziale impone che queste giovani pazienti siano inviate in un centro specializzato in ginecologia oncologica.
Infatti, al fine di garantire un adeguato trattamento con alte possibilità di sopravvivenza preservando la fertilità e la funzionalità endocrina è necessario avere esperienza e conoscere dettagliatamente la biologia e la storia naturale di ogni specifico istotipo.
Altri istotipi
Il carcinoma embrionale, il poliembrioma e il coriocarcinoma
non gestazionale sono molto
rari, quasi sempre unilaterali e
possono risultare associati al
rialzo di alcuni marcatori sierici (tabella 2).
Fertilità dopo terapia conservativa per i TGMO
Autore
Brewer, 1999
Low, 2000
Zanetta, 2001
Tangir, 2003
Gershenson, 2007
N. pazienti
N. cicli regolari
N. gravidanze
16
74
138
64
132
13/14 (93%)
43/47 (92%)
80/81 (99%)
28/40 (69%)
62/71 (87%)
5 in 3
14 in 19/20
41 in 16/20
47 in 29/38
37 in 24/62
Bibliografia
10
1. Lu KH, Gershenson DM. Update on
the management of ovarian germ cell
tumors. J Reprod Med 2005; 50:
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2007; 25: 2938-43.
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cell tumors of the ovary with bleomy-
cic, etoposide and cisplatin. J Clin Oncol 1990; 8: 715-20.
5. Low JJ, Perrin LC, Crandon AJ et al.
Conservative surgery to preserve ovarian function in patients with malignant ovarian germ cell tumors: a review of 74 cases. Cancer 2000; 89:
391-8.
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ovarian tumors. J Clin Oncol 2001;
19: 1015-20.
7. Brewer M, Gershenson DM, Herzog
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function after chemotherapy for ovarian dysgerminoma. J Clin Oncol
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chemotherapy in long-term ovarian
germ cell tumor survivors: a gynecologic oncology group. J Clin Oncol
2007; 25: 2792-97.
CLINICA QUOTIDIANA
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I
l dolore pelvico cronico
nella donna in età fertile:
quale approccio?
Un sintomo spesso enigmatico come alcune delle patologie
che lo sostengono e caratterizzato da un forte impatto epidemiologico
che rende conto della necessità di attivare percorsi diagnostico-terapeutici
estremamente accurati e individualizzati.
di Lucia Lazzeri, Stefano Luisi, Valentina Ciani, Giuseppe Morgante, Vincenzo De Leo, Felice Petraglia
Sezione di Ostetricia e Ginecologia, Dipartimento di Pediatria, Ostetricia e Medicina della Riproduzione,
Università degli Studi di Siena - Siena
I
l dolore pelvico si associa a numerosi disturbi e patologie di
origine ginecologica, urologica e
gastroenterica che portano la donna all’attenzione del medico curante o direttamente al pronto
soccorso e, successivamente, allo specialista. Per la peculiarità di
comparsa si possono distinguere:
• il dolore acuto, caratterizzato
da insorgenza improvvisa, repentino peggioramento e breve decorso;
• il dolore ciclico, associato al ciclo mestruale;
• il dolore cronico, quando l’algia
è costante, non ciclica e persiste
oltre i 3 mesi.
Il dolore pelvico cronico è di frequente riscontro clinico, tenendo
conto che si posiziona al quarto
posto tra i disturbi lamentati dalle pazienti ginecologiche ambulatoriali, dopo le perdite ematiche
anomale, l’amenorrea e i disturbi
della menopausa. Non sempre nel
dolore pelvico cronico è possibile
individuare un’eziologia ben definita, di conseguenza la terapia
è spesso sintomatica; le patologie
ginecologiche più frequentemente associate a esso sono l’endometriosi, la fibromatosi uterina e
l’adenomiosi.
Endometriosi
Il dolore pelvico è il sintomo principale dell’endometriosi e può essere sia ciclico che cronico. L’endometriosi è una malattia tipica
dell’età fertile in quanto colpisce
prevalentemente donne di età
compresa tra i 25 e i 35 anni, verificandosi eccezionalmente nell’adolescenza (1%) e tende a regredire con il sopraggiungere della menopausa.
Attualmente costituisce una delle patologie ginecologiche più diffuse, con un’incidenza in Italia del
12%, che raggiunge il 30% nelle donne infertili.
Patogenesi
L’eziologia dell’endometriosi è tuttora sconosciuta (tabella 1). Un dato accertato è che l’endometrio ec-
topico presenta aspetti molecolari
(recettori per gli steroidi), funzionali (risposta ai fattori di crescita e
ai loro recettori) e anabolici (sintesi di enzimi come la metalloproteinasi e l’aromatasi), con caratteristiche simili a quelle dell’endometrio
eutopico. In generale, poiché la proliferazione delle cellule endometriosiche è condizionata da fattori
ormonali, immunitari, angiogenetici e di crescita, si ritiene che l’insorgenza della malattia possa dipendere da una serie complessa di
eventi che implicano una predisposizione genetica, anomalie del sistema immunitario, fattori anatomici e anche interferenze ambientali. La teoria eziopatogenetica oggi più accreditata è quella dell’impianto delle isole endometriosiche
secondario al flusso mestruale retrogrado, coadiuvato dall’attivazione di fattori peritoneali che inducono la crescita cellulare. La diffusione di sangue mestruale in cavità peritoneale è seguita da un processo infiammatorio locale, con rilascio di fattori di crescita e citochine. Nelle donne affette da endo-
11
CLINICA QUOTIDIANA
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metriosi esiste infatti un’alterata
funzione dei macrofagi peritoneali, delle cellule natural killer e dei
linfociti1.
Ormoni ovarici
L’endometriosi è considerata una
patologia ormono-dipendente:
estrogeni e progesterone, con i rispettivi recettori (ER, PR), regolano
la crescita del tessuto endometriale eutopico ed ectopico.
• Estrogeni: le cellule endometriali
producono estrogeni attraverso
l’azione locale dell’aromatasi, enzima presente a elevate concentrazioni anche a livello delle lesioni ectopiche nelle quali si evidenzia un’aumentata biosintesi e una
diminuita inattivazione dell’estradiolo rispetto all’endometrio eutopico. Nel tessuto endometriosico, infatti, è aumentata la produzione di PGE2, potente stimolatore dell’aromatasi, con conseguente feedback positivo che favorisce la continua produzione di
estradiolo. Recenti studi hanno di-
Tabella 1
PR possano giocare un ruolo importante nello sviluppo della patologia endometriosica1,3.
Angiogenesi
e fattori angiogenici
Recentemente si è raggiunta una
chiara evidenza scientifica che dimostra come l’angiogenesi rivesta un ruolo chiave nella fisiopatologia della malattia endometriosica4. Gli impianti endometriosici
necessitano di una neovascolarizzazione per poter crescere e invadere i tessuti su cui si sono impiantati. Il fattore angiogenetico
più studiato è il Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF), espresso e secreto da lesioni endometriosiche, endometriomi e dal liquido peritoneale di donne affette dalla malattia5.
Citochine, peptidi
infiammatori e fattori
di crescita
I livelli del tumor necrosis factor
(TNF-α) nel liquido peritoneale ri-
Principali sintomi e cause di endometriosi, fibromatosi e adenomiosi
Patologia
Endometriosi
Fibromatosi
Adenomiosi
12
mostrato che il polimorfismo del
gene Pvull è associato all’endometriosi ricorrente, probabilmente attraverso una maggior attività del recettore ERα2.
• Progestinici: il progesterone, oltre a indurre la fisiologica differenziazione secretiva e la decidualizzazione endometriale, diminuisce l’espressione dei geni
della famiglia delle metallo-proteinasi (MMPs), enzimi che aggrediscono la matrice extracellulare favorendo lo sviluppo di foci ectopici. Il tessuto endometriosico presenta un’alterata risposta al progesterone che si manifesta con una continua espressione di MMPs in tutta la fase secretiva del ciclo. A livello endometriale esistono due isoforme
dei PR (PR-A e PR-B) derivanti dallo stesso gene: la forma A inibisce l’azione della forma B. Le
donne affette da endometriosi
hanno una diminuita espressione di PR-B mRNA; si ipotizza, pertanto, che alterazioni a livello dei
Sintomi
Cause
Dolore pelvico
Dismenorrea
Dispareunia
Infertilità
• Metaplasia del mesotelio
• Sviluppo di residui di tessuto mulleriano
nel setto retto-vaginale
• Diffusione di cellule endometriali
con flusso mestruale retrogrado
Dolore pelvico
Metrorragia
Infertilità
• Azione degli ormoni sessuali
• Alterazioni genetiche delle cellule miometriali
• Possibili interazioni anomale
nella matrice extra-cellulare
Dolore pelvico
Dismenorrea
Dispareunia
Infertilità
• Origine dalla mucosa endometriale
più profonda
• Diffusione attraverso la circolazione
linfatica intramiometriale
• Metaplasia de novo del tessuto miometriale
in tessuto endometriale
CLINICA QUOTIDIANA
sultano significativamente più
elevati nelle donne affette da endometriosi rispetto ai controlli.
Il TNF-α può stimolare sia l’adesione e la proliferazione delle cellule
endometriali, sia l’espressione delle MMPs, rendendo più facile l’invasione delle cellule endometriali.
Il TNF-α può inoltre stimolare l’angiogenesi attraverso l’espressione
dell’IL-8. Oltre al TNF-α e all’IL-8,
nel liquido peritoneale di donne
con endometriosi sono stati documentati elevati livelli di IL-1,
IL-6 e IL-10. Tutte queste citochine potrebbero essere coinvolte
nell’attivazione dei macrofagi e
nell’infiammazione6.
L’urocortina, peptide secreto dalle cellule epiteliali e stromali dell’endometrio, ha un effetto modulatorio sul sistema immunitario. In donne con endometriosi
sono stati osservati livelli sierici di
urocortina significativamente
maggiori rispetto a donne sane o
con altri tipi di cisti ovariche7. Analogamente, l’activina A e la follistatina, fattori di crescita secreti
dall’endometrio (che esprime anche i recettori per l’activina A e la
follistatina), sono presenti in elevate concentrazioni nel liquido di
cisti endometriosiche8,9.
Manifestazioni cliniche
L’interazione tra i sistemi endocrino, immunitario e vascolare determina un’attivazione dei meccanismi del dolore a vari livelli, che si
estrinseca con dismenorrea secondaria, dispareunia profonda e dolore pelvico. Solo nel 20-25% dei
casi l’endometriosi è asintomatica
e viene diagnosticata casualmente
durante un intervento di laparoscopia eseguito, in gran parte dei casi, per sterilità da causa inspiegata
o durante interventi laparotomici
per altre indicazioni. Peraltro, come dimostrato da molteplici studi,
la gravità della sintomatologia non
risulta direttamente correlata con
l’estensione della malattia all’interno della cavità addominale.
