Lineamenti di diritto internazionale dei conflitti armati Federico Sperotto Indice Parte I mati 1 1.1 1.2 1.3 Fondamenti del diritto internazionale dei conflitti arpagina 1 1.4 1.5 1.6 1.7 Il diritto internazionale dei conflitti armati e le sue fonti Il diritto internazionale dei conflitti armati Jus ad bellum e jus in bello Le fonti del diritto internazionale umanitario 1.3.1 Diritto consuetudinario 1.3.2 Trattati internazionali 1.3.3 Principi riconosciuti dalle nazioni civili La disciplina dei conflitti armati internazionali La disciplina dei conflitti armati interni L’applicazione del diritto internazionale umanitario La gestione del territorio occupato 3 3 4 6 6 7 8 8 12 13 14 2 2.1 2.2 2.3 I conflitti armati I conflitti armati internazionali I conflitti armati interni L’occupazione militare 18 18 21 23 3 3.1 3.2 3.3 3.4 3.5 3.6 3.7 3.8 3.9 3.10 3.11 3.12 La condotta delle ostilità Principi di base Il principio di umanità Il principio di distinzione Il principio di proporzionalità La legittimità dell’attacco Il principio di precauzione Il divieto di rappresaglie contro i civili La protezione dei beni materiali e culturali Uso dei sistemi d’arma Operazioni aeree. Targeting Operazioni navali Operazioni speciali 26 26 28 28 30 31 33 34 35 36 38 39 40 ii Parte II Indice 3.13 3.14 Condotta delle ostilità in territorio occupato Principi applicabili ai conflitti armati interni 41 41 4 4.1 4.2 4.3 4.4 4.5 4.6 4.7 Combattenti e civili Premessa: le garanzie fondamentali Combattenti legittimi Combattenti non privilegiati Prigionieri di guerra Personale sanitario e religioso Civili al seguito delle forze armate Norme umanitarie nei conflitti armati interni 43 43 43 47 48 51 51 52 Problemi attuali del diritto internazionale dei conflitti armati 53 5 5.1 5.2 La perdita dello stato di persona protetta Partecipazione diretta alle ostilità Partecipazione alle ostilità nei conflitti interni 55 55 58 6 6.1 6.2 La guerra al terrorismo La guerra globale contro il terrore Le uccisioni mirate come risposta al terrorismo 60 60 62 7 7.1 7.2 L’uso della forza a supporto della pace Peace-keeping e peace-enforcement Le regole di ingaggio 67 67 70 8 8.1 8.2 La privatizzazione della funzione militare Il monopolio statale della violenza bellica Le Private security firms 73 73 74 9 9.1 Reagire alle violazioni del diritto umanitario Rimedi inter-statali 9.1.1 La rappresaglia 9.1.2 Il risarcimento del danno Repressione penale delle infrazioni 9.2.1 La responsabilità penale internazionale 9.2.2 La responsabilità dei comandanti 9.2.3 Esercizio della giurisdizione penale 9.2.4 Infrazioni gravi alle Convenzioni di Ginevra 9.2.5 Violazioni delle leggi e degli usi di guerra 9.2.6 Violazioni durante i conflitti interni Crimini contro le forze delle Nazioni Unite 77 78 78 78 80 80 80 81 81 84 85 85 La protezione dei diritti umani durante i conflitti armati 87 9.2 9.3 Parte III Indice 10 10.1 10.2 Tutela dei diritti umani nei conflitti armati I diritti umani e il diritto internazionale umanitario Operazioni militari e giurisdizione extraterritoriale Riferimenti bibliografici Indice analitico Tavola dei casi Trattati e strumenti internazionali iii 89 89 92 95 97 100 102 Parte I Fondamenti del diritto internazionale dei conflitti armati 1 Il diritto internazionale dei conflitti armati e le sue fonti 1.1 Il diritto internazionale dei conflitti armati Il diritto internazionale dei conflitti armati, o diritto internazionale umanitario1 , pone le norme e i principi che restringono la libertà degli Stati nel condurre le ostilità, allo scopo di contenere i mali derivanti dalla guerra, ma nei limiti imposti dalla necessità militare, disciplinando il comportamento dei belligeranti nelle loro relazioni reciproche e l’atteggiamento degli organi della violenza bellica nei confronti delle popolazioni civili. Come espressamente statuito nella IV Convenzione dell’Aja del 1907, tuttora in vigore, il diritto dei conflitti armati nasce dall’esigenza di impedire che, in assenza di norme scritte (codification), l’uso della violenza bellica sia lasciato all’arbitrio dei comandanti militari2 . Nella definizione che ne ha dato la Corte Suprema americana, le leggi di guerra sono quella parte del diritto delle Nazioni che prescrive, in funzione della condotta della guerra medesima, lo status, i diritti e i doveri degli Stati che si fronteggiano e degli individui che partecipano alle ostilità3 . Il diritto internazionale dei conflitti armati è un ramo del diritto internazionale pubblico. Come tale riguarda in misura preponderante i rapporti tra gli Stati e indirizza prioritariamente le proprie prescrizioni agli organi statali. Le persone protette dalle norme internazionali godono in linea di principio di una tutela riflessa, in quanto bisognevole dell’intermediazione dello Stato di cui l’individuo è cittadino o all’interno della cui giurisdizione si trova. Come si vedrà in seguito, la violazione delle norme internazionali da parte di organi dello Stato implica la responsabilità internazionale dello Stato medesimo, cui spetta anche di risarcire (to pay compensation) l’altro Stato dei danni derivanti dall’agire delle proprie forze armate, a norma dell’art. 3 della IV Convenzione dell’Aja del 1907 e dell’art. 91 del I Protocollo del 1977. L’art. 29 della IV Convenzione di Ginevra dispone che la Parte belligerante, in cui potere si trovano delle persone protette, è responsabile del trattamento loro applicato dai suoi agenti, senza pregiudizio delle responsabilità individuali nelle quali fosse possibile incorrere. Le norme di diritto umanitario implicano altresì la responsabilità penale di diritto internazionale dell’individuo agente per le condotte che lo stesso diritto internazionale qualifica come crimini di guerra (cfr. art. 85 del I Protocollo). Inizialmente definito come leggi e usi di guerra e codificato dalle Convenzioni del1 2 3 Y. Dinstein, The Conduct of Hostilities under the Law of International Armed Conflict (2010), p. 19. IV Hague Convention, Preamble. Ex parte Quirin, 317 U.S. 1 (1942) 28. 4 Il diritto internazionale dei conflitti armati e le sue fonti l’Aja del 1907, il diritto bellico è diventato diritto dei conflitti armati con le Convenzioni di Ginevra del 1949, che ne hanno esteso la vigenza a tutte le situazioni in cui si esercita la violenza bellica, incluse quelle in cui lo stato di guerra non è riconosciuto da una delle parti. Le Convenzioni di Ginevra sono il frutto di uno sviluppo dei principi umanitari già contenuti nelle diverse dichiarazioni che hanno preceduto la codificazione dell’Aja, e hanno trasformato il diritto dei conflitti armati in diritto internazionale umanitario, una nozione che secondo la Camera d’appello del Tribunale internazionale per la ex-Jugoslavia è emersa come prodotto dell’influenza esercitata dalle teorie dei diritti umani universali anche su questo settore del diritto internazionale4 . Lo scopo finale dell’intero complesso normativo sarebbe quello di salvaguardare la dignità umana (to safeguard human dignity)5 . In fase di applicazione al caso concreto, tale corpus di norme è composto dalle regole enunciate negli accordi internazionali vincolanti le Parti di quel conflitto, nonché dai principi e dalle regole del diritto internazionale generalmente riconosciuti (diritto internazionale consuetudinario). 1.2 Jus ad bellum e jus in bello Il diritto internazionale dei conflitti armati è jus in bello, diritto che disciplina i modi in cui può essere usata la forza militare nelle situazioni di conflitto armato, le precauzioni da adottare in relazione ai beni che il diritto internazionale ritiene degni di protezione e i diritti da garantire alle persone coinvolte nel conflitto. Da esso si distingue lo jus ad bellum, il diritto di muovere guerra, che è prerogativa degli Stati sovrani e che è oggi fortemente compresso dalla Carta delle Nazioni Unite. Il sistema attuale di regolamentazione dell’uso della forza nelle relazioni inter-statali è basato sull’art. 2, comma 4, della Carta delle Nazioni Unite, che vieta agli Stati di ricorrere alla forza armata nelle loro reciproche relazioni e conferisce al Consiglio di Sicurezza la competenza esclusiva ad occuparsi degli atti di aggressione e delle altre minacce alla pace e alla sicurezza internazionale. L’aggressione armata di cui parla la norma è l’azione delle forze armate regolari di uno Stato attraverso la frontiera di un altro Stato in violazione della sua sovranità o integrità territoriale, ma anche il consentire l’uso del proprio territorio per lanciare attacchi nel territorio di un altro Stato, l’invio da parte di uno Stato di bande armate sul territorio altrui ovvero il supporto fornito dallo Stato ad attività delle forze dissidenti o di gruppi armati ribelli durante un conflitto interno6 . Accanto alle ipotesi di aggressione esemplificate nella ris. 3314 dell’Assemblea Generale appena citate, il Consiglio di Sicurezza si occupa di tutte le reali o potenziali compromissioni della pace e della sicurezza internazionale valendosi degli strumenti considerati al cap. VII della Carta delle Nazioni Unite, che contempla anche il potere - mai reso effettivo - di condurre vere e proprie operazio4 5 6 Tadic, Jurisdiction, par. 87. Furunduzija, Trial Chamber, par. 163. Definition of Aggression, 14 December 1974, A/RES/3314. 1.2 Jus ad bellum e jus in bello 5 ni militari tramite forze che gli Stati parte dovrebbero aver messo a disposizione dello stesso Consiglio di Sicurezza (v. art. 43 della Carta). La Carta delle Nazioni Unite prevede un’eccezione alla norma dell’art. 2(4) - che è considerata regola imperativa di diritto internazionale (jus cogens) -, eccezione che è di origine consuetudinaria, e dunque risalente rispetto alla Carta, ma che è stata codificata nel suo art. 51, e che attribuisce agli Stati il diritto alla legittima difesa individuale e collettiva. Scopo della legittima difesa è solo quello di respingere l’attacco armato e tutelare così l’integrità territoriale dello Stato colpito. L’art. 51 permette infatti allo Stato aggredito di fare uso della forza militare in legittima difesa, per resistere ad un attacco armato in corso. Accanto a questa forma istituzionalizzata di autodifesa, intesa come reazione ad un attacco in atto, ne esiste un’altra denominata anticipatory self-defence, non espressamente codificata ma considerata diritto vigente tra gli Stati già nel periodo antecedente alla Carta delle Nazioni Unite. Secondo il principio della legittima difesa preventiva (anticipatory), lo Stato ha il diritto di reagire contro la minaccia di un attacco che si profili come imminente, ossia contro una minaccia di attacco che, secondo la cosiddetta dottrina Webster, è «istant, overwehlming, leaving no choice of means and time for deliberation»7 . Il diritto alla legittima difesa, considerato dalla Carta un inherent right, spetta allo Stato senz’altre condizioni che quelle dell’immediatezza, della necessità e della proporzionalità della reazione armata. La necessità indica che la reazione armata è un mezzo estremo, la cui liceità è legata all’assenza di alternative; la proporzionalità indica la propensione del diritto internazionale per un uso limitato della forza militare. A questi requisiti si aggiunge appunto il criterio dell’immediatezza della reazione armata, la quale risulta lecita se attuata prima che il Consiglio di Sicurezza sia intervenuto sulla situazione con le misure (cioè con atti concreti) necessarie a mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Tuttavia è necessario che le misure adottate dal Consiglio di Sicurezza siano effettive, ossia incidano in modo rilevante sul comportamento dello Stato aggressore; il semplice ordine del Consiglio di cessare il fuoco, ad esempio, non sarebbe sufficiente. Non fa parte del diritto internazionale attualmente vigente invece la forma di autotutela teorizzata dall’Amministrazione americana nel 2002 e nota come pre-emption, messa in atto dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna con l’invasione dell’Iraq, nella primavera del 2003, consistente nel diritto di attaccare un altro Stato prima che la minaccia da questi rappresentata si materializzi e più in generale di attaccare uno Stato che in futuro possa rappresentare una minaccia, diritto giustificato facendo leva sull’idea che le minacce attuali siano di natura tale da non poter essere efficacemente fronteggiate limitando il ricorso alla forza all’imminenza dell’attacco, ma che debbano essere contrastate nel momento stesso in cui si profilino come possibili, anche con mezzi che vadano oltre la dissuasione. Si tratta di un’idea non nuova, la cui prima applicazione risale forse al 1981, con l’attacco condotto dall’aviazione israeliana ai danni del reattore nucleare Osirak, 17 km a sud-est di Baghdad (che era in costruzione), attacco giustificato come misura di pre-emption diretta ad impedire che l’Iraq si dotasse dell’arma nucleare8 . Il Consiglio 7 8 R.Y. Jennings, ’The Caroline and McLeod Cases’, 32 Am. J. Int’L L. 82, 82-84 7 (1938). N. J. Kaplan, ’The Attack on Osirak: Delimitation of Self-Defense under International Law’, 4 N.Y.L. 6 Il diritto internazionale dei conflitti armati e le sue fonti di Sicurezza, con l’astensione degli Stati Uniti, che avrebbero potuto opporre il veto alla risoluzione che criticava l’operato israeliano, e che quindi convenirono sull’illiceità dell’attacco, condannò l’operazione come violazione della Carta delle Nazioni Unite e seria minaccia all’intero regime di salvaguardia del rischio nucleare attuato con il Trattato di non proliferazione (NPT) del 19689 . 1.3 Le fonti del diritto internazionale umanitario Il diritto internazionale umanitario è costituito dalle norme di diritto internazionale applicabili ai conflitti armati, ossia le regole enunciate negli accordi internazionali che obbligano le Parti in conflitto, nonché i principi e regole del diritto internazionale generalmente riconosciuti che sono applicabili ai conflitti armati. Più precisamente, il diritto internazionale umanitario in quanto ramificazione specializzata del diritto internazionale pubblico ha come fonti - ossia come modi di produzione giuridica dai quali derivano le sue norme - quelle proprie del diritto internazionale. Nell’art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia, le fonti primarie del diritto internazionale sono: 1. i trattati e le convenzioni internazionali, frutto di accordi tra Stati; 2. il diritto internazionale consuetudinario, derivante da pratiche generalizzate accettate come legge. A queste fonti primarie si aggiungono i principi di diritto riconosciuti dalle nazioni civili e, ma solo come mezzi sussidiari di interpretazione, le decisioni giudiziali e gli insegnamenti dei più autorevoli pubblicisti. 1.3.1 Diritto consuetudinario Le norme che compongono il diritto internazionale generale o consuetudinario sono vincolanti per tutti i soggetti di diritto internazionale, ossia per tutti gli Stati, e derivano dalla pratica uniforme di questi ultimi, a cui è unita la convinzione che il comportamento ripetuto sia doveroso in quanto secondo diritto (opinio juris ac necessitatis). Le due componenti della consuetudine internazionale sono allora: 1. usus o diuturnitas; 2. opinio iuris ac necessitatis. Gran parte delle norme di diritto internazionale umanitario, originate nella pratica degli eserciti e solo in seguito codificate in trattati, sono poi trasmigrate dal diritto convenzionale al diritto consuetudinario per effetto della pratica uniforme, e sono diventate in tal modo universali. La Corte internazionale di giustizia ha avuto modo di affermare che le norme umanitarie che regolano i conflitti armati esprimono elementari considerazioni di umanità10 , e debbono essere rispettate per tale ragione da tutti gli Stati, compresi 9 10 Sch. J. Int’l Comp. L. 131 (1982-1983). S. C. Res. 487 (19 June, 1981). Corfù Channel, I. C. J. Rep., 1949, p. 22. 1.3 Le fonti del diritto internazionale umanitario 7 quelli che non sono parte degli strumenti internazionali in cui le norme sono contenute. Fanno sicuramente parte di questa categoria le Convenzioni dell’Aja del 1907 ed in particolare il Regolamento sulla guerra terrestre annesso alla IV Convenzione. Alcune delle disposizioni consuetudinarie sono considerate jus cogens, sono cioè norme imperative di diritto internazionale generale. Si tratta di una categoria di norme dotate di una forza cogente che le pone ad un livello superiore rispetto a quello dei trattati e delle consuetudini internazionali. Non sono infatti modificabili attraverso trattati e possono essere abrogate soltanto da norme contrarie che abbiano acquisito lo stesso rango11 . Per di più, una norma di questo genere contiene un obbligo internazionale erga omnes, ossia un obbligo che lo Stato ha nei confronti dell’intera comunità internazionale12 . Le norme di jus cogens hanno a livello inter-statale l’effetto di rendere nulli gli accordi internazionali conclusi in violazione della norma imperativa. A livello del singolo Stato, e dunque del suo ordinamento interno, invece, hanno l’effetto di delegittimare qualunque atto ufficiale che il governo intraprenda in violazione della norma cogente. Secondo il Tribunale per la ex-Jugoslavia, la violazione di una norma di jus cogens, come quella che proibisce la tortura, autorizza la vittima a convenire lo Stato di fronte al giudice civile di un altro Stato per chiedere il risarcimento del danno13 . Appartiene alle norme di jus cogens la cd. clausola Martens, riportata nel preambolo della IV Convenzione dell’Aja del 1907 e riproposta nell’art. 1(2) del I Protocollo del 1977 e in altri strumenti di diritto internazionale, come la Convenzione sulla proibizione o limitazione all’uso di certe armi convenzionali del 198014 . Secondo tale clausola, in assenza di accordi internazionali, civili e combattenti rimangono sotto la protezione e l’imperio dei principi di diritto internazionale. Tali principi derivano da prassi consolidate (consuetudini), dai principi di umanità (enunciati già nella Dichiarazione di San Pietroburgo del 1868) e dai dettami della pubblica coscienza. 1.3.2 Trattati internazionali Le norme convenzionali derivano da trattati, ossia da accordi internazionali tra Stati stipulati in forma scritta - da plenipotenziari (accordi solenni) o da diplomatici (accordi in forma semplificata) -, vincolanti solo per le parti del trattato, cioè per gli Stati che li abbiano ratificati, cioè che abbiano manifestato sul piano internazionale il loro consenso a rimanerne vincolati, ovvero che in seguito vi partecipino mediante adesione o accessione, entrando così a far parte dell’accordo in origine stipulato da altri Stati. I trattati non hanno effetto sugli Stati terzi rispetto all’accordo, ma nulla vieta, comunque, che le disposizioni di un trattato diventino diritto consuetudinario e dunque si trasformino in disposizioni vincolanti per tutti gli Stati. 11 12 13 14 Vienna Convention on the Law of Treaties, art. 53. Barcelona Traction, I. C. J. Rep., 1970, par. 33-34. Furunduzija, Trial Judgement, par. 155. Convention on Prohibitions or Restrictions on the Use of Certain Conventional Weapons Which May Be Deemed to Be Excessively Injurious or to Have Indiscriminate Effects, 10 October, 1980 8 Il diritto internazionale dei conflitti armati e le sue fonti Per regola generale l’efficacia di un trattato tra le parti cessa o è sospesa in conseguenza di una violazione sostanziale delle sue disposizioni. Tale norma generale non si applica ai trattati a carattere umanitario che contengono disposizioni dirette alla protezione della persona umana, incluse le convenzioni che tutelano le vittime dei conflitti armati, e quelle che proibiscono nello specifico ogni forma di rappresaglia contro le persone da esse protette15 . Un trattato che al momento della sua conclusione sia in conflitto con una norma imperativa di diritto internazionale (jus cogens) è nullo. 1.3.3 Principi riconosciuti dalle nazioni civili I principi riconosciuti dalle Nazioni civili in materia di diritto dei conflitti armati non sono facilmente individuabili. La Corte internazionale di giustizia ha indicato come cardinal principles16 i principi di distinzione e di umanità. Il Tribunale penale per la ex-Jugoslavia ha fatto riferimento ai principi di umanità e ai dettami della pubblica coscienza di cui parla la clausola Martens citata in precedenza come utili fonti di regole integrative nelle situazioni in cui una norma di diritto internazionale umanitario non sia sufficientemente rigorosa o precisa17 . A tali principi e dettami è negato il rango di autonome fonti del diritto internazionale. Tuttavia i principi di diritto internazionale umanitario possono trasformarsi in norme consuetudinarie sotto la spinta delle istanze del principio di umanità o dei dettami della pubblica coscienza, anche quando la pratica degli Stati sia inconsistente, ossia insufficiente a soddisfare il requisito della diuturnitas. 1.4 La disciplina dei conflitti armati internazionali Il generale principio del rispetto della dignità umana è la vera raison d’ être del diritto internazionale umanitario come lo è del più generale diritto internazionale dei diritti umani, ed è diventato così pregnante da permeare oggi tutto il diritto internazionale. Già nel 1968 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto la necessità di applicare i principi umanitari di base in tutti i conflitti armati18 . Secondo la Camera d’appello del Tribunale per la ex-Jugoslavia, soprattutto in termini di attribuzione di responsabilità, la dicotomia belligeranza - insorgenza (v. infra, cap. 2) e la conseguente differenza di disciplina, sono sovereignty-oriented, cioè rappresentative di una comunità i cui membri, gli Stati, sono molto più propensi a difendere i loro interessi che a occuparsi di questioni umanitarie19 . Di contro, sembra oramai essersi innescato un processo di estensione della regolamentazione dei conflitti internazionali, e dunque delle tutele da essa prescritte, alle guerre civili, soprattutto in ragione della loro frequenza e intensità nel mondo attuale. Questa tendenza risulta confermata dall’emendamento all’art. 1 della Convenzione sull’impiego di alcune armi convenzionali (CCW, 1980) del dicembre 15 16 17 18 19 Vienna Convention on the Law of Treaties, 1969, Art. 60. Nuclear Weapons, I.C.J. Rep., 1996, par. 78. Kupreskic, Trial Judgement, par. 525. G.A. Res. 2444, U.N. GAOR., 23rd Session, Supp. No. 18 U.N. Doc. A/7218 (1968). Tadic, Jurisdiction, par. 96. 1.4 La disciplina dei conflitti armati internazionali 9 2001, che ha esteso le proibizioni e restrizioni contenute nei Protocolli della Convenzione anche alle situazioni indicate all’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra (armed conflicts not of an international character). La giurisprudenza internazionale, riconoscendo questo orientamento, sostiene che si possa parlare di crimini di guerra anche in caso di conflitti interni. Del resto, a mano a mano che cresce l’attenzione sul piano internazionale per la salvaguardia dell’essere umano in quanto tale, diminuisce il senso di mantenere una differenziazione nella disciplina dei due tipi di conflitti, che finiscono per avere modalità ed effetti negativi del tutto simili sulle persone che non partecipano attivamente alle ostilità (v. anche infra, sez. 3.14). Così lo Statuto della Corte penale internazionale (art. 8), pur differenziandone le fattispecie, sanziona la commissione di crimini di guerra sia durante i conflitti internazionali che durante i conflitti interni. Come detto, i conflitti armati internazionali, ossia quelli che si svolgono tra Stati o entità statuali in via di formazione, come i movimenti di liberazione nazionale, sono regolamentati dai due blocchi di disposizioni rappresentati dal diritto dell’Aja e dal diritto di Ginevra, cui si aggiunge un insieme di norme consuetudinarie, alcune delle quali (v. ad esempio l’ art. 51) sono state cristallizzate nel I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 197720 . Il diritto dei conflitti armati internazionali è dunque formalizzato nella IV Convenzione dell’Aja del 1907, nelle Convenzioni di Ginevra del 1949 e nel I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra dell’8 giugno 1977. Le Convenzioni dell’Aja del 1907 hanno rivisto le leggi generali e le consuetudini di guerra esistenti al tempo21 e sono il punto d’arrivo di un processo iniziato con la Conferenza di Bruxelles del 1874 - che aveva avuto come esito la formulazione del progetto di una dichiarazione internazionale sulle leggi e gli usi di guerra, in 56 articoli, progetto rispetto al quale la codificazione dell’Aja, oltre che come formalizzazione giuridica, si pone come complemento e integrazione -, passato attraverso la Conferenza di pace dell’Aja del 1899 e la II Convenzione sulla guerra terrestre, e sfociato in una serie di strumenti internazionali ancora vigenti (anche se in buona parte obsoleti) che si occupano nel dettaglio della condotta delle ostilità. Prima della codificazione dell’Aja del 1899 - che è stato il frutto di un compromesso tra le Potenze navali e gli altri Stati e che aveva avuto come aspirazione quella di prevenire i conflitti armati -, l’elaborazione, lo studio e la codificazione delle regole del diritto bellico è stata portata avanti da gruppi di accademici ed esperti, che hanno prodotto importanti manuali, come quello di Oxford22 , o come il cd. Codice Lieber, che il presidente Lincoln impose alla proprie truppe durante la Guerra di secessione americana23 . Le norme contenute nelle Convenzioni dell’Aja, essendo enunciazione in forma scritta di regole risalenti, frutto della pratica degli Stati, valgono anche per quegli Stati che non le abbiano ratificate. Secondo il Tribunale di Norimberga, The rules of land warfare expressed in the [1907 Hague] Convention undoubtedly represented an advance over existing international law at the time of their adoption. But the Convention (Hague 20 21 22 23 V. J. Henckaerts -L. Doswald-Beck, Customary International Humanitarian Law (2005). Wall in Palestine I. C. J. Rep., 2004, par. 86. Institute of International Law,The Laws of War on Land, Oxford, 9 September 1880. Instructions for the Government of Armies of the United States in the Field (Lieber Code), 24 April 1863. 10 Il diritto internazionale dei conflitti armati e le sue fonti Convention Concerning the Laws and Customs of War on Land) expressly stated that it was an attempt ’to revise the general laws and customs of war’ which it thus recognized to be then existing, but by 1939 these rules laid down in the Convention were recognized by all civilised nations and were regarded as being declaratory of the laws and customs of war. 24 . La codificazione del 1907 rappresenta la revisione delle leggi e degli usi generali della guerra, sia allo scopo di definirli con maggiore precisione sia di meglio delineare i limiti dell’impiego della violenza bellica. Si è trattato, secondo il preambolo, di mitigare i mali della guerra nei limiti consentiti dalle necessità militari, - all’epoca sentite comunque come prevalenti -, prima di tutto impedendo che, in mancanza di una regolamentazione scritta, la gestione delle operazioni belliche fosse lasciata all’arbitrio di coloro che guidano gli eserciti. L’inserimento nel preambolo della Clausola Martens segnava l’intenzione di non lasciare alcun vuoto giuridico in attesa che una più completa codificazione vedesse la luce, colmando le lacune nelle disposizioni regolamentari annesse alla IV Convenzione con i principi internazionali, principi risultanti dalle consuetudini in vigore tra le nazioni civili, dalle leggi di umanità e dai dettami della pubblica coscienza. La norma è formulata nel modo seguente: Until a more complete code of the laws of war is issued, the High Contracting Parties think it right to declare that in cases not included in the Regulations adopted by them, populations and belligerents remain under the protection and empire of the principles of international law, as they result from the usages established between civilized nations, from the laws of humanity and the requirements of the public conscience. La clausola, richiamando le leggi di umanità e la coscienza pubblica, è perfetta per sostenere che i principi di umanità non sono posti dalla volontà degli Stati ma vi si pongono. L’uso dei termini è accurato: popolazione e belligeranti rimangono sotto la protezione garantita dal diritto internazionale, una protezione sancita da norme risalenti, che precedono la formulazione di un codice dettagliato di diritto bellico. Soprattutto è una norma tesa alla salvaguardia dell’umanità; una norma che si impone agli Stati ma che ne sovrasta la volontà. I principi di umanità non sono posti dalla volontà degli Stati: si impongono per la loro intrinseca giuridicità. Le disposizioni contenute nelle Convenzioni di Ginevra mirano invece, dal 1864 quando fu negoziata la Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei feriti degli eserciti in campagna -, a garantire i diritti umani fondamentali di coloro che non prendono parte attivamente alle ostilità e ad imporne il rispetto, anche tramite l’esercizio della giurisdizione penale (interna, ma a titolo universale, v. infra, sez. 9.2), ritenuta strumento necessario per garantirne l’efficacia. Le Convenzioni di Ginevra si occupano della protezione dei civili e dei militari fuori combattimento, hors de combat (v. art. 41 del I Protocollo), perché feriti, malati o fatti prigionieri, durante i conflitti armati internazionali. Le quattro Convenzioni del 12 agosto 1949 sono state ratificate da pressoché tutti gli Stati (193 ratifiche su 197 Stati) e si applicano nei casi di guerra dichiarata come anche nelle situazioni di guerra non dichiarata, e, limitatamente alle disposizioni dell’art. 3 comune, anche ai conflitti armati non di carattere internazionale. L’art. 1 comune impone agli Stati parti di rispettare e fare rispettare le norme delle Convenzioni. Fare 24 I.M.T. Judgment, p. 65. 1.4 La disciplina dei conflitti armati internazionali 11 rispettare significa anche non incoraggiare o tollerare la violazione delle Convenzioni da parte di attori non statali, come la Corte internazionale di giustizia ha sottolineato nel caso Nicaragua. Nella stessa decisione la Corte ha anche affermato che gli artt. 1 e 3 comuni alle Convenzioni di Ginevra sono norme consuetudinarie (e declaratorie di principi pre-vigenti). La decisione risale al 1986 (e riguarda come noto l’intervento degli Stati Uniti in Nicaragua a favore dei contras). La natura consuetudinaria di talune disposizioni contenute nell’art. 3 comune, il divieto di uccidere deliberatamente chi non partecipa alle ostilità, di torturare o mutilare una persona, era indubbia. Meno scontato appariva che l’art. 1 - ed in particolare il dovere di non incoraggiare, di scoraggiare e non tollerare violazioni delle norme umanitarie fosse norma consuetudinaria - non tanto perché contestata o contestabile, quanto perché la pratica non dimostrava che si fosse creata una opinio juris di questo tenore. Nel parere sulla liceità della minaccia o dell’uso delle armi nucleari reso nel 1996 la Corte internazionale di giustizia ha affermato che le quattro Convenzioni di Ginevra hanno ormai rango di diritto consuetudinario. Sono trattati, e dunque possono essere denunciate dagli Stati, che possono così cessare di esserne parte, ma tale eventualità appare alquanto remota, e a fronte della vigenza quasi universale, non così rilevante. Certamente dovrebbe trattarsi di una presa di posizione inequivocabile, dunque espressa in modo formale, da parte dello Stato in questione, in aderanza a quanto disposto nelle Convenzioni medesime, dove è previsto che la denuncia sia notificata per iscritto al Consiglio federale svizzero, che curerà di darne comunicazione ai governi di tutte le Alte Parti contraenti. Inoltre, la denuncia del trattato non ha effetti immediati. Il trattato cessa di essere vincolante dopo un anno dalla denuncia, ma se lo Stato si trovasse a sostenere un conflitto armato, la vigenza della Convenzione nei suoi confronti si protrarrebbe fino alla conclusione della pace. La denuncia avrebbe effetto solo per lo Stato che l’avesse compiuta, nel senso che l’uscita dal trattato non consente a tutti gli altri Stati coinvolti nel conflitto di disapplicarlo. La sintesi dei due sistemi di norme - diritto dell’Aja e diritto di Ginevra -, è rappresentata dal I Protocollo addizionale dell’8 giugno 1977, anch’esso divenuto diritto consuetudinario nelle sue disposizioni più importanti. Il Protocollo riafferma e sviluppa le disposizioni che proteggono le vittime dei conflitti armati e sancisce misure dirette a rafforzarne l’applicazione (v. preambolo) e costituisce un supplemento alle Convenzioni di Ginevra nelle situazioni previste dal loro art. 2 comune, ossia durante i conflitti internazionali e le situazioni di occupazione militare. Il nuovo diritto dei conflitti armati contenuto nel Protocollo non ha soppiantato o abrogato le norme precedenti, ma le ha rielaborate e integrate, ed ha preso atto dei cambiamenti nella natura dei conflitti, fornendo regole dettagliate in materia di condotta delle ostilità, e dunque aggiornando le Convenzioni dell’Aja, e regolamentando taluni aspetti emersi durante le nuove guerre di liberazione nazionale seguite al processo di decolonizzazione, riconoscendo tra l’altro uno statuto particolare ai guerriglieri (artt. 43-44). Significativamente, ai lavori hanno partecipato, senza diritto di voto, anche l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), l’Irish Republican Army (IRA) e il Front de Libération Nationale algerino (FLN). Nel preambolo il I Protocollo riporta quale sua finalità la necessità di riaffermare e sviluppare le disposizioni che proteggono le vittime dei conflitti armati, segnatamente 12 Il diritto internazionale dei conflitti armati e le sue fonti le disposizioni delle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, e completare le misure intese a rafforzarne l’applicazione. Considera conflitti armati internazionali le lotte condotte dai popoli per l’autodeterminazione (art. 1(4)) ma nell’art. 4 ha cura di sottolineare che il Protocollo non implica alcun cambiamento nello status delle parti in conflitto e riafferma il principio secondo il quale una situazione di occupazione non muta lo stato giuridico dei luoghi sui quali l’occupazione si esercita. L’art. 1 si preoccupa di riaffermare la Clausola Martens in forma modernizzata, e dunque il principio secondo il quale in assenza di disciplina specifica il vuoto di protezione per civili e combattenti è tamponato facendo ricorso agli usi consolidati, ai principi di umanità e ai dettami della pubblica coscienza. 