Carlo Delfrati, Nuovi suoni in classe

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Carlo Delfrati
Nuovi suoni in classe
Ottenere l’attenzione dei ragazzi (catturarla, si diceva un tempo con un termine
poliziesco) è sempre stato un problema serio di ogni insegnante. Problema
particolarmente sentito dall’insegnante di musica, le cui proposte e risposte passano
per il canale uditivo. L’educazione ricevuta ci rende normalmente parecchio abili nel
focalizzare la nostra percezione su quello che vediamo, e questo vale anche per i
ragazzi, che sanno concentrarsi al momento di guardare un video, un film, anche un
dipinto. La vista infatti è il senso che riceve le maggiori attenzioni dalla famiglia, fin
dai primi mesi di vita. Quando poi comincia a far suo il linguaggio, il bambino anche
piccolo si familiarizza presto con il lessico della visione, i nomi dei colori, delle forme
(rotondo, quadrato …), dello spazio (vicino, lontano …) e così via.
Diverso è il caso dell’udito. Se partiamo dal possesso del lessico, possiamo
constatare facilmente che l’equivalente di quello che un bimbo possiede all’età di
tre anni non è posseduto dalla maggioranza degli adulti: i quali facilmente
confondono fatti elementarissimi come intensità e velocità, piano e lento; o altezza
e intensità, alto e forte. Per non parlare di percetti solo un poco più evoluti, come
misura (binaria, ternaria …) o direzione melodica: che qualunque bimbo di scuola
d’infanzia potrebbe acquisire: se lo stesso genitore che fa osservare e riferire a
parole quel che il bimbo vede portasse la sua attenzione su quello che sente.
Sappiamo anche che l’inquinamento acustico, e l’inondazione musicale dai media
agiscono come spinta alla deconcentrazione: i nostri bambini tendono a emarginare
il suono dal campo della consapevolezza. Nella loro voce Ascolto, per la storica
Enciclopedia Einaudi Roland Barthes e Roland Havas parlano dell’inquinamento
acustico come di una “alterazione intollerabile dello spazio umano in cui l’uomo
cerca invano di riconoscersi: l’inquinamento mina i sensi mediante i quali l’essere
vivente […] riconosce il proprio territorio, il proprio habitat […] : l’inquinamento
impedisce di ascoltare”. Quando dalla dimensione fisiologica (il primo livello di
ascolto per i due studiosi) si passa a una dimensione semiotica gli autori osservano
che questo secondo livello “è legato ad un’ermeneutica; ascoltare significa mettersi
in condizione di decodificare ciò che è oscuro, confuso o muto, per far apparire alla
coscienza il ‘di sotto’ del senso”1. Questo ascolto sposta il suono dallo stato di indizio
1
R. Barthes e R. Havas, Ascolto, in Enciclopedia Einaudi, Torino, 1977, vol. I, p. 983.
a quello di significato. Ascolto tipicamente umano, concludono i due autori, sta alla
nascita del pensiero e del linguaggio.
Vivere attivamente un’esperienza musicale comporta la partecipazione piena e
consapevole dell’ascolto, sia nel momento del fare, suonare, cantare, comporre,
improvvisare …; sia nel momento del recepire, del capire: ossia dell’ascoltare, in
senso specifico, musiche eseguite da altri. Uno psicoterapeuta può essere
interessato alla dimensione pre-attenzionale della musica: può sfruttare proprio la
passività a cui un paziente è lasciato, o addirittura incoraggiato, di fronte a una
musica, sfruttando questa condizione per i suoi intenti terapeutici. Un insegnante al
contrario assolve al suo compito quando fa scattare quello che Barthes e Havas
chiamano il secondo livello, quello ermeneutico, dell’attribuzione di senso.
