TEORIA DEI SISTEMI E COMPLESSITà / 12

teoria dei sistemi e complessità / 12
Direttore scientifico
Andrea Pitasi, Università “Gabriele d’Annunzio”, Chieti–Pescara
Vicedirettore Scientifico/Vice-Editor
Gandolfo Dominici, Università degli Studi di Palermo, Palermo
Coordinamento di redazione
Marianna Caputo, Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa”, Napoli
Comitato Scientifico/Scientific Board­­­
Lucio d’Alessandro, Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa”, Napoli,
Italia
Maria Rita Astolfi, Club di Budapest Italia, Lucca, Italia
Sebastiano Bagnara, Università degli Studi di Sassari-Alghero, Italia
Roberta Bisi, Università Università degli Studi di Bologna, Bologna, Italia
Gaetano Bonetta, Università “Gabriele d’Annunzio”, Chiet–Pescara, Italia
Hans-Bernd Brosius, Universität München, Germania
Michele Cascavilla, Università “Gabriele d’Annunzio”, Chieti-Pescara, Italia
Leonardo Cannavò, Università “Sapienza”, Roma, Italia
Domenico Carzo, Università degli Studi di Messina, Messina, Italia
Augusta Consorti, Università “Gabriele d’Annunzio”, Chieti–Pescara
Umberto Costantini, Formez di Napoli, Italia
Paolo De Nardis, Università “Sapienza”, Roma, Italia
Paola Di Nicola, Università degli Studi di Verona, Verona, Italia
Demetrio Errigo, Direttore responsabile «Nuova Atlantide», Rovigo, Italia
Giovanbattista Fatelli, Università “Sapienza”, Roma, Italia
Giancarlo Guarino, Università “Federico II”, Napoli, Italia
Horst Hanusch, University of Augsburg, Germania
Ervin Laszlo, Global Shift University, USA
Loet Leydesdorff, University of Amsterdam, Olanda
Arthur Lizie, Bridgewater State University, USA
Francesco Maglioccola, Università “Parthenope”, Napoli, Italia
Carlo Marletti, Università degli Studi di Torino, Italia
Alberto Marradi, Università degli Studi di Firenze, Italia
Antonio Maturo, Università “Gabriele d’Annunzio”, Chieti-Pescara, Italia
Helga Nowotny, WWTF Vienna Science and Technology Fund, Austria
Roberta Paltrinieri, Università degli Sudi di Bologna, Italia
Leon Rappoport, Kansas State University; Manhattan -KS-, USA (1932-2009)
Alexander Riegler, Free University of Brussels, Belgio
Alessandro Rovinetti, Associazione Italiana della Comunicazione Pubblica e
Istituzionale, Italia; Università degli Studi di Bologna
Attila Massimiliano ed Enrico Tanzi, Università degli Studi di Bologna, Italia
Michela Venditti, Università “Gabriele d’Annunzio”, Chieti–Pescara, Italia
Francesco Vespasiano, Università del Sannio, Benevento, Italia
Paolo Zurla, Università degli Studi di Bologna, Italia
teoria dei sistemi e complessità
Collana diretta da Andrea Pitasi
Dagli studi di von Bertalanffy in biologia, agli scritti di Wiener e Ashby
a fondazione della prima cibernetica, dalle pagine di Buckley sulla teoria
dell’informazione a quelle di von Foerster per lo sviluppo di una cibernetica di secondo ordine, dalla sociologia co-struttivista di Luhmann al campo olografico di Laszlo, dagli studi nelle scienze dell’organizzazione di
Crozier e Friedberg alle rifles-sioni epistemologiche di Delattre, la teoria
dei sistemi è una delle principali protagoniste intellettuali del XX secolo
e, all’alba di que-sto terzo millennio, si conferma uno strumento concettuale poten-tissimo per l’evoluzione socio-economica dell’umanità. Come
scrive brillantemente proprio Delattre:
La teoria dei sistemi ambisce ad agire allo sgretolamento dei saperi e a
svi-luppare una metodologia all’altezza delle sfide della complessità [...].