Il dolore, inizialmente ciclico, può
diventare cronico con il passare del
tempo, inducendo un netto peggioramento della qualità di vita. In
circa il 20-40% dei casi, spesso a
seguito di localizzazioni comunemente definite “endometriosiche
profonde”, si associa la comparsa
di dispareunia, sia superficiale, sia
profonda, e di turbe intestinali o
urologiche. In questi casi, oltre al
dolore addominale e
lombare, si possono
avere emorragie rettali
cicliche, costipazione e
ostruzione nel caso di localizzazione intestinale,
disuria ed ematuria per
interessamento della vescica o dell’uretere (tabella 2). Tra i possibili
meccanismi chiamati in
causa per spiegare l’origine del dolore vi sono: l’infiammazione peritoneale locale, l’infiltrazione profonda con danno tissutale, la formazione di aderenze,
l’ispessimento fibrotico e la raccolta di sangue mestruale nell’impianto endometriosico, che determina
uno stiramento doloroso dei tessuti con i movimenti fisiologici.
Iter diagnostico
L’esame clinico ha esiti molto variabili: talvolta può risultare del tutto normale, altre volte, invece, permette di evidenziare una tumefazione ovarica oppure la presenza
di nodulazioni dolorose a livello dei
legamenti utero-sacrali o del setto
retto-vaginale; negli stadi più avanzati, l’utero, a causa di processi ade-
renziali più o meno estesi, può risultare poco mobile o addirittura
fissato in retroversione insieme agli
annessi. Per confermare il sospetto diagnostico possiamo avvalerci
dell’esame ecografico condotto sia
per via transaddominale che transvaginale (specificità del 90%, sensibilità del 75%) e del dosaggio
ematochimico del CA-125, un marker presente nei tessuti derivati dall’epitelio celomatico e mulleriano,
con una specificità maggiore
dell’80% e una sensibilità del 2050%. La diagnosi di endometriosi
si pone su prelievo bioptico in corso di laparoscopia.
N
O
G
Necessaria
la conferma
laparoscopica
e bioptica
Opzioni terapeutiche
La terapia medica dell’endometriosi è basata sul concetto che
l’endometrio ectopico sia modulato dagli ormoni sessuali. Le strategie che possono essere utilizzate sono le seguenti:
• creare un clima ormonale ipoestrogenico allo scopo di rendere atrofiche le lesioni endometriali;
• creare una pseudodecidualizzazione attraverso il trattamento
con estroprogestinici.
Tra le nuove opzioni farmacologiche vengono annoverati gli antagonisti dell’ormone rilasciante gonadotropine (GnRH), i modulatori
dei recettori del progesterone e
nuove vie di somministrazione del
13
CLINICA QUOTIDIANA
N
O
G
progestinico. I sintomi legati all’endometriosi non sempre sono migliorati dalla terapia farmacologica e richiedono spesso l’ablazione
chirurgica dell’impianto ectopico.
Agonisti e antagonisti
del GnRH
Agiscono attraverso il blocco diretto del recettore del GnRH, prevenendo così che venga attivato10.
Questo porta alla downregulation
ipofisaria, alla riduzione della secrezione di gonadotropine e alla soppressione della produzione degli steroidi ovarici, perciò a un clima ipoestrogenico. Sono descritti numerosi effetti collaterali degli analoghi11.
Modulatori dei recettori
del progesterone (SPRMs)
Vengono classificati in tre diverse
categorie:
• ligandi di tipo I, ligandi che prevengono o attenuano il legame
fra il progesterone e l’elemento
di risposta al progesterone e che
agiscono quindi come antagonisti puri del progesterone (onapristone);
• ligandi di tipo II, ligandi che promuovono il legame del recettore del progesterone e il DNA de-
Tabella 2
gli elementi di risposta (mifepristone e i mesoprogestinici);
• ligandi di tipo III, che promuovono il legame del recettore del progesterone all’elemento di risposta del progesterone.
Quindi i ligandi di tipo I e III agiscono come antagonisti puri del progesterone, mentre i ligandi di tipo
II, che sono in corso di studio nel
trattamento dell’endometriosi, possono comportarsi da agonisti, agonisti parziali o antagonisti in base
alla dose, ai siti d’azione e alla presenza o assenza di progesterone12.
Nuove vie
di somministrazione
dei progestinici
In donne affette da endometriosi è possibile utilizzare progestinici (levonorgestrel e danazolo) a
rilascio locale.
• Levonorgestrel intrauterino
(Lng-IUD): riduce la proliferazione endometriale e aumenta
l’apoptosi nelle ghiandole e nello stroma endometriale13; questa via di somministrazione consente di raggiungere concentrazioni locali del principio attivo superiori a quelle plasmatiche. L’assorbimento locale sem-
Endometriosi: sintomi secondari
Endometriosi profonda infiltrante
• Costipazione
• Diarrea
• Dischezia
• Subocclusioni intestinali
Endometriosi ureterale
14
• Disuria
• Ematuria
• Pollachiuria
• Cisti non microbiche
• Infezioni ricorrenti del tratto urinario
bra assicurare una maggiore efficacia con effetti collaterali limitati e quindi anche un aumento della compliance della
paziente, soprattutto durante il
trattamento di lunga durata.
Questo sistema medicato sembra alleviare la dismenorrea e il
dolore pelvico cronico associato all’endometriosi profonda. Il
suo impiego, dopo chirurgia
conservativa per endometriosi
sintomatica, riduce significativamente il rischio di ricorrenza
a medio termine della dismenorrea moderata o severa.
• Danazolo: agisce direttamente
sul tessuto endometriosico in
vitro e in vivo inibendo la sintesi del DNA e inducendo
l’apoptosi. L’utilizzo di un dispositivo intrauterino al danazolo in donne affette da dolore pelvico cronico ha mostrato
la sua efficacia nella remissione della dismenorrea, del dolore pelvico cronico e della dispareunia associati all’endometriosi moderata o severa14. L’impiego di danazolo gel per via
vaginale per 4 mesi, ha ridotto
la dismenorrea e il dolore pelvico associato all’endometriosi15. Uno studio condotto su pazienti con endometriosi profonda, sottoposte al trattamento
laparoscopico e poi a terapia
locale con danazolo per 12 mesi, ha evidenziato al follow-up
(scala visiva per il dolore, ultrasonografia, profilo ematochimico completo) una riduzione
significativa della dismenorrea,
della dispareunia e del dolore
pelvico cronico dopo tre mesi
di terapia (p<0,01) e la loro
scomparsa dopo sei mesi di
trattamento (p<0,01) senza alterazione nei parametri metabolici e trombofilici e con po-
CLINICA QUOTIDIANA
ma vascolare più accentuata alla
periferia e più scarsa al centro.
Il leiomioma
è più frequente
tra i 40-50 anni
chi effetti collaterali locali; inoltre, lo studio ultrasonografico
con sonda transvaginale e transrettale ha dimostrato anche
una diminuzione nel volume dei
noduli presenti nel setto rettovaginale16.
Fibromatosi
uterina
Il leiomioma uterino è il tumore benigno che si riscontra con maggior
frequenza nella patologia ginecologica, infatti è presente nel 1520% delle donne dopo i 35 anni,
con una maggior incidenza tra i 40
e i 50 anni. Il numero, la localizzazione e il volume di queste neoformazioni sono assai variabili, come
la loro velocità di crescita: in alcuni casi esse conservano il loro volume per molti anni o crescono
molto lentamente, in altri si sviluppano abbastanza rapidamente raggiungendo dimensioni ragguardevoli in pochi mesi. Al momento della menopausa il leiomioma tende
a ridursi di volume e a diventare
asintomatico. Generalmente situato nel corpo uterino, può essere
sottosieroso, intramurale, sottomucoso o infralegamentario. A seconda della componente prevalente,
fibrosa o muscolare, può essere più
o meno vascolarizzato; solitamente risulta irrorato da una singola arteriola di 1-2 mm di diametro circondata da vasi più piccoli, con tra-
Patogenesi
La patogenesi del leiomioma uterino sembra essere legata all’azione degli ormoni sessuali, ad alterazioni genetiche delle cellule miometriali e alla presenza di interazioni anomale nella matrice extracellulare (tabella 1). Gli estrogeni
sono da sempre considerati i principali promotori della sua crescita.
Tale ipotesi è confermata dalle seguenti osservazioni: il leiomioma
insorge solo dopo il menarca, si sviluppa nell’età fertile, specie in gravidanza, e frequentemente regredisce con la menopausa. Inoltre, il
rischio di sviluppare questa neoplasia è maggiore nelle nullipare, nelle donne con frequenti cicli anovulatori e in quelle obese.
Manifestazioni cliniche
Il dolore cronico causato dal leiomioma è legato fondamentalmente alla distensione del rivestimento
perimetriale dell’utero e alla compressione esercitata, nel caso in cui
raggiunga un cospicuo volume, sui
visceri contigui, in particolare vescica, ureteri e retto. Il dolore, che il
più delle volte viene descritto come senso di peso, può esacerbarsi in seguito a necrosi e a degenerazione del leiomioma. Esso può
essere anche causa di sterilità per
alterazione della normale anatomia dell’utero oppure di infertilità
associata a poliabortività, con un’incidenza che raggiunge il 40-50%
in caso di localizzazione sottomucosa. Circa il 20% delle pazienti portatrici di leiomiomi uterini non lamenta alcun disturbo; in questi casi la neoplasia viene diagnosticata
occasionalmente durante una visi-
ta di controllo e risulta perlopiù di
tipo sottosieroso. Nelle altre localizzazioni, particolarmente quelle sottomucose, il sintomo più frequente (30-40%) è la menometrorragia.
N
O
G
Iter diagnostico
Alla visita ginecologica si rileva una
massa solida irregolare o formazioni che protrudono dall’utero; nel
caso di degenerazione, la palpazione può evocare dolore fino alla
comparsa di una reazione di difesa addominale. Può essere presente anche un rialzo della temperatura corporea associata a leucocitosi. Tra gli esami strumentali, l’ecografia consente di valutare l’origine della massa addominale, la sua
ecostruttura e la distribuzione della vascolarizzazione.
Terapia
• Analoghi del GnRH: determinano una riduzione dei recettori
ipofisari del GnRH, e quindi anche dei livelli di LH e FSH, bloccando così la produzione ovarica di estrogeni e progesterone.
• Antagonisti del GnRH: si legano ugualmente ai recettori del GnRH con il vantaggio
di un’azione rapida e quindi con
l’immediata riduzione dei livelli
di LH e FSH e la conseguente diminuzione dei livelli di estrogeni, che induce un miglioramento dell’emorragia e una riduzione delle dimensioni dell’utero.
• Progestinici: il danazolo, per la sua
attività antiestrogenica, viene utilizzato nel trattamento della leiomiomatosi uterina.
• Antiprogestinici: hanno una loro potenziale utilità clinica; il gestrinone e il mefiprestone si legano al recettore progestinico e,
a seconda delle circostanze, pos-
15
CLINICA QUOTIDIANA
N
O
G
sono comportarsi come agonisti
o antagonisti.