Nell’educazione musicale, l’attribuzione di senso comporta la promozione di due
processi interagenti fra loro: da un lato l’acquisizione, da parte dell’alunno, di uno
spettro sempre più ricco, maturo, di significati; dall’altro un’esplorazione dei mezzi
espressivi, dei significanti se si vuole, che li autorizzano. Per fare un esempio
elementare, il bimbo può attribuire il significato “treno in arrivo” a un fattore
espressivo primario come un crescendo sempre più tumultuoso; uno studente di
terza media può attribuire significati politici alla Marsigliese messa a confronto con
Gode save the Queen. L’educazione all’ascolto consiste nel far crescere le
competenze dell’alunno sull’uno e sull’altro versante, sull’uno e sull’altro processo,
sfidando le difficoltà create dalla disabitudine all’ascolto attivo. Reso ancora più
difficile, un quarto di secolo dopo lo scritto di Barthes e Havas, dalla velocizzazione
impressa ai messaggi mediatici, che ostacola inevitabilmente la concentrazione.
Molte questioni si affollano naturalmente, a questo punto2. Consideriamone un
paio, diverse ma in interazione fra loro. Una riguarda il rapporto instaurabile tra il
fare musica e il recepire/ascoltare. Una seconda riguarda lo spazio che può occupare
il nuovo universo sonoro trasmessoci dal ventesimo secolo. Accenniamo solo di
sfuggita a quest’ultima, per riprenderla poi al momento di considerare la prima.
Conosciamo bene le rivoluzioni musicali avvenute nel XX secolo, sia sul fronte delle
avanguardie auliche, da Schönberg in poi, sia sul fronte neopopolare, fino a quegli
esperimenti dove l’aulico e il neopopolare confondono i rispettivi confini. Cosa
farne, in una ‘normale’ scuola secondaria? Il timore che le musiche di ogni
avanguardia siano respinte dai ragazzi, che c’immaginiamo più disponibili alla
2
Sulla varietà di questioni che l’insegnante di musica si trova quotidianamente ad affrontare mi permetto rimandare
ai miei Fondamenti di pedagogia musicale (Torino, EDT, 2008) e Il maestro ben temperato (Milano, Curci, 2009).
classicità come capita facilmente a noi adulti, può essere fugato dalla curiosità a cui
un ragazzo è indotto nei confronti del nuovo, con i suoi cambiamenti repentini e
inaspettati, e al contrario dalla resistenza che può opporre all’ascolto dell’elaborato
e sofisticato brano classico. L’asprezza di certe soluzioni di Nono o di Penderecki
sono capaci di colpire l’immaginazione di un ragazzo più dell’allegro della sinfonia di
Mozart. Non dimentichiamo l’esperienza che ogni ragazzo ha fatto di queste
sonorità guardando un thriller (Kubrick insegna). Il cinema è il terreno prezioso dove
l’ascolto consapevole degli alunni può essere riattivato, se solo sappiamo portare la
loro attenzione proprio sul contributo che la componente musicale di una sequenza
reca al significato della scena stessa. Il gioco di scoprire come cambia il significato
del messaggio se si sostituisce la colonna sonora originaria con una di carattere
opposto è il primo passo verso la scoperta del potenziale semantico posseduto in
proprio dalla musica. E qui non c’è normalmente nessuna opposizione dei ragazzi al
genere di musica utilizzato nell’esperimento. Perché fa parte di un’esperienza, il
cinema appunto, per loro abituale.
