Martin Heidegger. Il pastore dell`essere

MARTIN HEIDEGGER.
IL PASTORE DELL’ESSERE
(1889-1976)
Copyright © 2014-2015 Stefano Martini
MARTIN HEIDEGGER. IL PASTORE DELL’ESSERE
Esistenzialista o ontologo?
Appare oggi piuttosto datata l’interpretazione, risalente agli
anni Trenta e Quaranta e particolarmente diffusa nella Francia
dei Sartre (1905-1980) e dei Marcel (1889-1973), di
Heidegger come filosofo dell’esistenzialismo. Del grande
filosofo tedesco si conosceva allora soprattutto il capolavoro
del 1927, Essere e tempo (Sein und Zeit), incentrato
sull’analisi dell’esistenza umana – l’«esser-ci» (Da-sein) –,
secondo la celebre espressione heideggeriana. Il problema
ontologico, che pure era già presente, fondamentale,
nell’indagine di Heidegger, veniva trascurato dagli interpreti,
ad esclusivo vantaggio dell’analisi esistenziale.
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Fermo restando l’indubbio contributo dato dalla
filosofia heideggeriana allo sviluppo
dell’esistenzialismo europeo, cui essa fornisce
tematiche, analisi e linguaggio – basti pensare a
temi come quello kierkegaardiano, dell’angoscia,
o ad espressioni come quella dell’«essere-nel-mondo»
(In-der-Welt-sein) –, non si può oggi non tener conto
di quanto lo stesso Heidegger ha affermato fin dalla
celebre Lettera sull’«umanismo» (Brief über den
«Humanismus») del 1947.
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In essa, a mo’ di risposta a L’esistenzialismo è un
umanismo (L’existentialisme est un humanisme, 1946) di
Jean-Paul Sartre, egli negava che Essere e tempo
potesse essere inscritto nell’orizzonte di una antropologia
esistenzialistica e ne rivendicava il significato
primariamente ontologico: non il problema dell’esistenza
dell’uomo, bensì quello prioritario del «senso dell’essere»
stava al centro della domanda filosofica, e se in quello
scritto si parlava solo dell’«esser-ci», ciò era pur sempre in
vista dell’apertura del problema dell’essere in generale.
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La pubblicazione negli anni successivi degli scritti fino
allora inediti degli anni Trenta e Quaranta avrebbe in
effetti confermato l’intento fin dall’inizio ontologico
dell’itinerario heideggeriano, sicché la svolta (Kehre) che
lo stesso Heidegger, in una conferenza tenuta a Roma
nel 1936 su Hölderlin e l’essenza della poesia, annuncia
di aver maturato, più che un capovolgimento è piuttosto,
come è stato detto, uno svolgimento della strada che già
nel 1927 egli aveva intrapreso.
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Hans-Georg Gadamer (1900-2002), il filosofo dell’ermeneutica che a buona ragione
può essere considerato il prosecutore dell’opera di Heidegger, così parla della svolta
del suo antico maestro:
«Questa sua esperienza intellettuale egli la definì la Kehre, non nel senso teologico di una conversione,
ma nell’accezione che gli derivava dal proprio dialetto. La Kehre è la curva della strada che si inerpica
su per la montagna. Qui non è il viandante a girarsi, ma è la strada stessa che si volge nella direzione
opposta, per portare in alto. Verso dove? Nessuno potrà dare una facile risposta a questa domanda.
Non a caso Heidegger ha intitolato Holzwege una delle sue più importanti raccolte di lavori tardivi. Gli
Holzwege sono sentieri che non proseguono e costringono il viandante a salire verso l’inesplorato o a
ritornare sui suoi passi. Ma la vetta rimane».
E la vetta, sebbene nascosta al viandante, è, fuor d’ogni dubbio, l’essere.
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Approfondimento
L’uomo, «l’ente a cui nel suo essere ne va del suo essere stesso», gode di una implicita
comprensione dell’essere dell’ente ed è in base a essa che pone in questione l’essere.
Primo compito di una «ontologia fondamentale» è dunque definire il senso della
domanda ontologica, interrogando l’ente interrogante, cioè l’essere dell’uomo. Tale
analisi preliminare, contenuta nella prima parte (la sola edita) dell’opera Essere e
tempo, è da Heidegger nettamente distinta da antropologia, psicologia e biologia, che
sono scienze «ontiche» dell’uomo, lo considerano cioè come un ente tra gli altri e non
nella sua peculiarità «ontologica» di ente che pone in questione l’essere. L’uomo, come
vedremo, non è un che cosa, ma un chi, una «esistenza» (Existenz): è ciò che Heidegger
definisce Da-sein, scomponendo il termine in «esser-ci», nel senso di «essere aperto» o
di «essere l’apertura».
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Gli anni di formazione e l’incontro con Husserl.
Martin Heidegger nacque il 26
settembre 1889 a Meßkirch, nel
Baden-Württemberg, da famiglia
cattolica di umili condizioni sociali:
il padre Friedrich faceva il
sacrestano del paese e, per
arrotondare le entrate, l’artigiano,
mentre la madre Johanna Kempf
era di origini contadine.
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Egli fu avviato dal padre, che pensava a
una vocazione del figlio, agli studi liceali e
quindi a quelli di teologia cattolica
nell’Università di Friburgo: infatti,
dopo aver frequentato il ginnasio a
Costanza, per un certo periodo fu
nell’istituto dei gesuiti a Feldkirch, per poi
passare alla frequentazione del Collegio
Borromeo di Friburgo.
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Dopo due anni cambiò però facoltà, per dedicarsi
alla filosofia. Decisive furono per lui le letture
giovanili delle Ricerche logiche (Logische
Untersuchungen, 1900-1901) di Edmund
Husserl (1859-1938), della tesi di Franz
Brentano (1838-1917) Del molteplice significato
dell’ente secondo Aristotele (Von der
mannigfachen Bedeutung des Seinden nach
Aristoteles, 1862) e del trattato di Carl Braig
(1852-1923) Dell’essere. Compendio di ontologia.
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Dal 1911 seguì, sempre a Friburgo, i corsi di
filosofia di Heinrich Rickert (1863-1936), e qui si
laureò nel 1913 con la tesi La dottrina del giudizio
nello psicologismo (Die Lehre vom Urteil im
Psychologismus), nella quale mostrava di aderire
ampiamente alle critiche contro la concezione
psicologistica della logica, che si andavano
affermando nella filosofia tedesca di quegli anni
specialmente per voce dell’imperante neokantismo e
dell’incipiente fenomenologia.
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Nel 1915 otteneva la libera docenza con un lavoro su La dottrina
delle categorie e del significato in Duns Scoto (Die Kategorienund Bedeutungslehre des Duns Scotus), presentato da Rickert,
ma largamente influenzato dal pensiero di Emil Lask (1875-1915)
e di Husserl.
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Nell’estate del 1916 Martin frequentò
la giovane studentessa di economia
politica dell’Università di Friburgo
Elfride Petri (1917–1976) di
confessione evangelico-luterana, sua
sposa nell’anno seguente. Forse anche
questa diversità di confessioni contribuì
all’allontanamento di Heidegger dal
cattolicesimo.
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L’incontro filosoficamente decisivo fu senza dubbio
quello con Husserl. Nelle Ricerche logiche di
quest’ultimo, Heidegger si affannò a cercare la soluzione
dei problemi che gli si presentavano dinanzi nel lavoro
filosofico. Ma il confronto con Husserl, a cui era
rimandato anche dall’insoddisfazione nei confronti del
neokantismo di Rickert, anziché risolvere, contribuì ad
acutizzare i problemi e le difficoltà che il giovane
Heidegger incontrava nella comprensione del senso della
fenomenologia e della sua traduzione in un proprio
programma di ricerca.