1.5 La disciplina dei conflitti armati interni Per consentire un minimo di protezione umanitaria anche durante le guerre civili è stato introdotto in ciascuna delle quattro Convenzioni di Ginevra un articolo comune, l’art. 3, che contiene uno standard minimo applicabile nei conflitti, prima non regolamentati, che scoppiano all’interno del territorio di uno Stato, e che per tale ragione non possono essere disciplinati dalle altre norme contenute nelle Convenzioni. Tale standard minimo è oggi ritenuto applicabile a tutti i tipi di conflitto armato25 e in virtù della natura consuetudinaria acquisita dalla norma, non può essere disatteso da nessuno Stato. L’art. 3 comune contiene anche un meccanismo diretto a far sì che le parti in un conflitto interno si accordino per favorire l’applicazione integrale delle Convenzioni di Ginevra alla situazione in atto. Auspica infatti il secondo comma che le parti del conflitto interno si sforzino di porre in vigore mediante accordi speciali le altre disposizioni contenute nelle Convenzioni. L’art. 3 comune, che ha un soprattutto scopi umanitari, prevedendo al suo interno una serie di disposizioni dirette a proteggere in ogni circostanza i diritti fondamentali di coloro che, trovandosi coinvolti in un conflitto non internazionale, non partecipano in modo attivo alle ostilità, è sviluppato e completato dal II Protocollo addizionale dell’8 giugno 1977. Anche il II Protocollo ha scopo eminentemente umanitario. Nel preambolo si legge infatti che gli strumenti di tutela dei diritti umani già forniscono alla persona umana una protezione di base, che però necessita di essere rafforzata in relazione alle situazioni di conflitto armato. La formulazione del preambolo autorizza anche a pensare che la protezione garantita dagli strumenti internazionali sui diritti umani non cessi durante il conflitto ma venga integrata da norme specifiche di diritto dei conflitti armati (v. infra, parte III). Il II Protocollo disciplina i conflitti che non rientrano nel novero dei conflitti internazionali, con ciò intendendosi i conflitti tra due o più Stati e - per gli Stati che hanno ratificato il I Protocollo del 1977 -, le guerre di liberazione nazionale e quelle combattute contro l’occupazione straniera e i regimi razzisti. Secondo la Camera d’appello del Tribunale per la ex-Jugoslavia, il II Protocollo è per gran parte dichiarativo di norme di 25 Nicaragua v. US, I. C. J. Rep., 1986, par. 218. 1.6 L’applicazione del diritto internazionale umanitario 13 diritto internazionale consuetudinario26 . Nel II Protocollo vengono regolamentati aspetti ulteriori rispetto alla semplice protezione umanitaria, inclusa la condotta delle ostilità. Lo strumento si applica altresì a particolari situazioni di conflitto, vale a dire durante i conflitti armati che si svolgono tra le forze armate dello Stato e forze armate dissidenti o gruppi armati organizzati che esercitano su una parte del territorio un controllo tale da consentire loro di condurre operazioni militari prolungate e pianificate (concerted), e che siano potenzialmente in grado di implementare il Protocollo medesimo. 1.6 L’applicazione del diritto internazionale umanitario Una clausola contenuta nell’art. 2 della IV Convenzione dell’Aja del 1907 prescriveva che le disposizioni dell’annesso Regolamento sulla guerra terrestre fossero applicabili solo fra le Potenze contraenti, e soltanto se i belligeranti fossero tutti parte della Convenzione (clausola si omnes). Tale clausola era stata poi rivista dall’art. 2 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, secondo il quale se una delle Potenze in conflitto non è parte delle Convenzioni, le Potenze che ne sono parte rimangono cionondimeno vincolate dalle stesse nei loro rapporti reciproci. Oggi il diritto internazionale umanitario si compone di obblighi che debbono essere osservati a prescindere da qualsiasi considerazione di reciprocità. Rispetto a questi obblighi non è ammessa l’obiezione tu quoque - già respinta durante i processi tenutisi a Norimberga contro i criminali di guerra del III Reich27 - in base alla quale la violazione di norme umanitarie da parte dell’avversario consentirebbe alla controparte di fare altrettanto. Una simile impostazione si basa sull’idea che il diritto internazionale umanitario sia un aggregato di obblighi bilaterali, mentre la sua vera natura è quella di un diritto che contiene obbligazioni che valgono in modo assoluto. Ciò è dovuto all’affermarsi dell’idea che il diritto umanitario riguardi sempre meno la tutela degli interessi degli Stati e sempre più la salvaguardia degli individui come tali e non come parti integranti delle entità statali. Si tratterebbe, secondo il Tribunale per la ex-Jugoslavia, di un caso di traduzione dell’imperativo categorico kantiano in norma giuridica28 . Gli obblighi derivanti dalle norme di diritto umanitario sono obblighi erga omnes, e non semplici obblighi che ciascuno Stato ha nei confronti della controparte. Non si applica agli strumenti protettivi dei diritti umani, e dunque anche a quelli di diritto umanitario, la regola inadimplenti non est adimplendum, ossia la regola che consente allo Stato di sospendere la vigenza di un accordo nei confronti di uno Stato che lo abbia violato in modo sostanziale29 . Il diritto internazionale umanitario si applica alle situazioni di conflitto armato e di occupazione militare (occupatio bellica). Una volta che sia accertato che su un territorio è in corso un conflitto armato o che il territorio è sotto occupazione militare, lo si applica senza ulteriori condizioni e la sua vigenza si estende oltre la cessazione delle ostilità, fino alla conclusione della pace generale, nel caso di conflitti internazionali, oppure, nel 26 27 28 29 Tadic, Jurisdiction, par. 117. US v. von Leeb et al (the High Command trial) 1948, LWT, vol. 12, p. 1, p. 64. Kupreskic, Trial Judgement, par. 518. Vienna Convention on the Law of Treaties, art. 60(5). 14 Il diritto internazionale dei conflitti armati e le sue fonti caso di conflitti interni, fino a che un accordo di pace sia stato raggiunto. In territorio occupato, la vigenza delle disposizioni della IV Convenzione di Ginevra cessa trascorso un anno dalla chiusura generale delle operazioni militari. L’art. 3 del I Procollo del 1977 dispone che l’applicazione delle Convenzioni e del Protocollo medesimo - e dunque la vigenza del regime speciale -, cessi immediatamente dopo che sia cessata l’occupazione. Il diritto internazionale umanitario si applica ratione personae, senza alcuna distinzione peggiorativa derivante dalla natura o dall’origine del conflitto armato o dalla responsabilità nel conflitto che possa essere ascritta ad una delle parti. Significa in particolare che la protezione garantita alle vittime dei conflitti prescinde da eventuali illeciti di diritto internazionale imputabili agli Stati che partecipano al conflitto. Lo stato di persona protetta implica che le persone rinuncino o abbiano rinunciato a partecipare alle ostilità (art. 8 del I Protocollo). Il diritto umanitario si applica senza fare alcuna distinzione fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione o la credenza, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, il censo, la nascita o altra condizione, o qualsiasi altro criterio analogo. La protezione include la cura, il rispetto e il diritto ad essere trattati con umanità, soprattutto in riferimento alle persone internate, detenute o altrimenti in potere di una delle parti. L’obbligo di rispettare le persone protette riguarda anche la popolazione civile. Il diritto internazionale umanitario si applica ratione loci ai territori su cui i belligeranti possono condurre le ostilità, e dunque all’intero territorio metropolitano e alle acque territoriali degli Stati parti del conflitto, oppure, nel caso di conflitti interni, su tutto il territorio controllato da una delle parti, anche se non vi si svolgono combattimenti. I diritti di belligeranza possono estendersi oltre gli spazi appena considerati, interessando anche l’alto mare e incidendo sui diritti dei neutrali, ossia degli Stati estranei al conflitto, per scelta contingente o in forza di un impegno preso in precedenza tramite un trattato internazionale. Così, in alto mare, le navi degli Stati neutrali sospettate di contrabbando di guerra - ossia di trafficare in beni essenziali per lo sforzo militare di una delle parti del conflitto -, possono essere fermate e sottoposte a visita da parte delle navi da guerra di uno dei belligeranti (v. infra, sez. 3.11). Il belligerante può anche istituire un blocco navale (blockade), tramite l’impiego di una forza aero-navale, davanti ai porti dell’avversario, rendendone impossibile ai neutrali il raggiungimento. Il blocco, che deve essere imparziale, non può riguardare navi che trasportano esclusivamente aiuti umanitari (v. art. 54 del I Protocollo del 1977). I neutrali devono impedire che il loro territorio sia usato dai belligeranti come base di partenza per lanciare attacchi contro l’avversario e provvedere ad internare le forze armate delle parti in conflitto che vi si siano rifugiate fino al termine del conflitto. 1.7 La gestione del territorio occupato Diritti e obblighi dell’occupante, che derivano dall’assunzione del controllo effettivo del territorio invaso, sono stati tratteggiati dal Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aja del 1907, negli artt. da 42 a 56, e codificati nel dettaglio nella IV Convenzione 1.7 La gestione del territorio occupato 15 di Ginevra del 1949, agli artt. 27-34 e 47-78. La IV Convenzione si applica dal momento stesso (outset) in cui inizia l’occupazione. L’amministrazione del territorio occupato spetta alla forza occupante, e dunque ad un comandante militare. La fonte dell’autorità del comandante militare del territorio occupato, e dunque anche dei limiti del suo potere, è il diritto internazionale: From a legal viewpoint the source for the authority and the power of the military commander in a territory subject to belligerent occupation is in the rules of public international law relating to belligerent occupation (occupatio bellica), and which constitute a part of the laws of war30 . La Potenza occupante, nella misura in cui esercita un controllo effettivo sul territorio occupato, è responsabile dei diritti fondamentali dei suoi abitanti, sia secondo il diritto internazionale umanitario, in quanto lex specialis, sia secondo il diritto internazionale dei diritti umani, sistema complementare al primo31 . La gestione del territorio occupato si presenta come difficile compromesso tra le esigenze della popolazione e quelle dell’occupante. La Potenza occupante ha il diritto di dare disposizioni alla polizia locale per il mantenimento dell’ordine pubblico e per la repressione di azioni di forze irregolari. La popolazione del territorio occupato è tenuta all’obbedienza verso l’occupante, ma non ad essere leale nei suoi rapporti con la forza di occupazione. Anche sotto regime di occupazione, gli abitanti del territorio occupato hanno diritto ad un adeguato standard di vita e al miglioramento delle loro condizioni di esistenza. La protezione della popolazione civile include il dovere di implementare il meccanismo umanitario, ossia l’obbligo di garantire il libero transito degli aiuti umanitari, la consegna di beni essenziali alla sopravvivenza dei civili, la protezione speciale dei bambini, delle donne incinte e delle madri con figli piccoli (v. art. 23 della IV Convenzione). Il comandante militare è responsabile del mantenimento dell’ordine e della sicurezza degli abitanti del territorio occupato, e primo garante della salvaguardia dei loro diritti fondamentali, anche rispetto alle attività di ribelli o altri attori non statali operanti nell’area di responsabilità32 . Ha inoltre il dovere di investigare sulle violazioni gravi ivi avvenute (v. art. 146-147 della IV Convenzione). Nel gestire il territorio occupato, è tenuto ad operare un bilanciamento tra le esigenze delle forza di occupazione e le esigenze degli abitanti del territorio occupato. Si tratta di mantenere l’equilibrio tra necessità militare ed bisogni umanitari che caratterizza tutti i settori del diritto internazionale umanitario, e che nella sostanza richiama un generale principio di proporzionalità. Secondo tale principio, la libertà dell’individuo residente nel territorio occupato può essere limitata a condizione che la restrizione sia proporzionata. La misura è proporzionata se conduce in modo ragionevole al conseguimento dello scopo. Avendo a disposizione più strumenti, dovrà essere preferito quello che meno danneggia la controparte, in questo caso la popolazione e le infrastrutture del territorio occupato. Così nella scelta degli strumenti per gestire situazioni locali di insorgenza 30 31 32 H.C.J. 393/82, Almashulia v. IOF Commander in Judaea and Samaria, p. 793. O. Ben-Naftali, ’The Extra-territorial Application of Human Rights to Occupied Territories’, Proceedings of the Annual Meeting-American Society of International Law, 2006. DRC v. Uganda, I.C.J. Rep., 2005, par. 179. 16 Il diritto internazionale dei conflitti armati e le sue fonti o di disordini, dovrà essere preferita l’opzione law enforcement, riservando l’opzione militare ai casi limite (extrema ratio). Il principio di proporzionalità citato risulta ad esempio nell’art. 53 della IV Convenzione, in base al quale è vietato alla Potenza occupante distruggere beni mobili o immobili pubblici o privati, salvo nel caso in cui tali distruzioni fossero rese assolutamente necessarie dalle operazioni militari. L’assenza di assoluta necessità rende la misura adottata sproporzionata: One of the primary requirements of proportionality states that actions that will injure civilians may be taken only after alternative acts, whose resultant injury would be less, are considered and then rejected because they will not achieve the necessary military advantage33 . Rispetto alla regola generale secondo la quale il territorio occupato è sotto l’autorità di un comandante militare, la ris. n. 1483 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite - riferita all’occupazione dell’Iraq seguita all’invasione delle forze anglo-americane del 20 marzo 2003 - all’atto della cessazione delle major combat operation, l’1 maggio, ha ratificato la decisione presa dalla coalizione di affidare il governo provvisorio dell’Iraq occupato ad un civile, l’ambasciatore Paul Bremer, recognizing the specific authorities, responsibilities, and obligations under applicable international law of these states [the United States of America and the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland] as occupying powers under unified command (corsivo aggiunto). invitando tutti i Paesi coinvolti a comply fully with their obligations under international law including in particular the Geneva Conventions of 1949 and the Hague Regulations of 1907. Il ruolo di occupante del contingente britannico è stato confermato da uno specifico rapporto34 . In territorio occupato la limitazione alla libertà di movimento riservata alla popolazione civile è una misura eccezionale, mentre l’internamento vero e proprio dovrà essere attuato solo per casi di estrema necessità. Le persone protette saranno ristrette in carcere solo per infrazioni il cui unico scopo sia quello di creare nocumento all’occupante. Una speciale norma, invero molto stringente e del tutto generica, l’art. 5, consente al comandante militare di trarre in arresto coloro che sono sospettati di svolgere un’attività dannosa per la Potenza occupante o che svolgano per certo tale attività, privandoli oltre che della libertà anche dei diritti di comunicazione, ossia dei diritti di interloquire con la Potenza protettrice. Si tratterà giocoforza di attività condotte sotto copertura (di sabotaggio o intelligence) e soprattutto non effettivamente accertate, altrimenti nulla impedirebbe all’occupante l’esercizio della giurisdizione penale. L’art. 65 della IV Convenzione di Ginevra consente infatti alla Potenza occupante di emanare norme penali e il successivo art. 66 prevede espressamente che la Potenza occupante possa deferire gli imputati ai propri tribunali militari, a condizione che questi abbiano la loro sede nel Paese occupato. 33 34 H.C. 434/79, A. Sakhwil et al. Commander of the Judea and Samaria Region, Israeli Yearbook on Human Rights, vol. 10, 1980, p. 345. UK MoD, Report concerning six cases of alleged deliberate abuse and killing of Iraqi civilians (the Aitken Report), 25 January 2008. 1.7 La gestione del territorio occupato 17 Alla persona così privata della libertà spetta il diritto ad essere trattata con umanità, e nel caso in cui debba subire un processo penale, spettano le garanzie proprie del giusto processo. Ad essa competerà altresì il diritto a contestare in sede giudiziale la legittimità della propria detenzione, quantunque un simile diritto non sia esplicitato dalla norma, sempre in virtù del ruolo integrativo che il diritto dei diritti umani ha nei confronti del diritto internazionale umanitario. Rispetto a tali individui, la norma garantisce solo il trattamento di umanità e il diritto ad un processo equo. Tale provvedimento può protrarsi indefinitamente, dal momento che la norma impone alla Potenza occupante di restituire alla persona tutti i diritti e privilegi che la IV Convenzione conferisce alle persone protette, non appena ciò sia compatibile con la sicurezza della Potenza occupante. Il diritto internazionale umanitario ammette la possibilità della detenzione amministrativa, ossia di un provvedimento restrittivo della libertà personale di civili decisa non dall’autorità giudiziaria ma da un’autorità amministrativa, denominandola internamento. Il personale internato, detenuto o altrimenti privato della libertà personale non deve essere posto in pericolo (I Protocollo, art. 11) e deve esserne garantita la registrazione a norma dell’art. 138 della IV Convezione di Ginevra. Qualsiasi atto volontario che ne metta a repentaglio l’integrità psico-fisica è considerato infrazione grave del I Protocollo, e dunque un crimine di guerra. Oltre all’internamento dei prigionieri di guerra, che ha come scopo quello di impedire loro di partecipare nuovamente alle ostilità, esiste una privazione della libertà di movimento dei civili in territorio occupato. Dove le norme di diritto internazionale umanitario nulla dicano circa la possibilità di contestare di fronte all’autorità giudiziaria la legittimità della detenzione, sussistendo la relazione da specie a genere tra il diritto umanitario e il diritto dei diritti umani, è fatto obbligo allo Stato che detiene la persona di garantire un diritto analogo al cd. habeas corpus del diritto penale, ossia la possibilità di revisione giudiziale della detenzione amministrativa. Non si ritiene invece coerente con l’impianto complessivo del diritto umanitario la norma dell’art. 43 della IV Convenzione di Ginevra, che consente di rivedere la decisione dell’internamento sia ad una corte che ad un’autorità amministrativa. 2 I conflitti armati 2.1 I conflitti armati internazionali Un conflitto armato è una situazione caratterizzata dal ricorso alla forza militare protratto nel tempo. Poiché non esiste nelle norme internazionali convenzionali una nozione giuridicamente precisa di conflitto armato, il Tribunale internazionale penale per la exJugoslavia nel caso Tadic ha provveduto a coniarne una propria, affermando che un conflitto armato sussiste tutte le volte in cui vi è ricorso alla forza armata tra Stati ovvero l’esercizio protratto della violenza tra autorità governative e gruppi armati organizzati o tra gruppi armati organizzati, all’interno di uno Stato: an armed conflict exists whenever there is a resort to armed force between States or protracted armed violence between governmental authorities and organized armed groups or between such groups within a State1 . La nozione così introdotta è da tempo riconosciuta come la più efficace. Il conflitto armato è dunque l’esercizio della violenza tra Stati o gruppi armati organizzati. Tradizionalmente, i protagonisti di questo scontro sono appunto gli Stati, che vi partecipano con le loro forze armate. Le Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, nel comune art. 2, stabiliscono che le disposizioni in esse contenute si applicano in caso di guerra dichiarata e in ogni altro conflitto armato che sorga tra le Alte parti contraenti. Le situazioni di conflitto non aventi carattere internazionale sono invece oggetto dell’art. 3 comune, che si applica al conflitto che scoppi nel territorio di una delle Alte Parti contraenti e che per tale ragione è definito come conflitto armato non di carattere internazionale, a significare che si tratta di uno scontro che non ha natura inter-statale. Dalla lettura di queste due disposizioni, gli artt. 2 e 3 comuni, si ricava dunque che la violenza bellica può essere un conflitto tra Stati o un conflitto che si sviluppa all’interno di uno Stato e che la guerra dichiarata, ossia la guerra nella sua forma tradizionale, è solo una delle manifestazioni del più ampio concetto di conflitto armato internazionale. L’art. 2 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra comprende dunque sia la guerra dello jus publicum Europaeum2 , una guerra inter-statale combattuta da Stati sovrani valendosi di eserciti regolari, formalmente dichiarata, sia qualsiasi altra situazione assimilabile alla guerra, anche se non riconosciuta formalmente da una delle parti in conflitto. Assimilata al conflitto armato internazionale sotto il profilo della disciplina giuridica è anche l’occupazione militare (occupatio bellica), ossia la situazione che si viene a creare quando 1 2 Tadic, Jurisdiction, par. 70. C. Schmitt, Il nomos della terra (1998). 2.1 I conflitti armati internazionali 19 le forze armate di uno dei belligeranti hanno invaso il territorio dell’avversario, estromettendone le truppe e assumendone il controllo in modo effettivo (v. infra, sez. 2.3). Le regole sui conflitti internazionali si applicano anche alla cd. levata in massa (levée en masse) degli abitanti di un territorio non occupato di cui tratta l’art. 2 del Regolamento dell’Aja sulla guerra terrestre3 : The inhabitants of a territory which has not been occupied, who, on the approach of the enemy, spontaneously take up arms to resist the invading troops without having had time to organize themselves in accordance with Article 1, shall be regarded as belligerents if they carry arms openly and if they respect the laws and customs of war. La previsione dell’art. 2 comune è stata dilatata dal I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra adottato nel 19774 , che ritiene conflitti internazionali anche le lotte per l’autodeterminazione dei popoli e contro regimi coloniali, e la lotta contro i regimi razzisti e di apartheid. Tale norma, legata ai processi violenti di decolonizzazione degli anni 60 e 70 del Novecento, ha oggi poche probabilità di essere applicata. Naturalmente, trattandosi di norma convenzionale, non varrà per gli Stati che non hanno ratificato il I Protocollo, per i quali i cd. freedom fighters rimangono insorti, e non sono legittimati a condurre operazioni militari ai danni della Potenza contro la quale è diretta la lotta per l’autodeterminazione. L’art. 3 comune vale a distinguere la disciplina delle situazioni di belligeranza appena viste da quelle di insorgenza e si applica dunque in situazioni diverse e alternative rispetto a quelle cui fa riferimento l’art. 2. Riguarda allora un conflitto diverso, non avente carattere internazionale, con ciò intendendo un conflitto interno, concetto che si sviluppa lungo un continuum, con ai due estremi le situazioni di disordine interno e la guerra civile. Con riferimento ai protagonisti, dunque, il ricorso alla forza armata può generare situazioni di belligeranza (tra Stati, soggetti pieni di diritto internazionale) oppure di insorgenza (che si sviluppano all’interno di uno Stato). La situazione del primo tipo sarà disciplinata da un intero complesso di speciali norme internazionali, che regolamentano la condotta delle ostilità e la protezione delle persone che non vi partecipano o che vi non partecipano più perché messe fuori combattimento, hors de combat, le cui componenti sono rispettivamente il diritto dell’Aja e il diritto di Ginevra. Nel secondo caso, invece, le norme internazionali applicabili saranno assai meno numerose, e saranno limitate alla fornitura di garanzie minime di diritti inderogabili, enunciate nell’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, che ha rango riconosciuto di norma consuetudinaria5 . Assicurate le garanzie minime imposte dall’art. 3 comune, che valgono peraltro anche in un conflitto armato internazionale6 , lo Stato sarà libero di trattare la situazione di conflitto, e i suoi protagonisti, siano essi gruppi armati o forze armate ribellatesi, secondo le norme di diritto (penale) interno. Di conseguenza, nei conflitti internazionali il quadro giuridico è definito dal completo dispiegarsi dei diritti 3 4 5 6 Regulations Respecting the Laws and Customs of War on Land, The Hague, October 18, 1907. Protocol Additional to the Geneva Conventions of 12 August 1949, and relating to the Protection of Victims of International Armed Conflicts (Protocol I), 8 June 1977. Nicaragua v. the US, I. C. J. Rep., 1986, par. 218. Tadic, Jurisdiction, par. 102. 20 I conflitti armati di belligeranza, mentre in quelli interni è rappresentato dal diritto penale vigente nel territorio in cui si verifica l’insurrezione, ed in base al quale gli insorti vengono giudicati - salvo che lo Stato decida per una generale amnistia -, per avere commesso crimini correlati al conflitto. Significativamente, l’art. 6 del II Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra relativo ai conflitti armati non internazionali, che è intitolato Penal prosecutions, mira a garantire i diritti del giusto processo a coloro che vengono perseguiti e puniti per avere commesso crimini riconducibili al conflitto armato, mentre l’art. 3 comune visto sopra statuisce che le condanne pronunciate (e le esecuzioni compiute) senza previo giudizio di un tribunale regolarmente costituito sono proibite. Alcuni conflitti possono essere contestualmente caratterizzati come interni e internazionali. Il Tribunale per la ex-Jugoslavia ha indicato le varie modalità attraverso le quali un conflitto interno e uno internazionale che insistono sullo stesso territorio finiscono per condizionarsi reciprocamente. Un conflitto armato interno può diventare un conflitto interno internazionalizzato a causa del supporto esterno ricevuto da una delle parti, così come un conflitto che nasce come internazionale può essere rimpiazzato da uno o più conflitti interni, quando a seguito del disfacimento della struttura statale, la contesa interessa solo più gruppi armati organizzati. Una situazione di violenza generalizzata può anche essere data dalla combinazione conflitto interno - conflitto internazionale7 . Questo accade se uno Stato interviene in un conflitto interno con proprie truppe o se alcuni dei partecipanti ad un conflitto interno agiscono per conto di un altro Stato. Durante il conflitto seguito alla disgregazione della Jugoslavia (1991 - 1995), lo scontro si è presentato come un conflitto tra cittadini di uno Stato e il suo governo centrale, nel quale altri Stati hanno partecipato in misura variabile. Così il supporto fornito dalla neonata Croazia ai croati di Bosnia contro il governo bosniaco sul suo territorio, con un coinvolgimento diretto di unità militari dell’esercito croato all’interno dei gruppi armati dissidenti - superiore certo al supporto statunitense fornito ai contras del Nicaragua8 - è valso, secondo la Camera d’appello del caso Tadic, a trasformare lo scontro militare in un conflitto armato internazionale. In Afghanistan, l’intervento anglo-americano iniziato il 7 ottobre 2001 in reazione agli attacchi suicidi sul territorio americano dell’11 settembre di quell’anno, noto come operazione Enduring Freedom, ha trasformato il conflitto armato interno in corso nel Paese tra il governo de facto dei Taliban e la cd. Alleanza del Nord, rappresentata dai capi della jihad combattuta contro i sovietici, in un conflitto armato internazionalizzato. Dal 19 giugno 2002 tale situazione si è evoluta in un conflitto armato interno in cui la comunità internazionale, rappresentata dalla forza multinazionale della NATO ISAF (International Security Assistance Force) e dalla coalizione a guida americana denominata Enduring Freedom coalition supportano il governo locale nello scontro armato con diversi attori non statali9 . A seconda della natura e delle dimensioni dell’entità coinvolta, la partecipazione di uno Stato terzo in un conflitto sarà in forma di specifiche istruzioni (rivolte ad individui o a gruppi non organizzati) oppure di controllo di massima/supervisione, overall control 7 8 9 Tadic Jurisdiction, par. 73. Nicaragua v. the US, I. C. J. Rep., 1986, par. 239-245. S. C. Res. 2069 (9 October, 2012). 2.2 I conflitti armati interni 21 (quando vengono impiegati gruppi armati ordinati gerarchicamente e organizzati), che sussiste, secondo il Tribunale per la ex-Jugoslavia, quando uno Stato ha un ruolo ben definito nell’organizzare, coordinare e/o pianificare l’azione militare dei gruppi armati ribelli, che peraltro provvede anche a finanziare, equipaggiare e addestrare, o a supportare nella condotta delle attività operative. La forma di controllo esercitata sui gruppi armati, overall control, usata dalla giurisprudenza penale internazionale per sostenere l’internazionalizzazione del conflitto e più in generale il ruolo attivo svolto da terzi Stati in un conflitto armato interno, si discosta dal criterio adoperato dalla Corte internazionale di giustizia nel citato caso Nicaragua per imputare agli Stati Uniti le attività dei contras. In quel giudizio la Corte dell’Aja aveva ritenuto che, nonostante il governo degli Stati Uniti finanziasse, addestrasse, equipaggiasse e organizzasse i contras, non avesse un effettivo controllo sulle loro operazioni, e dunque non potesse essere considerato responsabile delle violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario commesse dai guerriglieri che si opponevano al regime sandinista10 . La definizione di conflitto armato, nell’ordinamento italiano, risulta, ai fini dell’applicazione delle norme per la punizione dei reati contro le leggi e gli usi di guerra di cui al titolo IV del libro III del codice penale militare di guerra (c.p.m.g.)11 , dall’art. 165 del medesimo codice di guerra: per conflitto armato si intende il conflitto nel quale almeno una delle parti fa uso militarmente organizzato e prolungato delle armi nei confronti di un’altra per lo svolgimento di operazioni belliche. 2.2 I conflitti armati interni Si è visto in precedenza che la condotta di operazioni militari da parte di gruppi armati all’interno di uno Stato rappresenta un problema di diritto interno, rispetto al quale il diritto internazionale, tramite l’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra, si limita a impedire che siano violati i diritti umani fondamentali di chi non partecipa attivamente alle ostilità e di garantire che chi abbia commesso reati connessi all’insorgenza non sia giustiziato in maniera sommaria e sia invece giudicato secondo le regole del giusto processo12 . In base al II Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra dell’8 giugno 197713 , si ha conflitto armato interno, dal punto di vista dei soggetti, quando lo scontro avviene tra le forze armate dello Stato e forze armate dissidenti o gruppi armati organizzati, aventi un controllo sul territorio tale da consentire loro di condurre operazioni militari prolungate e opportunamente pianificate (concerted); ciò che varrebbe a distinguerle da attività eversive a carattere episodico, vale a dire criminali o terroristiche. Lo 10 11 12 13 Nicaragua v. the US, I. C. J. Rep., 1986, par. 115. Regio decreto 20 febbraio 1941, n. 303. La norma dice infatti che sono e rimangono vietate, in ogni tempo e luogo, nei confronti delle persone che non partecipano attivamente alle ostilità - compresi i membri delle forze armate che abbiano deposto le armi e le persone messe fuori combattimento - le condanne pronunciate e le esecuzioni compiute senza previo giudizio di un tribunale regolarmente costituito, che offra le garanzie giudiziarie riconosciute indispensabili dalle nazioni civili. Protocol Additional to the Geneva Conventions of 12 August 1949, and relating to the Protection of Victims of Non-International Armed Conflicts (Protocol II), 8 June 1977. 