Le possibili resistenze verso i nuovi universi sonori possono essere debellate, o
almeno attenuate, se l’esperienza dell’ascoltare viene saldata a quella del fare. Che
è la prima delle due questioni a cui si accennava sopra. Nel concetto di fare musica
entrano, sappiamo, due esperienze diverse, l’esecuzione di musiche preesistenti e la
creazione di musiche proprie. Già qui possiamo vedere gli spazi che la musica
contemporanea apre al lavoro dei ragazzi. Creare effetti à la Cage è più facile per un
gruppo di alunni che non eseguire sul flauto dolce un minuetto di Mozart. Il
problema che si pone semmai è il perché un ragazzo debba eseguire un pezzo di
sapore cageano. La risposta ce la offre l’accennata esperienza del cinema, e più in
generale dello spettacolo. I nostri alunni possono ben pensare di usare quelle
sonorità come determinante musicale di una certa fase di un loro spettacolo:
un’intera vicenda teatrale, un video, o più semplicemente un melologo, o una
pantomima. Va da sé che per poter applicare un effetto à la Cage devono aver
conosciuto come John Cage ha lavorato. John Cage o Penderecki, o Maderna o
Stockhausen. Quest’obbligo non riguarda solo i ragazzi nei confronti della musica del
XX o XXI secolo. Riguarda ogni compositore, in ogni epoca e civiltà. Nessun
compositore nasce ‘imparato’. Beethoven è impensabile senza Haydn, Debussy è
impensabile senza l’opera dei tardo-romantici. Anche il più sublime dei compositori
è debitore della propria arte alle generazioni di musicisti venuti prima di lui e dai
quali ha succhiato la linfa vitale e imprescindibile.
Dunque si torna al tema precedente: prendere confidenza con le musiche esistenti;
e in particolare con le musiche della contemporaneità. Sia per la pratica esecutiva
sia per quella ideativa, per eseguire musiche esistenti come per inventarsi le proprie.
Se Maderna o Ligeti hanno entrambi composto un brano intitolato ‘continuum’,
giocando ognuno su proprie soluzioni, diversissime l’una dall’altra nel rendere l’idea
di continuità, perché un terzo ‘continuum’ non potrebbe essere composto dai
ragazzi per esprimere una propria idea di continuità?3
La stessa esperienza primaria di esplorare il silenzio – già coltivata dalle educatrici di
scuola d’infanzia, e pazienza se poche, sensibili al problema dell’ascolto attivo – può
rinascere in una scuola secondaria partendo ancora da Cage: da quel suo 4’33” di
silenzio, in cui il pubblico è invitato ad ascoltare i suoni/rumori dell’ambiente che lo
circonda. Esperimento trasferibile in classe, magari riducendone la durata. Ma
arricchendolo poi di esiti importanti. Una volta che ogni alunno ha raccontato quello
che ha colto nel minuto di silenzio e in che attimo, entro quel minuto, l’ha colto, poi
può essere invitato, l’alunno stesso, a inventare un segno da scrivere sulla lavagna,
nel punto corrispondente. Ogni alunno un suo segno, su cui l’insegnante potrà poi
intervenire per far riflettere sulla necessità di codici grafici sempre più adeguati a
trasmettere l’idea musicale. Ma intanto quell’insieme di segni che la scolaresca
intera ha riportato sulla lavagna diventa una partitura. Rieseguibile dai ragazzi stessi,
su strumenti se ci sono, o anche su oggetti diversi. Nasce così una musica del
silenzio, creata all’impronto da una scolaresca intera!
I nuovi universi sonori, le musiche del XX e del XXI secolo, sono una riserva
straordinaria di procedure disponibili per essere fatte proprie dai ragazzi.
Consideriamo la politonalità. I ragazzi sanno che quando si suona insieme si deve
procedere all’interno di un’intelaiatura armonica unitaria. Se ascoltano una
composizione come Il campo del Generale Putnam di Ives possono rimanere stupiti
dalle ‘stonature’ che si avvertono chiaramente. In questa composizione più parti
procedono ciascuna con un proprio ritmo e una propria tonalità. L’idea di fondo che
ha guidato l’autore americano è stata quella di ricreare una situazione concreta,
tante volte sperimentata in prima persona, quando per le feste della città
convenivano le bande dei dintorni; sfilavano una dopo l’altra, suonando ognuna una
musica sua: per cui succedeva che alla musica della banda appena passata si
sovrapponevano quelle in arrivo dai vari lati della piazza. Ives ha ricreato
3
Più propriamente i due brani sono, di Bruno Maderna, Continuo; di György Ligeti, Continuo. Propongo l’esperienza
nel testo All’opera insieme (Milano, Principato, 2011).
quest’effetto sovrapponendo marce suonate con ritmi, con velocità, con tonalità,
diversi, mescolandoli con motivi jazz, con gli urrà della folla e con i suoni della città.