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Decisivo fu allora il fatto che nell’aprile del
1916 Husserl venne chiamato nell’Università
di Friburgo a succedere a Rickert, anche se
dovette trascorrere qualche tempo prima che
fra Husserl e Heidegger si potesse instaurare
un rapporto. Heidegger era stato infatti
chiamato nel 1915 al servizio militare, e vi
rimase fino alla fine del 1918.
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Soltanto al suo ritorno a Friburgo, essendo
divenuto nel 1919 assistente presso il
Seminario di Filosofia della Università, poté
effettivamente iniziare il rapporto di
collaborazione con Husserl. Questi credette
ben presto di vedere in Heidegger il proprio
migliore collaboratore e intese avviarlo
all’esercizio del metodo fenomenologico.
Husserl era solito ripetere: «La fenomenologia
siamo io e Heidegger e nessun altro».
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Il primo insegnamento di Friburgo (1919-1923).
Seguendo e radicalizzando la dinamica stessa dei
problemi colti da Husserl, Heidegger imboccava la via
verso la maturazione di un proprio pensiero originale.
A dispetto del disinteresse di Husserl per la tradizione
filosofica, egli recuperava a quest’ultima la dimensione
della storia e la declinava in un senso esplicitamente
storico-ontologico.
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Su questa linea si pongono già i primi corsi tenuti da
Heidegger dopo la prima guerra mondiale, nei quali
prorompe un’inconfondibile autonomia di pensiero:
al centro di essi sta il problema della storicità e della
fatticità della vita, che Heidegger tenta di cogliere a
prescindere dalle categorie teoretico-metafisiche
tradizionali, dichiarate incapaci di attingere ai
caratteri originari della vita stessa.
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Era questo il programma di una «ermeneutica della fatticità» sviluppato nei primi corsi
di Friburgo, nei quali i riferimenti storici privilegiati erano pensatori come Paolo,
Agostino, Lutero, Kierkegaard, Dilthey.
(354-430) (1483-1546) (1813-1855) (1833-1911)
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Ed era soprattutto Aristotele (384-322 a.C.), del quale
Heidegger andava allora tentando una nuova lettura
«fenomenologica», intendendo ormai per
«fenomenologia» qualcosa di ben diverso da Husserl.
L’originalità e la forza speculativa con cui egli urgeva in
questa nuova direzione sono testimoniate dallo
straordinario successo che contrassegnò il suo
insegnamento e che procurò assai presto al giovane
Heidegger, benché in quegli anni egli non pubblicasse
nulla, una fama rapidamente diffusasi negli ambienti
filosofici della Germania d’allora.
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Il periodo di Marburgo (1923-1928).
Fu grazie a questa fama precoce e soprattutto a un lavoro su
Aristotele, rimasto inedito, che nel 1923, per
interessamento del neokantiano Paul Natorp (1854-1924),
Heidegger fu nominato professore a Marburgo.
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Qui egli rimase fino al 1928, mantenendo tuttavia uno stretto legame con Friburgo, nei
pressi della quale, a Todtnauberg, nella Foresta Nera, egli si era costruito verso
la fine del 1922 una baita in cui era solito soggiornare nei mesi liberi dagli impegni
universitari.
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Il periodo di Marburgo fu per Heidegger
estremamente fecondo. Non solo per gli
stimolanti rapporti che egli intrattenne con i
colleghi della Facoltà, in particolare con Natorp,
con Nicolai Hartmann (1882-1950), prima
neokantiano e poi fenomenologo, e col filologo
classico Paul Friedländer (1882-1968);
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non solo per il formarsi intorno a lui di una
schiera di allievi di rango, quali Karl Löwith
(1897-1973), Hans-Georg Gadamer,
Hannah Arendt (1906-1975), Hans Jonas
(1903-1993) e altri ancora; feconda fu
soprattutto l’amicizia col teologo protestante
Rudolf Bultmann (1884-1976), che lasciò un
solco profondo nel pensiero di entrambi.
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Gli anni di Marburgo spiccano nella biografia
intellettuale di Heidegger soprattutto per la
straordinaria fecondità di pensiero di cui egli
diede prova, e che la serie di corsi di lezioni
ora in gran parte pubblicati testimonia. Essa
culmina nell’opera che, pur essendo rimasta
incompleta, va considerata il suo capolavoro:
Essere e tempo (Sein und Zeit, 1927).
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Proprio i corsi di Marburgo consentono di
rendersi pienamente conto dell’ampiezza
del lavoro che sta alla base di quest’opera e
della radicalità del confronto con la
tradizione che essa presuppone – confronto
diretto in particolare ai grandi momenti
fondativi della filosofia classica: Platone e
Aristotele, Tommaso e Suárez,
Descartes e Leibniz, Kant e Hegel.
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In questo periodo Heidegger designa ancora il proprio lavoro
filosofico come fenomenologia, ma il termine ha ormai
acquisito un senso nuovo, definito in Essere e tempo (§ 7) come
un «lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si
manifesta a se stesso». Nell’accogliere dunque il principio
husserliano dell’andare «alle cose stesse», Heidegger non
intende seguire pedissequamente la fenomenologia nella sua
«realtà» di movimento filosofico determinato, ma la sollecita
piuttosto nelle sue possibilità, nel senso che la sviluppa
secondo la dinamica speculativa da essa stessa innescata, ma
non perseguita in maniera sufficientemente radicale.
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La trasformazione che ne deriva può essere
considerata come un radicale ripensamento
del carattere segnatamente soggettivisticotrascendentale della fenomenologia
husserliana in direzione di quella che
Heidegger chiama ontologia fondamentale.
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La questione dell’essere.
Con Essere e tempo si ha dunque l’esplicita
formulazione del problema essenziale che travaglia
tutto il pensiero di Heidegger, dalle origini sino
alla fine, vale a dire la questione dell’essere. In
riferimento alle diverse prospettive secondo le quali
essa viene affrontata, si è affermata la consuetudine
di distinguere due fasi del pensiero heideggeriano:
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la prima coincide con Essere e tempo, ma comprende
anche gli scritti del 1929; la seconda, successiva alla
cosiddetta «svolta» (Kehre), cioè a quel mutamento di
prospettiva avvenuto tra la fine degli anni Venti e
l’inizio degli anni Trenta, è testimoniata da due scritti
del 1930, pubblicati però solo agli inizi degli anni
Quaranta: La dottrina platonica della verità (Platons
Lehre von der Wahrheit, 1942) e Dell’essenza della
verità (Vom Wesen der Wahrheit, 1943).
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Particolarmente indicativo per il nuovo
approccio al problema dell’essere è il
corso del 1935 – ma pubblicato solo nel
1953 – Introduzione alla metafisica
(Einführung in die Metaphysik).
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Sulla «svolta» e sulla sua datazione, quindi sulla
differenza tra queste due fasi del pensiero heideggeriano,
vi sono state in passato numerose discussioni. La
pubblicazione delle opere complete, se per un verso
conferma l’esistenza di differenti prospettive, nello stesso
tempo rende sostanzialmente obsoleto parlare di una
«svolta». Seguendo l’andamento dei corsi universitari
tenuti da Heidegger si ricava infatti l’immagine di uno
sviluppo assai più complesso e differenziato di quanto
non suggerisca l’immagine di un «primo» e di un
«secondo» Heidegger.