22 I conflitti armati Statuto della Corte penale internazionale14 (art. 8), a sua volta, e solo in riferimento all’applicazione delle norme in esso contenute, identifica due diversi tipi di conflitto interno, uno riconducibile all’art. 3 comune (art. 8 (2)(c) e (d)), l’altro a situazioni in cui gruppi armati organizzati conducono nel territorio di uno Stato operazioni militari prolungate: protracted non-international armed conflict (art. 8 (2), (e) e (f)). Secondo la giurisprudenza internazionale, vi sarebbe una distinzione tra i conflitti contemplati all’art. 3 comune e quelli di cui tratta l’art. 1 del II Protocollo, distinzione basata sull’idea che questi ultimi presentino una maggiore intensità15 , mentre il controllo del territorio costituirebbe il presupposto per la capacità da parte degli insorti di condurre operazioni militari sustained and concerted, cioè operazioni pianificate e condotte senza soluzione di continuità. I conflitti armati non internazionali sono in tutto simili ai conflitti internazionali, ma hanno la caratteristica essenziale di svilupparsi all’interno del territorio di un singolo Stato. Secondo il Tribunale della ex-Jugoslavia, la definitiva simiglianza tra i due tipi di conflitto, e dunque la necessità di estendere la disciplina dei conflitti internazionali ai conflitti interni, era già palese alla fine degli anni Trenta del secolo scorso. Già allora l’Istituto di diritto internazionale aveva identificato i caratteri della guerra civile (invero ai fini del riconoscimento di belligeranza): appropriazione del territorio, costituzione di un governo de facto e condotta di operazioni militari da parte di forze organizzate e disciplinate (con ciò intendendo rispettose delle leggi di guerra). La Guerra civile spagnola (1936-1939) aveva poi dimostrato che la distinzione tra la guerra inter-statale, compiutamente regolamentata da norme internazionali, e guerra civile, del tutto lasciata all’arbitrio del sovrano territoriale, non aveva ragione di essere. Soprattutto appariva necessario fissare, anche nel contesto di una guerra civile, regole certe per la protezione della popolazione dagli effetti delle ostilità. La Società delle Nazioni, nell’occasione, aveva voluto precisare alcuni principi attorno ai quali sarebbe dovuta svilupparsi la regolamentazione dei conflitti interni: 1. The intentional bombing of civilian populations is illegal; 2. Objectives aimed at from the air must be legitimate military objectives and must be identifiable; 3. Any attack on legitimate military objectives must be carried out in such a way that civilian populations in the neighbourhood are not bombed through negligence16 . L’idea di una disciplina unica, fortemente sostenuta in diverse pronunce dal Tribunale per la ex-Jugoslavia, stenta tuttavia a prendere piede. Per potersi parlare di conflitto armato la violenza deve avere superato una soglia minima, che vale a distinguere le situazioni di conflitto armato da quelle di violenza episodica o caotica, tipica dei disordini e delle rivolte estemporanee, oppure dai fatti di terrorismo. La violenza, oltre che organizzata, deve essere protratta e su vasta scala. L’esistenza del conflitto armato si basa dunque su due presupposti: 14 15 16 Rome Statute of the International Criminal Court, 17 July 1998. Rutaganda, Trial Chamber, par. 94. Tadic, Jurisdiction, par. 97 e 100. League of Nations, O.J. Spec. Supp. 183, pp. 135-136 (1938). 2.3 L’occupazione militare 23 1. l’intensità dello scontro armato; 2. l’organizzazione delle parti in conflitto. I due fattori indicati sopra sono da verificare caso per caso. Indizi del superamento della soglia di esistenza di un conflitto armato sono la gravità degli scontri, la loro diffusione sul territorio, il numero di unità militari governative coinvolte, la natura dei sistemi d’arma impiegati, ma anche l’interessamento o l’attenzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Durante il conflitto nella ex-Jugoslavia, il coinvolgimento del Consiglio di Sicurezza è stato continuo. Fin dal 25 settembre 1991 il conflitto è stato inquadrato come minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale ed affrontato dal Consiglio con gli strumenti del Cap. VII della Carta delle Nazioni Unite (intitolato Action with respect to Threats to the Peace, Breaches of the Peace, and Acts of Aggression), che sono produttivi di obblighi per tutti i membri dell’Organizzazione. Non essendo di norma legittimi combattenti, ma criminali comuni - come risulta evidente dalla formulazione dell’art. 6 del II Protocollo del 1977 già citato -, gli insorti non possono reclamare alcuna norma protettiva diversa da quelle che garantiscono loro i diritti minimi, a non essere sottoposti a tortura o a trattamenti inumani o degradanti e a non essere puniti senza un giusto processo, ossia quelli che lo stesso Protocollo indica come humanitarian principles garantiti nell’art. 3 comune, principi che costituiscono the foundation of respect for the human person durante i conflitti non internazionali. La tutela garantita dal II Protocollo non implica dunque diritti ulteriori a favore degli insorti. Le restrizioni imposte nella condotta delle ostilità sono a beneficio dei noncombattenti mentre agli insorti l’art. 6 citato riconosce solo le fondamentali garanzie nel processo penale che segue alla loro cattura (salvo il caso in cui lo Stato, ristabilito l’ordine, decida di amnistiarli). Si noti che le prerogative stabilite dal diritto umanitario sono superiori a quelle previste dagli strumenti di tutela dei diritti umani, che in caso di guerra prevedono l’intangibilità di alcuni core rights17 tra i quali non figurano le citate garanzie del giusto processo. Gli attori nel conflitto interno sono dunque il governo e gli insorti. A questi non sono riconosciuti i diritti di belligeranza, salvo il caso, invero improbabile, in cui lo Stato nel cui territorio si svolgono gli scontri riconosca ai ribelli lo status di legittimi belligeranti e i privilegi da esso derivanti, primo fra tutti il diritto dei ribelli ad essere trattati non da criminali ma da prigionieri di guerra. Il riconoscimento di belligeranza trasforma il conflitto interno in conflitto internazionale. Il riconoscimento ai ribelli dello stato di belligeranti da parte di un Paese terzo solleva invece il problema dell’intervento negli affari interni dello Stato, dell’invasione della domestic jurisdiction e di conseguenza di una deminutio della sua sovranità. 2.3 L’occupazione militare Il diritto dei conflitti armati internazionali si applica anche alle situazioni di occupazione militare. Il regime giuridico speciale di occupazione è formato dal Regolamento 17 V. ECHR, Art. 2, 3, 4 (1) 7, 15. 24 I conflitti armati annesso alla IV Convenzione dell’Aja del 1907 (Sezione III), che è diritto internazionale consuetudinario, e dalla IV Convenzione di Ginevra del 1949. Per espressa previsione dell’art. 154 della IV Convenzione, le sezioni II e III del Regolamento dell’Aja del 1907 sono parte integrante della IV Convenzione ed hanno quindi completa vigenza per gli Stati parti. L’art. 42 del Regolamento dell’Aja definisce come occupazione la situazione in cui un territorio è effettivamente posto sotto l’autorità dell’esercito avversario. L’occupazione si estende solo al territorio sul quale tale autorità si è stabilita e viene effettivamente esercitata. L’autorità sul territorio avversario è effettivamente stabilita se la Potenza occupante è in grado di esercitare pubblici poteri sottratti al sovrano territoriale. Di conseguenza, le forze nemiche ivi dislocate in precedenza devono avere lasciato il territorio o essere state sconfitte, mentre l’occupante deve avere sul territorio truppe sufficienti ad assicurarsene il controllo, ovvero avere la capacità di inviarne tempestivamente nel territorio occupato. Più nello specifico, perché esista una situazione di occupazione devono verificarsi alcune condizioni: 1. deve esserci una presenza militare avversaria sul territorio; 2. la forza occupante deve avere scardinato il sistema ordinario di governo e ordine pubblico e averlo sostituito con la propria struttura di comando (militare); 3. deve esistere diversità di nazionalità e di interessi tra gli abitanti del territorio occupato e la forza occupante (v. art. 4 della IV Convenzione di Ginevra); 4. è necessaria l’implementazione di un regime di emergenza che riduca i pericoli derivanti dagli scontri tra la forza occupante e gli abitanti del territorio occupato18 . L’occupazione non comporta cambiamenti di sovranità sul territorio occupato, come risulta espressamente dall’art. 4 del I Protocollo del 1977: Neither the occupation of a territory nor the application of the Conventions and this Protocol shall affect the legal status of the territory in question. Un’autorevole opinione afferma che quando uno Stato subisce un’operazione militare proveniente da oltre confine, il suo governo mantiene la giurisdizione in relazione all’applicazione delle norme internazionali di tutela dei diritti umani fintanto che è in grado di mantenere il controllo effettivo del territorio teatro dell’operazione. Tali responsabilità vengono meno nel momento in cui il territorio diviene occupato ai sensi della IV Convenzione di Ginevra19 . Le norme che proteggono la popolazione civile in territorio occupato si applicano solo dal momento in cui nel territorio invaso non si verificano più combattimenti. Non si applicano su quelle porzioni di territorio rispetto alle quali lo Stato ha abbandonato l’esercizio della propria sovranità ma l’invasore non ha ancora stabilito di fatto la propria autorità. Fino a che non vi sia effettivo controllo del territorio da parte dell’invasore, questi sarà tenuto ad applicare solo le norme internazionali che regolano il combattimento e i civili avranno titolo solo alla protezione derivante da quelle norme, 18 19 A. Roberts, ’What is a Military Occupation?’, 53 Brit. Y.B. Int’l L., 249 (1984). P. Rowe, The Impact of Human Rights in Armed Forces (2006), p. 125. 2.3 L’occupazione militare 25 e non anche a quella rafforzata prevista dalla normativa speciale contenuta nella IV Convenzione di Ginevra. Essendo l’occupazione una situazione temporanea, dal momento che l’annessione del territorio occupato costituirebbe una violazione della Carta delle Nazioni Unite, l’autorità del comandante militare è anch’essa provvisoria, anche se può protrarsi per decenni, come accade in Giudea e Samaria (West Bank), territori sotto occupazione militare di Israele dal 1967, a seguito della Guerra dei sei giorni. L’opinione secondo la quale l’abilità dell’occupante di imporre la propria autorità non può essere separata dalla presenza fisica sul territorio è radicata nella formulazione dell’art. 42 del Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aja del 1907. Secondo la Corte internazionale di giustizia, il successivo art. 43 impone il dovere di assicurare il rispetto dei diritti umani internazionali e del diritto umanitario, al fine di proteggere gli abitanti del territorio occupato dagli atti di violenza, e di non tollerare nessuna forma di violenza nei loro confronti da terze parti. La stessa Corte ha ritenuto che non sia necessario esplorare l’esistenza di un collegamento diretto, cioè fisico, tra l’individuo e l’autorità militare per garantire l’applicabilità delle norme sui diritti umani nei suoi confronti, bastando il controllo rappresentato dall’occupazione militare20 . Il Tribunale per la ex-Jugoslavia ritiene che vi sia occupazione anche quando l’esercito avversario non abbia truppe sul terreno ma abbia tuttavia la capacità di inviarne in un tempo ragionevole a far percepire sul territorio e su chi vi risiede il potere di occupazione21 . Il pensiero va subito all’attuale situazione della Striscia di Gaza, che Israele ha abbandonato nel 2005, chiudendo però le frontiere, controllando lo spazio aereo sovrastante la Striscia e imponendo il blocco nel tratto di mare prospiciente, ed esercitando, tramite la capacità di proiezione delle proprie forze e la sorveglianza continua derivante dominio dello spazio aereo, una sorta di occupazione, cioè di controllo effettivo del territorio, senza truppe sul terreno. 20 21 DRC v. Uganda, I. C. J. Rep., 2005, par. 178-181. Naletilić, Trial Judgement, par. 217. 3 La condotta delle ostilità 3.1 Principi di base Nel parere sulla liceità dell’uso delle armi nucleari la Corte internazionale di giustizia ha indicato i due principi cardinali che costituiscono la struttura portante (the fabric) del diritto internazionale umanitario e ne ha individuato corollari ed implicazioni1 . Il primo principio - che ha come scopo la protezione della popolazione civile -, è il principio di distinzione (tra combattenti e non-combattenti). Il secondo è il principio di umanità. A questi si aggiungono il principio della necessità militare e il principio di proporzionalità. Questi quattro principi interagiscono tra loro in ogni situazione di impiego della forza militare. Il principio di distinzione proibisce di lanciare attacchi deliberati contro la popolazione civile o obiettivi civili ed impone di dirigere la violenza solo contro le persone che partecipano attivamente alle ostilità e contro gli obiettivi militari. Il principio di umanità vieta l’impiego di mezzi e metodi di guerra diretti a causare (ai combattenti) sofferenze eccessive e mali superflui. Il principio della necessità militare giustifica l’impiego della violenza, non proibita dal diritto internazionale, al fine di assicurare la pronta sottomissione del nemico con il minimo dispendio di risorse umane ed economiche. Il principio di proporzionalità proibisce come attacchi indiscriminati, ossia come attacchi in violazione del principio di distinzione, quelli che possano causare perdite incidentali di vite civili e danni a obiettivi civili che siano eccessivi in relazione al vantaggio militare anticipato. Questi principi risalenti (definitivamente codificati nel I Protocollo del 1977) hanno ispirato nel 1965 la dichiarazione dell’Assemblea Generale relativa ai rischi della guerra indiscriminata, che ha poi fatto da base per la risoluzione 2444 (XXIII) del 1968. La risoluzione 2444 enuncia i principi umanitari di base che dovrebbero essere applicati in ogni conflitto armato: • il diritto delle parti in conflitto di scegliere i mezzi per nuocere all’avversario non è illimitato; • è proibito lanciare attacchi deliberati contro la popolazione civile; • deve essere fatta distinzione in ogni momento tra le persone che partecipano alle ostilità e i membri della popolazione civile in modo che questi ultimi siano risparmiati per quanto possibile. Questi principi sono stati rielaborati nel 1970 nella risoluzione 2675 (XXV), intitolata Basic Principles for the Protection of Civilian Populations in Armed Conflict, con l’in1 Nuclear Weapons, I. C. J. Rep., 1996, par. 78. 3.1 Principi di base 27 tento di garantire una migliore protezione dei diritti umani nei conflitti armati di qualsiasi natura. Ai principi di diritto dei conflitti armati già citati ne viene aggiunto un altro, il principio secondo cui i diritti umani fondamentali contenuti negli strumenti internazionali continuano ad applicarsi anche durante i conflitti armati (v. infra, parte III). Nella stessa sessione l’Assemblea Generale ha adottato due specifiche risoluzioni su quest’ultimo tema, intitolate entrambe Respect for Human Rights in Armed Conflict (ris. 2676 e 2677). In particolare, si legge nella ris. 2677 che le norme umanitarie esistenti non sono adeguate alle situazioni che si vengono a creare nei conflitti contemporanei e che è necessario che la sostanza di quelle norme e procedure sia migliorata tramite la convocazione di una conferenza di esperti, che si sarebbe dovuta riunire l’anno seguente, il 1971, presso il Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR). Le dichiarazioni citate, giuridicamente non vincolanti, sono comunque considerate dichiarative di norme di diritto internazionale consuetudinario (come spesso accade in corrispondenza di prese di posizione dell’Assemblea Generale), e i loro contenuti sono stati trasformati in norme giuridiche positive nel I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra dell’8 giugno 1977, adottato proprio a seguito di una conferenza internazionale durata dal 1974 al 1977, preparata appunto da due successive conferenze preliminari di esperti del Comitato Internazionale della Croce Rossa, come auspicato nel 1971. Le norme fondamentali del I Protocollo sono riconosciute come inderogabili, oltre che dalla dottrina internazionalistica e dalla giurisprudenza, anche dalla pratica degli Stati. Non sono parti del I Protocollo, tra gli altri, gli Stati Uniti, lo Stato d’Israele, la Francia, l’India, il Pakistan e la Turchia - tutti Paesi attivamente coinvolti in situazioni di conflitto armato - che nella pratica e nelle dichiarazioni ufficiali hanno però riconosciuto valenza vincolante a molta parte di quelle disposizioni. Secondo un’autorevole opinione riferita agli Stati Uniti, in materia di condotta delle ostilità, sono norme di diritto consuetudinario quelle contenute negli artt. 51, 52, 54 e 57- 60 del I Protocollo. Non lo sono gli artt. 55 e 562 . La Corte internazionale di giustizia ha osservato che la gran parte delle norme di diritto internazionale umanitario sono essenziali per il rispetto della persona umana e debbono essere osservate da tutti gli Stati in quanto principi inviolabili di diritto internazionale consuetudinario. I principi codificati all’art. 35 del I Protocollo come Basic rules si applicano anche alle operazioni di forze armate sotto comando delle Nazioni Unite, come risulta dal Bollettino del Segretario Generale sull’osservanza del diritto internazionale umanitario da parte delle forze delle Nazioni Unite del 19993 : The fundamental principles and rules of international humanitarian law set out in the present bulletin are applicable to United Nations forces when in situations of armed conflict they are actively engaged therein as combatants, to the extent and for the duration of their engagement.They are accordingly applicable in enforcement actions, or in peacekeeping operations when the use of force is permitted in self-defence. 2 3 M. J. Matheson, ’The United States Position on the Relation of Customary International Law to the 1977 Protocols Additional to the 1949 Geneva Conventions’, 2 Am. U. J. Int’l Pol’y 41 9, 420 (1987). V. UNSG Bullettin Observance by United Nations Forces of International Humanitarian Law, 6 August 1999, ST/SGB/1999/13. 28 La condotta delle ostilità Anche i contingenti nazionali dispiegati all’estero in operazioni multinazionali a supporto della pace e della sicurezza internazionale si conformano alle norme di diritto internazionale umanitario, indipendentemente dalla natura del conflitto e dalle ragioni del dispiegamento, come risulta sia dai manuali militari e dalle direttive nazionali che dai documenti della NATO, i cui contingenti sono impegnati in missioni che vanno dal sostegno logistico alla condotta di vere e proprie operazioni offensive in attuazione di decisioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite4 (v. infra, cap. 7). 3.2 Il principio di umanità Il principio di umanità implica il dovere in capo ai combattenti di evitare, tanto ai combattenti nemici quanto ai civili, l’inflizione di sofferenze inutili e mali superflui, e rappresenta, secondo la Corte internazionale di giustizia, l’essenza delle norme giuridiche applicabili durante i conflitti armati5 . La traduzione del principio in termini operativi è il divieto di usare livelli eccessivi di forza, con ciò intendendosi livelli di forza irragionevoli rispetto agli scopi delle operazioni militari. Nella Dichiarazione di San Pietroburgo del 1868, che ne rappresenta la prima formulazione, il principio è articolato in diverse componenti: • uno degli scopi del progresso è quello di alleviare i danni provocati dalla guerra; • unico legittimo scopo per uno Stato durante una guerra è l’indebolimento, e non l’annientamento, delle forze militari avversarie; • per ottenere quello scopo è sufficiente rendere temporaneamente inabili alla lotta il maggior numero di nemici; • l’impiego di armi che aggravino inutilmente le sofferenze di coloro che sono stati resi inabili o che rendano la loro morte inevitabile va oltre lo scopo legittimo delle ostilità; • l’uso di quelle armi sarebbe contrario alle leggi di umanità. 3.3 Il principio di distinzione L’art. 48 del I Protocollo del 1977, secondo il quale le Parti in conflitto dovranno fare, in ogni momento, distinzione fra la popolazione civile e i combattenti, nonché fra i beni di carattere civile e gli obiettivi militari, e di conseguenza dirigere le operazioni soltanto contro obiettivi militari, rafforza le disposizioni sulla protezione dei civili contenute nella IV Convenzione di Ginevra (in particolare quelle della parte II, dedicata alla protezione di tutta la popolazione degli Stati in conflitto), ed è la trasposizione in testo convenzionale del principio consuetudinario di distinzione. Assieme al principio della protezione della popolazione civile dagli effetti delle ostilità, che rappresenta l’incipit 4 5 Humanitäres Völkerrecht in bewaffneten Konflikten August 1992, DSK AV207320065, par. 211. The Judge Advocate General’s Legal Center And School, Law of War Deskbook (2010), p. 23. Nuclear Weapons, I. C. J. Rep., 1996, par. 95. 3.3 Il principio di distinzione 29 del citato art. 48, il principio di distinzione costituisce, secondo la Corte internazionale di giustizia, la struttura portante, the fabric, del diritto umanitario6 . I belligeranti devono in ogni circostanza fare distinzione tra la popolazione civile e i combattenti - e tra obiettivi civili e militari -, e dirigere attacchi solo contro questi ultimi. Sono civili le persone che non appartengono alle categorie indicate all’art. 4(A)(1), (2), (3) e (6) della III Convenzione di Ginevra e 43 del I Protocollo del 1977. La categoria civili è dunque definita in negativo come quella che comprende le persone non facenti parte delle forze armate o di gruppi militari organizzati appartenenti ad una delle parti in conflitto. Una persona il cui status di combattente sia dubbio è considerata civile, onde la condizione di civile è presunta. Analoga presunzione di stato si ha nei confronti dei prigioneri di guerra. Una persona che prende parte alle ostilità e cade in potere di una Parte avversaria si presume essere prigioniero di guerra e, di conseguenza, sarà protetta dalla III Convenzione. Se esiste un dubbio qualsiasi a proposito del suo diritto allo statuto di prigioniero di guerra, la persona stessa continuerà a beneficiare di detto statuto e, di conseguenza, della protezione della III Convenzione e del I Protocollo, in attesa che il suo statuto sia determinato da un tribunale competente. Una popolazione non perde il proprio carattere civile se tra i civili vi sono anche dei combattenti. Il carattere civile della popolazione e la correlata protezione non vengono dunque meno se gli individui aventi stato di civili sono prevalenti rispetto ai combattenti. Sono obiettivi civili tutti quelli che non sono obiettivi militari. Gli obiettivi militari sono limitati ai beni che per loro natura, ubicazione, destinazione o uso contribuiscono effettivamente all’azione militare, e la cui distruzione totale o parziale, oppure la conquista o neutralizzazione offre, nel caso concreto, un vantaggio militare preciso. Si noti che mentre alcuni beni o apprestamenti, ad esempio le unità sanitarie, non possono essere oggetto di attacchi (v. art. 12 del I Protocollo), per altre, ad esempio le unità sanitarie civili la protezione garantita dal diritto umanitario potrà cessare, ma solo nel caso in cui esse siano utilizzate per commettere, al di fuori della loro missione umanitaria, atti dannosi per il nemico (v. art. 13 del I Protocollo). Tuttavia, la protezione cesserà soltanto dopo una intimazione ad interrompere immediatamente la condotta lesiva che, avendo fissato un termine ragionevole per la cessazione di atti ostili, sia rimasta senza effetto. La destinazione del bene alle contingenze militari ne fa un obiettivo militare, anche se originariamente si era trattato di un bene protetto. Lo stesso dicasi per l’uso che ne viene fatto, e che rappresenta la chiave principale per il mutamento di stato. Anche la collocazione spaziale può essere motivo di trasformazione del bene da civile ad obiettivo militare. In linea di principio, dunque, qualsiasi oggetto materiale, salvo poche eccezioni espressamente previste, può costituire un obiettivo militare. Il principio di distinzione ha come conseguenza il divieto di condurre attacchi indiscriminati, ossia il divieto di usare mezzi o metodi di combattimento che non permettano di selezionare i bersagli in modo da evitare di colpire la popolazione o gli apprestamenti e i beni civili. Il principio di distinzione/discriminazione è strettamente collegato al principio di proporzionalità. Un attacco in violazione del principio di proporzionalità è 6 Ibid., par. 78. 30 La condotta delle ostilità un attacco indiscriminato (v. art. 51 (5) (a) del I Protocollo del 1977). 3.4 Il principio di proporzionalità Il principio di proporzionalità serve ad operare un bilanciamento tra i legittimi scopi delle operazioni militari e i mezzi per conseguire detti scopi. Implica dunque che il danno ai civili, che deve essere sempre accidentale ed involontario, non possa essere sproporzionato rispetto al vantaggio militare diretto ottenuto con l’attacco. La norma parla di danno collaterale eccessivo, con ciò richiamando l’idea di eccesso e dunque di comportamento irragionevole o irrazionale. Tutte le volte che il vantaggio ottenuto o ottenibile con un determinato corso di azione si presenti come irragionevole, vi sarà un eccesso e dunque una condotta illecita secondo il diritto dei conflitti armati. La considerazione del danno collaterale come eccessivo va dunque fatta caso per caso, e implica una valutazione della ragionevolezza delle decisioni assunte dai comandi militari ai diversi livelli in relazione alla soluzione del problema operativo. Rispetto al danno collaterale, è bene comunque precisare che esiste un obbligo di minimizzare il danno collaterale e non semplicemente un obbligo di mantenerlo entro il requisito della proporzionalità. Il diritto internazionale umanitario non esclude dunque che vi possano essere perdite di vite umane accidentali, per effetto delle operazioni militari. Quelle perdite accidentali, definite danno collaterale, non dovranno essere sproporzionate rispetto al vantaggio militare previsto prima dell’attacco. Ciò significa che è realistico attendersi che le operazioni militari possano causare danni ad obiettivi civili e perdita di vite umane tra la popolazione civile e che l’uso lecito della forza militare non sia limitato da un danno potenziale. Ciò che si intende bandire con il principio di proporzionalità è il concetto di guerra totale e l’idea che il vantaggio militare possa essere conseguito ad ogni costo. La giurisprudenza ritiene che i concetti di danno sproporzionato ed eccessivo si equivalgano, per cui quando il danno collaterale è eccessivo in relazione al concreto e diretto vantaggio militare anticipato, il principio risulta violato. Il vantaggio militare consiste nel terreno conquistato o nella distruzione o indebolimento delle forze avversarie. La proporzionalità dell’attacco, cioè la natura non eccessiva del danno collaterale rispetto al vantaggio militare ottenibile, è una valutazione che va fatta sulla base di un giudizio prognostico. Poiché il principio si fonda su una proporzione tra entità del danno collaterale e il vantaggio militare diretto anticipato, e dunque su una valutazione della situazione operativa o tattica che è molto soggettiva, la norma consente un ampio margine di discrezionalità. In caso di attacchi ripetuti, che siano al limite del rispetto del principio di proporzionalità quanto alla magnitudine degli effetti, si dovrà prestare attenzione all’effetto cumulativo. Un corso d’azione fatto di attacchi ripetuti, se considerato nel suo complesso, può determinare perdite di vite e di beni eccessive. La giurisprudenza internazionale ritiene infatti che attacchi che di per sé non rappresentino una violazione del principio di proporzionalità, se ripetuti, possano essere considerati nell’insieme una violazione di tale principio. L’effetto cumulativo di una pluralità di attacchi, provocando perdite e 3.5 La legittimità dell’attacco 31 danni che aggregati risultano eccessivi, è contrario al principio di umanità7 . Nello Statuto della Corte penale internazionale, un attacco è condotto in violazione del principio di proporzionalità quando le uccisioni, i ferimenti o il danno sono di magnitudine tale da essere chiaramente eccessivi in relazione al vantaggio concreto e complessivo anticipato. Lo Statuto della CPI appare qui più permissivo della corrispondente norma di diritto umanitario. Anche la terminologia usata è diversa, ciò che non rende agevole individuare la portata del divieto sanzionato dalla norma penale internazionale. 3.5 La legittimità dell’attacco Il potenziale distruttivo di un apparato militare è reso attuale nell’attacco, che è un corso d’azione che implica l’uso della violenza contro il belligerante avversario, sia essa esercitata in fase di offesa che di difesa. L’immunità dei non-combattenti rispetto agli attacchi diretti sta alla base del sistema di diritto internazionale umanitario. L’attacco a fini difensivi non esime chi si difende dal rispetto dei principi fondamentali del diritto dei conflitti armati in termini di precauzioni da adottare per proteggere la popolazione civile e i beni di carattere civile. Tale regola, applicata a situazioni in cui la popolazione è di fatto ostaggio di uno dei belligeranti, ovvero a situazioni di presa di ostaggi vera e propria, vale a mantenere inalterato l’obbligo di adottare le precauzioni dirette a limitare la causazione di vittime innocenti, a carico di entrambe le Parti. Cosicché, l’uso di scudi umani da parte di chi si difende non può costituire esenzione dalle citate precauzioni e dal più generale obbligo di proteggere i civili da parte di chi attacca. La protezione della popolazione civile dagli effetti delle ostilità durante i conflitti internazionali rappresenta il fondamento del diritto umanitario. Secondo Yoram Dinstein rappresenta the kernel of LOIAC [the law of international armed conflict] as it currently stands. Nell’opinione della Camera d’Appello del Tribunale per la ex-Jugoslavia (ICTY), costituisce un intransgressible principle of customary international law. Ogni attacco diretto contro la popolazione civile, qualsiasi sia lo scopo militare perseguito, è proibito. La protezione dei civili imposta dalle norme internazionali include anche coloro che sostengono la parte avversaria e che vi sono leali (sempre che non vi sia partecipazione diretta alle ostilità, v. infra, cap. 5). Il divieto di attaccare i civili ha ragioni giuridiche e umanitarie, ma anche più prosaiche motivazioni di utilità, in quanto previene atteggiamenti di insofferenza della popolazione residente nelle aree teatro delle operazioni e la perdita di legittimazione della forza che le conduce. In questo senso è considerato un utile investimento per conseguire il successo. La protezione della popolazione civile dagli effetti delle ostilità durante i conflitti internazionali è materia della parte IV del I Protocollo del 1977, che rafforza la protezione generale già offerta dagli strumenti precedenti. In particolare, l’art. 51 contiene una serie di norme integrative delle regole già in vigore al momento in cui è stato adottato, ossia delle norme sulla condotta delle ostilità contenute nella IV Convenzione dell’Aja del 1907 sulla guerra terrestre e nella IV Convenzione di Ginevra sulla protezione dei 7 Kupreskic, Trial Judgement, par. 526. 32 La condotta delle ostilità civili durante i conflitti armati. Così è proibito in modo assoluto l’attacco deliberato (wilful) diretto contro la popolazione civile, e quello condotto accettando consapevolmente il rischio di perdite civili, in situazioni in cui il verificarsi di quelle perdite appaia probabile (recklessness). In entrambe le ipotesi, se si verificano effettivamente uccisioni e ferimenti, si commette di un crimine di guerra. Ne deriva che il danno collaterale non può essere pianificato ma può essere frutto di un incidente. Ed infatti l’art. 51(2) del I Protocollo del 1977, che è considerato riprodurre una norma già affermatasi per via consuetudinaria, stabilisce chiaramente che i civili e la popolazione civile non possono essere attaccati, e quindi proibisce di fare della popolazione civile un bersaglio o un obiettivo tattico. La norma non consente eccezioni, onde non è ammessa alcuna deroga per ragioni di necessità militare. Secondo il Tribunale per la ex-Jugoslavia, inoltre, il dovere di proteggere i civili risultante dalle norme citate ha addirittura carattere sacrosanto e comprende anche il divieto assoluto di rappresaglie contro la popolazione civile8 - strumenti di rivalsa ampiamente usati durante la Seconda guerra mondiale. In quanto posto da una norma consuetudinaria, il divieto di rappresaglie dovrebbe avere carattere universale, per cui riserve, interpretazioni e precisazioni apposte in sede di ratifica degli strumenti dovrebbero essere divenute inefficaci (v. anche infra, sez. 3.7 e par. 9.1.1). Il diritto internazionale umanitario vieta la presa di ostaggi, ossia il sequestro o la detenzione di una persona sotto minaccia di ucciderla o di privare altre persone della vita o della libertà, per costringere l’avversario a fare o non fare qualcosa, agli artt. 3 comune, 34 e 147 della IV Convenzione e 75 (2) del I Protocollo addizionale. Inoltre, l’art. 51 comma 7 del I Protocollo vieta di utilizzare la presenza di civili per mettere determinati punti o determinate aree al riparo da operazioni militari, in particolare per cercare di mettere obiettivi militari al riparo da attacchi, o per coprire, favorire o ostacolare operazioni militari. E’ vietato usare i prigionieri di guerra e i civili sotto custodia come scudi umani. Come detto, la presenza forzata di civili a protezione di unità e apprestamenti militari non libera l’attaccante dagli obblighi derivanti dai principi di distinzione e di precauzione. Gli attacchi diretti contro legittimi obiettivi militari sono illeciti se condotti usando mezzi o metodi di combattimento tali da causare danni agli obiettivi militari e civili indiscriminatamente, e sono da considerare come attacchi deliberati contro la popolazione civile. La natura indiscriminata (o sproporzionata) di un attacco può essere desunta da alcuni fattori, legati alla dislocazione dei bersagli o alle circostanze nelle quali le operazioni sono condotte. Così, ad esempio, per valutare la liceità di un attacco si potranno considerare la distanza dei civili o di apprestamenti civili dalla sorgente di fuoco o dalla linea di combattimento, la vicinanza degli obiettivi militari agli apprestamenti civili, gli impedimenti alla visibilità diretta dei bersagli, l’aspetto esteriore delle persone, il genere, l’età, il loro comportamento. La natura indiscriminata di un attacco può essere dedotta inoltre dal tipo di sistemi d’arma impiegati. Attacchi condotti con l’impiego di mezzi di combattimento indiscriminati (ad es. tramite cluster munitions) possono essere 8 Kupreskic, Trial Judgement, par. 513. 