Religioni
IL TRATTAMENTO DEL
CORPO MORTO
NELL’ISLAM
CHIARA GALLI
I
l 1 maggio scorso è stato annunciato al
mondo che Osama bin Laden era morto durante un’azione delle forze speciali americane e il suo corpo inabissato nel mare da una
portaerei statunitense.
Il presidente Barack Obama ha velocemente
rassicurato il mondo islamico sul rispetto dei
parametri religiosi e delle relative procedure
funebri e contemporaneamente ha affermato
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che non sarebbero state divulgate le foto del
cadavere.
Nei giorni successivi, le polemiche e i dibattiti
sulla decisione di abbandonare il corpo in mare
hanno evidenziato come la soluzione adottata
dagli americani fosse più complessa di quanto
previsto. La scelta di fare sparire velocemente
dalla scena il corpo di bin Laden è stata prospettata come l’unica soluzione per evitare di
avere una tomba in un paese islamico attorno
alla quale Al Qaeda potesse creare un centro di
raccolta e di proselitismo. D’altro canto, questa
scelta inficia la stessa credibilità della notizia
della morte: senza la visione delle spoglie di bin
Laden i dubbi saranno sempre presenti e daranno sempre più adito a perplessità ed a sospetti sul suo reale decesso.
In una strategia di comunicazione operativa,
quale vuole essere quella di Barack Obama, che
sostiene di basare le proprie decisioni sul dialogo e sul confronto, la scelta di compiere queste due azioni forti, vale a dire l’inumazione in
mare e la non divulgazione delle fotografie, ha
tenuto certamente conto del sistema normativo e culturale islamico che sottendono alle
modalità comportamentali delle popolazioni
musulmane. Il trattamento riservato al cadavere di Osama bin Laden, da parte di coloro i
quali hanno causato la sua morte, è un esempio forte di utilizzo degli strumenti dell’antropologia operativa1. Conoscere le modalità di
soluzione che una comunità umana mette in
atto per far fronte alla morte di un suo appartenente rappresenta un canale privilegiato per
comprenderne la struttura sociale, il sistema
normativo e ideologico. Gli eventi immediatamente successivi alla morte di bin Laden dimostrano appieno come gli studi antropologici
forniscano fondamentali informazioni per realizzare strategie di confronto e di risoluzione
dei conflitti. Allo stesso tempo, tali studi permettono di avanzare alcune riflessioni sul reale
messaggio che Barack Obama ha mandato ai
fondamentalisti islamici con il trattamento riservato al cadavere del loro capo spirituale, al
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di là della scelta discutibile e controversa di
seppellirlo in mare. Infatti, se è vero che sono
stati adottati alcuni dei rituali previsti per le
esequie di un musulmano, d’altro canto alcuni
elementi, altrettanto essenziali, risultano essere
assenti. Per comprendere meglio la strategia
americana bisogna conoscere quali sono le pratiche funebri che l’Islam prevede per i propri
morti in generale e quali sono i rituali che le
diverse popolazioni mettono in atto quando un
loro appartenente muore come shahīd2.
Prima di proporli, vediamo, molto brevemente,
lo scenario ideologico islamico dell’evento della
morte sul quale si appoggiano le pratiche rituali previste e, successivamente, confrontiamo
queste con alcuni dei trattamenti riservati alle
spoglie mortali di bin Laden e che hanno sollevato perplessità nel mondo musulmano.
Il corpo morto nell’Islam
In tutte le società, quando qualcuno muore, si
genera un doppio problema: la necessità di colmare il vuoto creatosi nel sistema sociale e,
contemporaneamente, quella di allontanare il
corpo dalla realtà dei vivi. L‘Islam non assegna
particolare valore al corpo morto, anzi. Una testimonianza espressiva, seppure singolare, è
fornita da G. Scarcia: “Comunque, per lo più va
a finire che si muore. E i morti, in Islam si dovrebbero gettare via e qualche cimitero, che
esiste dato il tabù della cremazione, assomiglia
davvero ad una discarica. Ma non solo per il
normale degrado della città. È celebre l’annuncio della morte di Maometto: «Chi credeva in
Maometto sappia che Maometto è morto; chi
Cfr. Galli C. “Il contributo degli antropologi alle Peace Support Operations”, in Rivista Militare, nr. 2, marzo-aprile 2010, 44-51.
Il termine shah d (pl. shuhada) nel nostro immaginario indica colui che muore durante un attentato suicida o un’azione di combattimento.