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Già nella prima fase, che arriva fino al 1929, bisognerebbe distinguere
(1) un primo momento che coincide con gli scritti giovanili fino alla
libera docenza, (2) una breve fase immediatamente successiva che si
situa agli inizi del primo insegnamento di Friburgo e che è
caratterizzata dal confronto critico col neokantismo e
dall’appropriazione della fenomenologia, (3) il periodo che comprende
gli anni dal 1919 al 1923 in cui Heidegger abbozza il programma di
un’ermeneutica della fatticità, (4) il periodo di Marburgo (1923-1929)
in cui viene elaborata l’ontologia fondamentale di Essere e tempo
attraverso l’analisi dell’esistenza e la «distruzione» fenomenologica
della storia dell’ontologia.
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Anche il pensiero successivo alla svolta, che comprende
quattro decenni e mezzo (1930-1976), andrebbe
articolato e differenziato seguendo le diverse modalità
e accentuazioni secondo le quali Heidegger riflette
sulla questione dell’essere. I primi anni Trenta vedono
il tentativo di pensare l’essere seguendo le tracce che il
suo accadere lascia nella storia della metafisica. La
Introduzione alla metafisica (1935) è il primo testo
organico che espone questo tentativo.
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Ma è soprattutto in un voluminoso
manoscritto steso tra il 1936 e il 1938,
rimasto inedito, che Heidegger mette a fuoco
in maniera complessiva la mutata prospettiva
dalla quale egli guarda ora al problema
dell’essere pensato d’ora in poi come «evento»
(Ereignis): si tratta dei Contributi alla
filosofia (dall’evento) (Beiträge zur
Philosophie [vom Ereignis]), pubblicati solo
nel 1989 in occasione del centenario della
nascita del filosofo (in Italia nel 2007).
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La fine degli anni Trenta e la prima metà degli anni
Quaranta sono occupate dal confronto con Nietzsche
(1844-1900), la cui metafisica della volontà di potenza
rappresenta per Heidegger il compimento della storia
della metafisica, e con figure di pensiero alternative a tale
storia, vale a dire il pensiero aurorale dei presocratici
(specialmente Anassimandro, Parmenide ed
Eraclito), che precede il destino metafisico, e il pensiero
poetante di Friedrich Hölderlin (1770-1843), che
preconizza l’«altro inizio», l’alternativa alla metafisica e al
pensiero calcolante.
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Per capire l’evolversi del pensiero heideggeriano
in questo periodo sono importanti le quattro
raccolte di saggi: Sentieri interrotti (Holzwege,
1950), Discorsi e saggi (Vorträge und Aufsätze,
1954), In cammino verso il linguaggio
(Unterwegs zur Sprache, 1959), Segnavia
(Wegmarken, 1967).
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Inoltre i testi di alcuni corsi e conferenze, tra i
quali spiccano Che cosa significa pensare?
(Was heißt denken?, 1954), La tesi del
fondamento (Der Satz vom Grund, 1957),
Identità e differenza (Identität und Differenz,
1957), Abbandono (Gelassenheit, 1959) e la
conferenza Tempo ed essere (Zeit und Sein,
1962), pubblicata in Per la cosa del pensiero
(Zur Sache des Denkes, 1969).
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La questione dell’essere nell’analitica dell’esistenza.
Nella fase che culmina con la pubblicazione di Essere e tempo,
la questione dell’essere viene impostata muovendo da una
critica della tradizionale metafisica e ricercando nell’esistenza
umana il filo conduttore per trovare un accesso radicale e
originario al problema. Secondo Heidegger, infatti, la
tradizione della metafisica occidentale ha mancato di riflettere
sul problema dell’essere non perché in essa tale termine non
compaia, ma perché, quando compare, esso non viene pensato
nel suo rapporto col tempo nella sua piena articolazione di
passato, presente e futuro.
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In generale nella metafisica l’essere viene
ridotto a ente e viene tematizzato in relazione
alla sola dimensione della presenza. Tale
equazione tra essere e presenza viene messa in
atto per Heidegger a partire dalla decisione
metafisica avvenuta con Platone e Aristotele,
e ciò spiegherebbe il primato conferito dai Greci
alla theoría, all’atteggiamento che osserva e
contempla ciò che è presente.
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Ma – come Heidegger in seguito si sarebbe affannato
a dimostrare – tale presupposto vale anche per tutto
il pensiero metafisico che dipende dalle decisioni
filosofiche fondamentali accadute con i Greci, e che
porta fino all’essenza della tecnica moderna. La
metafisica della presenza, nella quale l’essere è
essenzialmente ridotto all’ente-presente, è l’orizzonte
nel quale può attecchire il progetto di
padroneggiamento conoscitivo ed operativo
dell’intera realtà, che comincia con i Greci e va fino
all’essenza della tecnica moderna.
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Ora, essendo la presenza, il presente, solamente una
delle dimensioni del tempo, si tratta per Heidegger di
ritornare a pensare l’essere in relazione alla totalità delle
articolazioni temporali, in modo che esso non venga più
inteso unicamente come presenza e non venga più
catturato in una dimensione in cui, per il suo carattere
di presenza stabile, non può sfuggire al controllo e al
dominio del soggetto. In questa prospettiva la
«categoria» del tempo, la temporalità, diventa principio
e orizzonte per la riproposizione della questione
dell’essere e del suo senso.
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Di qui il titolo dell’opera del 1927 (Essere e tempo),
la quale avrebbe dovuto essere articolata in due
parti, ciascuna divisa in tre sezioni. Il testo
pubblicato, in realtà, non va oltre la seconda
sezione della prima parte, e in esso il tentativo di
riproporre la questione dell’essere segue il filo
conduttore fornito dall’analisi di quell’ente
privilegiato che è l’esser-ci (Da-sein).
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Quest’ultimo è il modo d’essere proprio dell’uomo, ed è
privilegiato perché ha la possibilità di porsi la questione
dell’essere. È il modo d’essere della esistenza (Existenz),
che è un avere-da-essere (Zu-sein), nel senso che
l’esserci deve sempre e comunque rapportarsi al proprio
essere, deve deciderne possibilità e realizzazioni, anche
quando tale rapportarsi è attuato nella modalità del
sottrarsi all’avere-da-essere. Ciò di cui nell’esserci ne va,
è sempre quell’esistente «che noi stessi sempre siamo»;
l’essere di cui decido è sempre il mio essere
(Jemeinigkeit).
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Non solo: in quanto il rapportarsi al proprio essere si attua
nella progettazione e nelle possibili realizzazioni di tale
essere, questo rapportarsi ha un carattere eminentemente
pratico (nel senso della praxis aristotelica) ed è proiettato
sempre nella dimensione del futuro (considerata
prioritaria). Esso ha costitutivamente un carattere di
apertura (Erschlossenheit), è un originario esporsi al
mondo, al mondo-ambiente (Umwelt), al mondo degli altri
(Mitwelt) e al mondo del sé (Selbstwelt). L’esserci è un
essere-nel-mondo (In-der-Welt-sein).
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L’apertura è primariamente diretta al mondo-ambiente
della vita quotidiana, nel quale l’esserci si muove
«innanzitutto e per lo più» in un atteggiamento di tipo
pratico-poietico, che Heidegger definisce come un
prendersi cura (Besorgen). Il mondo-ambiente è
dunque inteso nel senso del mondo delle cose come
strumenti, come utensili, arnesi (Zeug), le quali, in
quanto adoperabili, stanno nel modo d’essere che
Heidegger chiama un «essere alla mano», un «essereutilizzabile» (Zuhandenheit).