Dopo la fase di decostruzione delle vecchie discipline [...] è diventato oggi
indispensabile procedere ad una nuova sintesi delle conoscenze secondo
un principio di unifi-cazione necessariamente differente da quelli precedenti poiché deve essere ade-guato ad altri livelli di apprendimento (P. Delattre, Teoria dei sistemi ed episte-mologia, Einaudi, Torino 1984, pp. 3-5)
e in tal senso, appunto, la teoria dei sistemi si è rivelata un mo-dello concettuale formidabile anche per la sua plasticità evolutiva e adattiva per
esempio attraverso il paradigm shift da una logica tutto/parti a una logica
sistema/ambiente. Essa rivela la sua grande potenza euristica nel creare
modellizzazioni concettuali interdisciplinari fondamentali per sviluppare
analisi di scenario globale, strategie evolutive dotate anche di un adeguato
impianto predittivo su base probabilistica e interventi tattico-operativi di
problem solving che l’hanno resa applicabile anche in varianti più divulgative come quella di Paul Watzlawick e i suoi collaboratori. La teoria
dei sistemi, inoltre, essendo a sua volta evolutiva, come testimoniano le
splendide ricerche di Ford e Lerner, si presta a creare modelli concettuali
glocali in grado, cioè, di gestire le complesse dinamiche di globalizzazione
e localizzazione, di integrazione e differenziazione che contraddistinguono l’evoluzione auto-organizzativa del vivente. Come scrive saggiamente
lo stesso Delattre (ivi: pp. 15-16):
il carattere interdisciplinare della teoria dei sistemi implica lo studio e il
confronto dei metodi e dei concetti utilizzati dalle diverse discipline per
isolare il sostrato comune capace di costituire l’ossatura di un linguaggio
più o meno uni-ficato [...] ogni linguaggio deve essere, nella misura del
possibile, formalizzato il che significa che le sue regole di combinazione
interna devono essere sufficien-temente precise da eliminare al massimo
le ambiguità, un’esigenza costante di ogni attività scientifica.
Questa collana, dunque, è attenta e aperta a contributi interdi-sciplinari
che offrano anche occasione di rivoluzioni kuhniane e innovazioni schumpeterianamente radicali all’altezza delle sfide evolutive della complessità
negli scenari globali attuali, così ricchi di soglie epocali e di biforcazioni
(per esempio se continuare ad avere un’economia basata sul petrolio o
attivare seriamente fonti alternative di energia, se invocare teorie creazioniste sull’origine e l’identità biologica dell’uomo oppure aprirci a salti
evolutivi che implichino una rilettura, con relative minacce e opportunità,
delle chances di vita dell’uomo in nuove forme) che sono proprie del nostro tempo e di fronte alle quali la più tragica e rischiosa decisione sarebbe
quella di non decidere.
Sistem theory and complexity
Book series edited by Andrea Pitasi
The System Theory is one of the most important intellectual protagonist of the XX century and on the eve of this third millennium. It stands
as a powerful conceptual instrument for the socio-economical evolution
of the society as we get from a series of studies: von Ber-talanffy’s research on biology, Wiener and Ashby’s works, founders of the first cybernetic, Buckley’s pages about the theory of infor-mation, von Foerster’s
study on the development of a second order cybernetic, Luhmann’s social constructivism, Laszlo’s holographic field, Crozier and Friedberg’s
studies about the science of organization and Delattre’s epistemological
reflections. As Delattre himself brightly writes: “the theory of systems
aim to crumble away learning and to develop a methodology up to the
chal-lenges of complexity (…). After the phase of deconstruction of the
old disciplines (…), today it needs to go to a new synthesis of knowledge
through a principle of unification that has to be different from the old
ones, because it has to be suited to the others level of learning” (Delat-tre,
1984) and, from this point of view, the theory of systems turned out as a
smashing conceptual model even because of its evolutionary and adaptive plasticity, for example through the paradigm shift from a everything/
parts logic to a system/environment logic. It reveals its great heuristic
power in creating conceptual and interdisciplinary modelizations that are
necessary to develop analysis of global scenar-io, evolutionary strategies
also endowed with a suitable predictive sys-tem – on a probabilistic base –
and tactic-operative problem solving interventions that made it applicable
even in more popular variables as the one made by Paul Watzlawick and
his colleagues. The theory of systems is also evolutionary itself – as Ford
and Lerner’s wonderful researches testify – so it lends itself in creating
conceptual glocal models able to manage the complex dynamics of globalization and lo-calization, of integration and differentiation, that mark the
self-organizational evolution of the living one. As Delattre sagely writes:
“the interdisciplinary nature of the theory of systems implies the study
and the comparison of the methods and concepts used by the different
disciplines to isolate the common substrate that is able to build the frame
of a more or less unified language (…); each language has to be, as much
as possible, formalized, that is that its rules of internal combination must
be sufficiently precise to eliminate as a maximum ambiguities, and this is
a constant need in every scientific activity”. Thus, this publishing series
pays attention and is opened to interdisci-plinary contributes that could
offer chances of kuhnian revolutions and schumpeterianally radical innovation at level with the evolutionary challenges of the complexity of the
actual global scenarios that are so rich of epochal thresholds and bifurcations (for example it is about having an oil based economy still or seriously
activating alternative sources of energy, invocating creationist theories
about origins and bi-ological identity or opening ourselves to evolutionary jumps that im-ply a re-reading – with its threats and opportunities – of
the chances of life of men in new forms) that our times own and in front
of which the most tragic and risky decision would be not deciding at all.