Le strategie future riguardano l’utilizzo di composti come la somatostatina, gli agenti antifibrinolitici, i
modulatori selettivi dei recettori
estrogenici (SERM). L’obiettivo di altri farmaci in via di sviluppo è il blocco di specifici fattori di crescita che
regolano la proliferazione e la produzione di collagene nelle cellule
muscolari lisce uterine. Negli ultimi
anni, in alternativa al trattamento
chirurgico conservativo o demolitivo, può essere utilizzata l’embolizzazione dell’arteria uterina (UAE) che
dà buoni risultati nei leiomiomii sintomatici. L’UAE non viene raccomandata alle donne che stanno programmando future gravidanze, poiché i suoi effetti sulla fertilità non
sono completamente noti17.
Adenomiosi
L’adenomiosi è caratterizzata dalla
presenza di endometrio all’interno
della struttura del miometrio. I focolai endometriali, che comprendono ghiandole e stroma, sono incastonati nella profondità del muscolo. Sebbene colpisca più frequentemente donne attorno ai 40 anni,
l’adenomiosi può essere riscontrata anche in pazienti più giovani. È
una patologia difficile da diagnosticare e rappresenta un punto di congiunzione tra l’endometriosi e la fibromatosi uterina; il dolore cronico
è il suo sintomo-chiave.
Patogenesi
16
Secondo la teoria oggi maggiormente accreditata, l’adenomiosi
sarebbe caratterizzata dalla penetrazione diretta delle ghiandole
endometriali nel miometrio; fattori favorenti sarebbero l’ipere-
strogenia - tramite l’iperplasia endometriale -, la riduzione della resistenza del miometrio e i traumi,
come la revisione della cavità e il
taglio cesareo (tabella 1). Recentemente, studi condotti su modelli animali, hanno evidenziato
che l’uso di estrogeni ad alti dosaggi, di prolattina, di antagonisti della dopamina, ma anche di
progesterone, consente di indurre lesioni da adenomiosi. L’invasione delle cellule stromali e ghiandolari seguirebbe gli assi vascolari e linfatici del miometrio.
Manifestazioni cliniche
I sintomi principali dell’adenomiosi sono il dolore pelvico di tipo premestruale, la dismenorrea, la dispareunia e le emorragie genitali, anche se in molti casi la patologia è
del tutto silente. Il dolore si associa
spesso a senso di tensione e di pesantezza addominale.
Il sanguinamento sembra essere il
segno più frequente (60% dei casi); generalmente si tratta di menorragie che si aggravano progressivamente e che possono associarsi a metrorragie, spesso resistenti
alle terapie mediche e chirurgiche.
Iter diagnostico
La diagnosi clinica di adenomiosi è
sicuramente difficile. L’utero è aumentato di volume, non presenta
noduli evidenziabili alla palpazione
ed è dolente alla mobilizzazione,
soprattutto in fase premestruale.
Spesso sono associati dei fibromi o
un’endometriosi pelvica che possono complicare la diagnosi.
• Dosaggio del CA-125: può trovare impiego nel follow-up della malattia, sebbene la sua specificità e sensibilità non siano significative.
Nell’adenomiosi
l’ecografia
ha una specificità
dell’80%
• Ecografia: i segni ecografici sono poco specifici; si può notare
un aumento di spessore del miometrio la cui struttura appare finemente eterogenea. La sensibilità è pari a circa il 60% quando si utilizza la via transaddominale, mentre nell’esame per via
transvaginale effettuato nella seconda parte del ciclo essa raggiunge l’80%.
• RM: studi recenti hanno dimostrato l’utilità di quest’indagine
che presenta una sensibilità e
specificità comprese tra l’86100%18.
• Isterosalpingografia: può essere
un esame essenziale ai fini diagnostici quando le isole di adenomiosi sono in continuità con
l’endometrio poiché consente di
evidenziare le immagini diverticolari tipiche, anzi quasi patognomoniche, di questa condizione.
• Isteroscopia: può rilevare la presenza di piccoli orifizi puntiformi
corrispondenti ai canali diverticolari oppure un’ipervascolarizzazione superficiale che rende ragione dei fenomeni emorragici.
Terapia
L’ormonodipendenza delle cellule
endometriali dei focolai di adenomiosi non è costante; tuttavia, il
fatto che questa condizione scompaia nel post-menopausa suggerisce una certa estrogeno-dipendenza; ed è proprio questa l’evi-
CLINICA QUOTIDIANA
denza sulla quale fino a oggi si è
concentrata l’attenzione della ricerca di una terapia medica19. Oltre ai farmaci precedentemente ricordati nell’ambito del trattamento dell’endometriosi, il cui fine è
quello di indurre una ipo-atrofia
dell’endometrio ectopico (danazolo, analoghi del GnRH), è stata dimostrata l’utilità dei nuovi dispositivi intrauterini medicati al levonorgestrel per il trattamento della
menorragia: essi sono infatti in grado di indurre una drastica riduzione del flusso mestruale, con effet-
ti collaterali, quali spotting occasionale e oligomenorrea, ben tollerati. L’uso del Lng-IUD rappresenta quindi un reale avanzamento
anche nel trattamento dell’adenomiosi: la sua efficacia in questo specifico contesto è correlata sia alla
capacità del farmaci di promuovere la decidualizzazione e quindi una
marcata atrofia dell’endometrio sia
all’azione diretta dell’ormone sui
foci adenomiosici.
Il Lng-IUD è inoltre indicato per indurre una down-regulation dei recettori estrogenici nei comparti
ghiandolari e stromali del tessuto
endometriale, prevenendo così
un’ulteriore stimolazione da parte
degli estrogeni e portando all’atrofia e al restringimento dei foci adenomiosici20.
Il trattamento chirurgico conservativo può essere effettuato in presenza di un adenomioma molto voluminoso; la difficoltà di exeresi chirurgica, però, risiede nella mancanza di un piano di clivaggio tra tessuto sano e adenomiosi; in molti
casi, quindi, l’isterectomia resta l’unica soluzione terapeutica efficace.
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17.
18.
19.
20.
17
RISK MANAGEMENT
N
O
G
M
enopausa
e rischio cardiovascolare:
che cosa fare?
Occorre incentivare la medicina d’opportunità approfittando del controllo
ginecologico in perimenopausa per una valutazione del profilo di rischio
cardiovascolare globale: queste acquisizioni risulteranno importanti al momento di decidere se intraprendere o meno una terapia ormonale sostitutiva.
di Paola Villa, Rosanna Suriano, Francesca Macrì, Luigi Ricciardi, Barbara Costantini,
Antonio Lanzone, Giovanni Scambia
Dipartimento per la Tutela della Salute della Donna e della Vita Nascente, Policlinico A. Gemelli,
Università Cattolica del Sacro Cuore - Roma
S
18
econdo i riscontri emersi da studi epidemiologici, negli ultimi
dieci anni la prima causa di morte
negli Stati Uniti è rappresentata dalle malattie cardiovascolari. Esse, infatti, sono responsabili, direttamente o in associazione con altre patologie, di oltre il 70% dei decessi registrati negli uomini di età superiore ai 35 anni e nelle donne sopra i
65 anni. Il sesso femminile, benché
colpito dalle malattie cardiovascolari circa 10 anni più tardi rispetto
a quello maschile, mostra una maggior frequenza di primo infarto miocardico fatale (39% vs 31%), nonché una mortalità più elevata nel
primo anno del post-infarto (38%
vs 25%) e una più alta percentuale d’inabilità post-infartuale (46%
vs 39%)1.
Relativamente protetta durante tutto il periodo premenopausale, dopo la menopausa la donna vede
aumentare considerevolmente la
frequenza e la gravità delle patologie cardiovascolari: è stato, infatti, stimato che all’età di 50 anni
ogni donna ha il 46% di probabilità di ammalarsi di coronaropatia
e il 31% di morirne. Inoltre, se solo una donna su 9 va incontro a
eventi cardiovascolari nella fascia
d’età compresa tra i 45 e i 64 anni, una volta superati i 65 anni 1 su
3 è colpita da aterosclerosi2.
Quali fattori
valutare?
La patogenesi delle malattie cardiovascolari è multifattoriale: i principali fattori di rischio modificabili e non modificabili attualmente
individuati sono numerosi e variegati (tabella 1). In particolare, va
ricordato che alcune alterazioni
metaboliche, ponderali e antropometriche sono anche alla base della sindrome metabolica3. Quest’ultima è una complessa alterazione
dell’equilibrio del metabolismo di
lipidi e di carboidrati che, nel suo
insieme, espone il soggetto a un
rischio cardiovascolare elevato, superiore a quello imputabile ai singoli fattori presenti in forma isolata. A tutt’oggi, però, non si è ancora giunti a una definizione uni-
voca di questo complesso quadro
patologico, considerando che ne
sono state elaborate numerose descrizioni (tabella 2). I più recenti
criteri diagnostici, scaturiti dal Consensus Statement of International
Diabetes Federation del 2005, si
basano sulla presenza di almeno
tre caratteristiche tra le seguenti:
• obesità addominale, ossia una
circonferenza vita superiore a 80
cm per la donna europea;
• ipertrigliceridemia, ossia una
concentrazione plasmatica di TG
>150 mg/dl;
• ipoalfalipoproteinemia, ossia
una concentrazione plasmatica
di colesterolo HDL <50 mg/dl
nella donna;
• ipertensione, ossia valori pressori >130/85 mmHg;
• intolleranza al glucosio con iperglicemia a digiuno (valori >100
mg/dl)4.
Obesità e sovrappeso
La frequenza dell’obesità aumenta con il progredire dell’età e acquista particolare rilevanza nella
RISK MANAGEMENT
fascia di età tra i 45-54 anni
(13%). Quest’ultima comprende
tutto il periodo postmenopausale e risulta particolarmente critica
per la donna, che presenta un tasso di obesità doppio rispetto alla
fascia di età dei 35-44 anni
(12,8% vs 5,8%). Massimi valori
di obesità femminile (come anche
maschile) si osservano tra i 55-64
anni. La stessa tendenza si manifesta per il sovrappeso, che au-
Tabella 1
Fattori di rischio cardiovascolare
Non modificabili
Modificabili
Nuovi fattori
Favorenti
Età
Famigliarità
Fumo di sigaretta
Alterazioni dell’assetto
lipidico
Ipertensione
Inattività fisica
Sovrappeso/obesità
Lipoproteina (a)
Iperomocisteinemia
Stress
Assetto endocrino
Fibrinogeno
Fattori infiammatori
iApolipoproteina A1
hApolipoproteina B
Eccessivo consumo di alcol
Vasculopatie periferche
Razza
Tabella 2
menta con l’età, fino a raggiungere nelle donne tra i 45-64 anni
una prevalenza del 30%, dato che
arriva addirittura al 38% nella fascia di età successiva. Nel periodo che coincide con la peri- e postmenopausa, circa il 50% delle
donne presenta un eccesso di peso corporeo. Studi longitudinali
hanno chiaramente evidenziato
che la transizione menopausale si
associa a una riduzione della mas-
N
O
G
Definizioni di sindrome metabolica
Criterio
WHO (1999)
Insulino-resistenza DMT2 o IFG o IGT o IR
+ 2 criteri tra:
_30 kg/m2 oppure
Obesità
BMI>
WHR>0,85
Dislipidemia
_150 mg/dl oppure
TG>
C-HDL<39 mg/dl
Ipertensione
arteriosa
Glicemia
>140/90 mmHg
Altri fattori
DMT2 o IFG o IGT
Microalbuminuria
escrezione
>20 mcg/min
NCEP-ATP III (2001)
IDF (2005)
Non previsto
3 criteri tra:
Circonferenza
vita >88 cm
Non previsto
_150 mg/dl oppure
TG>
HDL<50 mg/dl
o in trattamento
>
_135/85 mmHg
e/o in trattamento
>
_100 mg/dl
(include diabete)
Famigliarità per DMT2,
PCOS, sedentarietà,
età, gruppi etnici
a rischio per DMT2
Circonferenza vita
specifica per popolazione
_80)
(in Europa >
+2 criteri tra:
_150 mg/dl o in trattamento
TG>
oppure
C-HDL<50 mg/dl
>
_135/85 mmHg e/o
in trattamento
>100 mg/dl (include diabete)
DMT2=Diabete mellito tipo2; IFG=Alterata glicemia a digiuno; IGT=Ridotta tolleranza glucidica;
IR=Insulino-resistenza; WHR=Rapporto circonferenza vita/fianchi.