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Le cose sono dunque per lo più prese come
cose-arnesi e in quanto tali rientrano in un
contesto di utilizzabilità, nel quale, secondo un
rimando di mezzo a fine, rinviano ognora oltre
se stesse a un qualcosa d’altro che rappresenti
il loro «a-che» (Wozu). Si genera così un
insieme di rinvii (Verweisungsganzheit) che
mette capo a un principio e a un filo
conduttore, a un «in vista-di-cui»
(Worumwillen), che non è in ragione di altro
ma in ragione di se stesso.
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Tale principio è l’esserci. È l’esserci che, rapportandosi alle cose nell’atteggiamento del
«prendersi cura» secondo un proprio modo di vedere (Sicht), le «incontra» anzitutto e
per lo più come cose utilizzabili (Zuhandenes) legate in un insieme di rinvii, entro il
quale egli si orienta secondo una propria «circospezione» (Umsicht).
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L’atteggiamento tradizionalmente privilegiato
della constatazione e dell’osservazione
«disinteressate», ossia della theoría, viene da
Heidegger considerato come un modo derivato
del prendersi cura, come un atteggiamento
secondario che scaturisce da una modificazione
di quello primario di tipo pratico-poietico.
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È infatti per l’interrompersi della catena dei rinvii del
prendersi cura quotidiano che l’esserci passa
dall’atteggiamento primario di tipo pratico-poietico a un
atteggiamento derivato di mera osservazione e
constatazione «neutrale». Quando l’esserci si rapporta alle
cose in questo secondo modo, esse si presentano nel modo
d’essere che viene definito come semplice sussistere, come
una «semplice presenza sottomano» (Vorhandenheit).
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Se all’inizio della prima sezione della prima parte di
Essere e tempo Heidegger sviluppa l’analisi del mondoambiente individuando nella Zuhandenheit e nella
Vorhandenheit i due modi d’essere fondamentali degli
enti che non sono esserci, successivamente al centro
dell’analitica dell’esistenza subentra la descrizione degli
«esistenziali» e della loro connessione unitaria. Gli
esistenziali sono le determinazioni essenziali
dell’esistenza, che Heidegger distingue dalle categorie,
ossia dalle forme concettuali che descrivono le cose nei
modi oggettivanti dell’osservazione constatativa.
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I due esistenziali fondamentali sono il sentirsi
situato (Befindlichkeit) e il comprendere (Verstehen),
che indicano rispettivamente l’uno la passività e la
recettività, l’altro la produttività e la spontaneità
dell’esserci, e che sono cooriginariamente
determinati secondo quell’articolazione che
Heidegger chiama discorso (Rede). Alla fine della
prima parte dell’analitica dell’esistenza, Heidegger
perviene a determinare l’unità degli esistenziali
come cura (Sorge).
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Approfondimento
Il mondo, a cui il Da-sein umano si apre, non è l’insieme o la somma delle cose
semplicemente-presenti in esso (Vor-handenheit), degli eventi isolati nello spazio e nel
tempo, secondo l’immagine «naturale» delle scienze; ma è la «significatività»
(Bedeutsamkeit) di ciò con cui si ha a che fare (in gr. tà prágmata), cioè delle cose-anostra-disposizione (Zuhandenheit), che servono a qualcosa e rinviano a esso. Il
sentirsi situato (Befindlichkeit) apre l’uomo al nudo fatto del suo «essere-gettato»
(Geworfenheit) nel mondo, nel ci dell’apertura; mentre il comprendere è la proiezione
attiva, è «progetto» (Entwurf) o «interpretazione» (Auslegung) di qualcosa in quanto
qualcosa, cioè in quanto rinvia ad altro nella rete di significatività del mondo. In
questo modo l’uomo si prende cura delle cose, degli altri e di se stesso.
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Approfondimento
La «cura» è l’essere del Da-sein umano, che insieme alla significatività del mondo ne
segna la «finitezza» o «effettività» (Faktizität) esistenziale, cioè il suo essere ogni volta
assegnato al mondo e dipendente da esso. Il senso della cura, lo «schema concettuale»
per la comprensione dell’essere dell’uomo, è la temporalità del tempo originario; non
il tempo volgarmente inteso come successione di istanti o datazione di eventi, ma
l’unità «estatica» di passato, presente e futuro, che si apre nel progetto, nel modo come
l’uomo ad-viene a se stesso, si precorre, e in tale ék-stasis o trascendenza definisce
anche il passato e il presente, la effettività da trascendere e il momento del «salto»,
della decisione (futuro).
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Nella seconda sezione della prima parte viene
messo in luce il senso unitario della cura in
quanto struttura fondamentale dell’esistenza,
facendo riferimento a quel carattere proprio
dell’esistere che è l’essere-per-la-morte (Sein
zum Tode), cioè l’essenziale anticipazione
dell’estrema possibilità dell’esserci, attraverso la
quale quest’ultimo è in grado di riferirsi in modo
autentico al proprio poter-essere come totalità di
futuro, passato e presente, comprendendosi
come temporalità originaria (Zeitlichkeit).
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Vi è una stretta connessione tra la cura e la temporalità, giacché questa è il senso e la
radice di quella; e l’esserci è temporalità in quanto non si esplica in un’attualità
perfetta, sempre piena e presente a se stessa, ma è essenzialmente un poter-essere.
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Questo poter-essere si può esplicare in due modalità
fondamentali: nell’autenticità, quando l’esserci, ascoltando
la chiamata della «coscienza» (Gewissen) che lo richiama a
se stesso e alla responsabilità del proprio essere, anticipa
nell’essere-per-la-morte la propria possibilità estrema e
ritorna, con questa anticipazione, al proprio passato;
oppure nell’inautenticità, allorquando l’esserci si perde
nell’impersonalità del «Si» (Man), che lo solleva
dall’insostenibile leggerezza del suo essere, e rimane
perduto presso l’ente in cui di volta in volta è affaccendato.
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Approfondimento
La temporalità è l’orizzonte in cui si inscrive la questione dell’essere della storia
dell’ontologia. Così il pensiero greco ha compreso l’ente nel suo essere come ousía o
parousía, come «essenza» o «presenza», come essere-presente: a partire, cioè, dal
tempo presente. Ma tale comprensione che domina l’intera tradizione filosofica si è
cristallizzata nel solo grado temporale del presente, oscurando così sia la congiunzione
«essere e tempo» sia la co-originarietà di passato, presente e futuro. L’omissione del
senso temporale e il concetto «volgare» di tempo come successione di istanti, di tempi
presenti, non sono semplicemente errori filosofici. Essi hanno la loro radice più
profonda in un modo di essere difettivo del Da-sein stesso, che ne segna la storia e che
Heidegger intitola «deiezione» (Verfallen).
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Per esso l’uomo cade dal proprio autentico poter-essere-se-stesso nel mondo quotidiano
della pubblica opinione e del si impersonale, caratterizzato dai fenomeni deiettivi della
«chiacchiera» (il si dice o la fama), della «curiosità» e della «ambiguità». L’uomo
comprende allora l’ente come cosa-presente (Vor-handenes) e se stesso come la cosa-Io
(Ichding), soggetto o coscienza isolata e «senza mondo». Al «vortice della deiezione»
Heidegger contrappone la possibilità, per l’esserci, di una esistenza autentica: essa si
fonda sulla decisione con cui l’uomo assume il progetto nel quale si trova gettato come
progetto proprio, uscendo dalla genericità delle opinioni impersonali che dominano la
chiacchiera quotidiana. Alla base dell’esistenza autentica c’è per Heidegger la decisione
anticipatrice della morte: tra tutte le possibilità che si offrono all’esistenza, solo la
morte è ineludibile, costitutiva e perciò autenticamente propria di ciascuno.
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Assumere consapevolmente questa possibilità (non, ovviamente, nel senso di
realizzarla morendo) apre l’esistenza a vivere autenticamente anche tutte le altre
possibilità al di qua di essa.