Copyright © MMXII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133/A–B
00173 Roma
(06) 93781065
isbn 978–88–548–5104–7
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: ottobre 2012
Massimiliano Ruzzeddu
Tra ordine e incertezza
La complessità nel terzo millennio
Indice
9
Prefazione
11
Introduzione
15
Capitolo I
Struttura ed ordine sociale
1.1. Il problema dell’ordine in sociologia, 15 – 1.2. Il sistema e la sistemica, 18 – 1.3. Il sistema ed il sistema sociale: Parsons, 24 – 1.4. Morin: sistema ed ambiente, 27 – 1.5. Luhmann, 29 – 1.6. La sistemica oggi, 36
41
Capitolo II
Il problema dell’osservatore
2.1. Entropia, 41 – 2.2. Indeterminatezza, 43 – 2.3. Ordine e comunicazione, 47 – 2.4. La cibernetica, 52 – 2.5. L’osservatore, 55 – 2.6. La cibernetica seconda e l’osservatore, 57
7
61
Capitolo III
Caos e cambiamento
3.1. Ordine e caos, 61 – 3.2. Cibernetica seconda ed emergenza, 67 – 3.3.
Irreversibilità e cambiamento, 70 – 3.4. Il cambiamento omeostatico, 72 –
3.5. Causalità complessa e causalità cibernetica, 74– 3.6. Cibernetica seconda e causalità complessa, 79
85
Capitolo IV
Incertezza
4.1. Gestione dell’incertezza, 85 – 4.2. Incertezza ed aspettative sociali, 94
– 4.3. Divulgazione, 97 – 4.4 Conclusioni, 108
111
Capitolo V
La complessità della natura umana
5.1. Introduzione, 111 – 5.2. Il problema, 113 – 5.3. Definire la natura umana, 120 – 5.4. La natura umana come prodotto culturale, 124– 5.5. Conclusioni, 135
139
Bibliograa
Prefazione
Fin dalle prime righe del suo lavoro, Ruzzeddu compie un’operazione
tipicamente sociologica: mette cioè in relazione l’ondata di interesse
per le teorie della complessità con la delusione, avvertita già nella seconda metà degli anni Settanta, per la crisi, o piuttosto per il “riflusso”
dei movimenti di protesta di stampo radicale che si erano sviluppati a
partire dalla seconda metà dei Sessanta; crisi, o riflusso che implicava,
fra l’altro, una riduzione degli stimoli ad utilizzare la teoria sociale
come strumento per il superamento dei modelli esistenti di organizzazione produttiva e distribuzione della ricchezza nonché delle rappresentazioni culturali dominanti.
Raccogliendo questa suggestiva proposta e implementandola, si potrebbe dire che, più in generale, un rapporto si dà tra l’interesse per le
teorie della complessità e la crisi finale del “progetto moderno”: quel
progetto dapprima illuminista, poi democratico-giacobino, poi socialista, di introdurre per via politica “razionalità”scientifica nel mondo
sociale, dopo che per l’appunto la scienza l’avrebbe scoperta già operante nel mondo della natura. In fondo quei movimenti fortemente ideologizzati del ’68 si possono legittimamente considerare il colpo di
coda del tipo di conflittualità già operante nella società industriale e
moderna: lavoro contro capitale, campo socialista contro campo impe-
10
3UHID]LRQH
rialista (guerra del Vietnam), ecc. Dopodiché abbiamo avuto l’avvento
della società post-moderna e post-industriale, della globalizzazione e
dei conflitti randomizzati, almeno apparentemente privi di un senso
globale.