In realtà la questione è più delicata e rende conto del suo utilizzo anche per musulmani che muoiono per azioni violente condotte da
altri, nelle quali sono vittime involontarie. Nella lingua araba SH-H-D è la radice della dimensione semantica della testimonianza: lo
shah d è colui che con la sua vita e nel momento della morte testimonia la propria fede e l’appartenenza ad una comunità della quale
condivide i valori islamici. Non è la modalità della morte, vale a dire se è il risultato di un atto violento verso sé (per non rinnegare la
propria fede) oppure di un atto violento verso altri, che hanno credenze religiose diverse, che rende testimone il morto. È la piena adesione
alla vita comunitaria nella realtà quotidiana, così come nell’eccezionalità della morte. La morte violenta non sempre veicola il riconoscimento dell’essere testimone dell’Islam: deve portare un beneficio alla comunità, in termini di obiettivi perseguiti, ma soprattutto deve
fare risaltare la condivisione da parte dell’individuo dei valori ideologici e delle credenze religiose degli altri componenti. In altre parole,
nell’evento drammatico l’individuo deve testimoniare contemporaneamente l’appartenenza alla umma (la comunità nell’accezione religiosa) ed una salda determinazione fideistica.
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credeva in Dio, Dio è il vivente». (...) In Islam il
cimitero è provvisorietà per definizione, fango
che si corrode e logora e sgretola”3.
Chi ha visitato dei paesi islamici sarà probabilmente rimasto sorpreso dal sentimento di anonimato che serpeggia nei cimiteri: le tombe,
qualora visibili e rialzate rispetto alla terra,
sono comunque anonime. Raramente può essere presente una pietra sepolcrale altrettanto
anonima, priva di fotografie e di indicazioni
sugli individui lì sepolti. La comunità può fare
un’eccezione per coloro i quali hanno esaltato
l’Islam, o perché hanno vissuto una vita particolarmente aderente ai precetti religiosi, oppure
nei Balcani, oppure può essere posta in parti
precise di cimiteri antichi e centrali nelle città,
protette da possibili ingiurie del nemico, come
avviene presso la popolazione palestinese. È
bene osservare che nel sistema ideologico islamico non è tanto il cadavere ad essere oggetto
di ossequio da parte della comunità, poiché questo è interpretato culturalmente come possibile
fonte di contaminazione; è il luogo dove l’individuo ha vissuto e, nel caso di capi religiosi, è la
madrasa dove ha insegnato, ad essere un possibile punto di riferimento per i seguaci sopravvissuti. In ogni paese islamico esistono delle
costruzioni, che possono avere vari nomi, quali
In apertura:Times Square, New York, la popolazione in strada brucia le immagini di Bin Laden dopo l'annuncio di Obama.
©www.flickr.com - by Josh Pesavento
Sopra: cimitero musulmano a Hebron
perché l’hanno sacrificata, ad esempio con la
morte violenta in azioni di combattimento, per
valori condivisi con la società stessa. Solamente
in questi casi la tomba è oggetto di attenzioni
particolari: può avere incisioni o fotografie come
3
zaiwiya in Medio Oriente o zawaya nel Maghreb. Nella tradizione islamica spesso sono le
case dove le autorità politiche o religiose
hanno vissuto e dove sono stati inumati immediatamente dopo essere morti: in questo modo
Scarcia G., 2001. La visione islamica in Curi, V. (a cura di) 2001. Il volto della Gorgone. La morte e i suoi significati. Milano, Bruno Mondatori,
113 sgg.
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Zawiya a hebron
la costruzione è diventata una moschea, un
luogo di preghiera, un centro di formazione religiosa o la sede di confraternite. Tali strutture
svolgono una funzione di mobilitazione religiosa e, più spesso, di strutturazione sociale.
L’avvertimento degli americani relativo al prossimo abbattimento dell’edificio dove bin Laden
ha vissuto gli ultimi anni, è fortemente interpretativo e scaltro: tale sito può realmente diventare
un centro di pellegrinaggio o un “luogo della memoria” con una capacità catalizzatrice del pensiero di Al Qaeda, maggiore rispetto ad una
tomba anonima in qualche paese imprecisato.