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Il distacco definitivo da Husserl e gli scritti del 1929.
Per quanto Essere e tempo sia legato all’insegnamento fenomenologico di Husserl,
quest’opera impresse alla fenomenologia un senso e uno sviluppo ben diversi da quelli
intesi da Husserl. Così, con la pubblicazione di essa, vennero alla luce e si acutizzarono
le discrepanze tra i due.
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Tuttavia, con generosa apertura intellettuale, Husserl si
adoperò affinché Heidegger, col quale credeva ancora di
poter intrattenere un rapporto di cooperazione
scientifica (tanto che gli propose di collaborare alla
stesura dell’articolo sulla fenomenologia per
l’Enciclopedia Britannica), fosse chiamato nell’università
di Friburgo quale suo successore.
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Nel semestre invernale del 1928-1929 Heidegger fece ritorno a Friburgo per tenervi il
proprio insegnamento (mantenuto fino al 1944 e interdettogli dopo la guerra). Ma
Heidegger non tornò in realtà come successore di Husserl. A questo momento risale
anzi il distacco definitivo tra i due, avvenuto, al più tardi, nell’autunno del 1930.
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La Postilla (1930) alle Idee per una fenomenologia
pura e una filosofia fenomenologica (Ideen zu
einer reinen Phänomenologie und
phänomenologischen Philosophie, 1912-1928) e la
conferenza berlinese del 10 giugno 1931
Fenomenologia e antropologia, testi nei quali
Husserl giungeva alla resa dei conti con gli
sviluppi «antropologistici» della fenomenologia in
Max Scheler (1874-1928) e in Heidegger, sono
una testimonianza della già avvenuta rottura.
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Dal canto suo, negli scritti pubblicati a ridosso di Essere e tempo,
Heidegger proseguiva la propria strada, accentuando il distacco da
Husserl. Come critica indiretta alla concezione husserliana della
fenomenologia può essere letta la prolusione inaugurale Che cos’è
la metafisica? (Was ist Metaphysik?, 1929). In essa si tratta
dell’angoscia (Angst) come di quello stato d’animo fondamentale
nel quale, esperendo il Niente, l’uomo è motivato a convertirsi da
un atteggiamento naturale a un atteggiamento filosofico –
conversione che Husserl spiegava invece come una «finzione»
attuata dal filosofo di professione, secondo una motivazione che è
prodotta da atti intellettivi superiori.
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Il trattato Dell’essenza del fondamento
(Vom Wesen des Grundes, 1929)
approfondiva l’analitica dell’esistenza
specialmente in relazione al problema della
trascendenza e della differenza ontologica.
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Anche il libro su Kant e il problema della metafisica
(Kant und das Problem der Metaphysik, 1929) va
nella stessa direzione. L’interpretazione di
Immanuel Kant (1724-1804) fu il contenzioso di
una celebre disputa con Ernst Cassirer (1874-1945)
nella primavera del 1929 ai corsi universitari di
Davos, dove Heidegger difese la propria lettura contro
quella neokantiana allora predominante in Germania.
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Quest’ultima vedeva nella Critica della ragione pura
una teoria della conoscenza, anzi, una teoria della
conoscenza scientifica. Per Heidegger invece, l’opera di
Kant non è da intendere come una teoria della
conoscenza e tanto meno come una teoria della
scienza, ma come una radicale analisi della struttura
ontologica fondamentale della soggettività del soggetto
(cioè dell’uomo) e come un tentativo di fondare su tale
analisi una metafisica della finitudine. Heidegger,
insomma, vede nell’opera kantiana qualcosa di analogo
alla propria analitica dell’esistenza.
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L’intermezzo politico del 1933.
Sul fatto che il profondo mutamento (la
cosiddetta «svolta»), che stava in lui
maturando nell’impostazione del problema
dell’essere, non fosse immediatamente reso
pubblico, ebbe non poco influsso la
circostanza che proprio allora Heidegger
ebbe un confronto diretto con gli eventi
politici della Germania.
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Il 21 aprile 1933 egli fu eletto, pressoché all’unanimità, rettore
dell’Università di Friburgo. Aderì al partito nazionalsocialista,
condizione questa prevista per l’assunzione ufficiale del
rettorato, che avvenne il 27 maggio 1933.
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In quella occasione pronunciò il famoso discorso
L’autoaffermazione dell’università tedesca (Die
Selbstbehauptung der deutschen Universität), nel
quale egli elaborava il programma per
l’allineamento dell’università alla politica
culturale nazionalsocialista e teorizzava un triplice
compito: il «servizio del lavoro», il «servizio di
difesa» e il «servizio del sapere», assegnando
comunque a quest’ultimo il primato.
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Heidegger rimase in carica per poco meno
di un anno, durante il quale intervenne
attivamente nella campagna di propaganda
in favore del nazionalsocialismo,
prospettandosi per lui addirittura la
possibilità di assumere la leadership
intellettuale del movimento; ma egli non
esitò nemmeno, in alcuni casi, a opporsi
all’autorità nazionalsocialista, ad esempio in
occasione del rogo dei libri di autori ebrei.
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Le vere ragioni per le quali Heidegger
rassegnò le proprie dimissioni non sono
chiare, e rimangono a tutt’oggi controverse.
Egli stesso ha dichiarato che esse furono
motivate da interferenze politiche miranti a
ottenere da lui la sostituzione dei presidi delle
facoltà di medicina e di giurisprudenza con
persone gradite al partito.
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Recenti ricerche d’archivio sembrano invece portare
alla luce un’altra verità, cioè che le dimissioni furono,
sì, motivate da divergenze col partito, ma che tali
divergenze riguardavano la pretesa di Heidegger di far
passare un proprio progetto di riforma dell’università
e di assumere quindi una funzione di guida nella
politica culturale del nazionalsocialismo, progetto che
incontrò invece l’opposizione dei gerarchi del partito,
in prima fila di Alfred Bäumler (1887-1968) e di
Ernst Krieck (1882-1947).
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François Fédier (1935-), uno dei massimi
esperti europei del pensiero heideggeriano,
avendo potuto frequentare Heidegger per un
ventennio, ha curato l’edizione francese
(Écrits Politiques, Gallimard, Paris 1995) degli
Scritti politici del filosofo tedesco, pubblicati
in Germania a cura di Hermann Heidegger
(Politische Schriften, Klostermann, Frankfurt
a. M.), e ha cercato di approfondire il
problema con serietà e equilibrio.
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Comunque stiano le cose, sta di fatto che dopo le
dimissioni, costretto nell’isolamento, Heidegger si
dedicò interamente alla propria attività didattica e di
ricerca. e se ancora nell’Introduzione alla metafisica
del 1935 egli parlava di «un’intima verità e grandezza
del movimento», già i Contributi alla filosofia
contengono una chiara critica del nazionalsocialismo.
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Anche nelle lezioni su Friedrich Wilhelm Nietzsche,
tenute tra il 1936 e il 1940, Heidegger non esitò a
criticare duramente i grossolani fraintendimenti delle
interpretazioni nazionalsocialistiche della volontà di
potenza e del superuomo.
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Nonostante la presa di distanze e il ritiro nell’esilio della Foresta Nera, alla fine del
conflitto mondiale Heidegger fu chiamato a pagare per il suo intermezzo politico.
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Fu costretto a subire una serie di umiliazioni e di
sventure: il sequestro della propria casa di Friburgo e
l’arruolamento forzato nelle squadre per lo sgombero
delle macerie, l’incertezza della sorte della propria
biblioteca e l’impossibilità di lavorare, quindi
l’interdizione dall’insegnamento sancita definitivamente
il 28 dicembre 1946 dal Governo Militare Francese.