19
RISK MANAGEMENT
N
O
G
sa magra accompagnata da un aumento della massa grassa5. A questo proposito va rilevato che l’invecchiamento comporta da un lato una riduzione della spesa energetica legata a una diminuzione
sia del metabolismo basale, sia dell’attività fisica non lavorativa e dall’altra modificazioni psicologiche
che, in alcuni casi, possono associarsi a un aumento del desiderio
e dell’assunzione di cibo3 e a un
incremento dell’apporto calorico6.
to di carboidrati che agiscono
da promotori o contribuiscono
a mantenere e/o peggiorare
l’espressione clinica di questa
condizione8;
• fattori endocrini, considerando
che in menopausa sia la diminuzione dei livelli degli estrogeni sia le variazioni nella secrezione dell’ormone GH hanno
un ruolo importante nel controllo del metabolismo glico-insulinemico.
Assetto lipidico
Le modificazioni
del quadro
lipidico iniziano
in pre-menopausa
Insulino-resistenza
20
Sebbene il meccanismo patogenetico che sottende la sindrome
metabolica non sia ancora del tutto chiaro, una delle ipotesi più accreditate segnala, come primo movens, l’instaurarsi di uno stato di
insulino-resistenza, caratterizzato
da una diminuzione della normale risposta degli organi bersaglio
alle concentrazioni fisiologiche di
questo ormone7. La patogenesi
dell’insulino-resistenza sembra essere, a sua volta, multifattoriale e
vede quindi implicati:
• fattori genetici, per definizione non modificabili, coinvolti
nell’espressione dei mediatori
cellulari dell’insulina;
• fattori ambientali, quindi modificabili, tra cui l’inattività fisica e una dieta ad alto contenu-
L’assetto lipidico assume
un ruolo particolarmente importante in menopausa, in quanto in questa fascia di età compaiono alterazioni fisiologiche del metabolismo dei
lipidi che possono favorire l’insorgenza di cardiopatie9. Non a caso, a partire dagli anni Settanta, è stato ampiamente dimostrato che le modificazioni
dell’assetto lipidico si associano a
un aumento della mortalità e morbilità cardiovascolari. Lo studio di
Framingham, in particolare, ha evidenziato come una colesterolemia
totale > a 270 mg/dl sia associata
a un aumento del rischio di infarto
del miocardio di 3 volte nell’uomo
e di ben 9 volte nella donna rispetto a quanto osservabile nei soggetti con colesterolemia totale <190
mg/dl10. Nello specifico, nelle donne in menopausa sono stati evidenziati un aumento del colesterolo
totale, del colesterolo-LDL (828%)11,12, della lipoproteina A, fortemente aterogena13, dei trigliceridi (4-12%), una riduzione del colesterolo-HDL14 e un incremento delle apolipoproteine A1 e B15.
Le modificazioni del quadro lipidico sembrano iniziare già in fase pre-
menopausale, per poi assumere una
connotazione più precisa nel primo
anno del post-menopausa16, fino a
raggiungere un punto di massima
alterazione tra i 55 e i 65 anni di
età, approssimativamente 10 anni
più tardi rispetto all’uomo17. Recentemente, è stato evidenziato che
nelle donne le alterazioni della colesterolemia totale e LDL sembrano
svolgere un ruolo meno rilevante rispetto agli uomini; infatti la terapia
ipolipemizzante con statine sembra
essere meno efficace in donne a
basso-medio rischio18.
Il ruolo fisiopatologico delle diverse lipoproteine plasmatiche d’altra parte inizia ad essere più chiaro. In particolare, crescenti evidenze indicano come la lipoproteina
A, una proteina ad azione antifibrinolitica, può essere considerata un fattore indipendente di rischio cardiovascolare19.
Negli ultimi anni è stata inoltre posta grande attenzione allo studio
ed all’analisi delle apolipoproteine,
in particolare le forme A1 e B. Le
apolipoproteine sono costituenti essenziali delle lipoproteine LDL e HDL
e giocano un ruolo essenziale nella regolazione del loro catabolismo.
• Apolipoproteina B (isoforme B48
e B100): è un costituente delle
LDL e delle VLDL ed è essenziale
per il legame di queste lipoproteine con i loro recettori tissutali, permettendo quindi alle cellule endoteliali l’assorbimento delle LDL e quindi del colesterolo.
Un eccesso di apolipoproteina B
rappresenta uno dei principali
meccanismi di insorgenza del processo aterosclerotico.
• Apolipoproteina A1: è uno dei
costituenti principali delle HDL e
il suo dosaggio rappresenta un
metodo per determinare con
maggior precisione i livelli plasmatici di HDL. L’apolipoproteina A1
RISK MANAGEMENT
L’HRT riduce
il rischio di diabete
di tipo 2
è anche un cofattore della lecitina-colesterolo acetil-transferasi
(LCAT), enzima chiave nei processi di rimozione dell’eccesso di colesterolo dai tessuti, in quanto
permette l’assorbimento del colesterolo all’interno delle HDL e
quindi la sua rimozione a livello
epatico. Il rapporto apoA1/apoB
sembra rappresentare un ottimo
indicatore del rischio cardiovascolare: un valore basso è correlato
a un aumento del rischio di coronaropatie; questo marker ha
una sensibilità e una specificità
maggiore rispetto al solo dosaggio delle LDL20.
Iperomocisteinemia
L’iperomocisteinemia è ormai considerata un fattore di rischio aterosclerotico e aterotrombotico indipendente21. La relazione tra l’aumento dei livelli di omocisteina (>9
mmol/l) e quello del rischio cardiovascolare è stata documentata in
una metanalisi da cui risulta che
l’incremento del rischio coronarico
associato all’iperomocisteinemia è
statisticamente significativo22. L’effetto negativo dell’iperomocisteinemia a livello cardiovascolare si
esprime attraverso un aumento dei
radicali liberi, un’alterazione della
coagulazione in senso protrombotico e una riduzione della produzione di ossido nitrico da parte delle cellule endoteliali23. In particolare si è osservata una correlazione
tra livelli di omocisteina ed estro-
geni. Si è visto come in
postmenopausa i livelli
basali di omocisteina aumentino progressivamente mentre tendono
a ridursi durante il trattamento con HRT24.
Molti studi hanno poi
evidenziato che la presenza di elevati livelli di estrogeni
difficilmente si accompagnano a
iperomocisteinemia. Di conseguenza, si può pensare che esista
un’influenza positiva degli estrogeni sul metabolismo e sulla sintesi dell’omocisteina25.
Alterazioni del
metabolismo glucidico
In concomitanza della menopausa
si osservano variazioni del profilo
glucidico in senso diabetogeno che
si traducono in un rapido aumento dell’incidenza di diabete nelle
donne di mezza età. Questo precario equilibrio metabolico espone
la donne in menopausa sia a un
maggior rischio di ridotta tolleranza glucidica (IGT) o di diabete mellito di tipo 2 (NIDDM), sia a condizioni di iperinsulinemia, considerata, di per sé, un fattore indipendente di rischio cardiovascolare, in
quanto (almeno nelle fasi iniziali
della malattia) in grado di favorire
l’aterogenesi, modificando il metabolismo lipidico e influenzando
in maniera negativa i valori pressori, la fibrinolisi26 e la reattività vascolare27.
Per quanto riguarda il ruolo degli
estrogeni in questo particolare contesto, è opinione comune che essi
abbiano un effetto avverso sul metabolismo dei carboidrati. Ci si potrebbe quindi attendere che il loro
impiego provochi un corrispondente aumento dell’incidenza di diabete. Al contrario, recenti eviden-
ze suggeriscono che le donne trattate con la terapia ormonale sostitutiva abbiano una riduzione dell’incidenza di diabete di tipo 228.
N
O
G
Ipertensione
Il dato secondo cui la prevalenza
dell’ipertensione aumenta progressivamente di più nella donna dopo
la menopausa che nell’uomo di pari età, ha indicato un possibile ruolo protettivo per steroidi sessuali
femminili (ISTAT 1999). La somministrazione diretta di estrogeni a livello vascolare produce un effetto
di tipo vasodilatatorio e quindi antipertensivo29, mentre a lungo termine questi composti sembrerebbero dotati di un effetto vasoprotettivo. Tuttavia, esistono ancora
dati contrastanti circa l’effetto della somministrazione di preparazioni estrogeniche sulla pressione arteriosa nelle donne in postmenopausa, con dati a favore di una riduzione dei valori pressori30 ed altri con effetto neutro nelle donne
trattate rispetto ai controlli31.
La globalizzazione
del rischio
Sino alla fine degli anni Ottanta
la prevenzione delle malattie cardiovascolari si fondava sul trattamento dei singoli fattori di rischio. Oggi, invece, si prende in
considerazione il rischio cardiovascolare globale, stimabile valutando contemporaneamente
la presenza di diversi fattori di rischio. In quest’ottica sono state
messe a punto le carte del rischio
cardiovascolare che servono a
stimare la probabilità di sviluppare un primo evento cardiovascolare maggiore (infarto del
miocardio o ictus) nei 10 anni
21
RISK MANAGEMENT
N
O
G
successivi in base alla presenza
o meno di diversi fattori di rischio32. Anche in Italia, nel 2005,
è stata elaborata una Carta Italiana di Rischio Coronarico redatta sulla base dei principali fattori di rischio pesati sulle caratteristiche della nostra popolazione e che quindi può essere presa in considerazione nella valutazione del rischio della paziente sebbene rimanga ancora uno
strumento poco specifico33.