Ebbene, cosa vuol dire complessità? Mancanza di prevedibilità sulla
base del rapporto causa-effetto? Ma come facciamo a essere sicuri che
l’imprevedibilità derivi dal fatto che non abbiamo individuato le “cause “ giuste? O che ne abbiamo tralasciato alcune, peraltro decisive? O
che non abbiamo tenuto abbastanza conto dell’interferenza del soggetto conoscente nella costruzione delle teorie che spiegherebbero il reale?
Quest’ultimo elemento (il ruolo della soggettività) ci aprirebbe la strada verso un altro significato di “complessità”: la mancanza di senso.
La realtà sarebbe priva di senso? Ma non se ne erano già accorti i fenomenologi, molto prima che apparissero le teorie della complessità?
Allora il vero problema sembrerebbe diventare quello dell’attore sociale (singolo o collettivo), incapace di assegnare senso alla “realtà”
(come sarebbe suo precipuo compito fare) perché disorientato dallo
svuotamento, dalla perdita di credibilità di tutte le narrazioni tradizionali, comprese quelle illuministico-positivistiche e democraticoprogressiste.
Qualcuno penserebbe di uscire dall’impasse aggrappandosi alla tesi
per cui a una realtà “complessa” dovrebbe corrispondere una scienza a
sua volta “complessa”: come se il problema fosse ancora quello, di
tomistica memoria, della adaequatio rei et intellectus.
Se ci si perdona il bisticcio di parole, si potrebbe dire con un truismo
che “la questione è complessa”: nel senso che è intricata per la molteplicità dei fili che la attraversano. Ma in questo intrico Ruzzeddu riesce a muoversi senza lasciarsene sopraffare, con equilibrio e intelligenza (nel senso di capacità di comprensione), offrendoci una visione
di sintesi che permette, a ognuno di noi lettori, di farsi un’idea, e di
scegliere consapevolmente un proprio orientamento sulle questioni
sollevate.
Massimo Corsale
Settembre 2012
Introduzione
Non è un caso che le Teorie della Complessità abbiamo ottenuto
una forte popolarità, sia all’interno che all’esterno dell’accademia, a
partire dalla seconda metà degli anni Settanta.
Si registrava ormai in tutto il mondo occidentale la crisi, o comunque
la decadenza dei movimenti di protesta di stampo radicale; tale “riflusso” implicava, fra l’altro, una riduzione degli stimoli ad utilizzare
la teoria sociale come uno strumento per il superamento degli esistenti
modelli di organizzazione produttiva, distribuzione delle ricchezze e
rappresentazioni culturali.
In effetti, il cambiamento avvenuto in quegli anni nel dibattito intellettuale riguardava proprio la finalità dell’investigazione scientifica e
della speculazione teorica. Di fronte alla crisi dei progetti di realizzazione di società perfette, dove gli ideali di giustizia e di libertà fossero
una realtà per tutti, si attenuavano anche le aspettative nei confronti
dell’accademia perché si mettesse al servizio di questi nobili ideali.
Nessuno stupore quindi, che nel dibattito filosofico e sociologico emergessero modelli teorici che sottolineavano, sulla falsariga dello
strutturalismo della prima metà del Ventesimo secolo, la relativa indipendenza dei fatti sociali dalle intenzioni degli attori.
Se le produzioni scientifiche dell’Institut für Sozialforschung, pur se
con toni spesso disincantati e tutt’altro che ottimisti, fungevano da
modello per evidenziare le contraddizioni di un sistema che sembrava
11
12
,QWURGX]LRQH
prossimo alla sua fine, dagli anni Ottanta la teoria sociale sembrava
ritornare ad una funzione puramente descrittiva della realtà, senza eccessivo riguardo alla realizzazione di forme di progresso sociale ed
economico.
Le Teorie della Complessità, nelle loro prime versioni, risentivano
proprio di questo clima, anche se molti dei loro riferimenti teorici,
come Wiener, erano tutt’altro che insensibili a questioni sociali e politiche; tipico esempio di questo nuovo clima è l’utilizzo, al santa Fé Institute, di formule matematiche prodotte in ambito fisico ed ingegneristico per descrivere fenomeni squisitamente sociali, quali l’andamento
del mercato azionario o l’avvento di crisi politiche. Emblematico, in
tal senso, è l’uso che è stato fatto della famosa teoria delle catastrofi di
Réné Thom: questa, da strumento stocastico di previsione di eventi
naturali potenzialmente dannosi su larga scala, si trasforma in un quadro teorico che cerca di razionalizzare anche quegli eventi storici che
sfuggono ad un determinismo storico lineare, quali rivoluzioni, crisi
finanziarie, e così via.