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Nell’inverno 1945-1946 Heidegger cadde in una
crisi profonda, da cui si risollevò grazie alle
cure di Viktor Emil von Gebsattel (18831976) nel sanatorio di Badenweiler e gettandosi
con impegno in nuovi progetti (tra i quali, oltre
alla stesura della Lettera sull’«umanismo»,
conclusa nell’autunno del 1946, va menzionata
la traduzione di Lao-Tzû a cui egli lavorò con
Paul Shih-Yi Hsiao nell’estate del 1946 e in
quella del 1947).
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Il pensiero heideggeriano dopo la «svolta».
Fu probabilmente anche per l’isolamento nel quale si venne a
trovare dalla seconda metà degli anni Trenta in poi, che Heidegger
non pubblicò quasi nessuno degli scritti nei quali aveva continuato
a lavorare alla questione dell’essere. E fu probabilmente per questo
isolamento, oltre che per il tumultuoso succedersi degli eventi
bellici, che gli unici scritti pubblicati rimasero allora quasi
ignorati. Si tratta dei due testi già citati Dell’essenza della verità
(pubblicato nel 1943, ma risalente al 1930) e La dottrina platonica
della verità (pubblicato nel 1942, ma risalente al 1930-1931), ai
quali vanno aggiunte le Delucidazioni sulla poesia di Hölderlin
(Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung, 1944).
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Il primo di essi è la documentazione in atto della
«svolta», se è vero, come Heidegger scrive in una
annotazione marginale, che qui avviene «il salto
nella svolta». In effetti, il problema della verità
non è più affrontato primariamente a partire
dall’esserci e non è più associato al carattere
«aperturale» proprio dell’esistenza. Luogo della
verità intesa come svelatezza non è più tanto
l’esserci, ma è l’apertura, la radura (Lichtung)
dell’essere stesso in cui di volta in volta l’esserci
si viene a trovare.
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Ne La dottrina platonica della verità è documentato il
diverso atteggiamento che la «svolta» produce nei
confronti del pensiero tradizionale: Heidegger non
persegue più il fine di una fondazione veramente radicale
della metafisica sulla base di un’analitica dell’esserci. Nel
riflettere sul mutamento essenziale nell’essenza della
verità che avviene in Platone, egli intende qui ripensare
il destino metafisico come un’«erranza» che appartiene
alla storia dell’essere, e in tale ripensamento si prepara a
un oltrepassamento (Überwindung) della metafisica.
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Il mutamento che con Platone accade nell’essenza
della verità, originariamente intesa come svelatezza
(alétheia, Unverborgenheit), cioè come carattere
coestensivo dell’essere, e a cui l’etimo della parola
greca rettamente esperita rinvia, conduce al
predominio dell’idea che la verità non è tanto un
carattere dell’essere stesso, ma è invece la
correttezza (orthótes) dello sguardo che coglie
l’essere nel suo essere presente.
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Questo mutamento annuncia la nascita della metafisica e
l’emergere di quel tratto determinante che Heidegger chiama
«soggettività» (Subjektität), e che indica la condizione
dell’imporsi del primato dell’uomo nel mezzo dell’ente nella
contemporanea dimenticanza dell’essere (Seinsvergessenheit). Il
tentativo più organico di interpretare l’intera storia della
metafisica come storia della dimenticanza dell’essere e della
«soggettività», e in fondo come storia del platonismo, è
compiuto da Heidegger in una serie di lezioni tenute tra il 1936
e il 1940 e in trattati composti tra il 1940 e il 1946, che furono
pubblicati solo nel 1961 in due volumi intitolati Nietzsche.
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Heidegger tenta di cogliere il succedersi delle epoche
della storia del mondo nell’orizzonte dell’«epocalità»
dell’essere, intesa come il suo sottrarsi e il suo darsi. La
grecità, il mondo romano, il pensiero medievale, la
modernità sono epoche storiche il cui accadere va
compreso nell’orizzonte della storia dell’essere, e ad esse
corrispondono altrettante interpretazioni e
determinazioni fondamentali dell’essente: idea (Platone),
enérgheia (Aristotele), ens creatum (cristianesimo),
soggetto (Descartes), monade (Leibniz), spirito (Hegel),
volontà di potenza (Nietzsche), Gestell (tecnica).
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Ora, all’inizio della storia occidentale e
prima della decisione metafisica,
l’essere domina, secondo Heidegger,
nella pienezza e nell’unità delle sue
determinazioni; ma, col mutamento
essenziale che il mito della caverna
di Platone testimonia, esso si ritrae, e
nella radura che tale ritrarsi apre si
instaura il primato dell’essente.
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La storia della metafisica è allora la storia
della dimenticanza dell’essere in favore
dell’essente e in questo senso essa è
nichilismo, giacché «l’essenza del nichilismo è
la storia nella quale dell’essere non ne è più
niente». Il compimento della dimenticanza
dell’essere si manifesta nelle tre figure
essenziali della fine della metafisica: in
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, in
Nietzsche e, da ultimo, nell’essenza della
tecnica moderna.
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La presa di coscienza da parte del pubblico filosofico
dello sviluppo che Heidegger aveva dato alla
questione dell’essere si fece strada molto lentamente
ed emerse definitivamente solo con la pubblicazione
della Lettera sull’«umanismo», in cui Heidegger si
pronunciava sul «fallimento» di Essere e tempo e sulle
nuove prospettive che egli stava saggiando.
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Si può dire, anzi, che con la pubblicazione di questa lettera,
nella quale Heidegger si pronunciava, fra l’altro, nei confronti
di due filosofie allora in voga come l’esistenzialismo e il
marxismo, vi fu occasione perché il pensiero heideggeriano
ritornasse al centro della discussione filosofica internazionale,
ove rimase saldamente fino alla metà circa degli anni Sessanta.
I punti focali della ricerca che in essi si sviluppa possono essere
indicati (1) nel tentativo di pensare l’essere come evento, (2)
nella tematizzazione del problema del linguaggio, (3) nelle
riflessioni sul problema della tecnica (con la conseguente
diagnosi dell’epoca contemporanea).
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Il pensiero dell’essere in quanto «evento».
Come si è visto, negli anni successivi alla pubblicazione di
Essere e tempo Heidegger tentò di pensare l’essere non più
come essere dell’ente (la via dell’analitica dell’esistenza),
ma in se stesso e nella sua radicale differenza dall’ente.
Nella Lettera sull’«umanismo» Heidegger dice del pensiero
dell’essere: «Il pensiero, detto semplicemente, è il pensiero
dell’essere. Il genitivo vuol dire due cose. Il pensiero è
dell’essere in quanto, fatto avvenire (ereignet) dall’essere,
all’essere appartiene. Il pensiero è nello stesso tempo
pensiero dell’essere, in quanto, appartenendo all’essere, è
all’ascolto dell’essere».
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Quanto poi al carattere di evento (Ereignis)
dell’essere, esso diventa dal 1936 in poi il
problema centrale del suo pensiero. Le diverse
soluzioni adottate anche a livello terminologico
testimoniano del carattere «sperimentale» dei
tentativi da lui compiuti e della difficoltà
dell’impresa con la quale egli si cimentava.
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Significativo è l’espediente adottato nel saggio del 1955 Su «La linea» (Über «Die
Linie»), in cui egli scrive la parola tedesca per «essere» con una barratura a croce: Sein,
spiegando che tale barratura allude non solo all’opportunità di cancellare ogni
rappresentazione metafisica dell’essere, ma anche al tentativo di pensare il darsi nella
radura dell’essere di quello che è chiamato l’insieme dei Quattro (Geviert), cioè il
rapporto tra Terra e Cielo, Divini e Mortali (Erde und Himmel, Göttlichen und
Sterblichen), i quattro contrari del mondo.