Lo sfondo culturale islamico
degli eventi di morte
L’Islam presenta un’immagine della morte
come una questione (relativamente) personale
ed autonoma che riguarda espressamente ogni
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singolo individuo. In altre parole, ogni individuo
è responsabile delle proprie azioni e della condotta terrena e lui, o lei, soli devono rendere
conto del proprio operato. Per fare questo, ogni
defunto deve affrontare e superare alcune
prove per risorgere il giorno del Giudizio. Il sistema elaborato delle credenze musulmane che
riguardano la natura della morte, ossia il processo del dying e gli accadimenti nella tomba
immediatamente seguenti al decesso, si è sviluppato nei primi secoli seguenti la morte Profeta Muhammed e fa più riferimento alle
tradizioni che a quanto esplicitamente insegnato nel Corano. I musulmani ortodossi hanno
raggiunto un accordo generale riguardo all’ordine degli eventi, all’identità ed ai ruoli dei vari
esseri celesti e demoniaci che raggiungono il
morto, estraggono l’anima, la interrogano riguardo la fede e le opere terrene e poi le attribuiscono una condizione di beatitudine o di
Welch A. T., 1977. Death and Dying in the Qur ‘an, in Reynolds F. E., Waugh E. H. (eds), Religious encounters with death. Philadelphia, The
Pennsylvania University Press, 183-199.
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pena dentro la stessa tomba4. In generale, possiamo ricordare che, appena morto, l’individuo
deve superare alcune prove. Per questo è importante che il corpo, purificato, sia seppellito
nella stessa giornata del decesso e prima dell’orazione del tramonto (Salatu al-maghrib),
vale a dire prima del calare della notte. La
prima prova è il Giudizio personale: il morto
viene interrogato nella sua tomba, appena seppellito o comunque entro la prima notte, da
Munkar e Nakēr, due angeli che stanno assisi
alla sua destra ed alla sua sinistra. Ciò è detto
tecnicamente l’Interrogatorio (su’al) di Munkar
e Nakēr e anche la Punizione della Tomba, poiché se egli è un infedele, la sua tomba diverrà
un inferno preliminare; se, invece, risulterà essere un vero credente, essa diverrà un purgatorio preliminare, dal quale passerà in Paradiso
nell’Ultimo Giorno5. Munkar e Nakēr sono i garanti del Giudizio personale. Il defunto, in piedi
nella tomba, deve professare senza alcuna incertezza la propria fede nell’Islam: è la shahada
(ancora la radice sh-h-d). In altre parole deve
testimoniare che “non esiste altro dio all’infuori
di Iddio e Muhammed è il suo Profeta”. I fedeli
risponderanno in modo corretto e saranno lasciati in pace fino al Giorno del Giudizio. I non
credenti non riusciranno a dare la risposta corretta e gli angeli li colpiranno duramente fino a
quando piacerà ad Allah: secondo alcune tradizioni fino al Giorno della Resurrezione, con
esclusione dei venerdì6. Per quanto il sistema religioso musulmano sia caratterizzato da una
forte autonomia del soggetto, che è chiamato a
rendere conto delle proprie azioni direttamente
e solo ad Iddio, tuttavia per la sua storia, l’Islam
ha costruito una disciplina autonoma che codifica i comportamenti religiosi nell’ambito del
fiiqh, ossia la giurisprudenza islamica. Queste
norme sono dei principi-guida minimi, come le
5
6
definisce Pace (1999) che un «buon musulmano»
deve seguire se vuole dare una forma rituale valida alla spontanea e sincera adesione individuale. In questo modo, l’individuo organizza la
propria esperienza come soggetto religioso attorno ad un sistema di pratiche, ordinate e formalizzate nel tempo, che permettono di tradurre
il sentimento religioso in atteggiamenti e comportamenti comuni e condivisi con la comunità.
Si può affermare, come per tutti i sistemi religiosi, che anche l’Islam in linea di principio
stende su tutta la società una fitta rete di simboli
e di pratiche religiose che quotidianamente ricordano ad ognuno di far parte di una comunità
di fede che, di fatto, coincide con la società in
cui vive. Le pratiche funebri hanno un valore aggiunto, rispetto ad altre espressioni, poiché permettono di instaurare una solidarietà tra il
morto, che non può ovviamente assolvere gli obblighi religiosi attorno al suo corpo, e i vivi, che
rafforzano, con questa forma di sostegno, il senso
d’appartenenza ad un corpo sociale, che prima di
tutto è religioso, poi politico. Una delle poche
certezze che ogni musulmano ha è che alla sua
morte qualcuno che appartiene alla sua comunità sociale e religiosa predisporrà il suo corpo
nel modo appropriato: il compito sarà svolto in
modo proporzionato a quanto in vita lui o lei
hanno partecipato alla realtà collettiva. Nella dimensione strettamente personale e religiosa, è
fondamentale la partecipazione della comunità
che rende addirittura efficace il rituale previsto.
La cerimonia funebre
In linea generale, secondo quanto rilevabile dai
precetti del Corano e dalla tradizione che si
basa sui detti e sui fatti attribuiti al Profeta
(sunna), riportati negli scritti (hadith), alla comunità è richiesto di purificare il corpo del
Nel Corano non vi è notizia dei due angeli Munkar e Nak r, che visitano l’uomo nella tomba e lo catechizzano sulla fede. La dottrina corrispondente a quella del Giudizio personale dei Cristiani appartiene alla sam‘iyat (testimonianza basata sulla Rivelazione, cioè sul Corano
e la Sunna) e su esplicite Tradizioni.