La terapia ormonale
sostitutiva
Nel 2002, la pubblicazione dei risultati del Women’s Health Iniziative
(WHI) study28 ha avuto profonde ripercussioni sul management clinico
Tabella 3
della menopausa, determinando un
precipitoso calo nell’uso della terapia ormonale sostitutiva (HRT)34.
Il WHI è un trial clinico randomizzato disegnato allo scopo di valutare gli effetti dell’HRT sul rischio
cardiovascolare in menopausa in
donne senza precedenti cardiovascolari, ma che non dovevano necessariamente presentare sintomi
menopausali (la minoranza dei soggetti reclutati erano negli anni critici postmenopausali). L’end-point
primario di efficacia comprendeva
l’infarto del miocardio e la morte
cardiovascolare e quello di sicurezza il tumore della mammella, mentre l’end-point secondario era costituito da stroke, embolie polmonari, tumori dell’endometrio e del
colon retto, fratture del femore e
decessi per altre cause. Lo studio
ha arruolato complessivamente
16.608 donne: 8.506 nel braccio
in terapia combinata continua orale con estrogeni coniugati equini
(CEE= 0,625 mg/d) più medrossiprogesterone acetato (MPA=2,5
mg/d) e 8.102 pazienti nel braccio
placebo. L’età media delle pazienti era 63 anni e il BMI medio 28,5.
Il trial, programmato per una durata di 8 anni circa, è stato interrotto dopo 5,2 anni di follow-up
per l’evidenza di un’aumentata incidenza di tumori mammari nel
braccio CEE/MPA e i risultati sono
analizzati per tutti i parametri illustrati. Uno studio analogo è stato
condotto anche su circa 10.000
donne isterectomizzate, di cui
5.000 trattate con soli estrogeni
(CEE=0,625 mg/d) e 5.000 con placebo35.
HRT e rischio cardiovascolare
CEE+MPA (n=8.506)
Eventi cardiovascolari 164
Letali
33
Non letali
133
Infarti del miocardio (IM) 127
IM letali
16
IM non letali
94
Totale eventi
694
cardiovascolari
CEE (n=5.310)
Eventi cardiovascolari 177
Letali
54
132
Non letali
Infarti del miocardio (IM) 158
15
IM letali
IM non letali
114
Totale eventi
cardiovascolari
811
Placebo (n=8.102)
122
26
96
85
13
59
Rischio relativo
1,29 (0,85-1,97)
1,18 (0,47-2,98)
1,32 (0,82-2,13)
1,41 (0,86-2,31)
1,20 (0,32-4,49)
1,50 (0,83-2,70)
546
1,22 (1,00-1,49)
Placebo (n=5.429)
199
59
153
118
14
85
Rischio relativo
0,91 (0,75-1,15)
0,94 (0,54-1,63)
0,89 (0,63-1,26)
1,39 (0,97-1,99)
1,13 (0,38-3,36)
1,39 (0,91-2,12)
748
1,12 (0,97-1,30)
* CEE=Estrogeni coniugati equini; MPA=Medrossiprogesterone acetato
22
Modificato da: WHI, JAMA 2002 e JAMA 2004
RISK MANAGEMENT
Tabella 4
N
O
G
Effetto dell’HRT in base alla fascia d’età alla randomizzazione
Terapia CEE
50-59 anni
CEE (n=1.637)
21
Coronaropatia
* 0,63
34
18
21
Stroke
* 0,89
34
Mortalità totale
Placebo (n=1.673) * HR
* 0,71
48
114
Indice globale
* 0,82
140
0
50
100
150
200
250
60-69 anni
300
350
CEE (n=2.387)
96
106
Coronaropatia
* 0,94
84
Stroke
Placebo (n=2.465) * HR
* 1,62
54
129
131
Mortalità totale
* 1,02
333
342
Indice globale
0
50
100
150
200
250
70-79 anni
300
CEE (n=1.286)
84
Coronaropatia
66
* 1,21
48
134
Mortalità totale
* 1,20
95
300
Indice globale
* 1,16
266
0
Placebo (n=1.291) * HR
* 1,13
54
Stroke
* 1,01
350
50
100
150
200
250
300
350
Terapia combinata CEE+MPA
50-59 anni
CEE+MPA (n=2.839)
38
27
Coronaropatia
Stroke
* 1,29
26
16
* 1,41
35
Mortalità totale
* 0,69
47
164
Indice globale
* 1,10
138
0
50
100
150
200
60-69 anni
250
300
CEE+MPA (n=3.853)
78
72
Coronaropatia
400
Placebo (n=3.657) * HR
* 1,37
48
111
94
Mortalità totale
350
* 1,03
72
Stroke
Placebo (n=2.683) * HR
* 1,09
384
Indice globale
319
0
50
100
150
200
70-79 anni
250
300
CEE+MPA (n=1.814)
79
Coronaropatia
61
103
95
* 1,06
306
Indice globale
266
0
50
Placebo (n=1.762) * HR
* 1,21
48
Mortalità totale
* 1,11
400
* 1,48
54
Stroke
350
100
150
200
250
300
* 1,13
350
400
CEE=Estrogeni coniugati equini; HR=Hazard ratio.
Indice globale=Indice di rischio per la somma delle patologie osservate, che sono: patologie coronariche, infarto, embolia polmonare,
carcinoma della mammella, carcinoma del colon-retto, carcinoma dell’endometrio, fratture del femore e altre cause.
23
RISK MANAGEMENT
N
O
G
Rischio relativo
e rischio assoluto
Le conclusioni generali di questi
trial hanno chiarito soprattutto il
fatto che l’HRT in menopausa non
è un’opzione terapeutica da intraprendere in funzione di una prevenzione primaria del rischio cardiovascolare. Infatti, il rischio relativo di presentare un evento cardiovascolare (sia arterioso che venoso) era aumentato del 29%
(24% nel successivo lavoro definitivo di Manson)34 nelle pazienti in
terapia ormonale combinata rispetto al gruppo placebo36. Questo dato in termini di rischio assoluto indica che mentre nel gruppo in trattamento si verificano 37 casi su
10.000 donne/anno, nel gruppo
placebo se ne osservano 30, con
un aumento di 7 casi su 10.000
donne/anno di eventi cardiovascolari. I risultati dello studio WHI che
esaminava gli effetti della sola terapia estrogenica, riportavano un
HR di 0,91 considerando complessivamente gli eventi coronarici (tabella 3). Gli ampi trial osservazionali precedenti avevano evidentemente sovrastimato gli effetti benefici della terapia ormonale, ma
allo stesso tempo i dati degli studi
clinici randomizzati non dovrebbero essere generalizzati a popolazioni differenti da quelle studiate.
Un fattore critico:
la fascia d’età
24
La discordanza fra i diversi trial
può essere imputata a diversi fattori, come il momento di inizio
della terapia rispetto all’epoca di
inizio menopausa e l’età delle pazienti, anche in relazione alle condizioni cardiocircolatorie. Alcuni
ricercatori hanno infatti ipotizzato che gli estrogeni potrebbero
svolgere una funzione positiva ritardando l’inizio degli stadi precoci dell’arteriosclerosi, mentre risulterebbero inefficaci o addirittura in grado di innescare eventi
avversi in donne anziane con
preesistenti lesioni vascolari. In effetti, una recente rilettura dei dati WHI37 suggerisce che l’effetto
degli ormoni sull’apparato cardiovascolare si modifica in base all’età e al tempo dall’inizio della
menopausa: le donne a maggior
rischio di eventi avversi coronarici in conseguenza della HRT sono quelle con più di 60 anni e che
iniziano la terapia a distanza di
10 o più anni dalla menopausa,
mentre nelle donne fra i 50-60
anni o in menopausa da meno di
10 anni, esso tende a essere ridotto, anche se non in modo significativo (tabella 4). Al momento attuale, non sono disponibili
dati relativi alla fascia di età tra i
50-55 anni.
Complessivamente la terapia con
soli CEE è associata a un minor rischio che non la terapia con CEE
in associazione a MPA. È di particolare importanza il fatto che il rischio di stroke associato alla HRT
non è influenzato dall’età, dall’epoca della menopausa e dalla presenza di sintomi, sebbene non si
osservi un incremento significativo del rischio fra i 50 e i 60 anni.
Conclusioni
Le più recenti linee guida internazionali sull’utilizzo della terapia ormonale sostitutiva (NAMS 2008),
offrono una serie di indicazioni cliniche relativamente al rischio di sviluppare eventi cardiovascolari. Per
quel che riguarda le coronaropatie, si è osservata una tendenza a
una riduzione del rischio nelle donne che iniziano l’HRT entro i dieci
anni dall’insorgenza della menopausa, mentre si avrebbe un aumento del rischio nelle donne che
iniziano la terapia una volta superati i 10 anni dalla menopausa. In
particolare, il rischio di infarto del
miocardio non aumenta significativamente nelle donne tra i 50-59
anni che assumono l’HRT. Anche
per quel che riguarda il rischio di
stroke (per il quale negli studi WHI
si è verificato un leggero aumento), l’analisi dei dati per fasce di età
evidenzia che tra i 50 e 59 anni
l’HRT non risulta associata a un aumento significativo del rischio. Infine, sia i dati osservazionali che gli
studi clinici randomizzati hanno
suggerito che l’HRT può determinare un aumento di rischio di eventi tromboembolici venosi (TEV); di
conseguenza, le pazienti con pregressi TEV o portatrici di una mutazione del fattore V di Leiden sono una categoria esposta a un rischio superiore. Per quanto riguarda i dosaggi, le linee guida indicano che l’optimum terapeutico
s’identifica nella dose minima necessaria affinché la terapia abbia
effetto sui sintomi menopausali
(vampate e secchezza vaginale).
• Dosi minime iniziali per estrogeni: 0,3 mg di estrogeni coniugati equini o 0,5 mg di 17-betaestradiolo micronizzato oppure
un dosaggio transdermico di 17beta-estradiolo variabile dai
0,014 mg ai 0,025 mg.
• Dosi minime iniziali per progestinici: generalmente, 1,5 mg di
medrossi-progesterone-acetato
o 0,5 mg di drospirenone oppure 50-100 mg di progesterone
micronizzato.
In conclusione, l’HRT non è indicata come prevenzione primaria
di eventi cardiovascolari in donne
RISK MANAGEMENT
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years since menopause. JAMA 2007; 297,
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25
VULVOLOGIA
N
O
G
V
ulvodinia:
tra mito e realtà
Una sindrome dolorosa fonte di importante sofferenza e disagio esistenziale
per le donne che ne sono affette e motivo di difficoltà diagnostico-terapeutiche
per la maggior parte dei ginecologi: un’entità dai contorni sfumati e controversi
ancora troppo spesso misconosciuta alla quale è necessario dare una chiara
definizione e identità.
di Leonardo Micheletti
Dipartimento di Discipline Ginecologiche e Ostetriche, Università degli Studi - Torino
L’
26
esistenza di una sindrome
dolorosa vulvare senza riscontro di segni clinici visibili venne descritta per la prima volta
nella letteratura ginecologica da
Thomas nel 1880 come forma di
“eccessiva sensibilità delle fibre
nervose deputate all’innervazione della mucosa di alcune aree
vulvari; talvolta… confinata al
vestibolo… talora ad un piccolo
labbro”1. Una situazione simile
fu descritta da Skene nel 18882
ed una ulteriore volta da Kelly
nel 19283. Nei successivi 50 anni, nella letteratura ginecologica, il problema “dolore vulvare
non associato a lesione clinica
visibile” non venne più menzionato.
