Il Mediterraneo Filosofo

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Il Mediterraneo Filosofo
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Un ringraziamento particolare a Luciano De Fiore, autore del saggio filosofico Anche il mare sogna.
Filosofie dei Flutti, con il quale ho avuto il privilegio di interrogarmi, a largo giro, sulla natura anfibia del
mare. E con il quale ho imparato a muovere le prime bracciate nell’oceano del pensiero.
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INDICE
INTRODUZIONE ...................................................................................................................................... 4
1.
LA QUESTIONE DELL’ORIGINE .......................................................................................................... 6
2.
LA QUESTIONE DELL’ESSENZA ........................................................................................................ 10
3.
LA RIFLESSIONE ............................................................................................................................. 13
CONCLUSIONE...................................................................................................................................... 17
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INTRODUZIONE
Pedrag Matvejievic ci avverte: accedere al mediterraneo è innanzitutto scegliere un punto di partenza.
Così come accade per il pensiero. Le acque e la filosofia, accomunate entrambe da una precisa
determinazione, la profondità. Quell’unica che permette la metaforizzazione di due esperienze limite
per l’uomo: il naufragio e la deriva. Questi devono essere stati anche i pensieri di Albert Camus, quando
la Campana il 30 giugno del 1949 si staccava dal porto di Marsiglia per condurlo in una serie di
conferenze in America Latina1. Si direbbe la stessa rotta di Cristoforo Colombo e seppure Schmitt
privilegia figure più eroiche – il baleniere e il pirata –, per il filosofo e giurista tedesco è proprio il
viaggiatore genovese l’archetipo dell’uomo moderno che per primo vive l’esperienza della globalità.
Freud tuttavia è più prudente nei confronti di quel ozeanisches Gefühl, che secondo Rosenzweig
costituisce la visione sintetizzante del mondo, di contro a quella omerica differenziante. Per il filosofo
austriaco, che ha scritto le prime due parti di Globus – Ecumene e Thalatta – su cartoline postali che
spediva ai genitori nella terra di una trincea balcanica, «esiste un solo mondo, un solo mare».
E se il mare e l’uno sono in qualche modo in un rapporto di identità, lo è ancor di più quel tipo
particolare di mare “chiuso” che è il Mediterraneo. Rimanendo vero che, con Braudel, il Mediterraneo è
più plurale che singolare, lo è altrettanto che esso si è sempre fatto carico di sintetizzare queste pluralità,
di singolarizzarne le differenze, tanto da essere percepito da Albert Camus sempre come un mare
«domestico», metafora di quella “nostalgia di unità” che permea tutta la sua opera.
Difficile individuarne le rotte come anche interpretarne le onde. Ed Hegel l’aveva capito benissimo
quando, nel paragrafo 247 di Lineamenti della filosofia del diritto, contrappone la terra in quanto principio
della vita familiare al mare, l’elemento che spinge l’anima verso l’esterno. E continua scrivendo che il
mare «porta terre lontane nella relazione del traffico, di un rapporto giuridico introducente il contratto,
nel quale traffico si trova in pari tempo il massimo mezzo di civiltà, e il commercio trova il suo
significato storico-mondiale».
Il Mediterraneo allora unisce o divide? Potremmo dire, antropologicamente e per usare un gergo
marino, che le sue acque “accostano” le diversità e favoriscono lo scambio. Non è un caso che per
Sloterdijk «la questione principale non è che la Terra giri intorno al Sole, bensì che il denaro giri intorno
alla terra».
Di certo ha ragione Camus a scrivere che «il Mediterraneo è Altrove», anche da un punto di vista
strettamente oceanografico. Verso la fine del Miocene, circa 5-6 milioni di anni fa, l’intero mediterraneo
evaporò. Il Mare nostrum allora non era altro che una superficie di due milioni di chilometri quadrati di
montuosità, avvallamenti e deserti. Finché lo sbarramento di Gibilterra non cedette e le acque
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F. Pace, Senza volo. Storie e luoghi per viaggiare con lentezza, Einaudi, Torino 2008.
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dell’Atlantico vi si riversarono al ritmo di 35000 km3 per anno.