Questi allora gli elementi fondamentali della complessità, almeno nelle sue prime versioni: da una parte si ammette che la realtà sfugge a
meccanismi causa-effetto prevedibili con strumenti matematici elementari; dall’altra parte, si postula che la realtà sociale, se non si basa
su quella naturale, è comunque una della tante facce di una realtà unica che, in quanto tale, può essere osservata e compresa con un corpus
unico di strumenti concettuali.
Tale ottimismo epistemologico si attenua parzialmente negli anni Novanta e Duemila, quando emerge chiaramente che non solo
l’imprevedibile nelle scienze sociali rimane tale, ma che anche le
scienze naturali sono ben lontane dall’eguagliare i successi, in termini
di descrizione e di previsione, che avevano vissuto nei secoli passati.
Anche se non sembra abbandonata del tutto l’idea di una unità del reale a cui debba seguire, come conseguenza logica, anche l’unità della
scienza, questa sembra un obiettivo da realizzare non tanto sulla base
di un discorso ontologico, bensì epistemologico; essendo la fisica, la
biologia, la filosofia, l’arte, la sociologia ecc. dei prodotti della mente
umana, diventa lecito a quel punto pensare che, almeno ad un certo livello di astrazione, questa utilizzi gli stessi strumenti concettuali in
,QWURGX]LRQH
tutti questi ambiti che andrebbero quindi esplicitati, catalogati ed eventualmente criticati.
E’ infatti ai limiti della mente umana, segnatamente alla necessità che
questa ha di ridurre la complessità del reale, che vengono imputati gli
ostacoli ad una perfetta conoscenza dell’oggetto di indagine; è questo
il momento in cui la complessità assume una connotazione sociologica, sia perché riprende considerazioni che alcune correnti teoriche avevano già effettuato autonomamente decenni prima, sia perché si
ammette anche nelle scienze naturali, l’importanza di riconoscere e
definire i condizionamenti sociali, culturali e biografici
dell’osservatore, in modo da valutare il loro effetto sulla produzione
scientifica.
Peraltro, l’impossibilità non solo di eliminare tali condizionamenti, ma
anche di definire che effetto essi producono sulla descrizione della realtà, trasforma le teorie della complessità in uno dei fondamenti filosofici di quell’incertezza, non solo scientifica, ma anche esistenziale
che determinava il clima culturale degli anni Novanta e che faceva
della post-modernità uno dei principali riferimenti della cultura popolare di quel tempo.
Rimane allora da chiedersi quale sia il senso di esaminare ancora una
volta le Teorie della Complessità negli anni Dieci del nuovo millennio, visto che nessuno potrebbe affermare che le condizioni della
struttura culturale forse non sono peggiorate, ma neanche sicuramente
cambiate in meglio.
Non hanno fatto la loro comparsa nuovi ambiti di indagine empirica
né nuovi strumenti concettuali che possano chiarire le parti ignote del
mondo, che rimane un luogo privo di senso esattamente come dieci
anni fa.
E’ anche vero forse, che però in questi dieci anni molti sociologi, lo
scrivente per primo, si sono adagiati a cercare modi eleganti per affermare l’impossibilità di una conoscenza perfetta del mondo, limitandosi a mostrare una nobile e distaccata rassegnazione di fronte a
cotanta impotenza.
Si tende però a dimenticare che non viviamo in una condizione di oscurità totale e che dei modi di orientamento nella realtà sono sempre
possibili. Il fatto che in una sala operatoria non sia possibile eliminare
14
,QWURGX]LRQH
la totalità dei germi nell’aria non è un buon motivo, come sostiene
Geertz, per eseguire un trapianto di cuore in una fogna; allo stesso
modo, l’impossibilità di ottenere una conoscenza completa del mondo
non è un buon motivo per smettere di affinare i nostri strumenti epistemici. Le Teorie della Complessità sono complesse a loro volta perché ammettono sia l’accettazione dell’ignoranza che la ricerca del superamento di queste, rispecchiando forse la condizione culturale della
nostra epoca, dove all’ammissione di ignoranza si affianca una domanda sempre più pressante di punti di riferimento, sia cognitivi che
etici. Il presente lavoro quindi intende, oltre a fare il punto del dibattito sulla complessità, esaminare gli aspetti della teoria che possono
soddisfare il bisogno epistemico e sociale di tali riferimenti.