Questo lungo periodo di silenzio
della comunità medica e scientifica è verosimilmente responsabile del fatto che a tutt’oggi
la vulvodinia venga ancora vista
più come un mito e non una realtà. Sarà solo nel 1970, con la
fondazione della International
Society for the Study of Vulvovaginal Disease (ISSVD), che questo problema clinico verrà riaffrontato, non senza contrasti e
accese discussioni.
La ISSVD, nel 1983, al posto della dizione vulvar burning syndrome, adotterà il termine vulvodinia per indicare un “disturbo vulvare cronico prevalentemente caratterizzato da bruciore e talvolta da sensazione di puntura, irritazione o escoriazione”4.
Nel 2003 la stessa società ribadirà che vulvodinia è il termine
più corretto e adatto per indicare un “disturbo vulvare, più spesso descritto come dolore urente, che si presenta in assenza di
segni clinici visibili rilevanti o di
una specifica, clinicamente identificabile, alterazione neurologica”5. Viene inoltre riconfermata
la raccomandazione di abbandonare l’uso del termine vestibolite con lo scopo di eliminare
ogni elemento che possa mantenere la convinzione che questa sindrome dolorosa abbia una
patogenesi flogistico/infettiva.
A questo punto è utile fornire alcune precisazioni neurofisiologiche e terminologiche indispensabili per meglio conoscere e di
conseguenza trattare, il “problema dolore”.
Il dolore come
malattia
Il termine dolore indica una sensazione soggettiva che ogni individuo ha imparato a utilizzare
per definire eventi in qualche
modo correlati a un danno fisico. In tal senso il dolore è un sintomo che può essere generato
da malattie tra loro anche molto differenti. Tuttavia in alcune
situazioni il dolore, da sintomo,
può divenire malattia vera e propria attraverso il permanere del
VULVOLOGIA
ricordo e dell’emozione, anche
dopo la scomparsa della causa
iniziale. Questo nuovo approccio al dolore come malattia ha
richiesto una rivisitazione terminologico-classificativa che ha indotto la IASP (International Association for the Study of Pain)
nel 1986 a definire “il dolore come un’esperienza sensoriale ed
emozionale spiacevole associata a danno tissutale, in atto o
potenziale, o descritta in termini di danno”. Pertanto, il dolore
esiste non solo come semplice
risposta a una stimolazione recettoriale, ma in quanto esiste
un’entità anatomo-funzionale
complessa (sistemi recettoriali
periferici, fibre e vie nervose polisinaptiche di trasmissione e centri encefalici superiori) deputata
all’analisi dei fenomeni potenzialmente dolorosi, esteriori e interiori, in grado di integrarli in
una elaborazione peculiare per
quel determinato individuo in
quel determinato momento o
periodo della sua vita.
Il dolore va inizialmente distinto
in acuto e cronico. Questa differenza non è stabilita solo da un
dato temporale, ma è collegata
alla capacità o meno da parte
dell’organismo di riportare alla
norma le afferenze sensoriali e
gli eventi scatenanti a livello centrale. Mentre il dolore acuto è
prevalentemente il sintomo di un
evento o malattia specifica, e
quindi viene considerato un “dolore fisiologico”, cioè inteso
alla difesa e alla sopravvivenza, è il dolore cronico che può diventare malattia vera
e propria, e viene
quindi considerato un
“dolore patologico”,
ossia non finalizzato alla conservazione.
Fattori
eziopatogenetici
L’eziopatogenesi della vulvodinia è
a tutt’oggi sconosciuta: nel corso
degli anni è stata chiamata in causa una vasta gamma di fattori, molti dei quali desunti da osservazioni
su singoli o pochi casi. I motivi principali che rendono difficile studiare questa sindrome sono le controverse definizioni ancora esistenti
che portano a metodologie diagnostiche e terapeutiche spesso contraddittorie, la mancanza di marker tipici della malattia e
quella di un modello animale. Tutto ciò è conseguenza della complessità patogenetica della vulvodinia, che va vista come uno “scenario clinico” su cui sono presenti “attori principali” insieme ad “attori secondari o comparse” e “innocenti astanti o spettatori”. In quest’ultimo
gruppo oggi si possono mettere
le infezioni (è ormai accertato che
la vulvodinia non è causata da una
infezione attiva e non è una malattia sessualmente trasmessa), i
fattori dietetici, le alterazioni del
sistema immunitario e le diatesi
allergiche.
Nel gruppo degli “attori secondari o comparse” si possono includere le accertate infezioni recidivanti
da candida (influirebbero alterando la percezione sensoriale locale
e centrale disturbando il complesso sistema della sessualità femminile intesa come equilibrio tra psiche e sistema genitale), i fattori iatrogeni (medicamenti topici, distruzioni chimiche o fisiche della mucosa vestibolare, danni traumatici
e chirurgici ai nervi genitali) e le situazioni di aumentato tono muscolare del pavimento pelvico.
Fra gli “attori principali” patogenetici oggi si può annoverare una
certa predisposizione genetica sotto forma di alterata regolazione dei
normali meccanismi biochimici di
controllo dell’infiammazione neurogenica; un fattore ormonale basato sull’osservazione di una aumentata sensibilità dolorifica vestibolare in fase premestruale, che si
inquadrerebbe in una visione più
ampia sul ruolo svolto dalle variazioni degli ormoni sessuali sia sulla sensibilità periferica che cortica-
N
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G
L’eziopatogenesi
della vulvodinia
è ancora
sconosciuta
le (si cita ad esempio il ruolo del
progesterone ed estrogeni nelle sindromi depressive puerperali e nei
disturbi premestruali dell’umore);
infine fattori psicologici, correlati
anche all’aspetto sessuologico.
Poiché nella patogenesi psicologica della vulvodinia si inserisce an-
27
VULVOLOGIA
N
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che lo stress, si ritiene utile accennare a come l’attivazione emozionale, che caratterizza le condizioni
di stress, induca modificazioni somatiche periferiche particolarmente complesse. Infatti, la rete di connessioni neuronali fra sistema limbico, strutture mesencefaliche e nuclei ipotalamici è responsabile dell’attivazione selettiva, in seguito a
specifiche condizioni emozionali,
del sistema endocrino e del sistema nervoso centrale e periferico.
Somatizzazione
vulvare
Il termine somatizzazione identifica genericamente un processo neurofisiologico che porta allo sviluppo di disturbi che riguardano il funzionamento di un organo, apparato o sistema corporeo, o alla percezione anormale
di essi, non sostenuta da alcun
substrato anatomico. La somatizzazione viene pertanto considerata un disturbo funzionale,
in assenza di malattie organiche
presenti. Attualmente, questo
termine viene utilizzato per in-
L’approccio
diagnostico deve
essere
multidisciplinare
28
dicare la tendenza di un soggetto a esprimere e a comunicare
disagi psicologici attraverso sintomi somatici.
La somatizzazione è il risultato
di un’influenza reciproca tra
meccanismi psicologici e neurofisiologici. Il processo di somatizzazione porta a esprimere sintomi psicosomatici responsabili
di disturbi somatoformi; la loro
caratteristica è la presenza di sintomi fisici che fanno pensare a
una condizione medica generale, da cui il termine somatoforme. In realtà non sono giustificati da una reale condizione medica generale o da effetti diretti di una sostanza o da un altro
disturbo mentale.
La patogenesi dei disturbi somatoformi a carico del tratto genitale femminile, con predominante alterazione sensoriale, può essere dovuta a numerosi meccanismi in grado di influenzare la
rappresentazione e l’esperienza
del dolore e del disturbo a livello centrale. Tra questi vengono
riportati: ipereccitabilità nei confronti dei segnali provenienti dal
tratto genitale con amplificazione; aumento dell’attenzione e
attivazione secondaria periferica; riattivazione, da parte dello
stimolo periferico, dei meccanismi affettivi e vegetativi archiviati nella funzione mnesica, tanto da portare
a una percezione e interpretazione centrale
distorta; collateralmente si assiste a un’attivazione delle fibre simpatiche che inducono
risposte paracrine con
secrezione, da parte
dei nocicettori stimolati, di sostanze algogene come l’istamina, la
bradichinina ecc.
La vulva, nell’ambito dell’apparato genitale, può diventare un
facile bersaglio di somatizzazione, non solo per la ricca compo-
nente di recettori sensoriali e di
connessioni con il SNC, ma anche per il suo ruolo identitario e
simbolico. La vulva ha una funzione importante nella comunicazione intima e nella percezione del piacere; è un luogo di piacere e quindi anche di facile dolore, in tutte le età della donna
e, a seconda della relazione intima in corso, un luogo in stretto rapporto con la propria vita
psichica, con le proprie rappresentazioni e modelli sessuali.
Questo è il motivo per cui la vulvodinia non si trova solo nelle
donne di una certa età, depresse e/o ipocondriache, ma anche
tra le giovani non depresse nelle quali la personalità può essere organizzata intorno a un modello socio-psico-cognitivo alterato che è il risultato di informazioni e pregiudizi distorti sulla
sessualità (una eccessiva idealizzazione o banalizzazione della
sessualità può portare a cattivo
funzionamento dell’organo vulva che, cronicizzandosi, può portare alla vulvodinia), o vere e proprie situazioni psicologiche patologiche (depressione, isteria,
ipocondria, alexitimia).
Iter diagnostico
L’approccio diagnostico a una sindrome così complessa e strettamente correlata all’habitus psicologico-esistenziale del soggetto richiede una competenza specifica
multidisciplinare che oggi può essere fornita dalla vulvologia6, ovvero da una recente disciplina che
raccoglie e integra le varie conoscenze di tipo anatomofisiologico, dermatologico, neurologico,
psicologico, infettivologico, oncologico e istopatologico per fornire al medico strumenti diagnosti-
VULVOLOGIA
co-terapeutici adeguati e specifici nella gestione della numerosa
e variegata patologia riscontrabile in sede vulvare7. La vulvodinia
è solo una di queste patologie,
ma rappresenta l’esempio più evidente di quanto sia utile avere una
adeguata conoscenza vulvologica per orientarsi correttamente.