3.6 Il principio di precauzione 33 considerati, in situazioni specifiche, attacchi diretti contro la popolazione civile9 . Sono vietati gli atti di violenza e le minacce che abbiano come scopo primario quello di diffondere il terrore tra la popolazione civile. La proibizione contenuta nell’art. 51(2) si pone in rapporto di specialità rispetto alla più generale proibizione prevista nell’art. 51(1), e ne condivide il carattere di norma consuetudinaria. Uccidere e ferire civili con l’intenzione di diffondere il terrore tra la popolazione è un crimine di guerra rientrante nell’art. 3 dello Statuto del Tribunale per la ex-Jugoslavia. Presenta le stesse caratteristiche dell’attacco illecito contro i civili, vi differisce nello scopo specifico di seminare il terrore. Il crimine in esame deve essere tenuto distinto dagli effetti di panico o paura diffusa connessi al compimento di legittimi atti di guerra. Le attività terroristiche in genere non costituiscono di per sé conflitto armato e non sono sanzionate a termini del diritto internazionale umanitario. L’uso di metodi terroristici contro i combattenti durante un conflitto armato internazionale non costituisce un illecito secondo il diritto internazionale umanitario, salvo si tratti di atti commessi con perfidia. Negli strumenti internazionali che si occupano di terrorismo, come la Convenzione per la repressione degli attentati con l’uso di esplosivi (International Convention for the Suppression of Terrorist Bombing10 ), le attività delle forze armate di uno Stato, e dunque compiute da legittimi combattenti, rimangono regolate dal diritto dei conflitti armati e non rientrano nella disciplina specifica. Se l’attività terroristica si sviluppa durante un conflitto interno ed è diretta a colpire il personale militare, spetterà all’ordinamento interno dello Stato in cui l’atto terroristico è compiuto dargli connotazione giuridica. Come già detto in precedenza, la partecipazione attiva alle ostilità durante un conflitto interno è atto che solo marginalmente è regolamentato dal diritto internazionale, che si premura solo di impedire la tortura, l’esecuzione sommaria o la condanna senza processo dell’attentatore. 3.6 Il principio di precauzione Il principio di proporzionalità, che inerisce sia al principio di umanità che al principio della necessità militare, impone ai belligeranti l’adozione di tutte le misure praticabili (feasible) per evitare i danni collaterali, ossia la perdita accidentale di vite tra la popolazione civile e danni ad obiettivi civili, che siano eccessivi rispetto al vantaggio militare previsto (anticipato). Le precauzioni devono essere adottate sia in fase concettuale che condotta, e dunque sia da chi pianifica un attacco che da chi lo conduce materialmente. In fase di preparazione, il principio in esame implica l’accertamento della natura del bersaglio. Il passo successivo è la valutazione del possibile danno collaterale, cui segue la decisione se proseguire nel piano o abortire la missione, perché destinata a produrre danni collaterali eccessivi. Queste regole sono enunciate in forma positiva negli artt. 57 e 58 del I Protocollo, e, secondo la giurisprudenza internazionale, sono oggi parte del diritto consuetudinario, non solo perché gli articoli citati rappresentano la codifica di norme preesistenti ma 9 10 Martic, Rule 61 Decision, par. 23-31. G.A. Res. 164, U.N. GAOR, 52nd Sess., Supp. No. 49, at 389, U.N. Doc. A/52/49 (1998). 34 La condotta delle ostilità anche perché il contenuto prescrittivo delle norme indicate è incontestato anche presso Stati che non hanno ratificato il Protocollo, e che dunque potrebbero non sentirvisi vincolati. Nel caso Galic, riguardante l’assedio di Sarajevo, una Camera del Tribunale per la ex-Jugoslavia ha sostenuto che gli attacchi indiscriminati sono da ritenere attacchi diretti e deliberati contro la popolazione civile. Il Tribunale ha inoltre sostenuto che dall’adozione dei Protocolli addizionali la stragrande maggioranza degli Stati ritiene che i principi enunciati negli artt. 51 e 52 del I Protocollo e nell’art. 13 del II Protocollo siano general humanitarian principles. La Camera d’Appello nel caso Strugar ha ribadito che l’art. 51 del I Protocollo costituisce a reaffirmation and reformulation [...] of the existing norms of customary international law, which prohibit attacks on civilian and civilian objects. Le prescrizioni degli artt. 57 e 58 devono essere interpretate in maniera estensiva, in modo da circoscrivere al massimo il potere discrezionale di attaccare obiettivi militari attribuito ai belligeranti. Lo stesso art. 57 (comma 5) impedisce di usare le norme in esso contenute per giustificare attacchi contro i civili, la popolazione civile o obiettivi di carattere civile, confermando l’assenza di deroghe al generale divieto di attaccare quei bersagli. 3.7 Il divieto di rappresaglie contro i civili La rappresaglia è un atto violento che lo Stato pone in essere tramite le proprie forze armate per ottenere da un altro Stato la cessazione di una violazione, o comunque l’osservanza, del diritto internazionale (v. infra, par. 9.1.1). L’uccisione di civili per rappresaglia può ben essere considerata una forma di esecuzione arbitraria, contraria ai diritti fondamentali dell’uomo, che innegabilmente permeano il diritto internazionale umanitario. Un numero rilevante di Stati ha mantenuto il diritto ad agire in rappresaglia, ma solo contro le forze armate, facendo così ritenere, a contrario, che le rappresaglie contro i civili non siano più ammesse dal diritto internazionale. Il I Protocollo addizionale contiene diverse ipotesi di divieto di rappresaglia. Sono in particolare vietati atti di rappresaglia contro la popolazione civile, contro l’ambiente naturale, contro beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile, contro i beni di carattere civile, contro i feriti i malati e i naufraghi, contro i beni culturali e i luoghi di culto, contro opere e installazioni che racchiudono forze pericolose. La risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 2675 (XXV) ha stabilito che i civili e la popolazione civile non possono essere oggetto di rappresaglia. Francia e Gran Bretagna hanno affermato il loro diritto a reagire in rappresaglia all’atto della ratifica del I Protocollo. In particolare il Regno Unito, nel ratificare il I Protocollo ha precisato che If an adverse party makes serious and deliberate attacks, in violation of Article 51 or Article 52 against the civilian population or civilians or against civilian objects, or, in violation of Articles 53, 54 and 55, on objects or items protected by those Articles, the United Kingdom will regard itself as entitled to take measures otherwise prohibited by the Articles in question to the extent that it considers such measures necessary for the sole purpose of compelling the adverse party 3.8 La protezione dei beni materiali e culturali 35 to cease committing violations under those Articles, but only after formal warning to the adverse party requiring cessation of the violations has been disregarded and then only after a decision taken at the highest level of government11 . 3.8 La protezione dei beni materiali e culturali La protezione dei beni e delle proprietà di carattere civile, siano essi pubblici o privati, è articolata in diverse norme. Alcuni beni sono presuntivamente protetti contro gli effetti delle ostilità perché destinati a specifiche attività di protezione umanitaria, come i luoghi sanitari, ovvero per la loro intrinseca natura, come i beni culturali di speciale importanza. La loro protezione cessa solo se vengono usati per scopi militari e solo dopo che sia stato concesso un ragionevole periodo di tempo perché ne cessi l’uso a fini militari. Altri beni che sono normalmente destinati ad attività di natura civile possono essere attaccati se usati in modo da fornire un contributo essenziale alle operazioni militari. In altri casi, la distruzione di beni materiali è ammessa solo in caso di necessità militare imperativa, così mentre è proibito affamare la popolazione civile, i mezzi di sostentamento possono essere distrutti per ragioni di necessità militare imperativa della parte che controlla il territorio in cui i beni sono dislocati. L’art. 53 della IV Convenzione di Ginevra proibisce la distruzione di proprietà situate nei territori occupati che non sia assolutamente necessaria alle operazioni militari. La distruzione estesa, illecita e fine a se stessa (wanton) di beni in territorio occupato costituisce infrazione grave. Il diritto consuetudinario proibisce il saccheggio, inteso come atto di appropriazione e spossessamento sistematico che comporti di fatto l’acquisto di beni in violazione dei diritti dei proprietari, così come l’appropriazione indebita di beni da parte di singoli individui per finalità private (cd. plunder). Gli attacchi contro la proprietà culturale sono vietati dall’art. 27 del Regolamento dell’Aja del 1907, dalla Convenzione dell’UNESCO adottata all’Aja nel 1954, dall’art. 53 del I Protocollo alle Convenzioni di Ginevra e dall’art. 16 del II Protocollo. Il Regolamento dell’Aja collega la protezione della proprietà culturale al fatto che non sia usata per scopi militari. La norma impone l’adozione di tutte le precauzioni possibili per risparmiare la proprietà culturale e il dovere di renderne nota la presenza all’avversario. La Convenzione dell’Aja del 1954 si riferisce a beni di grande importanza per l’eredità culturale di ogni popolo, e ne impone la salvaguardia fino dal tempo di pace e il rispetto nelle situazioni di conflitto armato, proibendo l’uso dei beni culturali e dei luoghi adiacenti per scopi che possano esporli a danneggiamento o distruzione e la condotta di atti ostili nei loro confronti. La perdita dell’immunità è prevista solo nei casi di necessità militare imperativa. Alcuni edifici e centri monumentali godono di speciale statuto in quanto eredità comune a tutti i popoli (World Heritage) e sono di norma inclusi in un apposito elenco gestito dall’UNESCO. Il I Protocollo del 1977 fa riferimento a monumenti storici, opere d’arte o luoghi di culto che costituiscono l’eredità culturale e spirituale dei popoli. L’art. 53 introduce ad integrazione della Convenzione del 1954 tre specifici divieti, vale a dire: i) il divieto 11 UK Statement on Ratification of AP I. 36 La condotta delle ostilità di commettere atti ostili nei riguardi dei monumenti, delle opere d’arte e dei luoghi di culto; ii) il divieto di usare detti beni a supporto delle operazioni militari; iii) il divieto di condurre atti di rappresaglia ai danni dei beni citati. Ne risulta che la condotta di atti di ostilità diretti contro beni culturali è proibita. Dal danneggiamento o dalla distruzione dei medesimi deriva una responsabilità penale di diritto internazionale. Se i beni culturali sono impiegati per scopi militari, perdono la loro immunità. Il Protocollo non prevede la necessità militare imperativa come causa di cessazione dell’immunità dagli attacchi, ma riporta in premessa che le disposizioni sulla proprietà culturale previste dalla Convenzione dell’Aja non sono modificate dalle nuove norme. 3.9 Uso dei sistemi d’arma Nel diritto internazionale umanitario il divieto a fare uso di alcune armi deve essere espresso. Così l’art. 23 del Regolamento dell’Aja proibisce di usare veleni e armi avvelenate, richiamando altresì le proibizioni derivanti da convenzioni speciali. Nel quadro della Conferenza di pace del 1899 i plenipotenziari delle nazioni partecipanti avevano sottoscritto dichiarazioni sulla proibizione dell’uso di gas asfissianti e delle pallottole che si espandono all’impatto con il corpo umano12 . In caso di adozione di nuove armi o sistemi d’arma, l’art. 36 del I Protocollo del 1977 impone un obbligo di valutazione - sia fase di studio che di sviluppo o acquisizione -, della compatibilità con le prescrizioni del Protocollo e di altri strumenti di diritto internazionale applicabili allo Stato cui si riferiscono le nuove armi. Non essendovi ulteriori specifiche in materia, le norme e le procedure necessarie alla valutazione sono lasciate all’iniziativa degli Stati parti del Protocollo, che useranno come criteri guida le norme internazionali derivanti dal diritto consuetudinario o dai trattati di cui sono parte, inclusi i trattati di disarmo. Nel 1980 è stata negoziata la Convenzione sul divieto o la limitazione all’impiego di talune armi convenzionali 13 , costituita da un accordo quadro a cui afferiscono specifici protocolli, ciascuno dei quali diviene vincolante a seguito di ratifica o accessione/adesione. Ciascun protocollo annesso alla Convenzione diviene dunque obbligatorio per lo Stato soltanto se questo abbia formalmente prestato il proprio consenso. Nei cinque protocolli fino ad ora approvati, ritenendo che possano causare sofferenze inutili o mali superflui, o avere effetti indiscriminati, la Convenzione considera illecito o restringe l’impiego di: 1. armi il cui effetto principale sia di ferire mediante schegge che non siano localizzabili nel corpo umano con i raggi X; 2. mine anti-uomo, trappole e altri similari ordigni; 3. armi incendiarie; 4. armi laser accecanti. 12 13 Final Act Of the International Peace Conference. The Hague, 29 July 1899. Convention on Prohibitions or Restrictions on the Use of Certain Conventional Weapons, October 10, 1980. 3.9 Uso dei sistemi d’arma 37 Il V Protocollo (2003) riguarda i residuati bellici esplosivi (explosive remnants of war), e impegna gli Stati parti a provvedere alla bonifica degli ordigni inesplosi al termine del conflitto. La Convenzione sul divieto di impiegare talune armi ha scopi ambiziosi ed eterogenei, che potremmo suddividere in due macro-aree: effettività del diritto dei conflitti armati e disarmo. Il preambolo ribadisce la necessità di perseguire la codificazione e lo sviluppo del diritto internazionale dei conflitti armati e riprende i suoi principi fondamentali, da quello della generale protezione rispetto agli effetti delle ostilità da garantire a beneficio della popolazione civile, al principio secondo il quale la scelta di mezzi e metodi di combattimento non è illimitata, essendo sempre vietato infliggere mali superflui e inutili sofferenze. Poi il preambolo richiama la Clausola Martens, affidando civili e combattenti, in assenza di condizioni più favorevoli, al diritto delle genti, e dunque alle leggi e agli usi di guerra, ai principi di umanità e alla pubblica coscienza internazionale. Un secondo ordine di obiettivi che si intendono perseguire con la Convenzione del 1980 riguarda la distensione e la cessazione della corsa agli armamenti, passi fondamentali per giungere al disarmo generale. Il momento storico è quello immediatamente successivo alla rivoluzione in Iran, della guerra mortale tra Iran e Iraq, dell’invasione sovietica dell’Afghanistan. La Convenzione, pensata per i conflitti armati internazionali (incluse le guerre di liberazione nazionale di cui all’art. 1(4) del I Protocollo addizionale del 1977), in forza di un emendamento all’art. 1, si applica anche ai conflitti armati che non hanno carattere internazionale e si verificano sul territorio di uno Stato parte della Convenzione medesima, con esplicito richiamo all’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra. Le armi per le quali le norme internazionali non prevedano espresso divieto possono essere impiegate, nel rispetto dei principi di umanità, distinzione, proporzionalità e precauzione. In tema di impiego dei sistemi d’arma, i principi fondamentali sono i medesimi visti per la condotta delle ostilità e la scelta dei metodi di guerra: • generale protezione dei civili dagli effetti delle ostilità; • divieto di impiegare armi, proiettili e materie in grado di provocare mali superflui; • divieto di impiegare armi aventi effetti indiscriminati; • divieto di utilizzare mezzi concepiti con lo scopo di provocare, o dai quali ci si può attendere che provochino, danni estesi, durevoli e gravi all’ambiente naturale. Le armi che per loro natura intrinseca sono indiscriminate, non sono conformi al diritto dei conflitti armati, e dunque il loro impiego è illecito (v. 51(4)(b) del I Protocollo). Le munizioni che contengono sub-munizioni, come le bombe a grappolo (cd. cluster bombs) - oggetto di frequenti critiche soprattutto perché sono state spesso usate in contesti inappropriati, come nelle aree urbane o su terreni agricoli, causando ingenti perdite nella popolazione civile e permanente inagibilità di vaste estensioni di terra coltivabile -, o i proietti in forma di cd. flechettes, rimangono permessi, in quanto il loro uso non è proibito da convenzioni internazionali. 38 La condotta delle ostilità Una convenzione che proibisce l’impiego delle munizioni a grappolo è stata adottata nel 2008 ed è entrata in vigore nel 201014 . 3.10 Operazioni aeree. Targeting Allo stato attuale non esiste una disciplina specifica per la condotta delle operazioni aeree, che tenga conto sia delle capacità offensive e distruttive dei moderni mezzi aerei che delle specificità del loro impiego. Anche in passato, i tentativi di introdurre norme particolari non sono approdati ad alcun risultato concreto. Le Regole dell’Aja del 1923 sono rimaste una autorevole bozza di regolamentazione. Una commissione di giuristi incaricata dalla Conferenza di Washington sulla riduzione degli armamenti del 1922 aveva prodotto infatti un compendio denominato Rules of Air Warfare, che non è mai diventato uno strumento giuridico. Un gruppo di esperti facenti parte del Program on Humanitarian Policy and Conflict Research dell’Università di Harvard (HPCR) ha di recente pubblicato un Manual on International Law Applicable to Air and Missile Warfare, un restatement dello scarso diritto esistente in materia di operazioni aeree. In assenza di norme specifiche, le operazioni aeree sono regolamentate in modo analogo a quelle di terra, il che non rappresenta una soluzione ideale. Tradotto in termini concreti, il processo di targeting, ossia la designazione dei bersagli dei velivoli, è improntato prima di tutto al rispetto dei 3 principi di distinzione, precauzione e proporzionalità. A questo proposito il I Protocollo stabilisce che le disposizioni della II parte si applicheranno ad ogni operazione terrestre, aerea o navale e a tutti gli attacchi navali o aerei diretti contro obiettivi terrestri, ma non incideranno altrimenti sulle regole del diritto internazionale applicabile nei conflitti armati sul mare o in aria. Riguardo al principio di precauzione, lo stesso I Protocollo prescrive che nella condotta delle operazioni militari sul mare o in aria, ciascuna Parte in conflitto deve prendere tutte le precauzioni ragionevoli per evitare perdite di vite umane fra la popolazione civile e danni ai beni di carattere civile. Gli sviluppi tecnologici in campo aeronautico hanno prodotto sistemi d’arma di grado di selezionare e colpire i bersagli con crescente precisione. Gli Stati non hanno pur tuttavia alcun obbligo di impiegare sistemi d’arma di precisione (precision guided weapons), pur se disponibili, ma sono ovviamente tenuti al rispetto dei principi di distinzione e proporzionalità, che nella situazione concreta impongono, tra l’altro, la scelta di sistemi d’arma con essi compatibili. Analogamente, non vi sono obblighi di volare ad una quota tale da consentire al pilota di distinguere agevolmente tra un bersaglio lecito e uno non lecito. L’uso di alcuni sistemi d’arma, come i moderni aerei a reazione, pone in crisi il rispetto del principio di distinzione, senza però che ne derivi, come conclusione, che un caccia-bombardiere è un’arma intrinsecamente indiscriminata e dunque potenzialmente sempre vietata. Com’è evidente, una conclusione del genere non reggerebbe il confronto con la pratica degli Stati e non diverrà mai parte del diritto consuetudinario. Sotto il 14 Convention on Cluster Munitions, Oslo, 2008. 3.11 Operazioni navali 39 profilo della proporzionalità, va detto che i sistemi d’arma in parola hanno capacità distruttive rilevanti e il raggio d’azione delle munizioni impiegate è sempre tale da causare danni collaterali estesi, che tuttavia, come già detto in precedenza, non coincide con il concetto di danni collaterali eccessivi, anche se nel comune sentire si tratta pressoché di sinonimi. Di recente si è notevolmente diffuso l’impiego di aerei senza pilota (denominazione impropria, dal momento che detti velivoli non hanno personale a bordo, ma sono effettivamente pilotati e gestiti da un’équipe di specialisti), noti come drones (per il ronzio prodotto dal motore), o UAV (unmanned aerial vehicles), anche per missioni di combattimento. Si tratta di sistemi d’arma ad alta tecnologia, teleguidati, in grado di sorvegliare per ore il campo di battaglia e di trasportare e lanciare bombe e missili con un grado di precisione sicuramente più elevato di quello ottenibile con sistemi d’arma più tradizionali - a patto che siano supportati da una rete di intelligence adeguata. Una serie di questioni, per ora al vaglio degli studiosi, riguarda l’inquadramento giuridico da dare al pilota, che pur operando da basi molto distanti dal teatro delle operazioni, di fatto vi partecipa direttamente, e la natura di tale partecipazione alle ostilità in relazione al fatto che alcuni servizi tramite UAV sono forniti da attori privati (contractors, v. infra, sez. 8.2). Esistono anche parecchie critiche riguardanti l’impiego dei drones, la più radicale delle quali è stata formulata da Philip Aston, che ha affermato che l’impiego di aerei senza pilota favorisce negli operatori una playstation mentality15 , a detrimento dei diritti degli individui che sono bersagli delle azioni teleguidate. Tale critica non tiene conto del carico emozionale a cui è sottoposto il pilota dell’UAV, che si trova a vivere la situazione di contatto tattico dei propri connazionali (che stanno rischiando la vita sul terreno) con una consapevolezza determinata dalla visione d’insieme della situazione contingente che la tecnologia gli consente (e dal collegamento radio continuo con l’unità di terra), di gran lunga maggiore di coloro che sono direttamente ingaggiati nell’azione di combattimento, e dello stress che ne consegue. 3.11 Operazioni navali La violenza bellica può pienamente esplicarsi nei confronti del naviglio della parte avversaria sia nell’alto mare che negli spazi marini appartenenti alle parti in conflitto. In acque neutrali sono vietate le azioni ostili. Per acque neutrali si intendo le acque interne, le acque territoriali e le acque arcipelagiche degli Stati neutrali. Per azioni ostili si intendono l’attacco o la cattura, il collocamento di mine, la visita, la perquisizione e il dirottamento. Lo Stato neutrale può vietare l’ingresso nelle sue acque delle navi da guerra, ma dovrà consentire loro il rifornimento di carburante acqua e cibo per raggiungere un porto nel loro territorio, e i lavori di riparazione necessari a consentire alla nave che abbia attraccato in un porto neutrale di riprendere il mare e la navigazione. Negli stretti internazionali e nelle vie di navigazione arcipelagiche le navi dei belligeranti 15 Report of the Special Rapporteur on extrajudicial, summary or arbitrary executions, Philip Alston, UN General Assembly Human Right s Council, 28 May 2010, GE-10 13753, par. 79. 40 La condotta delle ostilità conservano il diritto di transito e il più limitato diritto di passaggio inoffensivo, che i neutrali non possono impedire. Nave da guerra è la nave che fa parte delle forze armate di uno Stato, che ne porti i segni distintivi, che sia sotto comando di un ufficiale della marina militare, che sia armata con equipaggio sottoposto alla disciplina militare. Nave mercantile è la nave utilizzata per scopi commerciali o privati. Nave ausiliaria è una nave diversa dalla nave da guerra, controllata dalle forze armate e utilizzata dal governo per fini non commerciali. Il fatto che una nave mercantile batta bandiera di uno Stato nemico costituisce prova decisiva del suo carattere nemico. Lo stesso principio si applica alla nave battente bandiera di uno Stato neutrale. Il sospetto che si tratti di nave nemica battente bandiera neutrale giustifica il diritto di visita (v. infra). Il carattere nemico può derivare dall’immatricolazione, dal contratto di noleggio o da altri criteri. Sono protette da attacco le navi ospedale, i trasporti sanitari, le navi in salvacondotto (ad es. quelle adibite al trasporto dei prigionieri di guerra), i battelli da pesca, le navi che trasportano civili; l’esenzione avviene a condizione che il loro impiego sia inoffensivo, si sottopongano ai controlli di polizia marittima (identificazione e ispezione), non ostacolino volontariamente i combattenti. La perdita dell’esenzione, per le navi ospedale, non può significare semplicemente possibilità di attacco, ma prioritariamente che la nave è soggetta a cattura (v. infra) o dirottamento (in porto, per effettuare la visita). Solo quando ciò non sia possibile, si farà luogo all’attacco, in quanto l’impossibilità di cattura o dirottamento indicano chiaramente che la nave oppone resistenza tale da poter essere considerata obiettivo militare. L’attacco è preceduto dall’intimazione di cessare la condotta lesiva. Per le altre categorie di navi protette, l’intimazione non è necessaria. Intercettazione, visita, perquisizione, dirottamento e cattura sono definite misure non distanti dall’attacco. Presupposto della visita e della perquisizione è il ragionevole motivo di ritenere che la nave sia passibile di cattura. La cattura della nave consiste nell’atto di impadronirsene per aggiudicarsela come preda. Le merci trasportate dalle navi neutrali sono soggette a cattura solo se costituiscono contrabbando di guerra. Ciò si verifica quando le merci sono destinate ad un territorio posto sotto il controllo nemico e possano essere utilizzate in un conflitto armato. I beni che non rientrano nelle liste di contrabbando sono beni liberi e non possono essere confiscati. La lista di contrabbando deve essere stilata a priori dai belligeranti e costituisce il presupposto del diritto di cattura. Sono sicuramente beni liberi gli oggetti di culto, gli articoli destinati al trattamento di feriti e malati, gli oggetti destinati ai prigionieri di guerra, i beni di conforto per la popolazione civile. La distruzione della nave neutrale catturata è da considerarsi misura estrema, giustificata da imperiosa necessità militare. 3.12 Operazioni speciali In contesti di guerra asimmetrica, che si presentano sempre più di frequente nello scenario globale, l’impiego di forze per operazioni speciali, ossia di forze con compiti più tecnici e più specifici rispetto a quelli assegnati alle forze convenzionali - condotte da piccoli distaccamenti o unità, spesso affiancati a forze locali, con significativo in- 3.13 Condotta delle ostilità in territorio occupato 41 cremento dei rischi connessi alle operazioni militari -, è sensibilmente aumentato. Il quadro giuridico di riferimento è quello che regola la condotta delle operazioni delle forze convenzionali e le regole di ingaggio dovrebbero essere le medesime. Durante le operazioni speciali, il personale impiegato gode perciò delle prerogative garantitegli dal diritto dei conflitti armati se assicura il rispetto dei principi fondamentali, primo fra tutti il principio che impone ai combattenti di distinguersi dalla popolazione civile secondo le modalità stabilite dal diritto internazionale (che saranno illustrate nel prossimo capitolo). 3.13 Condotta delle ostilità in territorio occupato L’occupante assicura la legge e l’ordine nel territorio occupato. Essendo l’occupazione una situazione equiparata al conflitto armato internazionale, in assenza di norme speciali, le forze della Potenza occupante potranno utilizzare appieno i diritti di belligeranza nei confronti delle forze avversarie che ancora siano presenti nel territorio occupato. Dal momento che l’occupazione presuppone che il sovrano territoriale abbia perso il controllo del territorio e l’invasore lo abbia acquisito, scontri con le forze armate avversarie potranno avvenire in realtà solo tra l’occupante e unità nemiche che abbiano ancora il controllo di zone marginali o di enclaves in territorio occupato, oppure tra l’occupante e gruppi di insorti o partigiani. I comandanti militari, come visto in precedenza (supra, sez. 1.7 e 2.3) hanno in territorio occupato l’obbligo negativo di astenersi dal condurre le ostilità contro la popolazione locale e l’obbligo positivo di condurre le operazioni in modo che la popolazione pacifica non ne subisca gli effetti dannosi. L’art. 27 della IV Convenzione di Ginevra assicura che i civili (le persone protette) in territorio occupato abbiano garantito, in ogni circostanza, il rispetto della loro personalità, del loro onore, dei loro diritti familiari, delle loro convinzioni e pratiche religiose, delle loro consuetudini e dei loro costumi, e che siano trattate sempre con umanità e protette, in particolare, contro qualsiasi atto di violenza o d’intimidazione, contro gli insulti e la pubblica curiosità. L’occupante potrà tuttavia prendere, nei confronti delle persone protette, le misure di controllo o di sicurezza imposte dalle necessità della guerra. L’art. 33 della IV Convenzione di Ginevra del 1949 vieta ogni misura di intimidazione o di terrorismo ai danni della popolazione in territorio occupato, e più in generale ai danni delle persone che si trovano nelle mani di una delle parti in conflitto. L’art. 53 della IV Convenzione di Ginevra vieta alla Potenza occupante di distruggere proprietà mobili o immobili, siano esse di natura privata o appartenenti ad enti pubblici o allo Stato, salvo che tale distruzione sia resa assolutamente necessaria dalle operazioni militari. 3.14 Principi applicabili ai conflitti armati interni Gli attacchi diretti contro la popolazione civile sono proibiti dal diritto internazionale convenzionale e consuetudinario sia durante i conflitti armati internazionali che durante 42 La condotta delle ostilità quelli interni. La prima e fondamentale norma è anche nelle guerre civili quella che impone allo Stato come agli insorti di proteggere la popolazione civile dagli effetti delle ostilità, rispettando i principi di distinzione e di precauzione. L’art. 13 del II Protocollo addizionale del 1977, che ha rango di diritto consuetudinario16 , ha contenuto del tutto analogo a quello dell’art. 51 del I Protocollo. Così durante i conflitti interni i civili non possono essere attaccati, non sono consentiti attacchi diretti a terrorizzare la popolazione civile, non è consentita la presa di ostaggi. Il II Protocollo non contiene disposizioni che impongono di rispettare i beni di carattere civile di tenore analogo all’art. 52 del I Protocollo. Tuttavia, l’idea che non si possa distinguere la condotta delle ostilità a seconda che si tratti di un conflitto interno o internazionale risale alla Guerra civile spagnola (1936-1939) ed è stata confermata nel 1970 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 2675 (XXV) già citata. L’art. 16 del II Protocollo protegge invece i beni culturali e i luoghi di culto. La Convenzione dell’Aja del 1954 impone ai contraenti il rispetto delle disposizioni convenzionali che si riferiscono alla protezione dei beni culturali in caso di conflitto di carattere non internazionale. Altre due norme, l’art. 14 e l’art. 15 del II Protocollo, tutelano i beni necessari alla sopravvivenza della popolazione civile e impongono precauzioni a beneficio della popolazione civile negli attacchi condotti contro installazioni che contengono forze pericolose. L’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra proibisce ogni rappresaglia che si ponga in contrasto con la regola imprescindibile che impone di trattare le persone che abbiano partecipato alle ostilità con umanità. 16 Blaskic, Appeals Chamber, par. 159. 4 Combattenti e civili 4.1 Premessa: le garanzie fondamentali Combattenti e civili sono entrambe categorie protette dal diritto internazionale umanitario. I civili lo sono pressoché in ogni circostanza, i combattenti soprattutto (ma non esclusivamente) quando si trovano hors de combat. I combattenti godono, una volta messi fuori combattimento, della protezione delle prime tre Convenzioni di Ginevra, come si ricava confrontando l’art. 13 della I Convenzione e l’art. 4 della III; i civili sono tutelati dalla IV Convenzione. Un combattente è posto hors de combat quando reso incapace di combattere (incapacitated), per effetto di ferite, malattie ovvero perché sottoposto a misure (efficaci) di coercizione (v. art. 41(2) (c) del I Protocollo). Come visto sopra, le protezioni citate sono integrate dalle norme del I Protocollo. Le persone che non godono di miglior trattamento secondo le Convenzioni di Ginevra e secondo il Protocollo e che sono in potere di una delle parti in conflitto sono protette dalle disposizioni dell’art. 75 del Protocollo medesimo. Si tratta di una norma di diritto consuetudinario, che impone agli Stati un trattamento minimo di umanità per coloro che non godono di un trattamento più favorevole, vale a dire quello riservato a civili o prigionieri di guerra. Il comma 2 riguarda il diritto alla vita e all’integrità fisica e psichica della persona, i commi successivi riguardano le garanzie conosciute nel diritto anglosassone come habeas corpus e le garanzie del giusto processo (fair trial). Beneficiari di questa norma sono coloro che sono reclusi perché sono coinvolti nelle ostilità o in attività dannose di cui tratta l’art. 5 della IV Convenzione, ovvero coloro che partecipando direttamente alle ostilità reclamino di avere diritto ad essere trattati da prigionieri di guerra ma che non abbiano riconosciuto dalla Potenza che li ha catturati tale diritto. Avrebbero diritto a tale protezione minima anche i mercenari. 