Di questa punizione nella tomba, che del resto corrisponde al primo Giudizio dei Cristiani, non appare testimonianza nel Corano, ma sono presenti allusioni in parecchi passi (Di Nola A., 1995. La morte trionfata: antropologia del lutto. Roma, Newton Compton 1995, 221-222).
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morto ed accompagnarlo senza indugio alla
tomba che deve essere, come già detto, assolutamente semplice ed anonima. Il rapporto
stretto che lega i vivi ai morti è dato dal fatto
che i primi si concentrano sulle spoglie, aiutando il passaggio nell’aldilà nel migliore dei
modi. In particolare, non solo purificano il
corpo, ma sostengono con le preghiere il defunto nell’incontro con le forze ultraterrene:
durante la preparazione della salma, i vivi sono
invitati a pregare per il defunto (salah), ad
elencare ad alta voce le buone azioni che ha
fatto in vita, i suoi meriti e pregi, perché Munkar e Nak r sentano e siano più favorevoli nel
giudicarne le opere. L’immagine appare distante rispetto alle rassicurazioni di Barack
Obama sul fatto che un ufficiale americano di
madrelingua araba e, si presume, anche se il
Presidente non è stato particolarmente preciso
al riguardo, di fede islamica, abbia genericamente “letto delle preghiere”. Bisogna chiarire
che in qualunque circostanza sia avvenuta la
morte, la comunità è sempre invitata, addirittura sollecitata, ad essere presente ai momenti
previsti dei riti funebri. Per quanto l’attendere
alla sepoltura sia una scelta personale, si cerca,
in ogni caso, di inserirla in una partecipazione
della comunità. La famiglia avverte i parenti e
gli amici del decesso, ed organizza la cerimonia
funebre in modo da potere dare agli interessati
la possibilità di prendervi parte. Il sostegno
della famiglia e della comunità, in una società
tribale è essenziale. Se la morte è un problema
individuale, le pratiche rituali attorno al cadavere sono una questione assolutamente sociale.
Il cadavere possiede capacità di contaminazione in molte culture. È richiesta cautela nel
suo trattamento e le cure che lo rendano puro
devono essere esatte e precise. La regola islamica prevede che la salma sia depilata e lavata
accuratamente e in tutte le sue parti, poi profumata da persone, dello stesso sesso del
morto, «pie ed oneste». Il primo atto di pietà
della comunità è quello di lavare il morto se-
condo particolari procedure (wadul o meglio,
in arabo classico, wudu ) perché possa presentarsi nella forma migliore al Giudizio: addirittura è un’azione particolarmente meritoria,
perché caritatevole, preparare il corpo morto
seguendo le opportune procedure. La paura di
compiere un rituale sbagliato, nocivo per la salvezza del familiare morto, è al centro del disagio che circonda i familiari che spesso
preferiscono rivolgersi a persone già esperte,
pur tuttavia appartenenti allo stesso gruppo
tribale. Perché il lavaggio purificatorio del
corpo sia efficace è necessario che chi compie
l’azione lo faccia con uno spirito caritatevole e
secondo le intenzioni del morto. È l’intenzionalità dell’azione, nell’Islam, che sancisce e legittima il suo valore religioso. È come se ci
trovassimo di fronte ad un atto di pietà dei vivi,
che si sostituiscono al morto nel compito solamente perché questi è, ovviamente, impossibilitato ad assolverlo. La purificazione del corpo
morto è uno di quei gesti in cui l’espressione di
fede dell’individuo si fonde in quella della comunità. Nel caso di Osama bin Laden, si comprende lo sconcerto della famiglia, che si
domanda se realmente il corpo sia stato trattato secondo le procedure previste: non basta
lavare il corpo ed inserirlo in un sudario bianco.