Nell’iter diagnostico il primo passo è rappresentato dall’imparare
l’importanza che ha una buona
capacità di ascolto e di comunicazione per riuscire a ottenere sufficienti informazioni sullo stile di
vita, sulla personalità psicologica
e sulle caratteristiche relazionali,
per meglio definire gli aspetti psicodinamici della sintomatologia
riferita. Risulta utile conoscere il
motivo dell’invio della paziente da
parte di altri medici o dell’eventuale richiesta autonoma di consultazione. È quindi importante
accertare se la paziente ha timore di essere affetta da una neoplasia, da una grave infezione sessualmente trasmessa, da una ma-
Tabella 1
lattia che nessun medico riesce a
definire e trattare e, infine, ottenere le principali informazioni relative alla sessualità (una corretta
anamnesi sessuale orienterà sul
progetto terapeutico), non trascurando aspetti famigliari, relazionali e sociali.
relazioni patologiche inesistenti7. Giova ricordare, a questo proposito, che le aree eritematose
spesso osservabili alle ore 5 e 7
del vestibolo sono un riscontro
frequente anche in donne asintomatiche e pertanto prive di significato patologico.
Quadro clinico
Esame obiettivo
È caratterizzato da dolore con
differenti sfumature che vanno
dal senso di puntura al bruciore, di varia intensità. Esso può
essere localizzato all’intera vulva o a porzioni di essa e può essere spontaneo o provocato da
stimoli esterni di varia natura (tabella 1).
La sintomatologia è caratteristicamente associata a un quadro
obiettivo normale, di qui l’importanza di avere conoscenze vulvologiche di base per essere in
grado di riconoscere varianti fisiologiche (per esempio, le papille vestibolari) ed evitare cor-
Prevede la capacità di una consapevole ispezione a occhio nudo
dell’intera vulva. L’ispezione colposcopica con applicazione di acido acetico, ancora utilizzata ed
erroneamente definita “vulvoscopia”, è una tecnica inadeguata e
spesso fuorviante nell’approccio
ai disturbi vulvari in genere8 e specificatamente in presenza di vulvodinia. L’ispezione a occhio nudo valuterà innanzitutto l’adiposità del distretto vulvoperineale,
la disposizione e quantità dei peli, la morfologia delle grandi e piccole labbra, la presenza di varicosità e le condizioni igieniche. Seguirà la valutazione dello stato di
idratazione, dell’assottigliamento, dell’ispessimento di cute e/o
mucosa, l’eventuale presenza di
fissurazioni, di lesioni da grattamento e di lesioni dermatologiche elementari. Questa osservazione ha lo scopo di escludere un
dolore vulvare sostenuto da una
patologia specifica (una dermatosi quale il lichen sclerosus, un
ulcera da HSV-2 o da lesione
neoplastica ecc.) e pertanto da
non interpretare come vulvodinia. All’ispezione segue il test
pressorio che consiste nel valutare la presenza e la distribuzione topografica del dolore evocato alla semplice pressione con
bastoncino cotonato. Questo
test va condotto esercitando una
pressione lieve e costante dap-
Vulvodinia: terminologia e classificazione
ISSVD 2003
Generalizzata
• Provocata
• Spontanea
• Mista
Localizzata (vestibolodinia, clitoridodinia, altro)
• Provocata
• Spontanea
• Mista
Generalizzata - Coinvolgimento dell’intera vulva.
Localizzata - Coinvolgimento di una porzione vulvare, quale il vestibolo
(vestibolodinia) o il clitoride (clitoridodinia).
Provocata - Il sintomo è scatenato da un contatto fisico (sessuale
o non sessuale, quale inserzione di tamponi, toccamento, frizioni ecc.).
Spontanea - Il sintomo compare in assenza di stimoli fisici scatenanti.
Moyal-Barracco M et al, J Reprod Med 2004
N
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VULVOLOGIA
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Figura 1 Test pressorio con cotton: mediante
lieve pressione con bastoncino
cotonato si valuta il tipo
di sensazione provocata.
30
prima a livello delle grandi labbra, per poi passare alle piccole labbra, faccia esterna e interna, alla regione periclitoridea, al solco labioimenale e, infine, all’area periuretrale; è soprattutto alle ore 5 e 7 del vestibolo che viene evocato un
forte dolore, la cui intensità può
essere misurata con una Scala
Visuale Analogica (VAS) il cui
punteggio varia da 0 a 10 ed
attraverso la quale il soggetto
può dare una più precisa definizione del dolore percepito (figura 1). L’esame obiettivo termina con l’introduzione delicata di uno speculum, che ha lo
scopo preciso di valutare la fattibilità di tale manovra e l’entità del dolore introitale provocato, di evidenziare una eventuale leucorrea, possibile fonte
di infiammazione, e, infine, di
rilevare la comparsa di fissurazioni secondarie all’uso dello
speculum. La presenza di fissu-
razioni e la loro
distribuzione topografica (fossa
navicolare, forchetta, pareti laterali del vestibolo) forniscono
indicazioni utili
sulla concomitante presenza
di ridotta ampiezza dell’introito vaginale e
sulla fragilità costituzionale della mucosa vestibolare, situazioni che potrebbero trovare giovamento da un
trattamento chirurgico.
Approfondimenti
diagnostici
In casi particolari possono rendersi necessari accertamenti radiologici (TC e RM), volti a escludere
patologie osteoarticolari compressive o patologie neurologiche degenerative. Lo studio elettromiografico del pavimento pelvico viene ritenuto da alcuni autori momento diagnostico utile nell’evidenziare eventuali variazioni del
tono muscolare e della trasmissione nervosa a livello del nervo pudendo.
Trattamento:
quali approcci
I numerosi e più disparati presidi
terapeutici reperibili in letteratura (tabelle 2 e 3), sono la dimostrazione della confusione terminologico-classificativa ed eziopatogenetica riguardante il “dolore
vulvare non associato a chiara lesione visibile” che ha generato
trattamenti derivati da esperienze fondate su convinzioni talora
preconcette di singoli medici.
Il punto di vista riduttivo di una
medicina eccessivamente organicistica, fondata solo sul paradigma di linearità causa-effetto, piuttosto che su quello della complessità, ha portato molti medici alla
convinzione che “se realmente
esiste il dolore vulvare senza causa visibile” esso è dovuto a un processo infiammatorio/infettivo.
Oggi si può affermare che l’ipotesi patogenetica infiammatoria/infettiva ha perso importanza. Le raccomandazioni terminologiche dell’ISSVD5 incominciano
a essere recepite e accettate a diversi livelli, per cui il termine “vulvodinia” viene sempre più utilizzato in sostituzione degli altri e,
soprattutto, di “vestibolite”9,10.
Attualmente, l’ipotesi patogenetica più accreditata e che riveste
importanti implicazioni terapeutiche è quella che considera la
vulvodinia un disturbo somatoforme11,12. È questa una visione
non riduttiva alla sola dimensione psicologica, ma che riconosce
eguale importanza tra “soma” e
“psiche”: un evento genitale doloroso (una vulvovaginite micotica recidivante, un’infezione urinaria cronica, una violenza o un
trauma ecc.) può innescare una
risposta condizionata negativa tipo-evitamento che, se associata
a fattori predisponenti psichici
(tratto depressivo, ipocondriaco,
condizionamenti culturali-famigliari-sociali ecc.), innesca a sua
volta un “circolo vizioso del dolore” che porta all’instaurarsi della vulvodinia.
Ecco perché gli esperti di questo
argomento ritengono che l’ap-
VULVOLOGIA
proccio terapeutico debba essere multimodale (tabella 4).
Fase comportamentaleesplicativa
È il primo momento della terapia, nel corso del quale il
medico deve dimostrare consapevolezza dell’esistenza e
della complessità della sindrome vulvodinica, nonché del
proprio ruolo di sostegno psicologico e di strumento terapeutico.
La componente “esplicativa”
consiste nella spiegazione dei
meccanismi fisiopatologici della sindrome, delle interazioni
psicosomatiche e somatopsichiche, dell’utilità di un trattamento neuro-psicofarmacologico o di un’eventuale consulenza psicosessuologica.
Fase farmacologica
Tabella 2
In letteratura: terapia medica della vulvodinia
Farmaci topici
Antibiotici
Antimicotici
Antierpetici
Imiquimod
Interferone
Corticosteroidi
Estrogeni
Progesterone
Anestetici
Lubrificanti
5-fluorouracile
Acido ditricloroacetico
Capsaicina
Citochine da lisati
di cellule fetali
Farmaci intralesionali
Anestetici
Interferoni
Cortisonici
Botulino
N
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Farmaci orali
Antimicotici
Antierpetici
Citrato di calcio
Antidepressivi
• Triciclici
• SSRI
• SNRI
Anticonvulsivanti
• Gabapentin
• Pregabalin
• Carbamazepina
• Topiramato
Isotretinoina
Dapsone
Altri presidi
Ipnosi
Yoga
Meditazione
Training autogeno
Dietoterapia
Haefner HK et al, J Low Genit Tract Dis 2005
Consiste nell’impiego di neuro-farmaci capaci di modulare sia la trasmissione nocicettiva periferica che
la funzione dei centri nervosi cerebro-corticali. Questi farmaci appartengono alla classe degli antidepressivi (soprattutto triciclici, a cui
seguono gli SSRI o inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, e gli SNRI o inibitori della ricaptazione della serotonina e noradrenalina) e degli anticonvulsivanti (gabapentin, pregabalin, carbamazepina); per una più particolareggiata trattazione si rimanda
alle voci bibliografiche 7 e 9.
Fase psicosessuologica
Si avvale di tecniche basate sulle
teorie cognitivo-comportamentali,
sistemico-relazionali e sessuologiche. L’approccio cognitivo-compor-
tamentale tenderebbe a decondizionare il sintomo, attraverso un
apprendimento di comportamenti corretti in grado di modificare lo
stile di vita (abbigliamento, abitudini sessuali, uso di farmaci, aspetti emotivi). L’approccio sistemicorelazionale mette in primo piano
gli aspetti dell’intimità emotiva della relazione e le sue difficoltà (a volte la vulvodinia può essere segno
di un disagio nella relazione di coppia o di un disagio famigliare). L’approccio sessuologico tiene conto
soprattutto che la vulva è un organo di comunicazione sessuale e
contribuisce a formare lo schema
corporeo femminile.
Essendo la vulvodinia una situazione con aspetti di complessità
lo psicoterapeuta dovrebbe, di vol-
ta in volta, adattarsi alla paziente
piuttosto che obbligare la paziente ad adattarsi alla impostazione
del terapeuta. Non si tratta di
eclettismo, quanto piuttosto di
avere nozioni in varie branche della psicoterapia e della ginecologia in modo tale da poter conformare il proprio intervento ai bisogni reali della paziente.
Non è possibile quindi tracciare uno
schema di psicoterapia che possa
essere valido per ogni donna: una
vulvodinica è anche la propria storia, che se ascoltata e compresa,
contiene anche gli elementi che
condurranno alla soluzione del problema. La prima regola del medico psicosomatico è l’ascolto attento per evitare che la paziente si senta trascurata e incompresa. La se-
31
VULVOLOGIA
N
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G
conda abilità è l’invio corretto,
quando necessario, allo psichiatra,
allo psicanalista, al ginecologo per
trattamenti medico-chirurgici.