4.2 Combattenti legittimi Durante un conflitto armato si distinguono coloro che portano legittimamente le armi, ossia i combattenti, i non combattenti, che sono coloro che pur facendo parte delle forze armate non possono partecipare alle ostilità, come il personale sanitario e religioso (v. art. 43 del I Protocollo, che richiama l’art. 33 della III Convenzione di Ginevra) e i civili. I civili che partecipano alle ostilità, non avendone titolo (salvo il caso della levée 44 Combattenti e civili en masse, v. supra, sez. 2.1), sono considerati criminali punibili secondo le norme di diritto interno o di diritto internazionale. Il diritto di guerra classico1 stabilisce chiare distinzioni tra combattenti e non combattenti, e tra nemico, ossia il combattente legittimo, e criminale, colui che partecipa alle ostilità senza averne titolo. Già in un’opera del 1582 il giurista fiammingo Balthazar de Ayala affermava che i provvedimenti presi contro i ribelli non sono atti di guerra ma adempimento di una procedura legale, ovvero un procedimento penale2 . I combattenti legittimi catturati sono prigionieri di guerra. I combattenti illegittimi sono soggetti a cattura e detenzione, nonché ad un processo davanti ai tribunali militari interni e ad una sanzione penale per avere illecitamente partecipato alle ostilità: By universal agreement and practice, the law of war draws a distinction between the armed forces and the peaceful populations of belligerent nations and also between those who are lawful and unlawful combatants. Lawful combatants are subject to capture and detention as prisoners of war by opposing military forces. Unlawful combatants are likewise subject to capture and detention, but in addition they are subject to trial and punishment by military tribunals for acts which render their belligerency unlawful3 .. I combattenti sono coloro che hanno il diritto di partecipare alle ostilità, coloro che sono titolari del privilegio di belligeranza, che toglie agli atti di violenza conformi al diritto dei conflitti armati la natura di illecito. La partecipazione diretta alle ostilità dei combattenti - purché conforme al diritto dei conflitti armati - non può essere fonte di responsabilità alcuna. I combattenti esercitano legittimamente la violenza bellica, e nel farlo non saranno punibili, purché agiscano secondo le norme imposte dal diritto dei conflitti armati. Correlativamente, i combattenti possono essere oggetto di violenza bellica per il solo fatto di essere combattenti e fintanto che non sono messi fuori combattimento (hors de combat). Come visto in precedenza, la persona è fuori combattimento quando si trova in potere di una Parte avversaria, manifesta chiaramente l’intenzione di arrendersi, o ha perso conoscenza o è comunque in stato di incapacità a causa di ferite o malattia e, di conseguenza, è impossibilitata a difendersi, a condizione che si astenga da qualsiasi atto di ostilità e non tenti di evadere. Vestendo l’uniforme e portando apertamente le armi, i combattenti dichiarano alla controparte - che potrà farli oggetto di violenza bellica in tutte le circostanze consentite e con le sole limitazioni imposte dal diritto internazionale - il loro status di nemico. Una volta messi fuori combattimento, se ne potrà impedire l’ulteriore partecipazione al conflitto attraverso la prigionia di guerra, che non durerà oltre la cessazione delle ostilità, mentre ogni violenza o rappresaglia nei confronti di detti prigionieri sarà bandita. Per il diritto dell’Aja, che come visto in precedenza rappresenta la prima codificazione a livello internazionale dello jus in bello, sono combattenti, o meglio, organi dei belligeranti, i membri dell’esercito, ossia il personale appartenente alle forze regolari di una delle parti in conflitto (anche se inquadrati in milizie o corpi volontari), nonché i membri delle milizie e dei corpi di volontari non facenti parte dell’esercito ma che: 1 2 3 C. Schmitt, Teoria del partigiano (2005), p. 19. B. de Ayala, De jure et officiis bellicis et disciplina militari libri III, I, 2, 14, 1582. Ex parte Quirin (1942) 317 U.S. 1, 28. 4.2 Combattenti legittimi 1. 2. 3. 4. 45 abbiano alla loro testa una persona responsabile dell’agire dei propri subordinati; portino un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza; portino apertamente le armi; si conformino nella condotta delle operazioni militari alle leggi e agli usi della guerra. Alla presenza cumulativa dei quattro requisiti è collegato lo stato di prigioniero di guerra. L’agire in conformità alle norme del diritto dei conflitti armati è garanzia dell’individuo contro incriminazioni. Ma ancor più determinante è il fatto che le forze irregolari appartengano ad una delle Parti in conflitto, nel senso che debbono partecipare al conflitto a sostegno di una delle parti, alla quale garantiscono la propria lealtà (allegiance): In fact, the matter of the allegiance of irregular combatants first arose in connection with the Geneva Convention. The Hague Convention of 18 October 1907 did not mention such allegiance, perhaps because of the unimportance of the matter, little use being made of combat units known as irregular forces, guerrillas, etc., at the beginning of the century4 . In osservanza al divieto di guerre private (v. anche infra, sez. 8.1), gli irregolari sono combattenti legittimi se sussiste una relazione di dipendenza e lealtà verso una parte in conflitto, ciò che qualifica i gruppi di irregolari appunto come appartenenti ad una delle parti in conflitto, come richiesto dall’art. 4 della III Convenzione di Ginevra, che introduce così, accanto alle 4 tradizionalmente previste, una quinta condizione: l’appartenenza ad una delle parti in conflitto. I quattro requisiti sopra indicati sono stati dunque mantenuti nella definizione di combattente irregolare contenuta nella III Convenzione di Ginevra. Nel diritto di Ginevra sono allora combattenti legittimi i membri delle categorie indicate all’art. 4(A) (1) (2) (3) e (6) della III Convenzione di Ginevra del 1949 e, per gli Stati che ne siano parte, all’art. 43 del I Protocollo addizionale del 1977. L’art. 43 indica le forze armate come tutte le forze, i gruppi e le unità organizzate al loro interno in modo da rispondere agli ordini di un comando in grado di imporre la disciplina interna ed in particolare il rispetto del diritto dei conflitti armati. Dunque sono combattenti in primo luogo i membri delle forze armate, eccetto il personale sanitario e i cappellani militari. Sono combattenti regolari anche le milizie e i corpi volontari inquadrati nelle forze armate. Le milizie e i gruppi paramilitari non inquadrati nelle forze armate, e i movimenti di resistenza organizzati, sono combattenti se soddisfano ai 4 requisiti indicati all’art. 4(A)(2), già previsti dal Regolamento dell’Aja. Questi irregolari sono equiparati alle forze armate regolari e godono dei diritti e delle prerogative di ogni combattente regolare, incluso il diritto alla prigionia di guerra e il più generale stato di persona protetta dalle Convenzioni di Ginevra (v. art. 13 della I Convenzione). Le Convenzioni di Ginevra hanno ampliato così il novero dei combattenti legittimi aggiungendovi coloro che sono parti di un movimento di resistenza organizzato. Il riferimento storico è ai movimenti di resistenza attivi durante la Seconda guerra mondiale5 . 4 5 Military Prosecutor v. Kassem, Military Court sitting in Ramallah, April 13, 1969. ICRC, Commentary on the III Geneva Convention of 12 August 1949, 1960, p. 49. 46 Combattenti e civili La prigionia di guerra riguarda anche coloro che hanno fatto parte delle forze armate di un Paese poi occupato, e che l’occupante ritienga opportuno internare per ragioni di sicurezza delle truppe di occupazione, e coloro che sono stati internati da una Potenza neutrale. L’art. 44 del I Protocollo - norma ampiamente discussa e destinata a non divenire mai diritto consuetudinario - ha trasformato i guerriglieri attivi contro l’occupante straniero (con ciò intendendo non le truppe operanti in situazioni di occupatio bellica ma settlers, popolazioni insediatesi in territori ab origine appartenenti ad altre popolazioni) o che combattano una guerra di liberazione nazionale, ovvero che prendano le armi contro regimi razzisti (art. 1(4)), in combattenti legittimi, a condizione che soddisfino ad alcuni requisiti. In tal modo si realizza una regolarizzazione dell’irregolare, che ha come conseguenza la legittimazione internazionale della guerriglia e il conferimento ai guerriglieri dello stato di prigioniero di guerra. La norma in esame, come detto, riguarda solo gli Stati parti del I Protocollo. Essendo prevista dal I Protocollo si riferisce a conflitti di carattere internazionale, ampliandone la nozione con l’inserimento appunto delle guerre di liberazione nazionale e di affermazione del diritto all’autodeterminazione dei popoli. Ha senz’altro al giorno d’oggi limitata applicazione, soprattutto in ragione della mutata situazione storica. Al momento in cui fu adottata ebbe un impatto dirompente che provocò un irrigidimento in tutti i Paesi, manifestatosi da un lato nella mancata ratifica del I Protocollo, dall’altro nella formulazione di eccezioni e distinguo all’atto della ratifica. Così ad esempio, la Gran Bretagna dichiarò che la situazione di cui all’art. 44 sarebbe potuta verificarsi solo in occupied territory or in the conflicts referred to in AP I, Art.1(4) and that the word ’deployment’ is to be interpreted as meaning ’any movement towards a place from which an attack is to be launched’. L’art. 44 del I Protocollo ribadisce alcuni principi fondamentali per poi consentire rilevanti eccezioni. La norma esordisce dicendo che i combattenti, individuati nell’art. 43, sono prigionieri di guerra. Lo sono dunque le forze armate (eccettuato il personale sanitario e i cappellani militari) ma anche i gruppi paramilitari e le forze di polizia debitamente notificati all’avversario. Le forze armate comprendono anche gruppi e unità di irregolari (non ufficialmente inquadrati nelle forze armate), purchè sotto un comando responsabile in grado di assicurare un regime di disciplina interna che imponga ai membri il rispetto del diritto dei conflitti armati. I combattenti, sempre secondo l’art. 44, devono rispettare il diritto dei conflitti armati, ma se lo violano non perdono il diritto ad essere prigioneri di guerra, per cui (art. 44, comma 2) solo la violazione dell’obbligo di distinguersi dalla popolazione civile durante un attacco fa venire meno lo stato di prigioniero di guerra. La norma prosegue infatti confermando la validità del principio di distinzione al fine di proteggere la popolazione civile dagli effetti delle ostilità per poi affermare che vi sono situazioni in cui una deroga a tale principio risulta ammissibile. In sostanza chi agisce in violazione del principio che impone ai combattenti di distinguersi dai civili rimane legittimo combattente purché porti apertamente le armi durante l’ingaggio e immediatamente prima. In tal modo non potrà essere accusato di perfidia, cioè di avere abusato fraudolentemente della buona fede dell’avversario nascondendo fino all’ultimo 4.3 Combattenti non privilegiati 47 le proprie intenzioni. Se la simulazione dello stato di civile continua anche nelle circostanze indicate, la condotta si configura come perfidia e risulta espressamente proibita dall’art. 37 del I Protocollo. Infine, l’art. 44, al comma 4, dichiara che la violazione del diritto dei conflitti armati implica la perdita dello stato di prigioniero di guerra; ciononostante, colui che commette la violazione rimane titolare del diritto di essere trattato come fosse un prigioniero di guerra, in particolare in relazione alle garanzie processuali nel caso in cui sia processato penalmente per la violazione commessa. La previsione dell’art. 44 del I Protocollo muta il requisito del comandante responsabile in comando responsabile. I combattenti irregolari devono agire sotto un comando responsabile, sia esso un individuo o un direttorio, e conformarsi nelle loro operazioni al diritto internazionale umanitario. Continua ad esserci il generale obbligo per i combattenti di distinguersi dalla popolazione civile e quello di vestire l’uniforme, che attribuisce a chi la indossa l’appartenenza al combattimento pubblico tra Stati, ma è permesso a coloro che non sono membri dell’esercito regolare, non vestono l’uniforme e si nascondono tra la popolazione civile, di partecipare legittimamente alle ostilità e, se catturati, di essere prigionieri di guerra. La norma limita il requisito a quando i combattenti irregolari sono ingaggiati in combattimento o stanno assumendo il dispositivo per l’attacco, e sono visibili all’avversario. La violazione della regola che impone di portare apertamente le armi durante l’attacco o l’assunzione del dispositivo consente allo Stato di punire il combattente irregolare catturato, essendo l’uccisione, il ferimento o la cattura dell’avversario ricorrendo alla perfidia un crimine di guerra. La persona incriminata per avere violato il diritto internazionale umanitario non perderà il diritto ad essere trattata da prigioniero di guerra. Dunque, ai sensi dell’art. 44, il combattente che viola l’obbligo di distinguersi dalla popolazione civile perde lo stato di combattente, può essere punito penalmente per avere partecipato alle ostilità, risponde di perfidia qualora abbia causato uccisioni o ferimenti, o abbia catturato dell’avversario, rinuncia ai diritti propri dei prigionieri di guerra, continua a godere delle garanzie processuali riservate a questi ultimi qualora la Potenza che lo abbia catturato decida di sottoporlo a processo. L’art. 44 è norma assai problematica in quanto comporta il rischio che tutti i civili siano percepiti come potenziali combattenti. Resta poi da valutare il senso delle prescrizioni di portare apertamente le armi e di indossare un segno distintivo fisso visibile a distanza nei contesti bellici attuali. Sembra infatti che, in tempi caratterizzati da conflitti asimmetrici dove una delle parti è di norma una congerie di attori non statali, tali requisiti abbiano un senso solo se riferiti ai membri delle forze impegnate in operazioni a supporto della pace. 4.3 Combattenti non privilegiati Coloro che clandestinamente e senza uniforme (sotto falsi pretesti, art. 29 del Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aja del 1907) attraversano le linee nemiche, e operando nella zona controllata dall’avversario cercano di ottenere informazioni utili alle operazioni militari, ossia coloro che sono coinvolti in atti di spionaggio, non hanno diritto ad essere trattati da prigionieri di guerra. Se catturati, sono considerati criminali 48 Combattenti e civili e processati di fronte ai tribunali militari interni allo Stato che ne ha subito l’azione. Il diritto internazionale attuale, innovando sulla tradizione, vieta che la spia possa essere punita senza processo. Il militare che abbia compiuto un atto di spionaggio e poi sia rientrato nelle fila della forza armata di appartenenza, se viene catturato non può essere processato per essere stato una spia, e ha, di contro, il diritto ad essere considerato prigioniero di guerra. I combattenti nemici, ossia gli appartenenti alle forze armate, che senza l’uniforme attraversino le linee dell’avversario per compiere in territorio da questi controllato atti di guerra, uccidendo o compiendo sabotaggio contro mezzi, materiali o infrastrutture, sono combattenti non privilegiati. Entrando in territorio controllato dall’avversario senza vestire l’uniforme o altri segni distintivi che ne permettano l’identificazione come militari appartenenti alla parte avversaria - come accaduto di recente in Afghanistan durante l’operazione Enduring Freedom -, gli infiltrati, che normalmente appartengono ad unità speciali delle forze armate o ad unità operative dei servizi di intelligence, commettono una violazione del diritto dei conflitti armati e subiscono la stessa sorte che è riservata ai civili che partecipano direttamente alle ostilità, ossia quella di essere processati per avere violato il diritto dei conflitti armati o le norme interne dello Stato che li ha catturati (v. ad es., per l’ordinamento italiano, l’art. 158 c.p.m.g.: Distruzione o sabotaggio di opere o altre cose militari). Per espressa previsione dell’art. 44 del I Protocollo, le forze regolari (ancorchè impegnate in compiti di lotta non convenzionale) hanno l’obbligo in ogni situazione di osservare la pratica (come la chiama la norma) di vestire l’uniforme. Il sabotaggio condotto vestendo l’uniforme del nemico, quando causa l’uccisione o il ferimento di esseri umani, è un crimine di guerra. Il sabotaggio compiuto vestendo l’uniforme del proprio esercito è invece un comportamento non punibile come violazione del diritto bellico, essendo una modalità lecita di condotta delle operazioni militari. Nel 1942 (Ex parte Quirin) la Corte suprema americana ha affermato su questo punto che: Modern warfare is directed at the destruction of enemy war supplies and the implements of their production and transportation quite as much as at the armed forces. Every consideration which makes the unlawful belligerent punishable is equally applicable whether his objective is the one or the other. The law of war cannot rightly treat those agents of enemy armies who enter our territory, armed with explosives intended for the destruction of war industries and supplies, as any the less belligerent enemies than are agent similarly entering for the purpose of destroying fortified places or our Armed Forces. By passing our boundaries for such purposes without uniform or other emblem signifying their belligerent status, or by discarding that means of identification after entry, such enemies become unlawful belligerents subject to trial and punishment. Ai sensi del I Protocollo addizionale, sono combattenti non privilegiati, vale a dire combattenti de facto privi di legittimazione internazionale a partecipare alle ostilità anche i mercenari di cui si tratta nel cap. 8. 4.4 Prigionieri di guerra Le persone appartenenti alle categorie indicate all’art. 4(A) della III Convenzione di Ginevra, che siano cadute in mano di uno Stato di cui non abbiano la nazionalità, sono 4.4 Prigionieri di guerra 49 prigionieri di guerra. In caso di dubbio sullo status di prigionieri di guerra, le persone catturate godranno della protezione garantita ai prigionieri di guerra fino a che un tribunale della Potenza che li ha catturati non abbia altrimenti statuito (v. art. 5 della III Convenzione). Per gli Stati che hanno ratificato il I Protocollo, lo stato di prigioniero di guerra della persona catturata che abbia preso parte alle ostilità è presunto (art. 45), fino a contraria determinazione presa da un tribunale della Potenza che ha operato la cattura. La persona catturata a cui sia negato il diritto a essere prigioniero di guerra può fare istanza affinchè tale diritto gli sia riconosciuto per via giudiziaria. In assenza del riconoscimento, alla persona spettano le garanzie derivanti dall’art. 75 del I Protocollo, norma di diritto consuetudinario. I prigionieri di guerra godono di uno statuto particolare che ne fa persone protette ai sensi della III Convenzione e che impone allo Stato cattore precisi obblighi di salvaguardia dei loro diritti umani fondamentali, a cui i prigionieri stessi non possono rinunciare. Sono sempre vietati nei loro confronti gli atti di tortura, i trattamenti inumani e degradanti, le brutalità di qualsiasi genere e gli attentati alla loro dignità personale, incluso l’esporli alla pubblica curiosità, oltre ad altri atti di coercizione tristemente noti occorsi durante la Seconda guerra mondiale, come il sottoporli ad esperimenti scientifici o il farli oggetto di rappresaglia (v. art. 13 della III Convenzione). Lo stato di prigioniero di guerra è diretta conseguenza del diritto di partecipare alle ostilità. Pertanto, l’esercizio di poteri di imperio sui prigionieri di guerra è motivato soltanto dal diritto dello Stato cattore di impedire che partecipino nuovamente alle ostilità, ma non potrà incidere sui loro beni primari, cioè la vita e l’integrità fisica. Cosicché, oltre che assicurarne i diritti fondamentali, è fatto divieto di esporli a condizioni di vita che ne compromettano l’integrità psico-fisica, metterne altrimenti a repentaglio la vita, usandoli come scudi umani o tenendoli reclusi non nelle retrovie o in zone comunque protette ma nella zona di combattimento. Tali comportamenti costituiscono infrazioni gravi ed implicano la responsabilità penale di chi li commette o dà ordine di commetterli, punibile a titolo di giurisdizione universale da qualunque Stato parte della III Convenzione di Ginevra (v. infra, sez. 9.2). Se l’unità che li ha catturati, per ragioni contingenti legate a particolari situazioni operative, non è in grado di garantire l’incolumità ai prigionieri, dovrà lasciarli liberi. Se ritiene necessario rinchiuderli, l’internamento (captivity) non potrà assumere i caratteri propri della privazione della libertà riservata ai criminali, ma dovrà essere attuato secondo precise modalità, che ne rispettino la dignità di combattenti, prima fra tutte il divieto di essere ristretti in strutture carcerarie e di essere internati assieme a delinquenti. I prigionieri di guerra, durante l’internamento, possono essere adibiti a lavoro (retribuito e rispettoso delle norme di sicurezza sul lavoro della Potenza detentrice), a due condizioni: che ciò sia fatto nel loro interesse e che si tengano in debito conto età, sesso, attitudine e rango. Per stabilire quali siano le attività di lavoro vietate e quali no si dovrà distinguere quelle direttamente connesse alle operazioni militari e quelle che non lo sono. Inoltre ai prigionieri di guerra rimane garantito, in un certo senso, il diritto alla fuga, dal momento che ogni tentativo fallito che non comporti attentato all’integrità fisica altrui sarà sanzionato solo come infrazione disciplinare. La categoria dei prigionieri di guerra sussiste solo in situazioni di conflitto armato 50 Combattenti e civili internazionale e coloro che non sono prigionieri di guerra sono civili, non prevedendo il diritto umanitario terze categorie rispetto a quelle di combattente e civile6 . Nei conflitti armati interni, non esistono prigionieri di guerra ma solo persone private della libertà per ragioni legate al conflitto armato («persons deprived of their liberty for reasons related to the armed conflict», art. 5 del II Protocollo). I civili che partecipano alle ostilità in linea di principio sono criminali (v. infra, sez. 6.1). Come visto in precedenza, l’art. 44 del I Protocollo consente ai combattenti irregolari impegnati in operazioni di guerriglia di godere del trattamento riservato ai prigionieri di guerra anche in violazione del generale obbligo di distinguersi dalla popolazione civile. Questa norma non sembra valere per i combattenti regolari, i quali sono sempre tenuti a portare apertamente le armi e vestire un segno distintivo riconoscibile a distanza. Le forze regolari, siano esse forze convenzionali o forze speciali, hanno l’obbligo di vestire l’uniforme e di conformarsi alle altre norme di diritto dei conflitti armati, altrimenti la loro partecipazione alle operazioni si connota come illegittima. Sono prigionieri di guerra anche i membri di forze armate regolari non appartenenti ad uno dei belligeranti che sottostanno ad un governo o ad un’autorità non riconosciuti dalla Potenza detentrice, come le truppe italiane catturate dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, alle quali fu negato lo stato di legittimi belligeranti. I civili non possono essere trattati come prigionieri di guerra e nemmeno altrimenti privati dei loro diritti e della loro libertà (salvo nel caso in cui abbiano preso parte alle ostilità). In territorio occupato possono essere internati, in via del tutto eccezionale, per ragioni legate alla loro sicurezza o alla sicurezza dell’occupante. La condizione di civile è presunta. Nel caso di dubbio, sarà un tribunale ad accertarne lo stato. Se dovesse risultare una loro diretta partecipazione alle ostilità, potranno essere giudicati penalmente per avervi illegittimamente partecipato, nel rispetto delle garanzie del giusto processo7 . Ne consegue che per il diritto internazionale ci sono due classi di persone protette: 1. i cittadini di ciascuna delle parti in conflitto; 2. l’intera popolazione del territorio occupato (esclusi coloro che hanno la nazionalità dell’occupante). Durante i conflitti inter-etnici, per impedire una sostanziale perdita di diritti spettanti alle persone in potere della parte avversaria, devono considerarsi protette anche le persone in potere dell’etnia avversaria, anche se esse hanno la medesima nazionalità delle forze armate che le hanno catturate. Una persona, in situazioni particolari, può dunque beneficiare dello stato di persona protetta nonostante il fatto che abbia la stessa nazionalità di coloro che l’hanno catturata. 6 7 H.C.J. 769/02, The Public Committee Against Torture in Israel v. the Government of Israel, par. 28. ICCPR, art. 14-15. 4.5 Personale sanitario e religioso 4.5 51 Personale sanitario e religioso Il diritto internazionale umanitario attribuisce grande valore al personale e alle infrastrutture sanitarie. I membri delle unità sanitarie (così come i cappellani militari), pur avendo stato di militari ed appartenendo dunque alle forze armate, non sono combattenti. Pertanto, quando si trovano in potere della parte avversaria, non sono prigionieri di guerra e, una volta catturati, per regola generale debbono essere senza ritardo restituiti alla Potenza cui appartengono. Tuttavia, la Potenza che li ha in suo potere può decidere di trattenerli per assicurare le cure mediche e spirituali ai prigionieri di guerra che hanno la loro medesima nazionalità. Al personale medico così trattenuto non potranno essere richieste prestazioni contrarie ai principi deontologici, mentre l’art. 16 della I Convenzione di Ginevra vieta di punire chi abbia svolto attività medica conforme alla deontologia, quali che siano stati i beneficiari e le circostanze dell’intervento. La nozione di personale sanitario è comprensiva del personale adibito a trasporto sanitario o ad attività strumentali al soccorso, anche in via temporanea, e per tutta la durata dell’incarico. Il personale sanitario ha l’obbligo di distinguersi, usando appositi segni distintivi, di norma una fascia con la croce rossa in campo bianco sul braccio sinistro. Un regime speciale di protezione (e il divieto di mutarne la destinazione) è assicurato anche ai luoghi sanitari. Le infrastrutture sanitarie non possono essere attaccate; se catturate dall’avversario, continueranno a svolgere le loro funzioni. La protezione dei luoghi sanitari viene perduta se detti luoghi vengono usati per danneggiare la Potenza avversaria, ma non prima che sia fatta intimazione affinché si cessi la condotta lesiva. Il carattere sanitario delle infrastrutture, delle navi e degli aeromobili è riferito all’effettivo svolgimento di funzioni sanitarie, sia pur temporanee, ma in via esclusiva. La protezione garantita agli apprestamenti sanitari non è dunque assoluta, e viene persa qualora le infrastrutture sanitarie siano impiegate per scopi non-umanitari, ossia per commettere, al di fuori dei doveri umanitari, atti contro l’avversario. La presenza di armi in dotazione alle unità combattenti all’interno dell’apprestamento sanitario, così come la presenza di guardie o sentinelle, non sono considerate attività contro l’avversario e dunque non mutano la natura, e il conseguente statuto di protezione, dei luoghi sanitari. Durante lo svolgimento delle attività specifiche di prevenzione, trasporto di feriti e malati e loro cura, il personale sanitario può portare armi individuali leggere, al solo scopo di auto-difesa. Il personale sanitario, in quanto personale non-combattente, non ha diritto a partecipare alle ostilità. Partecipandovi rinuncia allo stato di persona protetta. Tuttavia ha il diritto di difendersi se ingiustamente aggredito, onde l’uso della armi da parte del personale sanitario non può essere escluso in modo assoluto. 4.6 Civili al seguito delle forze armate Gli individui che seguono un esercito senza farne direttamente parte, come i corrispondenti e i reporter accreditati, e i membri civili di equipaggi in servizio su aeromobili militari, ovvero i fornitori di servizi, inclusi coloro che, facendo parte di compagnie 52 Combattenti e civili private, forniscono servizi di sicurezza alle forze armate (contractors, v. anche infra, cap. 8), che cadono in potere del nemico, hanno diritto al trattamento dei prigionieri di guerra, purché siano provvisti di una legittimazione dell’autorità militare dell’esercito che accompagnano (art. 13 del Regolamento dell’Aja e 4(A)(4) della III Convenzione di Ginevra), formalizzata in un apposito documento d’identità. Appartengono a questa categoria anche i membri degli equipaggi della marina mercantile e dell’aviazione civile che non beneficiano di più favorevole trattamento, con ciò intendendosi il trattamento previsto dall’art. 6 della XI Convenzione dell’Aja del 1907 sul diritto di cattura (vedi supra, sez. 3.11), secondo il quale i membri degli equipaggi della marina mercantile dello Stato nemico non saranno fatti prigionieri e dunque subito rilasciati se dichiarano espressamente per iscritto che non parteciperanno alle ostilità8 . 4.7 Norme umanitarie nei conflitti armati interni Durante i conflitti armati interni si applicano l’art. 3 comune (in ogni circostanza) e il II Protocollo (nelle situazioni indicate nell’art. 1 e da parte degli Stati che lo abbiano ratificato). Entrambe le norme hanno contenuto eminentemente umanitario, servono cioè a garantire una serie di diritti fondamentali minimi alle persone che non partecipano attivamente alle ostilità. La funzione del II Protocollo è illustrata nel preambolo, nel quale sono tracciati significativi principi generali e fondamentali linee guida: The High Contracting Parties , Recalling that the humanitarian principles enshrined in Article 3 common to the Geneva Conventions of 12 August 1949 constitute the foundation of respect for the human person in cases of armed conflict not of an international character, Recalling furthermore that international instruments relating to human rights offer a basic protection to the human person, Emphasizing the need to ensure a better protection for the victims of those armed conflicts, Recalling that, in cases not covered by the law in force, the human person remains under the protection of the principles of humanity and the dictates of the public conscience, Have agreed . . . (corsivi aggiunti) Il II Protocollo richiama i principi fondamentali contenuti nell’art. 3 comune e dunque ne conferma la validità, offrendo una protezione della persona umana più specifica rispetto alla protezione di base garantita dagli strumenti di diritto internazionale dei diritti umani già in forza (che dunque continuano ad applicarsi, v. infra, cap. 10), in situazioni di conflitto armato. I diritti minimi garantiti sono antecendenti alla formulazione delle norme citate, e perciò inderogabili, come risulta dalla lettera dell’art. 3 comune e dell’art. 4 del Protocollo, laddove si afferma che alcuni atti sono (al momento della formulazione della norma, nel 1949) e rimangono proibiti. L’art. 6 riguarda le garanzie spettanti alle persone preseguite penalmente per delitti commessi in relazione al conflitto armato. 