Geviert
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Un altro testo molto significativo per la tematizzazione
dell’essere come evento, è Identità e differenza del 1957.
L’evento (Ereignis) è qui accostato a due parole
fondamentali come Logos e Tao, ed è pensato come
quell’evento appropriante in cui l’essere si dà all’uomo in
un rapporto di fruizione (Brauch); è l’evento del reciproco
diventare proprio dell’essere e dell’uomo. Nel contempo è
mantenuta ferma la «differenza ontologica» di essere ed
ente, in modo che nell’evento dell’essere si dà al tempo
stesso la differenza (Unter-Schied) e la composizione della
differenza (Aus-trag).
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Ma è soprattutto nella conferenza del 1962 Tempo ed essere,
la quale riprende la tematica che avrebbe dovuto essere
trattata nella parte non pubblicata di Essere e tempo, che
Heidegger presenta un tentativo di riflessione complessiva
sull’essere come evento e sul suo enigmatico darsi (Es gibt)
assieme al tempo. L’essere viene pensato come la
dimensione che per principio è sottratta alle macchinazioni
dell’uomo, ma al tempo stesso come ciò che sta in un
rapporto essenziale con l’essere umano, giacché è
nell’apertura formata dalla radura dell’essere che si apre lo
spazio-tempo in cui si colloca l’esser-ci (Da-sein) dell’uomo.
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E la radura dell’essere non è poi sempre identica, ma muta a seconda dell’accadere e
del succedersi delle epoche della storia, le quali corrispondono ai diversi modi in cui
l’essere si dà e al tempo stesso si sottrae.
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L’essenza della tecnica e l’«impianto» («Ge-Stell»).
La possibilità del superamento (Verwindung) della
metafisica è strettamente connessa in Heidegger alla
diagnosi dell’epoca contemporanea. Ora, il fenomeno
fondamentale che caratterizza in tutti i suoi aspetti il
nostro tempo è per lui la tecnica, fenomeno che egli
comincia a vedere nella sua realtà epocale, a partire
dagli inizi degli anni Trenta, specialmente in seguito
alla lettura degli scritti di Ernst Jünger (1895-1998)
La mobilitazione totale (1930) e Il lavoratore (1932),
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e al quale egli dedica numerose
riflessioni, tra le quali spiccano le
quattro conferenze La cosa (Das Ding),
L’impianto (Das Gestell), Il pericolo
(Die Gefahr), La svolta (Die Kehre),
tenute a Brema nel 1949 col titolo
complessivo Sguardo in ciò che è
(Einblick in das, was ist).
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La peculiarità del modo in cui Heidegger affronta la
questione della tecnica sta nel fatto che egli non interviene
sul piano della descrizione e della individuazione di cause
ed effetti alla superficie dell’accadere storico, ma mira a
cogliere la radice filosofica più profonda che sta alla base
della tecnica quale fenomeno della nostra epoca. Per questo
egli non parla della tecnica nelle sue manifestazioni
concrete, ma dell’essenza della tecnica, ed è a livello di
questa figura epocale che egli tenta di individuare la
connessione che la lega alla storia della metafisica come
storia della dimenticanza dell’essere.
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La configurazione epocale della tecnica è indicata col termine Ge-Stell. Lo si può
tradurre con «impianto», e sta a significare l’insieme di quegli atteggiamenti che
caratterizzano la tecnica, e che sono modi del «porre» (Stellen): in tedesco essi risultano
connessi anche a livello linguistico, e i fondamentali tra di essi sono il rappresentare
(Vorstellen), il produrre (Herstellen), il disporre (Bestellen).
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L’essenza della tecnica, con la quale si arriva alla
realizzazione essenziale del padroneggiamento
conoscitivo ed operativo dell’essente da parte
dell’uomo, non è una «macchinazione umana», ma è il
compimento del destino metafisico e come tale dipende
dal modo di darsi e sottrarsi epocale dell’essere stesso.
Per questo Heidegger non sta contro la tecnica; non
pensa all’utopia di un giardino terrestre senza
«artefatti», né la «Natura» (Physis) è da lui evocata in
uno struggimento nostalgico che guarda all’indietro.
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Al contrario, nella tecnica sta la possibilità di un «altro inizio». Se infatti con l’età della
tecnica la metafisica giunge alla propria fine nel compimento e nell’esaurimento delle
sue possibilità, con tale conclusione si apre la possibilità per il pensiero di ascoltare il
richiamo dell’essere e di corrispondervi. Come è detto in conclusione della conferenza
La questione della tecnica (Die Frage der Technik, 1953): «Quanto più ci avviciniamo al
pericolo, tanto più chiaramente cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva, e
tanto più noi domandiamo. Perché il domandare è la pietà del pensare».
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Approfondimento
L’analitica esistenziale di Essere e tempo avrebbe dovuto aprirsi, in una terza sezione
della prima parte che non è mai stata scritta, in un’ontologia generale: dal tema
«Esserci e temporalità» Heidegger avrebbe voluto passare al tema più vasto «Essere e
tempo». Ma questo passaggio non c’è stato e non per motivi occasionali. Nella più volte
citata Lettera sull’«umanismo» si legge che l’incompiutezza di Essere e tempo è dovuta
all’inadeguatezza del linguaggio della metafisica, ancora dominato dal modello della
semplice-presenza, che conduce a identificare l’essere con l’ente, con l’oggetto,
dimenticando la differenza ontologica. Ma dal linguaggio della metafisica non si esce
facilmente: essa è qualcosa di più di un «errore» teoretico: è il «destino» stesso per cui,
nella cultura occidentale (che ha inizio in Grecia), l’essere si rivela nascondendosi (a
questo «gioco» di luce e oscurità Heidegger dà il nome di Lichtung, «radura»).
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La «differenza» non è per Heidegger la differenza fra essere ed ente, ma piuttosto il
«differire», da parte dell’essere, la propria manifestazione, rivelandosi (e, insieme,
nascondendosi) nell’ente, in modo di volta in volta diverso nelle varie «epoche» (dal gr.
epoché, «sospensione») della storia della metafisica. Nelle ultime opere di Heidegger (e
soprattutto in La questione del pensiero) si fa strada un’ipotesi diversa: la nozione
antimetafisica di «differenza» non è forse ancora oltre la metafisica, giacché l’essere
viene pensato, in base a essa, pur sempre a partire dall’ente, «per differenza»; l’essere
stesso è forse pensabile solo come arché dimenticata che regge tuttavia la storia della
metafisica. Può allora darsi che il mondo oltre-metafisico si lascerà dietro le spalle la
stessa «differenza» e l’«essere» stesso.
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A ciò sembrano alludere i passi (peraltro oscuri) in cui Heidegger parla dell’essenza
«bifronte» della tecnica moderna, la quale, se da un lato rappresenta la realizzazione
compiuta della metafisica, dall’altro può essere il «preludio dell’Ereignis», e l’Ereignis
(letteralmente «evento», ma il termine ha qui tutta una serie di connotazioni che lo
rendono altrettanto intraducibile, per dichiarazione di Heidegger stesso, del greco
lógos e del cinese tao) è quanto si colloca «oltre» l’essere stesso. A rigore, dell’Ereignis
non si può dire né che «è» (come l’ente), né che «si dà» (come l’essere), ma solo che «si
eventua».
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Pensiero, poesia e linguaggio.