Il rito deve essere compiuto con spirito caritatevole, pregando per il morto e secondo le intenzioni di questo. Il senso di solitudine e di
abbandono che si percepisce nella soluzione
adottata per il corpo di bin Laden non trova
corrispondenza in una società tribale nel quale
ogni individuo vive immerso, dalla nascita alla
morte e finanche alla sepoltura. È comprensibile, dunque, la manifestazione di disagio dei
suoi parenti riguardo la reale adeguatezza del
rituale funebre. In conclusione si può proporre
un’altra osservazione: nelle pratiche funebri
previste esiste un’eccezione al rituale del lavaggio del corpo: il corpo dello shahīd non
viene lavato. Anzi, è sepolto così come era vestito al momento in cui è stato ferito mortal-
RELIGIONI 47
mente. Gli abiti laceri e sporchi, macchiati di
sangue versato per l’Islam sono lasciati anche
nella tomba, perché sono considerati come il
più santo degli abiti con cui presentarsi al cospetto del Misericordioso. Il corpo dello shahīd
non è lavato semplicemente perché non ne ha
bisogno, ma perché a nessun uomo o donna è
concesso lavare ciò che sfugge alle umane categorie di purità-impurità: è il sangue stesso
sparso sul corpo che lo deterge e profuma.
Questa certezza culturale rende conto dei continui richiami al sangue ed alla purezza del
morto, che sono scanditi durante i funerali da
parte di chi lo accompagna e nelle eventuali rivendicazioni successive. L’insistenza degli americani sull’avere lavato il cadavere di bin Laden
potrebbe essere interpretato in modo fortemente simbolico ed ideologico, fornendo un
messaggio diverso ai seguaci di bin Laden rispetto alla comunità internazionale: nel momento stesso in cui viene richiesta ai
cerimonieri americani di esprimere pietà per il
morto, a questo non é riconosciuta la sua condizione: quella di shahīd.
L’ultima riflessione sulla assenza di fotografie
di bin Laden che può essere interpretata come
un gesto caritatevole da parte degli americani,
ma allo stesso essere latrice di un messaggio
contrario. Nei paesi islamici, i morti sono avvolti completamente in un sudario, il cui effetto immediato è quello di rendere informe il
cadavere: dopo l’atto caritatevole e comunitario della purificazione, la società prende le distanze dal morto e, isolandolo completamente,
avvia il processo di espulsione che si concluderà con la chiusura della lastra tombale. Il
corpo morto perde ogni fattezza di umanità: ad
esempio, è cancellato qualunque indizio di genere. L’unico modo per capire se la persona celata in quella sorta di sacco è un uomo o una
donna, è che nel secondo caso solo il marito o
il figlio possono toccarlo. Questo è il trattamento che Barack Obama afferma sia stato utilizzato per le spoglie mortali di bin Laden.
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Esiste, però, un’eccezione alla forma ortodossa
del sudario ed è applicata nel mondo islamico,
ancora una volta, allo shahīd.
In questo caso, durante la cerimonia funebre,
il volto scoperto dal sudario è mostrato ai presenti (eventualmente anche ai media), quasi in
una forma di offerta alla comunità. Il significato del volto scoperto è maggiormente intensificato dalla presenza, ad esempio nei territori
palestinesi, di giovani che partecipano armati
e con il volto coperto. Questi sono ragazzi che
hanno manifestato la volontà di morire in
azione di combattimento, come shuhada e segnano questa decisione di offrire la propria
vita, e dunque, il proprio corpo, con un abbigliamento particolare ed unico. Il celare il volto
Il Presidente Barack Obama descrive in conferenza stampa la missione contro Osama bin Laden - Official White House Photo by Pete Souza
è sicuramente determinato dal desiderio di non
essere riconosciuti dalle forze avversarie, ma è
anche una rappresentazione concreta di distacco dalla realtà quotidiana. Spesso, infatti,
oltre al viso coperto, indossano anche una tunica bianca o verde, uguale per tutti, che cancella ogni forma, quasi fosse un sudario essa
stessa. L’abbigliamento e il volto coperto li rendono irriconoscibili anche per le loro stesse famiglie. Solamente quando moriranno come
shuhada sarà mostrato alla comunità il volto
scoperto, pur se deturpato da ferite, e sarà resa
visibile la loro identità, anche tribale. È come
se le spoglie mortali dello shah d, del testimone, fosse offerto alla comunità: da morto
appartiene alla società, che in tutti gli altri casi
si affretta a sbarazzarsi delle salme. Nel caso
dell’inumazione in mare del corpo di bin Laden,
la manifestata attenzione, dichiarata da Barack
Obama, alla chiusura del corpo in un lenzuolo
secondo il rituale generico previsto, ha privato,
in questa visione, il nemico principale degli
Stati Uniti d’America del riconoscimento della
propria eccezionalità. In altre parole, con l’apparente e certamente corretta volontà di seguire le previste pratiche rituali dell’Islam, gli
americani hanno forse voluto cogliere l’occasione, del resto comprensibile, di ribadire la loro
volontà a non riconoscere a bin Laden, nella
vita, così come nel momento della morte, la
condizione straordinaria, nell’accezione religiosa, di shahīd.
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