L’integrazione tra i diversi approcci è quella che promette migliori
possibilità di guarigione. È difficile
che in uno stesso medico coesistano competenze psicoterapeutiche
e vulvologiche tali da permettere
la cura integrata di queste pazienti, per cui si ritiene che il problema
della vulvodinia vada affrontato all’interno di un team interdisciplinare e interattivo, in cui soprattutto il
vulvologo e lo psicoterapeuta siano in stretto contatto e si scambino frequenti opinioni sui casi in trattamento.
L’integrazione delle competenze
porterà a una visione articolata del
problema nel senso che il concetto di “vulva normale” non è di facile definizione, come del resto non
è semplice porre in correlazione
eventi traumatici della paziente con
il sintomo attuale. La difficoltà prin-
Tabella 3
cipale per lo psicoterapeuta è di
escludere diagnosi psichiatriche: a
tale scopo è utile che sia affiancato da uno psichiatra esperto in psicodiagnosi.
Fase fisico
chirurgica
Prevede l’esecuzione di esercizi erogati personalmente o assistiti da fisioterapisti con lo scopo di modificare atteggiamenti posturali anomali, l’utilizzo di trattamenti decontratturanti con biofeedback vaginale e/o perineale, di elettrostimolazione antalgica (TENS) e di agopuntura. La chirurgia deve essere
considerata come ultima ed estrema scelta e solo in casi ben selezionati in cui vi sia una chiara presenza di alterazioni anatomiche, e consiste in genere in una vestibolectomia totale o settoriale, o in una vulvoperineoplastica.
Vanno infine menzionati altri presidi terapeutici quali le varie tecni-
In letteratura: terapia fisica e chirurgica
della vulvodinia
Terapia fisica
• Biofeedback
• Agopuntura
• Neurostimolazione antalgica (TENS)
• Fisioterapia posturale
Terapia chirurgica
• Distruttiva
- Diatermocoagulazione
- Criocoagulazione
- Laser CO2
- Laser Argon
• Escissionale
- Vestibolectomia totale o settoriale
- Vulvoperineoplastica
32
Haefner HK et al, J Low Genit Tract Dis 2005
che di training autogeno, le tecniche di meditazione, lo yoga e l’ipnosi, che, insieme a quelli fisici appena descritti, non sono dannosi e
possono contribuire a migliorare lo
stato di profondo malessere ed isolamento che questi soggetti possono sviluppare.
Conclusioni
e prospettive
Riassumendo quanto presentato, si può affermare che la vulvodinia non deve più essere considerata un mito, ma una realtà
clinica della cui esistenza deve
prendere atto e conoscenza ogni
specialista in ginecologia e ostetricia. Ciò è stato chiaramente affermato nel 2006 dall’ACOG
(American College of Obstetricians and Gynecologists) attraverso il Committee Opinion on
Gynecologic Practice che inizia
affermando: «Vulvodynia is a
complex disorder that can be difficult to treat. This Committee
Opinion provides an introduction
to the diagnosis and treatment
of vulvodynia for the generalist
obstetrician-gynecologits»13. La
giusta attenzione clinica che questo complesso disturbo ha ricevuto negli ultimi anni5,9,10,13 ha portato a riconoscere e affermare
che, fra tutti i termini reperibili in
letteratura, “vulvodinia” è il più
adatto e corretto e che deve essere utilizzato non per indicare un
sintomo, ovvero il dolore vulvare
sic et simpliciter, ma una partico-
VULVOLOGIA
lare situazione di “dolore vulvare
cronico non associato a lesione
clinica visibile”.
La vulvodinia va intesa come forma di allodinia vulvare, in cui il
dolore cronico va interpretato
come epifenomeno di situazioni complesse in cui interagiscono prevalentemente elementi
neurosensoriali periferici e centrali, connessi ad aspetti psicosessuologici e socio-esistenziali
peculiari di quella specifica donna. Sulla “scena clinica” di questa sindrome eventuali fattori infettivi o flogistici, anche se preesistenti o concomitanti, vanno
interpretati come “comparse o
innocenti spettatori” piuttosto
che “attori principali”.
Le prospettive future di ricerca e
di gestione della vulvodinia si basano su quanto appena riportato, unitamente alla consapevolezza che ulteriori studi neuropsicoendocrinologici, neurobiologici, genetici, epidemiologici
e socio antropologici sono ne-
cessari e potranno fornire maggiori conoscenze, che si tradurranno in un migliore approccio
Tabella 4
clinico alle donne affette da vulvodinia, evitando trattamenti
inutili o iatrogeni.
N
O
G
Approccio terapeutico multimodale
alla vulvodinia
Comportamentale ed esplicativo
Neurofarmacologico
• Antidepressivi
• Anticonvulsivanti
Psicosessuologico
Fisico-chirurgico
• Biofeedback
• TENS
• Agopuntura
• Fisioterapia
• Vestibolectomia
• Vulvoperineoplastica
Di altro tipo
• Training autogeno
• Meditazione
• Yoga
• Ipnosi
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N
O
G
S
cienza e società
di Luciano Sterpellone - Roma
Quando la balia è egizia
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Nell’Egitto dei faraoni la pratica del baliatico era molto diffusa. Le donne nobili in genere non allattavano personalmente
i propri figli, e quelle che appartenevano alla famiglia reale sceglievano le balie tra le donne che vivevano negli harem degli
alti ufficiali del Palazzo; queste raggiungevano non di rado gradi sociali elevati, e ricevevano l’appellativo di “sorelle del re”.
La balia di Akhenaton ricevette il titolo di “Grande Nutrice”
perché aveva “nutrito il dio” (cioè il faraone Amenofis III). Nelle rappresentazioni egizie la nutrice viene talora raffigurata come la dea Hator in sembianze
Anche le uova hanno un sesso
umane ma con la testa di mucca.
Una volta scelta la balia adatta, il
bambino veniva posto nel suo
Ai tempi dell’Impero romano, nulla conoscendosi circa i meccagrembo con il viso rivolto verso
nismi della riproduzione, si credeva che le uova di forma oblunnord, mentre la balia guardava ad
ga contenessero il “tuorlo maschio” e una chiara più bianca di
est. Dopo aver spremuto un po’
quelle rotonde, “femmina”.
di latte, ella lavava la mammella
Credenze più o meno del genere ebbero vita molto
e la “consacrava” con il seguenlunga. In un libro appartenente a una famiglia vete incantesimo: “O tu bella donronese del Trecento si legge testualmente che
zella, aiuta la secrezione di latte
“le uova di gallina ristorano rapidamente,
nelle tue mammelle, sì da accreconfortano, moltiplicano il seme, rinvigoriscere le forze del bambino. O tu
scono l’amplesso”. E due secoli dopo il
dal bel viso, possa il bambino creTassoni scriverà ne La secchia rapita che
dopo una notte d’amore con Venere trascere col tuo latte, avere una lunscorsa in una locanda, “per tirarsi su Marga vita come gli dèi sono resi imte bevve un centinaio (sic) di uova del
mortali dal bere nettare”.
pollaio dell’oste”.
Indi il bambino veniva attaccato
Successivamente le uova vennero consialla mammella destra. Si credeva
derate ideali per la donna nel periodo
inoltre che se la balia (o la madre)
immediatamente successivo al parto e per
non avesse scartato un po’ di latla convalescenza dei malati. E i medici più
te prima della poppata, il bambipreparati sostenevano che la maggiore efno avrebbe avuto tosse, difficolficacia era posseduta dall’uovo poco cotto,
tà del respiro o vomito: per queche in tal modo conservava “le sue virtù”.
sta ragione egli non doveva mai
bere il primo latte.
Meno vergini del previsto
Partorire
a Siena
Nella Siena del XVIII secolo, come in ogni altra parte d’Europa,
il solo conforto per le partorienti, specie tra la gente comune,
erano le levatrici, la cui unica
“scuola” era la ripetizione di gesti tramandati dall’esperienza
delle levatrici più anziane. Quando si trovavano dinanzi a situazioni insolite, esse cercavano in
ogni modo di accelerare il parto
ricorrendo a manipolazioni di vario genere, spesso traumatizzanti per il feto ma talora risolutive;
in realtà, avevano acquisito una
certa pratica nel ruotare il feto
che non si presentava di testa o
che aveva il cordone ombelicale
pericolosamente arrotolato al
collo.
In quell’epoca divennero però
sempre più frequenti (anche se
disattesi) i provvedimenti delle
Autorità sanitarie per limitare
drasticamente l’attività delle
ostetriche, variamente definite
“temerarie”, “responsabili di disordini e barbarie”, addirittura
“idiote, zotiche, prive di genio e
di gusto per lo studio”. Un documento senese dell’epoca auspica che il parto venga ”sottratto alle semplici donne dell’ultima plebe che per la loro sciocchezza operano sotto l’influsso
di mille superstizioni”.
Capelli, unghie, parti del corpo, soprattutto ossa. Nell’Alto Medioevo il desiderio di possedere una reliquia di
santi o martiri - che in un primo tempo era apparso come segno di pia devozione - assunse ben presto le dimensioni di una vera e propria manìa che contagiò ogni
classe sociale, presto degenerando nella contraffazione
e nella truffa. Molti scheletri furono smembrati, i capelli di un’unica ciocca presero uno per uno strade diverse,
di un solo osso si fecero più frammenti. Spesso queste
“reliquie” provenivano da gente comune che nulla aveva avuto a che fare con i santi: tant’è che oggi qualcuno di questi “santi” conta un numero straordinariamente insolito di femori o di mandibole…
Talvolta bastò trovare una reliquia (autentica o meno) a
che in quel luogo sorgesse una cappella o una cattedrale. Un esempio è la chiesa di S. Orsola a Colonia, costruita proprio in seguito al ritrovamento in quel luogo di un
ossario attribuito ai resti di undicimila vergini cristiane
trucidate nell’anno 453. Tuttavia, i moderni studi di paleopatologia hanno enormemente ridotto il numero di
quelle vergini, portandolo miseramente a undici. Come
si sa, infatti, in latino il numero
11 è XI. Ma se sopra v’è
_
una barretta orizzontale (XI) il numero viene automaticamente moltiplicato per mille. Forse un casuale segno
o un graffio sopra l’XI accese a suo tempo un po’ troppo la fantasia popolare…
Un caffè per ricordo
Anche il famoso medico inglese William Harvey, cui si deve
nel 1628 la scoperta della circolazione del sangue, era un
grande entusiasta del caffè, da non molto tempo importato in Europa dal Nuovo Mondo: lo aveva “scoperto” durante un viaggio a Venezia, e ne era rimasto talmente entusiasta che, quando tornò a Londra, volle portarsene un intero
sacco.
A quel tempo il caffè costituiva ancora una rarità ed era
molto costoso: tant’è che alla sua morte Harvey lasciò in eredità ai colleghi le 56 libbre che erano
rimaste della sua scorta. Ma più che altro voleva in cuor suo che i colleghi non lo dimenticassero: nel “lascito” notarile precisava
infatti che alla ricorrenza della morte essi
dovessero riunirsi e bere una tazza di caffè in suo ricordo.
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