Ora, proprio perché Heidegger considera la tecnica come una
configurazione omogenea rispetto alla metafisica e alla filosofia
tradizionali, egli esclude sin da principio la possibilità di ricercare una
via di salvezza nelle forme classico-tradizionali dell’argomentazione
filosofica, e privilegia piuttosto il rapporto con momenti alternativi ad
esse, quali la riflessione sull’esperienza di verità a cui aprono l’arte o
il linguaggio. Questo atteggiamento viene in luce con forza per la
prima volta nel saggio L’origine dell’opera d’arte (Der Ursprung des
Kunstwerks, 1935), nel quale all’opera d’arte viene assegnato un
valore ontologico, nel senso che essa produce un’apertura della verità
dell’essere.
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E se nel saggio sull’opera d’arte viene
considerata l’apertura di verità delle
arti figurative (Heidegger interpreta
un quadro di Vincent Van Gogh
[1853-1890]), in realtà la forma d’arte
privilegiata è per lui, già qui, la
poesia (Dichtung).
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Il poeta viene di conseguenza investito di una
responsabilità particolare. Nella vicinanza di
pensiero e poesia, e nella teorizzazione del
potenziale catartico di un pensiero fedele a tale
vicinanza, Heidegger vede la possibilità di compiere
un «passo indietro rispetto alla filosofia», di
sottrarsi all’inerzia speculativa in cui il compimento
della metafisica costringe e di assumere il contegno
e la lucidità adeguati al vuoto degli dèi fuggiti e del
dio nuovo di là da venire.
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Si colloca qui l’avvicinamento alla poesia di
Hölderlin che Heidegger compie a partire dalla
metà degli anni Trenta (cfr. Holzwege),
congiuntamente al tentativo di pensare il destino
metafisico occidentale in vista di un’apertura
postmetafisica. Heidegger però non azzera la
differenza tra il pensatore e il poeta, ma la
mantiene tutta e la formula così: «Il pensatore dice
l’essere. Il poeta nomina il sacro».
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Con la funzione privilegiata accordata alla poesia
va di pari passo la centralità del linguaggio.
Mentre in Essere e tempo esso era ancora
concepito come articolazione strutturale
dell’esserci, dopo la svolta esso è pensato come
coevo all’apertura dell’essere in cui l’esserci sta.
Il linguaggio è la «casa dell’essere», come recita
la Lettera sull’«umanismo».
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La meditazione sul linguaggio nella sua essenza
manifestativa dell’essere, dunque in chiave fortemente
ontologica, viene sviluppata specialmente nei testi di
In cammino verso il linguaggio (1959), la cui
pubblicazione è caduta proprio in un periodo in cui
andavano affermandosi nella linguistica e nella
filosofia del linguaggio tendenze che agli occhi di
Heidegger non potevano apparire che come
fraintendimenti dell’essenza del linguaggio, come una
sua riduzione a mero strumento e funzione, o a
oggetto di tematizzazione logica e scientifica.
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Se il linguaggio in Essere e tempo era uno strumento inadeguato, la via che Heidegger
adesso percorre non è quella di costruirsi uno strumento linguistico più efficace, ma di
mettere in questione la stessa concezione strumentale del linguaggio. Pertanto, da un
approfondimento della problematica di Essere e tempo sorgono i temi centrali del
«secondo» Heidegger: la storia della metafisica come destino dell’Occidente, l’essenza
della tecnica, la possibilità di un superamento della metafisica come suo compimento
nel mondo contemporaneo, l’essenza del linguaggio. Il compito del pensiero consiste in
quella che già in Essere e tempo egli aveva indicata come la «distruzione della storia
dell’ontologia», dove per «distruzione» (Destruktion, Abbau) si deve intendere un gioco
di «destrutturazione» che, «smantellando» la metafisica e il suo linguaggio, liberi lo
spazio per un pensiero non più metafisico, che superi l’oblio dell’essere.
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È, così, naturale che gli «esercizi ermeneutici» di Heidegger si rivolgano soprattutto ai
pensatori greci (e in particolare ai presocratici) e a Nietzsche, cioè, rispettivamente,
all’inizio e alla fine della tradizione metafisica. Un altro «interlocutore» essenziale è
Hölderlin: se infatti il linguaggio della metafisica è inadeguato, la poesia è invece il
modello di un linguaggio non oggettivante, non ridotto a semplice strumento
d’informazione. Il linguaggio non è strumento perché coincide con lo stesso essere-nelmondo che caratterizza l’esserci. Perciò, non è l’uomo che dispone del linguaggio,
come non è l’uomo che decide se esistere o no: piuttosto, è il linguaggio a disporre
dell’uomo. «L’uomo», dice Heidegger, «parla solo in quanto risponde al linguaggio».
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Il testamento spirituale: «Itinerari, non opere».
Dopo che, nella seconda metà degli anni Sessanta,
l’interesse per il pensiero di Heidegger era pressoché
svanito a causa dell’ostile nuovo clima filosofico, dopo
la sua morte avvenuta a Friburgo il 26 maggio 1976,
la discussione improvvisamente si rianimò.
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Anzitutto per la pubblicazione dell’intervista Ormai solo un dio ci può salvare (Nur
noch ein Gott kann uns retten), rilasciata da Heidegger nel 1966 al più diffuso
settimanale tedesco, “Der Spiegel”, con la condizione che essa fosse pubblicata dopo la
morte, e nella quale egli intendeva chiarire il suo impegno nazionalsocialista nel 1933
(sul quale in vita aveva sempre mantenuto un assoluto silenzio).
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Si sono così riaccese
discussioni e polemiche,
periodicamente ritornate
dalla fine della guerra ad
oggi, e che si sono estese
poi alle implicazioni
etiche e politiche della sua
prospettiva filosofica.
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L’avvenimento che ha fatto ritornare
prepotentemente Heidegger alla ribalta è stato
poi la pubblicazione dell’edizione delle sue
opere complete, iniziata nel 1975. Prevista in
circa cento volumi, di cui poco meno di una
quarantina sono stati nel frattempo pubblicati,
essa rende pubblico un lavoro immenso di
confronto storico-speculativo, di scavo teorico e
di riflessione sui grandi problemi della
tradizione filosofica.
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Nell’esergo dell’edizione sta un motto che indica il
carattere «viatico» proprio del pensiero
heideggeriano, a cui già i titoli di alcune sue
significative opere richiamano: un pensiero
costantemente «in cammino» su «sentieri
interrotti», che non pretende di attingere certezze
assolute e sistematiche, ma si accontenta di
semplici «segnavia». Il motto in esergo dice:
«Itinerari – non opere» (Wege – nicht Werke).
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Fotografie varie.
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Caricature e disegni.
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Manoscritti.
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Lettura di quest’anno (alcune parti).
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Fonti.
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E. Berti, F. Volpi, Storia della filosofia. Ottocento. Novecento, Laterza, Rom-Bari 1991;
Enciclopedia Garzanti di Filosofia e Logica, ecc., Garzanti, Milano 1993²;
F. Fédier, Prefazione. Venire a maggiore decenza e Postfazione. Per aprire un dibattito
intonato a giustizia a M. Heidegger, Scritti Politici (1933-1966), Piemme, Casale
Monferrato 1998;
S. Tassinari, Storia della filosofia occidentale, 3**, Bulgarini, Firenze 1994;
G. Zaccaria, Presentazione a M. Heidegger, Scritti Politici (1933-1966), cit.
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In memoria.
Desidero dedicare il corso di quest’anno a Franco Volpi (1952-2009), vicentino,
storico della filosofia e filosofo dell’Università di Padova, traduttore e/o curatore, oltre
che studioso, in particolare di Schopenhauer, Kant, Heidegger e Schmitt.
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Fine.
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