La politonalità diventa in questo modo una tecnica riproponibile in classe.
Lo stesso Ives influenzò uno dei più importanti compositori italiani, Luciano Berio.
Nella sua Sinfonia n° 2 Ives introdusse sistematiche citazioni di musiche preesistenti.
Lo stesso ho fatto Berio nella sua Sinfonia, inserendo una quantità di musiche, da
Berlioz a Boulez. Ascoltiamo soprattutto il terzo movimento. Anche un breve
episodio ci regala una procedura che possiamo fare nostra: l’orchestra esegue il
terzo movimento della Seconda sinfonia di Gustav Mahler, e su questa pagina, usata
come sfondo, le voci intervengono con proprie espressioni. L’ha fatto Berio, possono
permetterselo anche i ragazzi: magari improvvisando con i propri strumenti ritmici
su un Concerto di Vivaldi. Se di Berio passiamo ad ascoltare una delle sue opere
vocali, per esempio Visage (una ‘decostruzione’, è stato detto, della voce di Cathy
Berberian) scopriamo che non solo cantando si può fare musica con la voce, anche
parlando, sussurrando, gridando, articolando i fonemi disponibili. Ripetiamo: la
preoccupazione che i ragazzi non vedano ragione di esibirsi in operazioni così …
avventurose può essere superata se l’esperienza sui suoni della voce è inserita in un
lavoro di carattere teatrale: dove i suoni vocali vengano a creare un’atmosfera
speciale, un’atmosfera che non si saprebbe rendere diversamente.
Anche i compositori più giovani possono offrirci soluzioni replicabili: replicabili,
s’intende, con i mezzi e le competenze possedute dalla scolaresca. Prendiamo
un’opera teatrale di Matteo Franceschini, My Way to Hell (la mia strada verso
l’inferno): una rivisitazione del mito di Orfeo e della sua discesa agli Inferi. Librettista
e compositore richiamano questo o quel momento della vicenda, in una sequenza
libera, per costruire, con questi blocchi di senso, un racconto originale. Anche
questa, sul terreno verbale, è una procedura che può essere impiegata nella
costruzione di un testo, immaginiamo in una collaborazione fra il docente di musica
e quello di lingua. L’autore del libretto sceglie, nelle opere della letteratura,
frammenti di testi ispirati al mito, o che con i temi dell’opera hanno affinità: per
esempio per la componente dell’amore, l’amore che spinge Orfeo a scendere agli
Inferi, compaiono battute tolte da Romeo e Giulietta di Shakespeare.
Il compositore compie un’operazione analoga con la musica. Nell’esteso repertorio
dei lavori musicali dedicati al mito, da Monteverdi in poi, sceglie frammenti che
mettono in evidenza la situazione emotiva di ogni scena. Ovviamente non si tratta di
un semplice collage. Un concetto di fondo lega fra loro le diverse fonti in un’unità
espressiva che fa di My way to hell un’opera originale: è l’eternità del mito di Orfeo,
la sua appartenenza a ogni epoca della nostra civiltà. Il viaggio di Orfeo è l’allegoria
della domanda di fondo che l’umanità si è sempre posta, sul senso dell’esistenza
umana e sul suo destino finale. C’è di più. Il compositore non si limita a citare i
classici; inserisce – e rielabora – frammenti dal repertorio neopopolare, dai Beatles
ai Radiohead e oltre. E anche questa è un’idea che possiamo fare nostra, facendo
saltare le barriere che troppo spesso siamo portati ad alzare fra i generi musicali:
classico o pop, antico o moderno, canto o rap … Un’operazione come quella di
Franceschini è anche un invito ad aprirci al ventaglio di doni che la musica di ogni
tempo e di ogni stile, anche quella aulica del nostro tempo, è in grado di offrirci.
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