Capitolo I
Struttura ed ordine sociale
1.1. Il problema dell’ordine in sociologia
Uno dei tanti fattori che caratterizzano negativamente la vita di chi
si occupa di sociologia, è sempre stato una sorta di complesso di inferiorità nei confronti degli scienziati naturali.
Anche se fra le giovani generazioni di studiosi tale fenomeno sembra essersi molto attenuato, le ragioni sono abbastanza comprensibili:
è infatti noto che l’idea di applicare alle società umane il metodo
scientifico, nasce nel Diciannovesimo secolo nella speranza di ottenere una conoscenza simile a quella della fisica in termini di comprensione, prevedibilità e controllo del proprio oggetto. Lo stesso Comte,
il fondatore della sociologia come disciplina scientifica, infatti, si
forma nell’Ecole Polytéchnique della Parigi della prima metà
dell’Ottocento, dove la fede nel progresso, retaggio illuminista ancora
intatto ai tempi di Napoleone, si unisce ad una profonda fede nella
scienza, segnatamente nella scienza applicata: le forti potenzialità che
l’ingegneria mostrava nel controllare la natura attraverso le nozioni
della fisica, rendevano quasi inevitabile credere fermamente che sarebbe stato possibile fare lo stesso con gli esseri umani (Coser, 1997:
15
16
Struttura ed ordine sociale
54-55), estirpando dalla storia non solo miseria e malattie, ma anche
conflitti e devianza. Nonostante il nome della disciplina che Comte
aveva pensato in alternativa a quello di sociologia, ovvero “fisica sociale”, sia illuminante sulle aspettative che la nascente comunità scientifica coltivava per se stessa, l’oggetto della disciplina si rivelava ben
presto troppo complesso perché lo si potesse descrivere con delle formule -matematiche o linguistiche universalmente valide.
Questo implicava due ordini di conseguenze: la prima è che la ridotta capacità di conoscenza rispetto alla fisica implicava anche una
minore capacità di controllo sul proprio oggetto; così, mentre la fisica
e la biologia abbattevano un ostacolo dopo l’altro in termini di miglioramento della qualità della vita, mettendo a disposizione della società
cibo, energia, medicinali ecc. in grandi quantità, la sociologia doveva
mettere da parte il progetto positivista di stabilire “veri princìpi sociali, (…) e sostituire sempre di più il dominio delle convinzioni reali a
quello della volontà arbitrarie” (Comte, 1967: 149), dove per volontà
arbitrarie si intende la politica illuminista, tesa, a dire di Comte, a far
prevalere il capriccio della volontà umana sulle leggi naturali che solo
la scienza avrebbe la possibilità di scoprire ed il dovere di imporre.
Di fronte alla sua manifesta incapacità di porsi al pari della fisica, e
mettere sotto controllo la parte istintiva ed irrazionale dell’essere umano, la scienza sociale deve “accontentarsi” dell’obiettivo sicuramente più modesto di mettere in discussione le certezze acquisite degli
attori sociali ed i problemi sociali che questi preferivano ignorare.
Mentre su questo aspetto la competizione è irrimediabilmente persa
dai sociologi, sempre che questi non decidano di sottolineare gli enormi rischi che le applicazioni delle scienze naturali stanno facendo
correre all’umanità e al pianeta terra -collasso ecologico, distruzione
nucleare ecc.- ,più realistico sembra occuparsi del secondo fattore del
complesso di inferiorità degli scienziati sociali; quello dell’incertezza
paradigmatica.
Come si sottolinea in tutti i manuali di metodologia (Corbetta,
1999: 17 e segg.; Shutt, 2001: 46 e segg.; Bailey, 2006: 45 e segg.)
infatti, esistono diversi modi in cui si può osservare la realtà sociale,
ognuno dei quali sottintende degli assiomi differenti in merito
all’ontologia del fatto sociale, all’autonomia della società dagli indivi-
Capitolo I
17
dui, all’autonomia degli individui dalla società, e soprattutto in merito
alla capacità dell’osservatore di compiere considerazioni valide ad affidabili in merito ad ognuno di quei temi.