E se la prima vera carta batimetrica degli oceani viene edita a Parigi nel 1905, a segnare con precisione
la profondità del pensiero si rischia il naufragio più efferato. Come è accaduto a Kelvin, lo psicologo
mandato su una nave spaziale semi-abbondonata orbitante attorno all’enorme pianeta-oceano Solaris,
nell’omonimo romanzo di Stanislaw Lem. La superfice del pianeta è un mare gigantesco che si muove
di continuo e nel suo vorticare materializza nella realtà i fantasmi del desiderio. Kelvin ritrova così la
sua defunta moglie Hari, suicidata dopo che lui stesso l’aveva lasciata.
E se il mare fosse anche questo, un enorme catalizzatore di passioni? Se il Mediterraneo di Camus
fosse non soltanto quell’idilliaco sogno di unità ma anche, perlomeno, la concausa che ha portato
Meursault a quell’assurdità, quando «dal mare è rimontato un soffio denso e bruciante»? Forse allora le
acque che bagnavano quella spiaggia custodivano non il pensiero razionale ma, con Nietzsche, il suo es,
i sogni del mare.
Il mare dunque ha che fare con la filosofia ma anche con le passioni e con l’amore, non soltanto per
Kelvin ma, di certo, anche per Albert Camus che, in L’esilio di Elena, stacca quelle poche righe che
hanno tutta l’aria di essere una confessione, dedicate alle acque del mediterraneo: «Il mare passa e
rimane. Così bisognerebbe amare, fedeli e fuggenti. Io sposo il mare».
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1. LA QUESTIONE DELL ’ORIGINE
Per quello che potremmo chiamare provvisoriamente uno strano scherzo del destino, tutto quello che ha a
che fare l’origine del Mediterraneo esibisce lo stesso scheletro, la stessa struttura logico-ontologica per
dirla in termini più strettamente filosofici, della sua metafora: l’Europa come concetto. Perché il
Mediterraneo non è il Mediterraneo esattamente come l’Europa non è l’Europa. Lo stesso DNA per la
lettera e l’allegoria.
Nel suo bellissimo testo Europe, or the infinite Task, il fenomenologo Rodolphe Gashé rintraccia due
possibili etimologie del nome Europa. Secondo la prima pista si dovrebbe risalire all’origine semitica
della radice ereb, che rimanda alla sera o all’oscurità. Un sostantivo preso a prestito dai fenici:
chiamandosi con il nome di un altro l’Europa guarderebbe e coglierebbe se stessa riflessivamente.
Secondo l’altra pista si risalirebbe al lessico omerico, che fa dell’Europa un aggettivo di Zeus: Zeus
europé, vale a dire dallo sguardo ampio.
Il mito poi vuole che Europa sia una fanciulla bellissima, figlia di Agenore e Telefassa, sorella di
Cadmo, rapita da Zeus nei panni di un toro bianco. È già Erodoto a sottolineare come Europa fosse
questa fanciulla non europea ma asiatica, che non ha mai visitato il paese che noi ora chiamiamo
Europa, e che fu portata dalla Fenicia a Creta e da Creta in Licia.
In entrambi i casi, c’è qualcuno che ruba qualcosa. Un popolo una parola, un dio una ragazza.
Jaspers, nel tentativo di definire l’Europa, propone una lista senza fine: una figura secondo Paul Valery,
una categoria secondo Alain Badiou, uno schema secondo Denis Guénoun, una piccola cosa secondo
Derrida. Ma se anche riuscissimo a chiudere la lista sorgerebbe un altro problema: cos’è che
unificherebbe l’elenco? O in altri termini, quale minimo comun denominatore definirebbe il carattere
dell’Europa?
Dall’analisi filologica si è dimostrato che Europa non è un nome proprio in senso stretto. In breve, e
questa è la tesi di Gashé, l’Europa è un compito, il compito di pensare e raggiungere l’universalità.
Dovrebbe essere chiaro. Quel che vale per l’Europa vale per il Mediterraneo. Il concetto di
universalità ha molto a che fare il mare nostrum (vedi cap.2 L’ESSENZA). ma ancora prima vi ha che
fare la stessa logica che ne definisce l’identità: esattamente come l’Europa nasce altrove, filosoficamente
parlando allora, e in piena Logica hegeliana, il suo io si struttura nell’atto di negare il suo non-io, così le
acque del Mediterraneo non sono quelle comprese dalle colonne d’ercole ma vengono da fuori. Stando
a quanto riporta Hsü, verso la fine del Miocene, l’intero Mediterraneo evaporò a causa di un evento
sismico provocato dallo scontro tra la placca euroasiatica e la placca africana. Finché, per un altro
evento sismico, lo sbarramento di Gibilterra non cedette e le acque dell’Atlantico vi si riversarono al
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ritmo di 35000 km3 per anno. Ad oggi il 70% delle specie viventi nel Mediterraneo è presente anche
nell’Atlantico.