8 Convention (XI) relative to certain Restrictions with regard to the Exercise of the Right of Capture in Naval War. The Hague, 18 October 1907. Parte II Problemi attuali del diritto internazionale dei conflitti armati 5 La perdita dello stato di persona protetta 5.1 Partecipazione diretta alle ostilità Il diritto dei conflitti armati non impedisce ai civili di partecipare alle ostilità, ma vi ricollega conseguenze negative quali la perdita della protezione dalla violenza bellica deliberata e la possibilità per l’ordinamento dello Stato di sottoporre coloro che partecipano direttamente alle ostilità a procedimento penale. La protezione generale dagli effetti delle ostilità garantita ai civili è per così dire sospesa durante il tempo in cui vi partecipano ed in questi casi si configura un diritto di punire gli atti ostili quali delitti contro la personalità dello Stato. Le situazioni in cui la protezione dei civili può essere limitata sono dunque ben individuate, e circoscritte a due soli casi. In primo luogo, quando i civili abusano dei loro diritti. In secondo luogo, quando i belligeranti non riescono ad evitare danni collaterali, quantunque l’attacco sia diretto a obiettivi militari. Alcune opinioni sostengono che vi sia una terza ipotesi di perdita di stato, rappresentata dai casi in cui lo Stato ricorre alla rappresaglia, ma si è fatto cenno sopra a quale sia la posizione della giurisprudenza internazionale su questo punto. In caso di abuso del loro stato, i civili godranno, come minimo, dei diritti fondamentali indicati all’art. 75 del I Protocollo, norma consuetudinaria che si applica in qualunque situazione, e all’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra. La partecipazione diretta implica il compimento di atti di guerra, cioè di atti che per loro natura o scopo sono idonei a causare danni alle forze avversarie. Implica dunque la causazione diretta di danno all’avversario e prendere parte diretta significa compiere atti che colpiscono il personale o gli equipaggiamenti delle forze armate nemiche. Su questo punto gli studiosi di diritto internazionale e la giurisprudenza sono divisi. L’interpretazione restrittiva sostiene che accanto a coloro che effettivamente usano armi o sistemi d’arma, sarebbe diretta partecipazione solo l’attività operativa diretta all’assunzione del dispositivo per l’attacco. Riguardo al problema degli attentatori suicidi, cui si fa frequente ricorso nei conflitti asimmetrici, sarebbe legittimo aprire il fuoco contro un individuo sospettato di celare esplosivo sotto i propri abiti, solo dopo avergli intimato di arrestarsi o aver tentato di dissuaderlo dall’avanzare, tranne nel caso in cui sia evidente che l’individuo nasconda l’esplosivo e che non vi sia tempo per costringerlo a desistere. Ma chi sostiene un approccio per così dire analitico di questo genere sostiene una modalità piuttosto complessa se riferita ad una situazione operativa, in cui non c’è molto tempo per riflettere. Altri sostengono un approccio estensivo, che si sostanzia nel valutare la questione caso per caso e nel comprendere nella partecipazione diretta tutti i casi 56 La perdita dello stato di persona protetta dubbi. Un approccio equilibrato è ritenuto essere quello secondo il quale la legittimità dell’uso della forza letale è legata alla necessità di respingere un attacco imminente, mentre i civili non possono essere oggetto di uso preventivo della forza nè essere bersagli oltre il tempo in cui partecipano direttamente alle ostilità. Indubbiamente questa soluzione comporta il rischio del cd. effetto porta girevole, revolving-door, esemplificabile come la situazione nella quale civili partecipano alle ostilità in modo regolare ma con soluzione di continuità tra un episodio operativo e l’altro. Per determinare la partecipazione attiva alle ostilità la giurisprudenza penale internazionale ha individuato, quali indizi rilevanti, il modo di comportarsi nella situazione specifica, il fatto di portare armi, il modo di abbigliarsi o anche l’età e il genere. Essere parte di un gruppo armato è un indizio importante, ma non risolutivo, e la valutazione sulla effettiva partecipazione deve essere condotta caso per caso. Si può dire così che la partecipazione diretta si configura prima di tutto come assunzione delle funzioni di combattimento. Oltre alla partecipazione attiva alle operazioni, sono partecipazione diretta lo svolgimento di attività di intelligence a livello tattico-operativo, la pianificazione operativa e l’addestramento dei combattenti. Sono partecipazione indiretta le attività logistiche, la propaganda e il reclutamento, l’intelligence a livello strategico. Un autorevole esperto (Gasser) ha sostenuto che [c]ivilians who directly carry out a hostile act against the adversary may be resisted by force. A civilian who kills or takes prisoners, destroys military equipment, or gathers information in the area of operations may be made the object of attack. The same applies to civilians who operate a weapons system, supervise such operation, or service such equipment1 . Un’altro esperto (Cassese) ha invece sostenuto che [a] civilian suspected of directly preparing an attack or an hostile act . . . may not be attacked and killed if: . . . (2) he is not carrying arms openly while in the process of engaging in a military operation or in an action preceding a military operation [. . . ] For a belligerent lawfully to fire at a civilian it is necessary that such civilian carries arms openly before and during an armed action; if were not so, belligerents would be authorized to shoot at any civilian, on the mere suspicion of their being potential or actual unlawful combatants2 . L’idea attualmente più accreditata si fonda sul concetto di continuous combat function: il diritto dei conflitti armati permette agli organi dello Stato di colpire per mezzo della forza letale chiunque partecipi ad un conflitto armato indipendentemente dalla sua dislocazione, fintanto che il bersaglio eserciti una funzione di combattimento. Prendendo direttamente parte alle ostilità, i civili assumono come detto il ruolo o la funzione di combattenti (continuous combat function), e come tali possono essere oggetto di attacco diretto e finanche individualizzato (targeted killing)3 . E’ da escludere che chi faccia uso di armi per legittima difesa, per fronteggiare gruppi armati, perda lo stato di non-combattente per diventare persona che partecipa alle ostilità e dunque bersaglio legittimo al pari di un combattente4 . 1 2 3 4 D. Fleck (ed.), The Handbook of Humanitarian Law in Armed Conflict (1995), p. 232. A. Cassese, Expert Opinion on whether Israel’s Targeted Killings of Palestinian Terrorists Is Consonant with International Humanitarian Law, 2003. Juan Carlos Abella v. Argentina, par. 178. Bagosora, Kabiligi, Ntabakuze and Nsengiyumva, Trial Judgement, par. 2237-40. 5.1 Partecipazione diretta alle ostilità 57 La protezione garantita dal diritto internazionale è soggetta alla condizione inderogabile dell’astenersi dal compiere atti ostili. I civili che partecipano alle ostilità in situazioni che non rientrano nella levée en masse sono assimilabili, quanto alle conseguenze del loro agire, alle spie. Pertanto, possono essere processati penalmente dallo Stato che li abbia catturati. Inoltre sono bersagli legittimi. Poiché lo stato di civile non combattente è presunto, l’attacco è vietato in tutti i casi in cui sia ragionevole dedurre che il potenziale bersaglio non sia un combattente. Nel Commentario alle Convenzioni di Ginevra si sostiene che coloro che cessano di partecipare alle ostilità riprendono lo status di civili, e dunque non possono essere fatti oggetto di attacco. Il belligerante non è dunque autorizzato ad aprire il fuoco su un civile sulla base del sospetto che si tratti di qualcuno che sia attualmente o potenzialmente un combattente illegittimo, ovvero in base al fatto che egli abbia un tempo partecipato alle ostilità. Nel caso relativo alle uccisioni mirate (H.C.J. 769/02), il governo israeliano ha sostenuto che è possibile colpire terroristi ovunque ed in ogni momento, fintanto che non abbiano deposto le armi e siano usciti dal ciclo della violenza (circle of violence). La Corte suprema israeliana ha adottato una nozione ampia di diretta partecipazione alle ostilità, includendovi all civilians performing the function[s] of combatants. Ha ridefinito l’espressione for such time stabilendo che un civile che sia entrato a far parte dell’organizzazione terroristica, che ne ha fatto la sua casa, e che commetta una serie di atti ostili intervallati da brevi periodi di inattività, perde la sua immunità di civile (v. anche infra, sez. 6.2). L’Alta corte israeliana, nella sentenza citata, ha suddiviso la norma dell’art. 51 (3) nelle sue componenti. Riguardo l’espressione hostilities ha ritenuto, riproducendo la soluzione adottata dal Commentario, che con quell’espressione debbano intendersi atti che by their nature and purpose are intended to cause actual harm to the personnel and equipment of the armed forces. Circa l’espressione take a direct part, ha suggerito un’interpretazione estensiva, che include tutti gli individui performing the function of combatants, compresi coloro che fanno attività di intelligence, che trasportano i miliziani da e per il teatro dello scontro, coloro che si occupano delle armi impiegate dai miliziani e coloro che hanno la supervisione sulle operazioni della guerriglia. In una parola sostiene un approccio funzionalista (functional perspective). Questa nozione è integrata dalla specificazione che le persone che forniscono approvvigionamenti ai combattenti illegittimi sono da considerare come partecipanti alle ostilità in via indiretta, e dunque non sono bersagli legittimi5 . Un recente studio6 ha individuato la partecipazione diretta alle ostilità in un’azione che presenza tre caratteristiche strutturali. Un atto si considera partecipazione diretta alle ostilità se: i) viene superata una soglia di danno (threshold of harm), ossia se l’atto incide negativamente sulle altrui operazioni militari e sulla sua capacità militare o se l’atto ha come conseguenza la morte, il ferimento di persone protette o la distruzione beni protetti; ii) sussiste un nesso causale diretto (direct causation) tra l’atto e il danno; 5 6 H.C.J. 769/02, par. 30. N. Melzer, Interpretive Guidance on the Notion of Direct Participation in Hostilities under International Law, International Committee of the Red Cross, Geneve, May 2009. 58 La perdita dello stato di persona protetta iii) sussiste un nesso di belligeranza (belligerent nexus), ossia se l’atto dannoso è diretto a sostenere una delle parti in conflitto a detrimento dell’altra. 5.2 Partecipazione alle ostilità nei conflitti interni Gli strumenti che riguardano i conflitti armati interni non fanno menzione della distinzione tra combattenti e civili, ma fanno riferimento a civili, forze armate e gruppi armati organizzati per indicarne gli attori, mentre precisano che titolare delle norme protettive è la persona umana. Ciò rafforza l’idea che non sussistano a norma degli strumenti internazionali di diritto dei conflitti armati benefici per chi partecipi alle ostilità diversi dai diritti minimi che devono essere garantiti alla persona umana e che sono elencati all’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra. L’art. 3 del II Protocollo espressamente dichiara che il governo ha il diritto a ristabilire e mantenere l’ordine con tutti i mezzi legittimi (secondo il diritto internazionale, dal momento che è lo Stato a potersi dare o togliere limiti di diritto interno). L’appartenenza ad una delle categorie sopra citate (forze armate dello Stato, civili e gruppi armati) esclude l’appartenenza alle due rimanenti, pertanto un soggetto non può appartenere contestualmente a più di una di esse. Gli strumenti citati non danno tuttavia una definizione di tali categorie. In base all’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra, le parti del conflitto sono attori statali e non-statali, distinti dalla popolazione civile. I membri dei gruppi armati organizzati sono ritenuti non prendere parte attiva alle ostilità solo nel momento in cui sono posti fuori combattimento o si sono svincolati dalla cosidetta combat function in modo definitivo. Un’interruzione dell’attività operativa non vale, secondo l’opinione prevalente, a restituirli alla categoria dei civili. Nel II Protocollo il termine forze armate riguarda solo le forze governative (o comunque forze armate regolari che operano a sostegno di chi ha formalmente il potere sovrano sul territorio conteso). Gli attori non statali sono indicati come gruppi armati organizzati oppure come forze armate dissidenti. I gruppi armati sono tali se riescono ad esprimere un’organizzazione militare sufficiente a condurre le ostilità in modo del tutto analogo a una struttura militare istituzionalizzata. Vi fanno parte solo coloro che costituiscono l’ala militare (military wing) del gruppo di opposizione. Tale appartenenza può essere frutto di precisa volontà, ovvero involontaria, perché coatta oppure perché determinata da meccanismi di appartenenza, ad esempio da relazioni di clan. La membership, e dunque l’adesione al gruppo armato e la partecipazione alle ostilità dell’affiliato al gruppo armato, non è tale laddove sia riconducibile a legami familiari o a costrizione, e necessita dello svolgimento di una continuous combat function, ossia di funzioni continue di combattimento, intese come pianificazione, organizzazione, comando e controllo di operazioni militari. Richiede dunque un’integrazione duratura nel gruppo armato, che vale a distinguere i membri del gruppo dai civili pacifici ma anche da coloro che partecipano alle ostilità in modo estemporaneo e occasionale, ovvero spontaneo, i quali non appena cessano di porre in essere attività di natura militare riacquistano pieno stato di civili. 5.2 Partecipazione alle ostilità nei conflitti interni 59 Il diritto dei conflitti armati garantisce ai bambini un particolare status, garantendo loro protezione aggiuntive. Tuttavia è da tener presente che un bambino che partecipi direttamente alle ostilità è un bersaglio legittimo. 6 La guerra al terrorismo 6.1 La guerra globale contro il terrore In un saggio del 1962 Carl Schmitt indicava come criteri per l’identificazione del partigiano l’irregolarità, l’accresciuta mobilità, l’intensità dell’impegno politico. Ulteriore carattere distintivo era il suo essere tellurico, il legame del partigiano con la terra, e dunque la sua posizione fondamentalmente difensiva. Secondo Schmitt, tuttavia, con il progredire della tecnica il partigiano diventava esperto del combattimento clandestino, mentre il suo rapporto con l’avversario si poneva nella dimensione della vera inimicizia, che attraverso il terrore e le misure anti-terroristiche cresceva fino alla volontà di annientamento. Il carattere tellurico poneva su piani diversi il difensore della propria patria e l’attivista rivoluzionario, che aveva per campo d’azione il mondo intero1 , colui che, secondo alcuni, è oggi il nemico da combattere in una guerra globale contro il terrore. Il governo americano e alcune corti statunitensi sostengono che gli Stati Uniti stanno combattendo una guerra contro il terrorismo. In una recente audizione al Congresso (febbraio 2013), John Brennan, nuovo direttore della CIA, alla domanda «whether the United States is at war with a terrorist organization other than al-Qa’ida and associated forces» ha risposto «No, but we face threats from terrorist organizations other than alQa’ida and associated forces». In un white paper, si afferma che «all targeted killings of “senior operational leaders” in “al-Qa’ida or its associated forces” take place in the context of a global non-international armed conflict (NIAC) and are thus all subject to the laws of war (IHL)». Si tratterebbe dunque non di un conflitto armato internazionale a norma dell’art. 2 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, in quanto né Al-Qaeda né sue ramificazioni (vere o presunte) sono parti delle Convenzioni di Ginevra - e non potrebbero mai esserlo, perché non sono Stati -, ma non è nemmeno un conflitto armato non internazionale, perché non si sviluppa sul suolo americano, e dunque non si applica nemmeno l’art. 3 comune, che ha come raggio d’azione un conflitto armato privo di carattere internazionale che scoppi sul territorio di una delle Alte Parti contraenti. La Corte suprema ha invece sostenuto che poiché non-internazionale vale per che non coinvolge Stati, nel conflitto con Al-Qaeda, come ad ogni altro conflitto che non riguardi uno scontro tra entità statali, si applicano le norme protettive contenute nell’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra. L’art. 3, come visto in precedenza, è la norma che durante i conflitti non-internazionali stabilisce diritti minimi per le persone che non 1 C. Schmitt, Teoria del partigiano (2005), pp. 21, 33-34 e 47. 6.1 La guerra globale contro il terrore 61 partecipano attivamente alle ostilità e per coloro che sono hors de combat. Tra questi diritti minimi c’è anche il diritto a non essere condannati (o peggio, giustiziati) senza processo. L’ultima parte della norma indica come proibiti in ogni tempo e in ogni luogo «the passing of sentences and the carrying out of executions without previous judgment pronounced by a regularly constituted court affording all the judicial guarantees which are recognized as indispensable by civilized peoples». Nel giudizio reso nel 2002 dall’Alta Corte israeliana sulla presunta politica israeliana di uccisioni mirate, il giudice Barak ebbe ad affermare che «the State of Israel is fighting a difficult war against terror», condotta nel rispetto del diritto e con gli strumenti che la legge mette a disposizione (oltre che sottoposta a scrutinio giudiziario in ogni suo aspetto)2 . Tra questi strumenti sta l’interpretazione dinamica dell’art. 78 della IV Convenzione di Ginevra, il cui scopo è neutralizzare terroristi e living bombs, tramite l’imposizione della residenza forzata o dell’internamento. In un giudizio successivo, Israel finds itself in the middle of a difficult battle against a furious wave of terrorism. Israel is exercising its right of self defense. See The Charter of the United Nations, art. 513 . Nonostante queste prese di posizione siano sostenute da argomentazioni anche raffinate, la realtà è che uno Stato non può essere in guerra con un’organizzazione terroristica. Come autorevolmente sostenuto (Wright) insurgents or native communities, not being recognized states, have no power to convert a state of peace into a state of war. So their declaration or recognition of war would have no legal effect4 . Cosicchè, la dichiarazione di guerra lanciata contro gli Stati Uniti e l’Occidente da Bin Laden nel 1996 non può essere considerata l’innesco di un conflitto armato. Le guerre sono fatte da Stati, suppongono confini e territori, eserciti regolari e nemici certi e riconoscibili5 . Secondo Alberico Gentili, la guerra era publicorum armorum contentio6 . Per potersi parlare di guerra al terrorismo come di una guerra in senso proprio deve negarsi che la guerra sia una relazione da Stato a Stato ed affermare che si tratta di una relazione tra individui o gruppi. Tale impostazione non è conforme alle norme vigenti. Pertanto, uno Stato può essere in guerra con lo Stato che ha il controllo sui gruppi terroristi, che potrà essere effective control7 o overall control8 , a seconda dell’interpretazione preferita del legame che intercorre tra lo Stato e gli attori non statali che agiscono per suo conto, oppure una guerra contro lo Stato che permette l’uso del proprio territorio come base di partenza per il compimento di atti che sono per loro natura criminali, e non atti di belligeranza, e che in taluni casi hanno le caratteristiche proprie dei crimini 2 3 4 5 6 7 8 H.C.J. 7019/02; H.C.J. 7015/02, Ajuri v. IDF Commander, par. 41. H.C.J. 4764/04, Physicians for Human Rights v. Commander of the IDF Forces in the Gaza Strip, par. 14. Q. Wright, A Study of War (1983), p. 16. L. Ferrajoli, Il diritto penale del nemico e la dissoluzione del diritto penale, p. 91, URL: http//:www.panoptica.org. A. Gentili, De iure belli libri tres (1588), a cura di J. Brown Scott (1933), lib. I, cap. I, p. 12. Nicaragua v. United States, par. 115. Tadic, Trial Judgement, par. 121. 62 La guerra al terrorismo contro l’umanità (violazioni gravi dei diritti umani fondamentali costituenti un attacco esteso o sistematico contro una popolazione civile). Nello Yemen, fronte caldo della lotta al terrorismo, dove gli Stati Uniti danno la caccia al gruppo Al-Qaeda nella penisola arabica, AQAP, ed hanno recentemente ucciso con un’operazione di targeted killing un cittadino americano, il chierico e militante AlAlwaki, non si tratta tanto di colpire un tentacolo di Al-Qaeda operante nell’area, nel quadro della globale guerra al terrorismo, ma di intervenire in un conflitto armato interno che coinvolge il governo dello Yemen e il gruppo armato AQAP che vi si oppone. La legittimità dell’azione americana, sul piano dello jus ad bellum, è il consenso del sovrano territoriale. Rispetto allo jus in bello, la legittimità delle uccisioni mirate, operate di norma tramite drones, aerei comandanti a distanza, dovrà essere accertata sulla base dei principi fondamentali del diritto dei conflitti armati, in particolare i principi di distinzione e proporzionalità. Se di conflitto interno si tratta, va comunque accertato, nel senso che l’applicazione del diritto internazionale umanitario nella caccia ai militanti di AQAP nello Yemen richiede il superamento della soglia che trasforma una situazione di disordine interno o instabilità in un conflitto armato. Per identificare un conflitto armato interno è necessario verificare due indicatori: l’intensità dello scontro e l’organizzazione degli insorti, che sono i due fattori che differenziano il conflitto armato stesso dal banditismo, dall’insurrezione estemporanea e dal terrorismo9 . 6.2 Le uccisioni mirate come risposta al terrorismo Si è appena fatto cenno allo strumento attualmente considerato come il più efficace nella guerra al terrorismo: l’uccisione mirata, targeted killing. Un’uccisione mirata è l’uso della forza militare diretta a colpire in modo letale una persona specificamente individuata come minaccia per i cittadini o gli interessi del Paese che ne ordina l’esecuzione: targeted killings [...] reflect an administrative decision, a deliberate choice of means of warfare in response to attacks against Israelis in the context of the al-Aqsa Intifada. Nel quadro di un conflitto armato, sia esso interno o internazionale, la liceità dell’uccisione mirata è legata alla partecipazione diretta del bersaglio alle ostilità. I criteri da adottare saranno il principi di distinzione, proporzionalità e precauzione, quest’ultimo diretto a ridurre al minimo il danno collaterale. Al di fuori di tali ipotesi, applicandosi il diritto internazionale dei diritti umani (e il diritto penale dello Stato in cui l’azione ha da svolgersi), per potere adottare una simile soluzione letale deve sussistere il pericolo di un danno grave all’integrità fisica di una o più persone non altrimenti gestibile. L’uccisione risulta dunque una risorsa estrema, da adottare in una situazione di pubblica difesa dalla violenza illegale. Uno dei problemi fondamentali è dato dal fatto che è l’atto terroristico a fare il terrorista, nel senso che lo status di terrorista non è altrimenti verificabile che con il coinvolgimento in specifici atti diretti a colpire i civili per costringere governi e entità governative ad adottare o non adottare determinati corsi d’azione. Il che 9 Tadic, Trial Judgment, par. 562. 6.2 Le uccisioni mirate come risposta al terrorismo 63 riduce di molto le possibilità di intervento preventivo e rende arbitrario l’uso della forza in tutte le situazioni in cui il coinvolgimento nell’attività terroristica è solo presumibile. Nel quadro di un conflitto armato, il terrorismo è una modalità di lotta. Se il conflitto armato è internazionale e il bersaglio è rappresentato dalle forze armate avversarie, l’unica fonte di illegittimità dell’attacco sarà la perfidia. In un conflitto armato interno, l’atto terroristico è partecipazione del terrorista alle ostilità, ossia un atto criminoso che espone il civile che lo commette (o che sta per commetterlo) alla violenza bellica del governo legittimo. Al di fuori di un conflitto armato, l’atto terroristico è un comportamento criminale, e il terrorista sarà trattato da criminale, ma nel rispetto del diritto dei diritti umani, che vieta le esecuzioni sommarie e permette l’uso della forza letale solo come extrema ratio. Sin dal 2002 gli Stati Uniti conducono una campagna di uccisioni mirate, che riguardano sia aree in cui sono in corso conflitti armati, come l’Afghanistan, sia zone che non possono considerarsi di guerra, anche se caratterizzate da grave instabilità ovvero dall’essere Stati falliti che i bersagli usano come safe havens. I terroristi, veri o presunti, sono inseriti in una sorta di lista di proscrizione, una kill list, ovvero in una JPEL, acronimo per joint prioritised effects list10 . Nella sua decisione del dicembre 2006 la Corte Suprema israeliana ha sostenuto l’impossibilità di determinare una volta per sempre se gli attacchi preventivi diretti contro individui a capo della Seconda Intifada, oggetto della controversia sollevata da un gruppo di ONG contro una asserita politica di uccisioni mirate del governo israeliano, siano o meno illegali, dichiarando che il nocciolo della questione sta piuttosto nello stabilire se le norme consuetudinarie che regolano la condotta delle ostilità consentano o meno attacchi preventivi del genere in discussione. Il governo israeliano ha affermato la legittimità delle uccisioni mirate in quanto conformi alle norme sui conflitti armati internazionali. Le ONG intervenute in causa hanno invece chiesto l’adozione di un modello law enforcement basato essenzialmente sulle norme internazionali di tutela dei diritti fondamentali e sull’idea che i terroristi, in luogo di essere uccisi, debbano essere arrestati e processati penalmente. Questa posizione è stata ovviamente quella assunta dai ricorrenti, secondo i quali la liceità dell’uccisione di persone individuate (specific individuals) è materia di law enforcement, governata non dal diritto internazionale umanitario ma dagli strumenti di tutela dei diritti umani e dalle norme di diritto penale. Tale posizione è peraltro difficile da combinare con l’opinione largamente diffusa che la situazione nei Territori Occupati sia da gestire secondo le norme della IV Convenzione di Ginevra, sulla protezione dei civili in tempo di guerra e in tutti i casi di occupazione militare di un territorio. Indubbiamente la Convenzione riguarda situazioni di conflitto armato internazionale, nel quale l’impiego dei mezzi militari per fronteggiare un’aggressione è perfettamente legittimo. David Kretzmer sostiene che si dovrebbe pensare ad una terza via e suggerisce di adottare un approccio che combini fra loro i due modelli conflitto armato e law enforcement. Assumendo il modello law enforcement, lo Stato è obbligato a rispettare e far rispettare il diritto alla vita di ciascun individuo che rientri nella sua giurisdizione e ad 10 N. Davies, Afghanistan war logs: Task Force 373 - special forces hunting top Taliban, The Guardian, Sunday 25 July 2010. 64 La guerra al terrorismo assicurargli le garanzie del giusto processo (fair trial e due process of law). Ogni uso della forza letale dovrà essere rispettoso delle norme che garantiscono il diritto alla vita e all’incolumità fisica. Ogni deviazione da queste disposizioni costituirà un caso di esecuzione extra-giudiziale (extra-judicial killing), dal momento che l’uccisione può ragionevolmente essere considerata il risultato di una politica diretta ad eliminare persone specificamente individuate invece di trarle in arresto e processarle. Nel sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) la privazione della vita umana non rappresenta una violazione della Convenzione se è il risultato di una violenza assolutamente necessaria a proteggere individui sotto minaccia. L’espressione usata, threatened persons, implica un pericolo incombente. L’imminenza del pericolo è parte del test di necessità. Per chiarire questo punto, è utile richiamare la frase pronunciata dal Segretario di Stato americano Daniel Webster già citato in precedenza, secondo il quale la legittimità di un attacco preventivo è legata ad una minaccia instant, overwhelming, leaving no choice of means and no moment for deliberation. Dal momento che è difficile sostenere che si possa colpire un presunto terrorista senza l’assistenza di collaboratori sul campo e delle necessarie informazioni, è altrettanto difficile negare che un’uccisione mirata non implichi un rilevante grado di preparazione, il che rende difficile conciliare un episodio di uccisione mirata con la formula appena indicata. I terroristi così individuati dovrebbero essere arrestati e processati. In McCann la maggioranza dei giudici ha sostenuto che mentre i militari non avevano agito in violazione della Convenzione aprendo il fuoco sui sospetti, i loro supervisori, nel pianificare l’operazione, non avevano tenuto in debito conto la possibilità di usare mezzi e metodi alternativi, che avrebbero permesso la cattura dei sospetti. In un Report on Terrorism and Human Rights, la Commissione inter-americana dei diritti dell’uomo ha precisato che uno Stato non può usare la forza letale contro civili, a meno che questi non costituiscano una minaccia concreta e attuale, e che lo Stato deve aver cura di fare una distinzione tra i civili e coloro che costituiscono la minaccia, colpendoli soltanto se è in grado di colpirli senza mettere a rischio la vita dei civili pacifici. Diversamente la forza letale non si può usare. Un gruppo di esperti riunitosi a Ginevra in un meeting sulla protezione del diritto alla vita durante i conflitti armati ha fatto riferimento alla nozione di calm occupation, per sostenere che le forze occupanti debbono tentare anzitutto di arrestare coloro che costituiscano una minaccia, sottolineando che le uccisioni mirate possono essere giustificate solo se si adotta il modello armed conflict. Con riferimento all’area A dei Territori Palestinesi occupati, un esperto ha osservato che l’applicazione delle norme sui diritti umani crea in quella situazione un vero e proprio dilemma, in quanto entrambi i modelli vi si adattano, ma solo parzialmente. Un altro esperto ha notato che il Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aja del 1907 distingue chiaramente tra regole sulla condotta delle ostilità (Sezione II) e regole sull’occupazione militare (Sezione III), arguendo che tale distinzione implica che il diritto applicabile alle situazioni di occupazione, incluse le norme che consentono l’uso della forza, siano altre rispetto a quelle che regolano la condotta delle ostilità. Dal punto di vista dello Stato di Israele, che subisce l’attacco dei terroristi, entrambi i modelli sono insoddisfacenti. Kretzmer aveva suggerito (prima che Sharon desse ordine di lasciare definitivamente Gaza) un regime giuridico differenziato 6.2 Le uccisioni mirate come risposta al terrorismo 65 per le diverse aree sotto controllo israeliano, vale a dire l’applicazione del modello law enforcement in Giudea e Samaria, del modello armed conflict nella Striscia di Gaza. Tale modello è stato effettivamente adottato nell’operazione Cast Lead, ma non nel pieno rispetto dei principi di necessità, proporzionalità e distinzione, con il corrispettivo divieto di attacchi indiscriminati. Se si adotta il modello law enforcement le operazioni condotte dai terroristi ai danni dell’esercito israeliano sono violazione della legge penale. Se si adotta il modello armed conflict sono partecipazione diretta alle ostilità di civili, i quali, partecipando alle ostilità senza averne titolo, sono attaccabili ovvero punibili. Se vi fosse la possibilità di procedere alla cattura piuttosto che ricorrere alla forza letale, la prima opzione dovrebbe essere preferibile anche nel caso di chi partecipi direttamente alle ostilità. La questione delle uccisioni mirate è altamente problematica e rimane aperta, se non altro perché, come osservato dall’ex direttore della CIA, Right now, there isn’t a government on the planet that agrees with our legal rationale for these operations, except for Afghanistan and maybe Israel11 . In relazione alla uccisioni mirate operate tramite velivoli senza pilota, il governo degli Stati Uniti adotta sempre più spesso una pratica o una tattica denominata signature strike (termine opposto a personality strike): il bersaglio viene colpito non sulla base di dati precisi circa la sua identità ma sulla base di alcuni, per così dire, marcatori (signature) che fanno presumere che si tratti di un bersaglio lecito. Il trovarsi in un determinato luogo in determinato momento, uno specifico comportamento, il trovarsi in compagnia o avere contatti con altri soggetti vengono adottati come indicatori di partecipazione alle ostilità che trasformano il soggetto non altrimenti identificato in un obiettivo militare e dunque (sempreché ciò avvenga nel quadro di un conflitto armato) in un bersaglio legittimo. La liceità di questo tipo di azioni non è affatto pacifica, non fosse altro perché l’art. 50 del I Protocollo stabilisce che è considerata civile ogni persona che non appartiene a una delle categorie indicate nell’articolo 4 A (1), (2), (3) e (6) della III Convenzione, e nell’articolo 43 del I Protocollo e che, soprattutto, in caso di dubbio, la persona sarà considerata civile. In linea di principio, come visto in precedenza, qualora la status di persona protetta sia dubbio, prevale la risposta positiva fintanto che non sia determinato altrimenti, mentre il generale principio di precauzione (supra, sez. 3.6) impone a chi pianifica l’operazione di acquisire ulteriori informazioni. Il Tribunale per la ex-Jugoslavia ha sostenuto che determinare la partecipazione alle ostilità e il conseguente diritto di chi non vi partecipa attivamente ad essere considerato persona protetta è un’operazione che va condotta caso per caso: The Trial Chamber considers that relevant factors in this respect include the activity, whether or not the victim was carrying weapons, clothing, age and gender of the victims at the time of the crime. While membership of the armed forces can be a strong indication that the victim is directly participating in the hostilities, it is not an indicator which in and of itself is sufficient to establish this. Whether a person did or did not enjoy protection of Common Article 3 has to be determined on a case-by-case basis12 . 11 12 D. McManus, Who reviews the U.S. ’kill list’?, L. A. Times, February 5, 2012. http://articles.latimes.com/2012/feb/05. Halilovic, Trial Judgement, par. 33-34. 