Questa differenza di status epistemico, in realtà, riflette un problema di una tale importanza che non solo risulta cruciale nella scienza e
nell’epistemologia, ma presenta una forte connotazione esistenziale,
determinando pesantemente l’atteggiamento degli attori sociali nei
confronti del loro ambiente: il problema consiste nell’ordine della realtà sociale. Abbandonate definitivamente le pretese di stampo positivista e poi totalitarista 1 di imposizione dell’ordine attraverso forme
più o meno scientifiche di controllo politico, oggi ci si chiede soprattutto se la realtà che osserviamo, come scienziati o come individui, sia
in qualche modo dotata di un suo ordine intrinseco; infatti, nonostante
la costante presenza di fenomeni sociali che sfuggono
all’individuazione di regolarità esprimibili attraverso delle leggi, non
c’è alcun dubbio che accanto a queste sussistano numerosi esempi di
ordine, descrivibile con rigore scientifico. Il punto allora è stabilire se
le regolarità che l’osservatore percepisce siano valide oppure se siano
delle sue costruzioni mentali, non necessariamente peraltro prive di
una loro oggettiva validità; allo stesso tempo si risolverebbe il dubbio
inverso: di fronte all’impossibilità di recepire una regolarità empirica,
è ragionevole supporre che con il tempo sarà possibile trovare una
qualche forma d’ordine, o bisogna entrare nell’ordine delle idee che
quella parte di la realtà è strutturalmente caotica? In altre parole, non
si può sostenere che l’oggetto delle scienze sociali non implichi nessuna forma di ordine: il punto è la difficoltà di giustificare da un punto
di vista ontologico fenomeni di regolarità fra gruppi, più o meno estesi, di individui dotati almeno in linea di principio di una certa autonomia decisionale e di conseguenza, l’impossibilità di inserire tali fenomeni entro leggi deterministiche, tali da poter effettuare previsioni su
di essi.
Tale ordine di problemi, peraltro, costituisce l’oggetto principale
delle Teorie della Complessità, le quali, in estrema sintesi, implicano
che un fenomeno sarà considerato tanto meno complesso quanto più
1
Confronta CORSALE (1998: 109) ed EISENSTADT (1999).
18
Struttura ed ordine sociale
regolare apparirà all’osservatore, che riuscirà a agevolmente a descriverlo con degli algoritmi- di natura discorsiva o matematica.
Ritornando alla querelle fra scienze naturali e scienze sociali, la ragione di questa sorta di competizione sta nel fatto che, almeno fino alla seconda metà del Diciannovesimo secolo, la fisica sembrava aver
colto l’intima essenza della natura, un’essenza fatta di ordine e di regolarità, esprimibili attraverso delle equazioni lineari estremamente
precise e deterministiche. Proprio in quell’epoca, tuttavia le scienze
naturali, pure ed applicate, cominciavano ad occuparsi di fenomeni
che risultano refrattari a leggi deterministiche, forse in misura anche
maggiore che nella realtà umana, causando quindi un certo avvicinamento della fisica alle scienze umane sulla base di una dimensione caotica ormai ineliminabile.
E’ forse all’interno di questa cornice di esigenze epistemiche insoddisfatte che si può spiegare il successo che ha avuto il concetto di
sistema nella teoria sociologica: emerso da un filone di studi naturalistici che si caratterizza proprio per degli oggetti che presentano un
profondo disordine, la versatilità di questo sia nell’individuare oggetti
difficilmente inseribili nelle tradizionali categorie interpretative, sia
nel delineare approcci epistemici innovativi, ha dato e continua a dare
vita ad alcune delle teorie e metodologie sociologiche più note anche
al pubblico non specializzato.
Nelle prossime pagine, quindi andremo ad esaminare i caratteri
principali della teoria sistemica, come elaborata sin dalle sue origini,
nonché le principali scuole che di essa hanno fatto uso nel campo delle
scienze sociali.
1.2. Il sistema e la sistemica
Scrive Von Bertalanffy: "Un sistema è definito come un complesso
di elementi interagenti"2.
La genericità di tale definizione si presta all’estensione molto ampia
della categoria “sistema”, la quale comprende oggetti decisamente eterogenei fra di loro.
2
VON BERTALANFFY (1971: 95 e segg).