La prima prova di brevi traversate marine risale al Paleolitico superiore, cioè verso l’11.000 a.C.,
quando le prime popolazioni misero piede nell’isola di Melo, alla ricerca del vetro vulcanico di
ossidiana, utilizzato per fabbricare utensili litici dal taglio più affilato di quelli in selce 2. Ma furono i
Greci3 a porsi per primi il problema della natura “originaria” delle acque.
Del mare non conoscevano l’ampiezza, che oggi sappiamo essere 2 milioni e mezzo di km2,
l’estensione da ovest a est, di 4.000 km con un perimetro costiero di 22.000 km, e soprattutto ne
ignoravano la profondità, che raggiunge i 5270 m. Eppure nel nostro immaginario i greci sono gente di
mare. Ma quale era la sfera dei sentimenti, una volta preso il largo? Che rapporto avevano i greci con il
mare? In effetti, al contrario della vulgata che vuole il Mediterraneo come quel mare calmo e
costantemente benedetto da sole, se si prova a seguire il perimetro della costa provenzale, lì dalla stessa
Marsiglia dove si imbarcò Albert Camus sino a Sète, nei mesi invernali si può sentire un forte rombo
come il ruggito di un leone, prodotto dalla forza del maestrale.
Ma che nomi utilizzavano i greci, per il mare? ἅλς se al maschile indica il sale, se al femminile il
mare. Per traslato dunque ἅλς indica il mare con riferimento alla sua materialità4; πέλαγος è il mare in
quanto distesa da attraversare, il mare-viaggio; Πόντος è l’immensità; Θάλασσα indica il mare nel suo
carattere più generale; λαῖτμα è la profondità marina. Eppure per “Mediterraneo” manca una parola
univoca. Tucidide trova un escamotage e vi si riferisce come all’Ellenikès Thalasses5. Omero è convinto
che Oceano fosse stato «l’origine degli dei»6. Un grado di essenza che sta al di qua di tutto il pantheon
greco, notoriamente metafora del Senso per i greci. Karl Kereny dedica il capitolo d’apertura del suo
imponente Gli dei e gli Eroi della Grecia ad Oceano, le cui acque sono simbolo di fecondazione e pura
potenza generatrice. Tutto è scaturito dalle sue acque: fiumi, torrenti, sorgenti, il mare stesso. E quando
tutto aveva avuto origine non gli rimase che continuare a scorrere ai margini della terra, confluendo in
se stesso, seguendo un moto vorticoso ininterrotto7. Tutto sorge dalle acque e le acque non trovano
altra meta che in loro stesse.
Allora il mare è uno o è tante cose? È plurale, come lo vuole Braudel 8, o è singolare? Dà conto
dell’identità o della differenza? Molti pensatori si sono posti il problema di capirne le onde, chi
assaggiandone la sapidità chi da una postazione di riparo, dalla riva. Una cosa è però certa, ed è da
D. Abulafia, Il grande mare, Mondadori, Milano 2016, p. 19.
notoriamente i “greci” percepivano se stessi non come popolo ma come agglomerati distinti: iono, dori, eoli, arcadi.
Almeno fino al VI minaccia persiana e successivamente agli scontri con le flotte etrusche e cartaginesi.
4 Nell’undicesimo Libro dell’Odissea l’indovino Tiresia predice a Odisseo una morte ex alos. Inoltre di Omero la frase e alos e
epi ges, letteralmente per terra e per mare, Od. 2.261.