66 La guerra al terrorismo In Galic la Camera di prima istanza understands that a person shall not be made the object of attack when it is not reasonable to believe, in the circumstances of the person contemplating the attack, including the information available to the latter, that the potential target is a combatant13 . I documenti operativi della NATO in riferimento alle operazioni di ISAF, la forza internazionale operante in Afghanistan a sostegno del governo di Karzai, e le relative regole di ingaggio, contengono la definizione di cosa debba intendersi per atto ostile ed intento ostile. In entrambi i casi si tratta di atti/atteggiamenti che non possono qualificarsi come attacchi, rispetto ai quali è sempre ammesso l’uso della forza, come esercizio più che di un diritto di belligeranza, del più generale diritto alla legittima difesa propria o di altri (cd. soccorso difensivo). Così ad esempio un intento ostile (diverso da un attacco in corso o imminente) è a likely and identifiable threat; tale minaccia, che come detto consente di usare la forza, è riconoscibile da • capability and preparedness of individuals, groups of personnel or units which pose a threat to inflict damage and, • evidence, including intelligence, which indicates an intention to attack or otherwise inflict damage. Gli stessi documenti precisano che The weight of evidence and intelligence indicating intention to attack or otherwise inflict damage must demonstrate a clear and substantial threat. Isolated acts of harassment, without intelligence or other information indicating an intention to attack or otherwise inflict damage, will not normally be considered hostile intent. Sono invece considerati atti ostili (diversi da un attacco in corso o imminente) giustificanti l’impiego della forza letale la posa di ordigni esplosivi o il tentativo di penetrare all’interno di basi militari. In rapporto all’impiego di sistemi armi comandati a distanza crescono le preoccupazioni, sia in ambito accademico che, soprattutto, tra i gruppi a difesa dei diritti umani circa il possibile passaggio ad una completa automazione. Il Dipartimento della Difesa americano ha di recente emanato una direttiva secondo la quale la decisione di impiegare la forza deve essere sempre una decisione umana e a tal fine i sistemi d’arma devono essere verificati, sia sotto il profilo hardware che software, in modo che non vi possano essere scostamenti non voluti e perdita di controllo. Inoltre secondo la direttiva «Persons who authorize the use of, direct the use of, or operate autonomous and semiautonomous weapon systems must do so with appropriate care and in accordance with the aw of war, applicable treaties, weapon system safety rules, and applicable rules of engagement (ROE)»14 . 13 14 Galic, Trial Judgement, par. 50. DoD Directive, Autonomy of Weapon Systems, 3000.09, November 21, 2012. 7 L’uso della forza a supporto della pace 7.1 Peace-keeping e peace-enforcement In considerazione della mancata attuazione degli artt. 43-47 della Carta delle Nazioni Unite, che avrebbe permesso al Consiglio di Sicurezza di gestire le crisi internazionali impiegando direttamente contingenti militari messi a sua disposizione dai Paesi membri dell’Organizzazione, l’attuazione di operazioni coercitive per conto delle Nazioni Unite è avvenuta tramite la concessione di un’autorizzazione (per mezzo di una o più risoluzioni) ad una coalizione di Stati o a un’organizzazione internazionale ad impiegare tutti i mezzi necessari (all necessary means) per ottenere l’osservanza della volontà espressa dal Consiglio di Sicurezza; oppure, gli Stati hanno messo a disposizione delle Nazioni Unite in via temporanea propri contingenti nazionali, che sono stati posti sotto la responsabilità del Segretario Generale, ma rispetto ai quali gli Stati di invio hanno mantenuto significativi poteri di gestione diretta. Le operazioni coercitive sono quelle che la Corte internazionale di giustizia ha individuato nel titolo del cap. VII della Carta1 . Durante la condotta di missioni sotto responsabilità del Segretario Generale, alle forze sotto egida delle NU, se ingaggiate in combattimento, si applicano le regole e i principi di diritto internazionale umanitario contenuti in un documento denominato Secretary-General’s Bulletin: Observance by United Nations Forces of International Humanitarian Law2 . Le norme richiamate nel Bollettino riguardano la protezione dei civili, i mezzi e metodi di combattimento, il trattamento delle persone detenute, la protezione del personale sanitario e dei feriti. Si tratta di disposizioni ormai considerate diritto consuetudinario. Tali regole e principi non rimpiazzano le leggi nazionali da cui il personale militare rimane vincolato durante le operazioni. Al momento della costituzione della forza internazionale, è solitamente inserita negli accordi la formula secondo la quale le forze messe a disposizione delle Nazioni Unite osserveranno i principi e lo spirito delle convenzioni internazionali applicabili alla condotta del personale militare. Le convenzioni in parola sarebbero quelle alle quali nella comunità internazionale è dato ampio seguito, vale a dire, oltre a quelle citate sopra, anche i Protocolli addizionali alle Convenzioni di Ginevra dell’8 giugno 1977. Secondo la sezione 1 del Bollettino, le norme e i principi ivi contenuti si applicano, oltre che nel caso di conflitto armato, anche nell’ipotesi di azioni coercitive condotte nel quadro di operazioni di peace-keeping, e si rileva espressamente al punto 2 che fintanto che le Na1 2 Certain expenses of the United Nations, I. C. J. Rep., 1962. ST/SGB/1999/13, 6 August 1999. 68 L’uso della forza a supporto della pace zioni Unite hanno diritto alla protezione concessa ai civili dalle norme di diritto bellico, mantengono lo stato di non-combattenti. In ordine a violazioni del diritto internazionale umanitario, le Nazioni Unite sono responsabili per il risarcimento dei danni non giustificati da necessità militare, con possibilità di rivalersi contro il contingente nazionale nel caso di manifesta negligenza o condotta criminale volontaria. Alcuni studiosi distinguono nell’attività della forza un piano istituzionale, in cui comprendere tutte le attività effettivamente collegate al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, comprensive delle attività combatrelated, e quelle più propriamente strumentali, amministrative o collaterali, che accompagnano lo stazionamento della forza nel teatro delle operazioni. L’Organizzazione e il comando di contingente esercitano un controllo simultaneo3 . Nel caso in cui vi siano state attività ultra vires, eccedenti quindi i limiti del mandato, ovvero contravvenzione ad ordini ricevuti, viene coinvolto lo Stato al quale appartiene l’organo, qualora sia possibile stabilire un nesso tra la violazione e precise direttive originate da organi nazionali. Il criterio per l’imputazione degli atti ultra vires è ancora una volta quello del controllo effettivo. Ciò implica una verifica della compatibilità delle norme di dettaglio ricevute e applicate dal comandante sul campo per il tramite della catena di comando, con la direttiva stabilita dall’Organizzazione. In caso di interferenza di organi nazionali nelle direttive che il comandante del contingente è chiamato ad applicare, in base al principio di effettività, il contingente non può essere considerato agire come organo delle Nazioni Unite. Altre forme di responsabilità in capo allo Stato che fornisce il contingente militare potrebbero discendere dall’obbligo contenuto negli atti delle Nazioni Unite di provvedere in ambito nazionale all’istruzione dei contingenti nazionali sulle leggi e gli usi di guerra prima che l’unità lasci il territorio nazionale. Un secondo ordine di operazioni sotto egida delle Nazioni Unite sono condotte su autorizzazione del Consiglio di Sicurezza non da truppe messe a disposizione del Segretario Generale, ma da contingenti multinazionali forniti da coalizioni di Stati o da organizzazioni regionali. In questo caso la forza non dipende dalle Nazioni Unite e dunque non può essere considerata organo ausiliario ai sensi dell’art. 24 della Carta. Nel caso in cui la forza multinazionale si trovi ad operare sul territorio controllato da uno Stato sovrano in regime di effettività di poteri, i poteri attribuiti alla forza si configurano come concessioni del sovrano territoriale, titolare della pienezza del potere di imperio. Ad alcune di queste operazioni sotto mandato ONU si attaglia un modello di regolamentazione dell’uso della forza di tipo Law Enforcement, cioè una sorta di attività di polizia rafforzata, condotta da forze internazionali. In altre operazioni, alle forze della coalizione è consentita la possibilità di lanciare operazioni offensive su vasta scala. In tal caso, l’operazione richiede un modello di regolamentazione della forza di tipo Armed Conflict, con pieno dispiegarsi delle norme che regolano la condotta delle ostilità. Nel caso in cui la coalizione intervenga a sostegno di un governo impegnato in un conflitto armato interno, l’ambiguità sul regime giuridico applicabile alle forze della coalizione viene risolta adottando una policy che richiede alle truppe degli Stati facenti parti della coalizione di applicare oltre all’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra e al diritto 3 V. UN doc. A/51/389. 7.1 Peace-keeping e peace-enforcement 69 consuetudinario, ogni altra norma di diritto umanitario rispondente alla situazione che sia contenuta in strumenti da essi ratificati, anche se riferita a situazioni di conflitto armato internazionale. Nulla osta, in ogni caso, alla piena applicazione delle norme belliche del caso, anche a situazioni incerte; si potrebbe addirittura parlare di un obbligo di applicazione, in quanto la finalità di dette norme è umanitaria, vale a dire diretta a proteggere le vittime dei conflitti armati, prima ancora che le parti in lotta. La missione NATO in Afghanistan rappresenta un’operazione di peace-enforcement autorizzata dal Consiglio di Sicurezza (con cadenza annuale; attualmente dalla ris. n. 2069 (2012)), legittimata da tale autorizzazione e dal consenso del sovrano territoriale, cioè del governo afghano, estesa a tutto il territorio (ris. n. 1510 (2003)), e condotta in cooperazione con l’operazione Enduring Freedom a guida statunitense (impegnata in Afghanistan in operazioni contro-terrorismo). La direzione politica della missione a guida NATO spetta al Consiglio Atlantico (North Atlantic Council, NAC), che decide per consensus, ossia con il diretto coinvolgimento e l’approvazione di tutti i governi che sono parte dell’Organizzazione e che abbiano messo a disposizione le proprie truppe (Troop contributing nations, TCN). Spetta al NAC la decisione sulle regole di ingaggio da applicare durante la missione, così come la loro implementazione e la loro modifica (v. infra, sez. 7.2). Nella risoluzione con la quale il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha rinnovato il mandato della forza internazionale di sicurezza in Afghanistan (ISAF), si legge in due distinti paragrafi, che la Forza deve to continue to undertake enhanced efforts to prevent civilian casualties, including the increased focus on protecting the Afghan population as a central element of the mission . . . conducting continuous reviews of tactics and procedures and after-action reviews and investigations in cooperation with the Afghan Government in cases where civilian casualties have occurred4 . La NATO, in attuazione del mandato di ISAF, opera in Afghanistan secondo un’idea di contaminazione tra attività di polizia e attività di combattimento, che tenga altresì conto della necessità di adottare rigide procedure di force escalation. Una sorta di quadro di riferimento a geometria variabile, nel quale l’uso della forza in chiave offensiva è consentito, ma solo laddove misure normalmente catalogate come law enforcement dovessero dimostrarsi inadeguate. Il livello di forza permesso è sempre quello minimo (il che non esclude che si possa passare direttamente all’uso della forza letale) per fronteggiare un attacco o una minaccia di attacco imminente. La NATO afferma il diritto naturale alla legittima difesa dei militari appartenenti ai contingenti della coalizione, impone loro di tenere un profilo basso e di controllare per quanto possibile la situazione senza usare la forza, adottando procedure atte ad ottenere la desistenza dell’avversario, che possono essere segnali visivi e audio, tiri di razzi da segnalazione, fuoco d’avvertimento. Nonostante le linee guida volute dalla NATO, comunque, in questa come in tutte le altre operazioni multinazionali, le leggi dello Stato della bandiera sono al primo posto nel quadro giuridico di riferimento della missione, soprattutto in relazione alle conseguenze penali derivanti dall’uso della forza. 4 V. S/RES/2069 (2012), p. 5. 70 L’uso della forza a supporto della pace Durante la missione, war-like conditions non sono escluse. Nella condotta di operazioni offensive le forze NATO si atterranno ai principi fondamentali del diritto internazionale dei conflitti armati. Le autorità militari cureranno di impartire al personale militare istruzioni di dettaglio sull’impiego della forza armata e di altri mezzi di coercizione, chiamate regole di ingaggio (ROE). 7.2 Le regole di ingaggio Le regole di ingaggio sono autorizzazioni ad usare la forza in situazioni diverse dalla legittima difesa, ossia strumenti attraverso i quali il vertice politico impone un controllo, per ragioni politiche ed operative, sull’impiego della forza militare, incluse le circostanze in cui è consentito l’uso o la minaccia della forza armata. In linea generale, lo scopo è quello di assicurare l’assolvimento del compito e contestualmente la protezione della forza. Le ROE sono direttive imposte da autorità militari. In quanto tali non possono contenere norme giustificative di comportamenti illegali, né sollevare i comandanti dalla loro responsabilità di comando. Sono adottate in relazione ad un particolare impiego, possono mutare, ma devono essere fondate sul diritto bellico. Hanno lo scopo di meglio precisare i contenuti del diritto dei conflitti armati e di facilitarne la messa in pratica durante le operazioni: According to the humanitarian principles of international law, military activities require the following: First, that the rules of conduct be taught to, and that they be internalized by, all combat soldiers, from the Chief of General Staff down to new recruits. [... ] Second, that procedures be drawn up that allow implementation of these rules, and which allow them to be put into practice during combat5 . Le ROE partecipano di considerazioni politiche, giuridiche e militari, e nelle operazioni multinazionali sono particolarmente problematiche. Dovendo essere in accordo con il diritto internazionale, la natura della missione è particolarmente rilevante. L’uso della forza subisce le limitazioni di volta in volta imposte dal diritto internazionale, comprensivo della Carta delle Nazioni Unite, dalle leggi nazionali, da accordi con la host nation, dal piano della missione, e nelle operazioni multinazionali, dalle ROE di altre nazioni partecipanti, oltre che dalle risoluzioni degli organismi internazionali. Che il militare abbia impartite delle regole di ingaggio è pressoché indispensabile in situazioni a bassa intensità - come durante le operazioni di peace-keeping - o in altri contesti in cui l’uso della forza rappresenta un’eventualità - come ad esempio durante le operazioni di pattugliamento del golfo di Aden da parte di unità della NATO per prevenire atti di pirateria. Nel primo caso il contesto operativo è sostanzialmente pacificato, e dunque l’uso della forza da parte delle forze internazionali deve essere strettamente limitato all’auto-difesa personale. Nel secondo caso potremmo parlare di operazioni di polizia marittima internazionale, ed anche in questo caso un approccio restrittivo all’impiego di mezzi coercitivi appare doveroso. Diverso è il caso delle operazioni in 5 H.C.J. 4764/04, Physicians for Human Rights v. Commander of the IDF Forces in the Gaza Strip, par. 66. 7.2 Le regole di ingaggio 71 Afghanistan, dove è in corso un conflitto armato interno che vede il governo impegnato a fronteggiare, con l’aiuto della comunità internazionale rappresentata dalla forza multinazionale ISAF, una galassia di gruppi armati, più o meno organizzati, molti dei quali in grado di condurre vere e proprie operazioni militari. In simili contesti operativi, le regole di ingaggio non avrebbero di per sé grande rilevanza. I militari di ISAF, nel difendersi dagli attacchi degli insorti, esercitano non un diritto imprescindibile alla legittima difesa propria e della propria unità, ma i loro legittimi diritti di belligeranza, regolamentati dal diritto dei conflitti armati. Gli insorti sono infatti civili, che nell’attaccare le forze sotto mandato internazionale partecipano direttamente ad ostilità dirette a destabilizzare il legittimo governo del Paese, rinunciando in tal modo alla protezione che il diritto internazionale riserva loro in quanto civili. Partecipando alle ostilità diventano bersagli legittimi per tutto il tempo in cui vi partecipano, e dunque sono oggetto di legittima violenza bellica da parte delle forze delle coalizione, la quale violenza potrà assumere la forma e l’intensità richieste nella situazione specifica, con il solo limite rappresentato dalle norme e dai principi di diritto internazionale umanitario. Le restrizioni all’uso della forza in circostanze diverse dalla legittima difesa, dettate appunto da regole di ingaggio, dipendono dall’indirizzo politico che si è inteso dare alla missione, ma il core, il nocciolo, della disciplina del fuoco è stabilito dal diritto dei conflitti armati. Le regole di ingaggio valide per le operazioni sotto comando NATO, che ad oggi (2012) riguardano diversi teatri (Afghanistan, Kosovo, Golfo di Aden) ed impegnano significativi contingenti multinazionali, sono catalogate in un compendio emanato nel 2003, prodotto a seguito di una decisione del Consiglio Atlantico (NAC). Il documento è denominato MC 362/l, NATO Rules of Engagement, e istituisce uno «Standing Multinational ROE System». Le regole di ingaggio non limitano il diritto di usare la forza in legittima difesa, e l’esercizio di tale diritto rimane regolato dalla norme dell’ordinamento dello Stato a cui appartiene il contingente sotto comando NATO. Comuni sono i requisiti di necessità (extrema ratio) e proporzionalità (forza minima necessaria) della reazione armata, da valutare in funzione dell’attacco subito o della minaccia, che deve essere una minaccia imminente. Una volta autorizzate, le ROE sono implementate in un ordine di operazioni. Eventuali restrizioni di carattere politico o giuridico, ovvero di capacità, sono comunicate al comandante NATO in forma di national caveats. Ai governi che inviano i contingenti spetta di rendere le ROE operative a livello di contingente nazionale e a provvedere ciascun militare del contingente con una loro versione in forma sintetica (cd. ROE card). Una questione cruciale in termini di regole di ingaggio è quella della detenzione di personale estraneo alla forza dispiegata sul terreno. Le ROE di ISAF autorizzano, come misura temporanea, la detenzione di «Non-ISAF personnel». Si tratta di un ambito alquanto delicato, soprattutto per i Paesi membri del Consiglio d’Europa, costretti da norme molto rigide derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, prima fra tutte quella che impone il divieto di consegnare o estradare i detenuti ad altri Stati quando vi sia il rischio per il detenuto di subire tortura. Il rilascio ad un altro Stato è ammesso soltanto se compatibile con gli obblighi internazionali dello Stato che procede alla consegna e con il suo ordina- 72 L’uso della forza a supporto della pace mento interno. Le prescrizioni di dettaglio in materia di detenzione per i contingenti dispiegati in Afghanistan sono comprese in una procedura operativa standard denominata ISAF SOP 362. La misura è autorizzata in quanto necessaria alla protezione delle forze (Force Protection), come strumento di legittima difesa ovvero quando necessario per l’assolvimento del mandato internazionale. In un recente documento un gruppo di Stati ha prodotto in materia un elenco di best practices6 che ha come scopo primario quello di mediare tra due fondamentali obiettivi: «to ensuring the humane treatment of detainees and the effectiveness of international military operations». Il documento si riferisce a situazioni di conflitto armato interno internazionalizzato, ossia all’invio di contingenti militari multinazionali a sostegno di uno Stato nel cui territorio è in corso un conflitto armato (esattamente la situazione che si è sviluppata in Afghanistan), e non riguarda situazioni di conflitto armato internazionale né operazioni di law enforcement (ad esempio operazioni di contrasto alla pirateria condotte da unità militari multinazionali, come quelle in corso nel Golfo di Aden). Tra i principi contenuti è da segnalare quello secondo il quale il trasferimento di individui in custodia di un’unità militare ad altra autorità, incluso il governo del Paese in cui si svolgono le operazioni, dovrà avvenire nel rispetto degli obblighi internazionali dello Stato a cui appartiene il contingente che lo ha catturato e che ha l’individuo in custodia. 6 The Copenhagen Process: Principles and Guidelines on the Handling of Detainees in International Military Operations, 2012. 8 La privatizzazione della funzione militare 8.1 Il monopolio statale della violenza bellica Il divieto della guerra privata può essere fatto risalire alla Pace di Utrecht (1713)1 , che pose fine alla guerra di successione spagnola e che tra l’altro mise al bando la pratica conosciuta come privateering, ossia l’atto di predare navi mercantili su autorizzazione di un governo (formalizzata in letters of marque e comprendente il diritto a trattenere una parte del bottino). Il divieto fu ribadito nel Trattato di Parigi del 18562 . Tale attività era posta in essere da corsari (agenti della guerra di corsa), che proprio in quanto autorizzati da lettere di marca rilasciate da uno Stato, rappresentavano una figura distinta da quella dei pirati, da sempre fuorilegge (addirittura hostes humani generis) in ragione del fatto che il predare era a loro esclusivo beneficio. Il monopolio statale nell’esercizio della violenza bellica - che diventa definitivo dopo la scomparsa alla fine dell’800 del secolo scorso delle cd. chartered companies, categoria a cui apparteneva, per esempio, la East India Company -, è un corollario della sovranità (esterna). Allo Stato, in quanto sovrano, spetta tra l’altro di impedire a chi è sottoposto alla sua giurisdizione di combattere (da privato) a favore di uno Stato terzo. Nel diritto italiano è punito il fatto di compiere arruolamenti o atti ostili contro uno Stato estero in modo da esporre lo Stato italiano al pericolo di una guerra (art. 244 c.p.), che è una fattispecie del tutto simile alla realtà del terrorismo transnazionale, quello che colpisce a partire da basi situate in un diverso territorio. In quanto concorre al delitto, ne risponde anche chi si arruola, ossia il terrorista che entra a far parte dell’organizzazione facendosi reclutare. Anche nell’ordinamento italiano sussiste dunque il divieto di guerre private. La norma citata esemplifica proprio il monopolio dello Stato nella condotta della politica estera e nell’esercizio della funzione militare. Il che implica anche che solo ai propri cittadini lo Stato potrà imporre la partecipazione ad attività belliche. L’art. 147 della IV Convenzione di Ginevra del 1949 considera infrazione grave il fatto di costringere i civili a prestare servizio nelle forze armate della Potenza nemica, mentre l’art. 130 della III Convenzione riproduce tale norma in relazione ai prigionieri di guerra (v. anche art. 23 del Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aja del 1907). La transnazionalità è insita nel fenomeno mercenario3 . Il mercenario (dal latino merces, compenso), opera secondo una logica privatistica ed ha come elementi distintivi 1 2 3 C. Schmitt, Terra e mare (2011), p. 44. The Paris Declaration Respecting Maritime Law of 16 April 1856. S. Ruzza, Guerre conto terzi (2011), p. 28. 74 La privatizzazione della funzione militare essenziali l’essere straniero (rispetto al territorio in cui si combatte e alle parti che vi sono coinvolte) e l’essere motivato da finalità di lucro personale (oltre, naturalmente, allo svolgere attività di combattimento). Una definizione in termini più analitici, nell’ambito del diritto internazionale, è quella fornita dall’art. 47 del I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra, che nega ai mercenari il diritto di partecipare alle ostilità e enuncia tre condizioni positive e tre negative, le prime appunto riferite al lucro le seconde all’estraneità rispetto ai contendenti. Il mancato riconoscimento del diritto di partecipare alle ostilità implica che il mercenario, in quanto soggetto che impiega la violenza bellica senza averne il diritto, esercita un’attività criminale. 8.2 Le Private security firms Con l’espressione privatizzazione della funzione militare si intende il fenomeno della comparsa e della diffusione di società private di servizi specializzate in prestazioni di carattere militare, in grado di fornire un’ampia gamma di funzioni grazie alla diversificazione e alla flessibilità che le caratterizza, gamma che comprende attività di addestramento, consulenza specialistica e fornitura diretta di servizi di sicurezza4 . Un autorevole studioso le ha definite come «business organizations that trade in professional services intricately linked to warfare»5 . Secondo questa definizione, le compagnie private svolgono attività comunque mercenarie, ossia offrono prestazioni retribuite essenzialmente legate ad un conflitto armato. Il loro coinvolgimento nelle operazioni militari, sotto il profilo quantitativo, è ben esemplificato dal rapporto 1:1 tra truppe americane dispiegate in Iraq e operatori privati di sicurezza. Sotto il profilo qualitativo, Peter Singer ha elaborato un modello a punta di lancia, il cui vertice è rappresentato dalle operazioni di combattimento condotte da military provider firms (mpf), mentre al di sotto stanno mcf e msf, rispettivamente dedicate a consulting e support. Il loro differenziarsi dai mercenari è dato dal fatto che rivendicano sì il diritto ad usare la forza armata, ma soltanto per legittima difesa. Per meglio inquadrare le attività e le responsabilità di questi particolari attori economici è opportuno riferirsi al caso iracheno ed in particolare al coinvolgimento del più noto di essi, la società Blackwaters, cominciando dallo status loro garantito appunto nel teatro iracheno. L’Order no. 17 della CPA6 , l’autorità provvisoria in Iraq (CPA, Coalition Provisional Authority) - una creazione di Stati Uniti, Gran Bretagna e altri partners della Coalizione che faceva capo al proconsole americano Paul Bremer -, stabiliva (section 4) che i contractors - definiti come «non-Iraqi legal entities or individuals not normally resident in Iraq, including their non-Iraqi employees and Subcontractors not normally resident in Iraq, supplying goods or services in Iraq under a Contract» - erano immuni dalla giurisdizione irachena nello svolgimento delle funzioni oggetto del contratto. Lo stesso provvedimento imponeva alla Forza Multinazionale di adottare 4 5 6 S. Ruzza, op. cit., pp. 65 e 77. P. Singer, Corporate Warriors, The Rise of the Privatized Military Industry (2009), p. 8. Coalition Provisional Authority Order No. 17 (Revised), Status of the Coalition Provisional Authority, MNF - Iraq, Certain Missions and Personnel in Iraq [Iraq], No. 17 (Revised), 27 June 2004. 8.2 Le Private security firms 75 misure preventive per impedire la commissione di illeciti da parte dei contractors. Tra le misure indicate erano inclusi l’arresto e la detenzione a premessa di una tempestiva riconsegna allo Stato di invio (con ciò intendendosi lo Stato parte del contratto). Le regole internazionali consolidate in questo settore sono poche ma significative. L’art. 4A(4) della III Convenzione di Ginevra stabilisce che le persone che seguono le forze armate senza farne direttamente parte, come i fornitori, i membri di unità di lavoro o di servizi incaricati del benessere delle forze armate, a condizione che siano autorizzati dalle forze armate che accompagnano, sono prigionieri di guerra. In assenza dell’autorizzazione delle forze armate che accompagnano (formalizzata in un apposito documento di identità rilasciato dalle autorità di una delle parti in conflitto), sono civili in zona di operazioni. In ogni caso, non possono essere considerati combattenti e quindi partecipare alle ostilità. Ciò si ricava dall’art. 50 del I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra, che definisce i civili come coloro che non appartengono alle categorie indicate nell’art. 4A(1), (2), (3) e (6) della III Convenzione e 43 del Protocollo medesimo, e che in quanto non appartenenti alle forze armate, non hanno il diritto di partecipare alle ostilità. Il 17 Settembre 2008, 17 Stati hanno raggiunto un accordo su un documento denominato Montreux Document on pertinent international legal obligations and good practices for States related to operations of private military and security companies during armed conflict, con riferimento appunto ai rapporti tra Stati e private military and security companies (PMSCs), non giuridicamente vincolante, in cui tra l’altro si sostiene che lo status del personale appartenente alle PMSCs è stabilito dal diritto internazionale umanitario. Come visto in precedenza (supra, cap. 4), la logica del diritto umanitario impedisce l’esistenza di categorie ulteriori rispetto a quelle dei civili e dei combattenti. Se i contractors non appartengono alle persone individuate dall’art. 4 citato, sono civili e non possono essere oggetto di attacco, a meno che non partecipino direttamente alle ostilità, nel qual caso sono esposti, oltre che al fuoco della controparte, anche a responsabilità penale a norma dell’ordinamento dello Stato sul cui territorio agiscono, e dunque di diritto interno, o di diritto internazionale. Il documento include nelle clausole contrattuali l’impegno ad usare la forza solo quando necessario in difesa di sé o di terze persone. Questo della legittima difesa è uno snodo cruciale. Il non fare parte delle forze armate limita l’impiego delle armi all’auto-difesa. Ed è importante che si tratti di difesa della propria o altrui persona, e non di difesa in senso generico, dal momento che il diritto internazionale umanitario considera l’attacco come un corso d’azione rispetto al quale non è rilevante se condotto in chiave offensiva o difensiva (v. art. 49 del I Protocollo del 1977). Non bisogna dimenticare altresì che fare uso delle armi per difesa personale non è considerato dal diritto internazionale umanitario partecipazione diretta alle ostilità. Ciò si ricava dalla I Convenzione di Ginevra, art. 22, secondo il quale al personale sanitario è consentito portare armi e farne uso per la difesa propria (e dei feriti e dei malati) senza che ciò significhi perdere la protezione garantita dalla Convenzione, ed è riconosciuto anche dalla giurisprudenza del Tribunale per la exJugoslavia, secondo il quale fare uso di armi per difendersi dalle vessazioni di miliziani e paramilitari non costituisce per i civili partecipazione diretta alle ostilità7 . Tuttavia è 7 Bagosora, Kabiligi, Ntabakuze and Nsengiyumva (Trial Chamber), par. 237-240. 76 La privatizzazione della funzione militare innegabile che garantire la sicurezza di un’installazione militare - ossia la difesa di un obiettivo militare - in una situazione di conflitto armato integri la partecipazione diretta alle ostilità. Il diritto internazionale umanitario protegge i contractors tramite la IV Convenzione di Ginevra. Per di più, se del caso, i contractors, come le altre persone non aventi titolo a condizioni più vantaggiose, godono delle protezioni minime garantite dall’art. 75 del I Protocollo addizionale del 1977, che, essendo norma di diritto consuetudinario, vincola tutti gli Stati, e nel caso di conflitti interni, dell’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra e delle norme consuetudinarie riprodotte nel II Protocollo del 1977. Dal momento che il legame con la parte in conflitto è necessario elemento per la qualifica di combattente, solo coloro che sono impiegati di compagnie private ingaggiate da uno Stato potrebbero in linea di principio essere considerati combattenti. Sicuramente civili sono invece i contractors che prestano servizio a favore di attori non statali, come le organizzazioni inter-governative o le NGOs. 9 Reagire alle violazioni del diritto umanitario Le infrazioni al diritto dei conflitti armati, in ragione dei beni fondamentali che tali condotte violano o mettono a repentaglio (la vita umana, l’integrità della persona e la proprietà) sono per molta parte crimini. Le più gravi tra esse sono crimini di guerra. In quanto crimini, comportano la responsabilità individuale (di diritto internazionale e, qualora l’ordinamento contempli tali illeciti, di diritto interno) dell’agente e di chi ordina, istiga, lo supporta, o lo aiuta ovvero, in quanto titolare di supremazia gerarchica, omette di vigilare sull’operato del proprio subordinato. Come si vedrà in seguito, gli Stati parti delle Convenzioni di Ginevra hanno l’obbligo di punire penalmente, a titolo di giurisdizione universale, le infrazioni gravi alle Convenzioni. Se si accoglie l’idea sostenuta dalla Corte internazionale di giustizia secondo la quale le Convenzioni di Ginevra del 1949 sono diritto consuetudinario, ciascuno Stato è obbligato dal diritto internazionale a predisporre strumenti idonei, a livello nazionale, a perseguire le infrazioni gravi citate1 . Oltre ad implicare la responsabilità penale dell’individuo, una violazione del diritto dei conflitti armati è una violazione del diritto internazionale che regola i rapporti tra gli Stati, in quanto violazione di un obbligo internazionale volontariamente assunto dallo Stato entrando a far parte del trattato (ovvero imposto da una norma consuetudinaria, nell’ipotesi in cui si accolga l’interpretazione della Corte internazionale di giustizia) commessa da suoi organi ai danni di un’altra parte contraente. La violazione del diritto umanitario integra dunque un illecito internazionale per il quale lo Stato deve rispondere allo Stato che abbia subito il torto. Lo Stato commette illeciti internazionali, ossia illeciti che sono sanzionati secondo il diritto internazionale, con mezzi predisposti da quel ramo del diritto (primo fra tutti la rappresaglia, di cui si dirà tra breve). L’individuo organo dello Stato (ma anche qualsiasi altra persona) che agisca in violazione di prescrizioni a cui il diritto internazionale riconnette una responsabilità penale, commette un crimine internazionale. Le violazioni gravi del diritto internazionale umanitario sono crimini di guerra. Per prevenire e reprimere le violazioni del diritto internazionale umanitario esistono due ordini di strumenti. Al primo ordine appartengono gli strumenti che fanno diretto riferimento alle relazioni tra gli Stati, al secondo quelle che pongono l’atto dell’individuo in relazione con l’ordinamento penale interno agli Stati, ovvero con la giustizia penale internazionale. Gli Stati soggetti alle Convenzioni di Ginevra (tutti, se si considera valida l’opinione maggioritaria, che si tratti di diritto consuetudinario) hanno l’obbligo di 1 v. sul punto, il preambolo dello Statuto della Corte penale internazionale, VI paragrafo. 