5 Guerre del Peloponneso, I, 4).
6 Omero, Iliade, XIV, 201.
7 K. Kereny, Gli dei e gli Eroi della Grecia, Il Saggiatore, Milano p. 27.
8 F. Braduel, Il Mediterraneo, Bompiani, Milano 2002.
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questa che occorre partire; per la sapienza greca chiedersi del Mediterraneo equivale a porsi la domanda
sull’archè. E se la sapienza arcaica greca, così come quella orfica9, che ancora parlava la lingua del mito,
affidava al mare un ruolo primario, il pensiero razionale invece lo ha individuato come un nemico. È
noto che la καλλίπολις platonica era da fondarsi lontano dalle acque, a circa 9 chilometri dalla riva. E
proprio Platone si è imputato di talassofobia. Di certo il grande filosofo considerava il mare un
pericolo, anche dal punto di vista morale. Oltre al rischio di naufragio, per il filosofo ateniese il mare è
fonte di corruzione culturale: per mare, ne era convinto, si va soltanto mossi dal guadagno10. È nel
Fedone ha scrivere chiaramente che:
Nulla nasce nel mare di cui valga la pena parlare, nulla che sia per così dire, perfetto, ma dirupi e
sabbie e distese di fango e pantani ovunque, anche dove c’è terra11.
Di certo ai tempi mettersi in mare voleva dire incorrere con un’alta probabilità in svariati pericoli.
Quanto meno si cercava di navigare sotto costa. La navigazione era una τέχνη complessa. Ma qui
Platone dice qualcosa di più. Alle acque è connessa l’impurità. All’interno del suo contesto logicoontologico il più alto grado di perfezione è il mondo noetico. Tutto ciò che si trova nel mondo
fenomenico, compreso quel che si trova sulla terra, rimane difettivo. Ma le piante e le creature che
abitano il mare scontano una imperfezione maggiore. Tanto da affidare, nel Timeo, il grado più basso
nella scala dell’essere ai crostacei12.
Eppure nel lessico platonico le stesse metafore sono utilizzate per esprimere le difficoltà e le insidie
sia dalla navigazione sia della politica. Il politico è detto un κυβερνήτης, un timoniere. E la nave stessa
diviene metafora della polis13. Ed ecco che la metafora, ancora una volta, viene in soccorso della realtà.
Perché per prosperare le polis si dovettero munire di una affidabile flotta navale.
Quando nel 486 Serse diede una netta virata alla politica persiana, da una accondiscendenza verso i
rivoltosi ad una vera e propria repressione dei nemici, i greci interrogarono la Pizia su cosa avrebbero
dovuto fare, combattere o «medizzare», cioè sottomettersi ai medi e ai persiani per aver salva la vita.
Interrogato, l’oracolo di Delfi si narra che fece un vago accenno a una certa «muraglia di legno».
Il mare, la filosofia. In Geofilosofia dell’Europa, Cacciari afferma che «da un lato è proprio la filosofia a
mettere in luce quel “tremendo”, quel “periculosum maxime” del mare, che sta al cuore della historia di
Tucidide, ma che già colpiva in Erodoto. Dall’altro, la filosofia non può condividere quella
“demonizzazione” della potenza del mare e sul mare che s’incontrerà in Isocrate […]. La filosofia non
Or. 15 afferma. «il primo fu Oceano, dal bel corso, che incominciò l’accoppiamento: egli prese in sposa la sorella Teti, nata
dalla stessa madre».
10 Platone, Gorgia.
11 Platone, Fedone 110a.
12 Platone, Timeo 92a-b.
13 Per una ricostruzione delle metafore marine nella letteratura platonica, Santini, Il filosofo e il mare, Mimesis, Milano 2010.
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può non condividere la hybris della talassocrazia, ma non può non condividerne la forza sdradicante. La
filosofia deve salpare da ogni dòxa, da ogni Nomos acquisito solo per forza di tradizione»14.
Ma allora, ci si chiedeva all’inizio, il Mediterraneo è uno o è molti? Per dare dei nomi e fare
schematismi, è vincente il modello Braudel, per il quale il mediterraneo è tutto plurale oppure il
modello Rosenzweig, per il quale esiste «un solo mondo, un solo mare»? Direi delle due la terza.
Il Mediterraneo, così come il pensiero filosofico, non è né singolare né plurale. Ma quella «unità
organica15» che nasce con il compito, “infinito” secondo Gashé, di universalizzare la propria singolarità.
M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 2003, pp. 54-55.
La bella definizione di mare come «unità organica» è di L. De Fiore in Anche il mare sogna. Filosofie dei flutti, Editori Riuniti,
Roma 2013, p. 21.
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