78 Reagire alle violazioni del diritto umanitario rispettare e fare rispettare, prima di tutto ai propri agenti e organi, le Convenzioni medesime (e il I Protocollo, v. art. 1) in ogni circostanza, oltre a far sì che la loro condotta durante il conflitto sia supervisionata tramite il sistema delle Potenze protettrici (cui spetta soprattutto di tutelare gli interessi delle Potenze che le hanno designate), ovvero, in subordine ma ormai pressochè esclusivamente, a consentire al Comitato internazionale della Croce Rossa (cui spetta soprattutto proteggere gli interessi delle vittime dei conflitti armati) o ad altra similare organizzazione umanitaria di vigilare sull’implementazione delle Convenzioni di Ginevra e di prestare i suoi buoni uffici (v. anche art. 5 del I Protocollo). 9.1 Rimedi inter-statali 9.1.1 La rappresaglia La rappresaglia rimane un rimedio rudimentale, una misura rientrante nello jus ad bellum, la cui ammissibilità è divenuta via via più limitata per effetto delle restrizioni imposte dal diritto umanitario e dalla Carta delle Nazioni Unite, e consiste nell’uso della forza, in violazione di una norma di diritto internazionale, per costringere l’avversario ad obbedire ad una norma internazionale o a cessare una violazione del diritto internazionale che danneggia lo Stato che agisce in rappresaglia. Dopo l’entrata in vigore la Carta delle Nazioni Unite, per effetto dell’art. 2(4), la rappresaglia è consentita solo nel corso di conflitti armati. In tempo di pace, qualsiasi uso della forza militare da parte di uno Stato diverso dalla legittima difesa è proibito. Le Convenzioni di Ginevra del 1949 hanno vietato la rappresaglia contro le persone protette e i civili in territorio occupato, mentre è rimasta consentita nei riguardi dei civili presenti nella zona di operazioni. Il I Protocollo ha ristretto la possibilità di far uso della rappresaglia in modo radicale2 , per cui attualmente è consentita solo nei confronti dei combattenti (ad esempio usando contro di loro armi vietate). 9.1.2 Il risarcimento del danno Le norme di diritto internazionale umanitario, convenzionali e consuetudinarie, si applicano agli Stati e sono in primo luogo dirette a tutelarne gli interessi, tant’è che sia la IV Convenzione dell’Aja (art. 3) che il I Protocollo (art. 91) impongono ai belligeranti l’obbligo di risarcire il danno (to pay compensation) causato dalle loro forze armate. In tema di responsabilità per danni, l’art. 3 della IV Convenzione dell’Aja del 1907 stabilisce che se una parte belligerante viola le norme previste dal Regolamento annesso alla Convenzione, sarà ritenuta responsabile per il risarcimento, e per tutti gli atti commessi dagli appartenenti alle proprie forze armate. Su queste basi, l’art. 51 della I Convenzione di Ginevra del 1949 dispone una generale responsabilità dello Stato in ordine al risarcimento di danni derivanti dalla commissione di infrazioni gravi, di cui 2 Artt. 51(6), 53(c), 54(4), 55(2), 56(4). 9.1 Rimedi inter-statali 79 all’art. 50. La norma è comune a tutte le quattro Convenzioni. L’art. 91 del I Protocollo del 1977, che riprende l’art. 3 della Convenzione (IV) dell’Aja del 1907, non è invocabile da parte dei singoli di fronte alle giurisdizioni nazionali. Spetta allo Stato di cui il danneggiato è cittadino, e dunque allo Stato (indirettamente) leso, chiedere la riparazione. Gli Stati sono tradizionalmente immuni rispetto alla giurisdizione civile di altri Stati. Esiste una tendenza dottrinale a giustificare una human rights exception, confermata dalla Corte di Cassazione italiana nel caso Ferrini3 (relativo ad una pretesa risarcitoria per avere subito un cittadino italiano deportazione ed essere stato sottoposto a lavoro forzato durante la Seconda guerra mondiale), vale a dire una deroga al principio generale dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione di uno Stato estero al fine di consentire la piena tutela dei diritti umani fondamentali, che permetterebbe di chiamare in giudizio di fronte ad un tribunale civile uno Stato i cui organi si fossero resi responsabili di crimini internazionali. Tale eccezione è stata tuttavia respinta dalla Corte internazionale di giustizia nella recente controversia sollevata dalla Germania contro l’Italia proprio in relazione al caso Ferrini, avendo la Corte ribadito la piena vigenza del principio consuetudinario dell’immunità dello Stato dalla giurisdizione civile di un altro Stato4 . Secondo il codice penale militare di guerra italiano, la condanna penale per la commissione di un crimine di guerra comporta il risarcimento del danno a norma dell’art. 538 del c.p.c. Un caso notevole in materia si è avuto nel 2002, quando la Suprema Corte di Cassazione è stata chiamata ad esprimersi sulla tutela risarcitoria a carico dello Stato italiano delle vittime civili dei bombardamenti alleati in Kosovo (1999). Nella fattispecie, si è trattato del risarcimento dei danni subiti dai parenti di due persone decedute durante l’attacco alla stazione radio televisiva di Belgrado5 . La domanda risarcitoria è stata fondata sulla violazione del I Protocollo addizionale e degli artt. 2 e 15 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nonché dell’art. 174 del c.p.m.g. La giurisdizione italiana è stata affermata in forza dell’art. VIII par. 5 della Convenzione di Londra del 1951, che regola lo stato delle forze NATO nei Paesi alleati. La Cassazione ha negato la giurisdizione del giudice italiano argomentando che gli atti di condotta delle ostilità erano espressione di una funzione politica e quindi non sindacabili dal giudice e che le norme invocate, essendo norme di diritto internazionale, regolano esclusivamente rapporti tra Stati. Investita della questione, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha negato che nel caso di specie vi fosse giurisdizione, da un lato perché la Convenzione europea è un trattato multilaterale a vocazione regionale, e la Repubblica Federale di Jugoslavia, sul cui territorio si era verificata la violazione, non ne faceva parte. Dall’altro, pur ammettendo che in casi eccezionali uno Stato parte della Convenzione eserciti la propria giurisdizione al di fuori del proprio territorio, la Corte ha precisato che tali casi sono determinati da situazioni in cui lo Stato convenuto assuma tutti o parte dei poteri pubblicistici su un territorio al di fuori delle proprie frontiere, ciò che avviene in caso di occupazione militare o in virtù del consenso del governo locale. 3 4 5 Cassazione, sezioni unite n. 5044/04. Jurisdictional Immunities of the State (Germany v. Italy: Greece intervening), I. C. J. Rep., 2012. V. Decision as to the admissibility of Application no. 52207/99 of 12 December 2001 (Grand Chamber) in the case Bankovic and Others v. Belgium and 16 Other Contracting States. 80 Reagire alle violazioni del diritto umanitario 9.2 Repressione penale delle infrazioni 9.2.1 La responsabilità penale internazionale Un mezzo per ottenere il rispetto del diritto internazionale ritenuto molto più efficace della rappresaglia è l’esercizio della giurisdizione penale da parte dei tribunali interni e internazionali. Le norme di diritto internazionale umanitario si rivolgono agli Stati ma riguardano tuttavia comportamenti di individui, prima di tutto comportamenti degli organi dello Stato, che se sono liberi dalle conseguenze del loro operato rispetto alle giurisdizioni straniere in virtù dell’immunità funzionale derivante dalla dottrina dell’atto di stato (act of state doctrine)6 , quando agiscano iure imperii, ossia in esecuzione di un ordine del proprio governo, tuttavia rispondono direttamente (e penalmente) della commissione di atti costituenti crimini di diritto internazionale, come i crimini di guerra. Le norme internazionali che incriminano l’individuo si applicano anche a coloro che agiscono su istigazione oppure con il consenso o l’acquiescenza di una delle parti in conflitto, come avviene, ad esempio, nei casi di tortura. Significativa in tal senso è l’affermazione del Tribunale militare internazionale di Norimberga, secondo la quale acts against international law are committed by men, not by abstract entities, and only by punishing individuals who commit such crimes can the provisions of international law be enforced7 . Il principio della responsabilità individuale per le violazioni gravi del diritto internazionale, affermata nell’art. 6(1) dello Statuto del Tribunale militare internazionale8 riflette una norma di diritto internazionale consuetudinario e comprende 5 forme di partecipazione alla commissione del crimine internazionale. Ne risponde chi lo ha materialmente commesso, ma anche chi 1. 2. 3. 4. lo ha pianificato; ha istigato altri a commetterlo; ha dato ordine di commetterlo; ne ha agevolato o aiutato la commissione. A queste ipotesi si aggiunge una ulteriore modalità di commissione del crimine, di origine giurisprudenziale, denominata joint criminal enterprise, che si ha quando due o più persone si uniscono nel comune e condiviso proposito di commettere un crimine internazionale9 . 9.2.2 La responsabilità dei comandanti La responsabilità penale del superiore gerarchico per fatti commessi dai subordinati sussiste, oltre che nel caso di ordine diretto alla commissione di un crimine di guerra, 6 7 8 9 Cassazione, I sezione penale n. 31171/08. Trials of the Major War Criminals Before the International Military Tribunal,Vol. I, p. 223. Charter of the International Military Tribunal (Nuremberg), annexed to the London Agreement of August 8, 1945. Kvocka et al., Appeal Judgement, par. 82; Ntakirutimana and Ntakirutimana, Appeal Judgement, par. 465. 9.2 Repressione penale delle infrazioni 81 anche in tutti i casi in cui il superiore sapeva o avrebbe dovuto sapere che il subordinato stava commettendo o era sul punto di commettere un crimine di guerra e non ha fatto quanto in suo potere per impedirne la commissione. La responsabilità può derivare anche da colpa (negligence), ma deve essere una negligenza talmente grave da rasentare il dolo eventuale, che sussiste quando il superiore non si è attivato per prevenire o arrestare un corso di eventi, pur nella consapevolezza che il crimine si sarebbe prodotto, in quanto normale conseguenza di quel corso di eventi. Secondo lo Statuto della Corte penale internazionale, la responsabilità di comando riguarda anche i superiori civili, ma è meno stringente, in quanto non richiede l’attenzione continua all’operato dei subordinati, e dunque il dovere di tenersi costantemente aggiornato e informato, che è richiesta al comandante militare. Il comandante militare risponde secondo lo standard «knew or, owing to the circumstances at the time, should have known», il civile secondo lo standard «knew, or consciously disregarded information»10 . 9.2.3 Esercizio della giurisdizione penale Nella sanzione delle condotte criminali commesse durante i conflitti armati gli Stati hanno da sempre punito i responsabili secondo il principio di nazionalità passiva, in base al quale lo Stato esercita la giurisdizione sui crimini commessi ai danni di propri cittadini11 , mentre l’esercizio della giurisdizione sulla base della nazionalità attiva, ossia da parte dello Stato di cui l’autore è cittadino è stato meno frequente, soprattutto in relazione al fatto che i crimini di guerra sono espressione di criminalità sistemica12 , commessa su vasta scala e spesso per ordine dei vertici dello Stato o di suoi apparati, primariamente per conseguire gli scopi stessi della guerra, per cui fin dall’origine del diritto internazionale penale (dal processo di Norimberga) detti crimini internazionali (crimini di guerra e contro l’umanità, genocidio) sono oggetto di giudizio di fronte a tribunali internazionali13 , nonostante il fatto che la repressione dei crimini internazionali sia considerato un dovere di tutti gli Stati14 . Sono nello specifico crimini di guerra le infrazioni gravi alle Convenzioni di Ginevra (e del I Protocollo, v. art. 85) e le altre violazioni gravi delle leggi e degli usi di guerra, a cominciare dalla violazione dei divieti contenuti nell’art. 23 della Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aja del 1907. 9.2.4 Infrazioni gravi alle Convenzioni di Ginevra Le infrazioni gravi sono definite agli artt. 50, 51, 130 e 147 di ciascuna delle 4 Convenzioni di Ginevra, e all’art. 85 del I Protocollo, e sono crimini di guerra. In particolare, sono infrazioni gravi: 10 11 12 13 14 V. Statute of the International Criminal Court (ICC St.), art. 28. The Versailles Treaty, June 28, 1919, art. 229 B. V. A. Röling, The Significance of the Laws of War, in A. Cassese, Current Problems in International Law (1975), p. 137. A. Cassese, International Law in a Divided World (1986), p. 275. ICC Statute, preamble. 82 Reagire alle violazioni del diritto umanitario 1. l’omicidio intenzionale; 2. la tortura e i trattamenti inumani, compresi esperimenti biologici; 3. il fatto di cagionare intenzionalmente grandi sofferenze o di danneggiare gravemente l’integrità fisica o la salute delle persone protette; 4. la distruzione o appropriazione di beni non giustificate da necessità militari e compiute su vasta scala e ricorrendo a mezzi illeciti e arbitrari; 5. il fatto di costringere un prigioniero di guerra a prestar servizio nelle forze armate della Potenza nemica, o quello di privarlo del suo diritto di essere giudicato regolarmente e imparzialmente secondo le prescrizioni della III e IV Convenzione; 6. la deportazione o il trasferimento illegali; 7. la detenzione illegale; 8. la cattura di ostaggi; 9. gli esperimenti medici senza il consenso dell’interessato; 10. fare oggetto di attacco la popolazione civile o le persone civili; 11. lanciare un attacco indiscriminato che colpisca la popolazione civile o beni di carattere civile, o contro opere o installazioni che racchiudono forze pericolose, sapendo che l’attacco stesso causerà morti e feriti fra le persone civili o danni ai beni di carattere civile che risultino eccessivi; 12. attaccare località non difese e zone smilitarizzate; 13. attaccare una persona che si sa essere fuori combattimento; 14. usare perfidamente, in violazione dell’articolo 37, il segno distintivo della croce rossa, della mezzaluna rossa o del leone e sole rossi, o altri segni di protezione ; 15. il trasferimento da parte della Potenza occupante di una parte della propria popolazione civile nel territorio occupato, oppure la deportazione o il trasferimento all’interno o fuori del territorio occupato della totalità o di una parte della popolazione del territorio stesso in violazione dell’articolo 49 della IV Convenzione; 16. il ritardo ingiustificato nel rimpatrio dei prigionieri di guerra o dei civili; 17. la pratica dell’apartheid e le altre pratiche disumane e degradanti, fondate sulla discriminazione razziale; 18. dirigere un attacco contro monumenti storici, opere d’arte o luoghi di culto chiaramente riconosciuti, che costituiscono il patrimonio culturale o spirituale dei popoli, e ai quali sia stata concessa una protezione speciale, provocando ad essi, di conseguenza, distruzioni su grande scala, e quando i monumenti storici, le opere d’arte e i luoghi di culto in questione non siano situati in prossimità di obiettivi militari o siano usati per scopi militari; 19. privare una persona protetta del diritto di essere giudicata regolarmente e imparzialmente. Le infrazioni gravi previste dal I Protocollo sono tali soltanto per gli Stati che abbiano ratificato il Protocollo medesimo. Le ipotesi formulate dall’art. 85 non compaiono tra le violazioni delle leggi e degli usi di guerra di sicura matrice consuetudinaria risultanti dall’art. 3 dello Statuto del Tribunale per la ex-Jugoslavia. L’art. 3 riporta infatti solo le violazioni delle norme sulla condotta delle ostilità che risultano dal Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aja del 1907. Tuttavia è necessario tenere conto 9.2 Repressione penale delle infrazioni 83 del fatto che le norme che si assumono violate nelle fattispecie indicate all’art. 85 hanno sicuramente natura di diritto consuetudinario. L’art. 51(2), che vieta di attaccare la popolazione civile, ha rango di norma consuetudinaria. L’art. 51(4), che proibisce gli attacchi indiscriminati, ha parimenti rango di norma consuetudinaria. Il divieto di compiere atti diretti a seminare il terrore tra la popolazione civile (art. 51(2), seconda parte) è una specificazione del più generale divieto di attaccare i civili, e dunque rappresenta anch’esso una norma consuetudinaria. La responsabilità penale di diritto internazionale derivante da queste norme è stata ribadita in diverse occasioni dal Tribunale per la ex-Jugoslavia. Le infrazioni gravi sono commesse durante i conflitti internazionali ai danni delle persone protette dalle Convenzioni medesime. Sono persone protette le persone internate o detenute o altrimenti private della libertà personale per ragioni legate al conflitto, i feriti, i malati e i naufraghi, i prigionieri di guerra, il personale sanitario e religioso, i civili. Lo stato di persona protetta non necessariamente deriva da vincoli formali o prescrizioni di carattere giuridico, per cui, per esempio, lo stato di persona protetta secondo l’art. 4 della IV Convenzione, pur se letteralmente riservato a individui che siano in potere dello Stato occupante senza esserne cittadini, nei conflitti inter-etnici può essere concesso anche a chi, pur formalmente cittadino, appartiene a diversa etnia rispetto a coloro che esercitano su di lui l’autorità15 . Per la repressione delle infrazioni gravi le Convezioni stabiliscono un meccanismo obbligatorio di giurisdizione penale universale. Il sistema ha la sua parte sostanziale nell’ elenco di condotte proibite elencate in precedenza e quella procedurale nell’obbligo di processare penalmente o in alternativa estradare le persone responsabili di infrazioni gravi. Il meccanismo della giurisdizione universale impone agli Stati di esercitare l’azione penale al fine di perseguire e punire gli autori di infrazioni gravi che si trovino sul territorio sottoposto alla loro giurisdizione, indipendentemente dal luogo in cui il crimine è stato commesso e dalla nazionalità del reo o delle vittime, o in alternativa, a consegnarlo ad un altro Stato che intenda processarlo e che fornisca a tal fine prove sufficienti a sostenere l’accusa. Tale meccanismo ha avuto ad oggi scarse applicazioni, considerato anche il fatto che, come visto sopra, i crimini di guerra difficilmente vengono commessi senza la complicità o almeno la tolleranza delle strutture ufficiali dello Stato. Così ad esempio, per portare alla sbarra i criminali di guerra del conflitto che è seguito al disfacimento della Jugoslavia dopo la morte di Tito), dove si è giunti a livelli di violenza medievali16 , si è dovuti ricorrere all’istituzione di un tribunale ad hoc, cioè una corte internazionale con sede all’Aja, dotata di una giurisdizione specifica e limitata, cui è spettato di occuparsi di violazioni gravi del diritto internazionale umanitario commesse in un area precisata e durante uno specifico lasso di tempo, che inizia con il 1991 e si protrae oltre la fine delle ostilità in Bosnia e in Croazia17 , fino al conflitto per il Kosovo, provincia serba e dunque territorio della ex-Jugoslavia, del 1999. E’ stato anche necessario indicare la giurisdizione del Tribunale come prevalente rispetto alle giurisdizioni nazionali (cd. 15 16 17 Celebici, Appeal Judgement, par. 83. Galic, Trial Judgement, par. 2. Dayton Peace Agreement, November 1995. 84 Reagire alle violazioni del diritto umanitario primacy). La primazia della giurisdizione internazionale su quella interna fa sì che un procedimento iniziato in sede nazionale possa essere trasferito in sede internazionale per ordine del Tribunale. Il Tribunale internazionale penale per la ex-Jugoslavia è un tribunale internazionale e non un tribunale multinazionale, come sono stati i Tribunali di Norimberga e Tokio, che rappresentavano solo una parte della comunità internazionale. La sua competenza è determinata dallo Statuto, e si basa, nel caso concreto, su un duplice accertamento preliminare: che l’atto o omissione sia stato commesso durante un conflitto armato e che la condotta criminosa abbia un nesso con il conflitto, ciò che vale a distinguere il crimine di guerra dai reati ordinari. La sanzione delle infrazioni gravi è prevista all’art. 2 dello Statuto del Tribunale. Per l’applicazione dell’art. 2 è necessario che si verifichino le seguenti condizioni: 1. 2. 3. 4. 9.2.5 deve sussistere un conflitto armato; il conflitto armato deve essere internazionale; deve esserci un nesso tra il conflitto armato e il crimine; le persone o i beni cui si riferisce l’infrazione devono essere protetti ai sensi delle Convenzioni di Ginevra. Violazioni delle leggi e degli usi di guerra Le violazioni delle leggi e degli usi di guerra sono in primo luogo quelle indicate all’art. 23 del Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aja sulla guerra terrestre del 1907. Le ipotesi criminose sono riprodotte all’art. 3 dello Statuto del Tribunale per la ex-Jugoslavia, e dunque ne fondano la giurisdizione ratione materiae. L’art. 3 precisa che l’elenco non è esaustivo. Il che conferisce all’art. 3 ruolo di norma di chiusura (umbrella rule) rispetto alla giurisdizione del Tribunale in materia di crimini di guerra. Pertanto, rientrano nella previsione dell’art. 3 tutte le violazioni gravi (serious) del diritto umanitario che non sono infrazioni gravi alle Convenzioni di Ginevra, incluse le violazioni dell’art. 3 comune e quelle di doveri derivanti per le parti da accordi internazionali in materia di diritto umanitario. La giurisdizione del Tribunale sussiste in relazione a violazione delle leggi e degli usi di guerra se sono soddisfatte 4 condizioni, indicate dalla Camera d’appello nel caso Tadic18 : 1. deve trattarsi della violazione di una norma di diritto internazionale umanitario; 2. deve trattarsi di una norma consuetudinaria, o di una norma convenzionale applicabile al caso di specie (dunque obbligatoria per le parti in conflitto); 3. deve trattarsi di una violazione grave (che compromette la vita di essere umani protetti dalle Convenzioni internazionali o la loro integrità fisica, o che implica la distruzione ingiustificata di beni materiali); 4. deve trattarsi di violazione che implica la responsabilità penale di diritto internazionale in capo all’autore della condotta vietata. 18 Tadic, Jurisdiction, par. 94. 9.3 Crimini contro le forze delle Nazioni Unite 9.2.6 85 Violazioni durante i conflitti interni Secondo il Tribunale per la ex-Jugoslavia, States specified certain minimum mandatory rules applicable to internal armed conflicts in common Article 3 of the Geneva Conventions of 1949. The International Court of Justice has confirmed that these rules reflect elementary considerations of humanity applicable under customary international law to any armed conflict, whether it is of an internal or international character. (Nicaragua Case, at para. 218). Therefore, at least with respect to the minimum rules in common Article 3, the character of the conflict is irrelevant19 . Le violazioni dei divieti posti dall’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra del 1949 rientrano nella previsione dell’art. 3 dello Statuto del Tribunale per la ex-Jugoslavia e sono quindi violazioni delle leggi e degli usi di guerra per le quali valgono le condizioni di applicabilità stabilite nel caso Tadic appena citate. Lo stesso Tribunale ha poi affermato che Indeed, elementary considerations of humanity and common sense make it preposterous that the use by States of weapons prohibited in armed conflicts between themselves be allowed when States try to put down rebellion by their own nationals on their own territory. What is inhumane, and consequently proscribed, in international wars, cannot but be inhumane and inadmissible in civil strife20 . Il diritto internazionale consuetudinario impone una responsabilità penale per le violazioni gravi dell’art. 3 comune, così come integrato da altri principi generali e norme sulla protezione delle vittime dei conflitti armati interni e per la violazione di norme specifiche che riguardino la condotta delle ostilità durante le guerre civili (v. supra, sez. 3.14). 9.3 Crimini contro le forze delle Nazioni Unite La protezione delle Nazioni Unite in missioni di pace è materia dello Statuto della Corte Penale Internazionale (art. 8), che inserisce le aggressioni ai danni di personale impiegato in missioni di peace - keeping o di aiuto umanitario nelle serious violations delle leggi o delle consuetudini applicabili nei conflitti armati internazionali. La norma specifica l’ambito operativo della protezione, la quale è esclusa nelle ipotesi in cui vengono condotte operazioni di peace - enforcement, in quanto precisa che la Convenzione si applica ai membri della missione delle Nazioni Unite as long as they are entitled to the protection given to civilians or civilian objects under the international law of armed conflict. Le forze delle Nazioni Unite, che hanno uno status di particolare protezione, riservata dal diritto dei conflitti armati ai civili, non hanno lo stesso status in situazioni diverse da quelle menzionate. Se accettiamo una visione ristretta della nozione di peace - keeping, la conclusione logica è che nelle operazioni di peace - enforcement lo status, non 19 20 Tadic, Jurisdiction, par. 102. Ibid., par. 119. 86 Reagire alle violazioni del diritto umanitario potendo essere quello di civili, deve essere giocoforza quello di combattenti anche in riferimento a chi opera sotto diretto controllo delle Nazioni Unite. La norma dell’art. 8 dello Statuto della CPI deriva dalla Convenzione sulla sicurezza delle Nazioni Unite e del personale associato del 1994. La Convenzione è limitata nell’applicazione alle operazioni delle Nazioni Unite che non siano enforcement action under Chapter VII (nel qual caso si applica il diritto dei conflitti armati) e prevede segnatamente che il personale delle Nazioni Unite non possa essere detenuto o catturato nell’espletamento dei compiti connessi al mandato internazionale, e deve comunque essere rilasciato immediatamente dopo essere stato identificato come tale (art. 8). La rubrica dell’art. 9 parla esplicitamente di Crimes against United Nations and associated personnel. Il successivo art. 10 impone agli Stati parti di istituire un meccanismo di repressione delle infrazioni commesse ai danni del personale delle Nazioni Unite nel caso in cui la violazione venga commessa sul territorio di tale Stato, ovvero a bordo di una nave o di un aeromobile immatricolati in tale Stato, oppure nel caso in cui il presunto autore dell’infrazione abbia la nazionalità di tale Stato. Le norme appena esaminate, in quanto contenute in trattati internazionali, valgono soltanto per gli Stati che ne siano parte. Parte III La protezione dei diritti umani durante i conflitti armati 10 Tutela dei diritti umani nei conflitti armati 10.1 I diritti umani e il diritto internazionale umanitario I diritti dell’uomo, come noto, scaturiscono dal processo di implementazione della Dichiarazione universale del 19481 . In riferimento alle situazioni di conflitto armato si può ritenere che costituiscano un terzo corpus normativo che viene ad aggiungersi al diritto dell’Aja e al diritto di Ginevra. La relazione tra diritto internazionale umanitario e diritto internazionale dei diritti umani si fonda sul principio di specialità, per cui il primo si applica in via prioritaria mentre al secondo, durante un conflitto armato, spetta una funzione integrativa o suppletiva. La Commissione interamericana dei diritti dell’uomo, trattando il caso noto come La Tablada2 , ha affermato che la Convenzione americana, come gli altri strumenti internazionali e regionali di tutela dei diritti dell’uomo, e le Convenzioni di Ginevra del 1949, condividono un comune nucleo di diritti inderogabili e che è nel caso dei conflitti armati interni che i due corpi normativi convergono, supportandosi l’un l’altro. Rispetto al diritto internazionale dei diritti umani, il diritto umanitario fornisce una tutela dei diritti più ampia, in quanto obbliga al rispetto di diritti umani fondamentali alcuni soggetti diversi dagli Stati e tendenzialmente irresponsabili, come i gruppi armati irregolari e i movimenti di liberazione nazionale. In linea di principio, il diritto internazionale dei diritti umani si occupa dei rapporti tra lo Stato e l’individuo, ed è fondato sul principio generale secondo il quale le sorti degli individui che si trovano sul territorio di uno Stato o che sono sottoposti alla sua giurisdizione non sono da considerare affari interni ai sensi dell’art.2 (7) della Carta delle Nazioni Unite, anche se vi è la tendenza ad escludere dal dominio riservato le situazioni di massiccia violazione dei diritti umani. Il diritto internazionale umanitario tutela l’individuo dalla violenza bellica, da qualunque soggetto essa provenga, e si distingue per la generale applicabilità extraterritoriale delle norme protettive, mentre, come di vedrà in seguito, l’applicabilità extraterritoriale delle norme poste a tutela dei diritti umani rappresenta un’eccezione. Il luogo di elezione della tutela dei diritti umani rimane infatti il territorio dello Stato. L’applicabilità degli strumenti di protezione dei diritti umani anche durante i conflitti armati (soprattutto durante i conflitti interni) è però di importanza fondamentale per due motivi: a livello sostanziale, il diritto dei diritti umani, andando oltre le previsioni del diritto internazionale umanitario, contribuisce a colmare le lacune. A livello pro1 2 Universal Declaration on Human Rights, December 10, 1948. Juan Carlos Abella v. Argentina, Reports, 55/97, n. 11137. 90 Tutela dei diritti umani nei conflitti armati cedurale, gli strumenti di tutela dei diritti umani contengono sofisticati meccanismi di enforcement, dotati di minor rigore ma certamente più efficaci sotto il profilo pratico di quelli propri del diritto internazionale umanitario, caratterizzati dal consenso preventivo e da un approccio essenzialmente State-oriented. I giudizi di fronte alle corti per i diritti umani assicurano alla vittima visibilità e, in alcuni casi, veri e propri diritti ad ottenere giustizia, incluso il risarcimento dei danni. Come visto in precedenza, le quattro Convenzioni di Ginevra dispongono affinché gli Stati introducano nei loro ordinamenti sanzioni penali per la prevenzione e la repressione delle gravi violazioni dei diritti fondamentali della persona (l’omicidio intenzionale, la tortura o i trattamenti inumani, compresi gli esperimenti biologici, il fatto di cagionare intenzionalmente grandi sofferenze o di attentare gravemente all’integrità fisica o alla salute, la distruzione e l’appropriazione di beni non giustificate da necessità militari e compiute in grande proporzione ricorrendo a mezzi illeciti e arbitrari; v. supra, sez. 10.2) e procedano contro i responsabili secondo il principio aut judicare aut dedere, vale a dire in base al principio della giurisdizione universale. La sovrapposizione tra diritti umani e diritto umanitario garantisce dunque un elevato standard di tutela dei diritti della persona. Sull’effetto combinato dei due sistemi di norme, la Commissione inter-americana ha sostenuto che [t]he American Convention contains no rules that either define or distinguish civilians from combatants and other military targets, much less, specify when a civilian can be lawfully attacked or when civilian casualties are a lawful consequence of military operations. Therefore, the Commission must necessarily look to and apply definitional standards and relevant rules of humanitarian law as sources of authoritative guidance in its resolution of this and other kinds of claims alleging violations of the American Convention in combat situations3 . Il rispetto dei diritti umani durante i conflitti armati è stato affermato con decisione dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nella risoluzione XXIII adottata nel corso della Conferenza di Teheran del 12 maggio 1968, la quale, rifacendosi alle Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907, ha riproposto l’attualità della Clausola Martens. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha poi dichiarato nella risoluzione 2675 (1970) che i diritti umani fondamentali riconosciuti dal diritto internazionale e accolti in strumenti internazionali continuano ad applicarsi integralmente durante le situazioni di conflitto armato4 . La Corte internazionale di giustizia ha sostenuto dal canto suo l’applicazione complementare del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, sulla base di una relazione lex generalis (diritti umani) - lex specialis (diritto umanitario), sia nelle sue advisory opinions5 , sia nelle decisioni rese a seguito di controversie internazionali6 . L’affermazione reiterata della Corte è che la protezione garantita dagli strumenti internazionali di tutela dei diritti umani - in particolare del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 -, non cessa durante i conflitti armati ma che, in ragione del principio di specialità, in quelle situazioni le norme sui diritti umani as3 4 5 6 Ibidem, par. 161. G.A. Res. 2675, U.N. GAOR., 25th Sess., Supp. No. 28 U.N. Doc. A/8028 (1970). Legality of the Threat or Use of Nuclear Weapons, I. C. J. Rep., 1996, par. 25; Wall in Palestine, I. C. J. Rep., 2004, par. 106. D. R. C. v. Uganda, I. C. J. Rep., 2005, par. 215-216. 10.1 I diritti umani e il diritto internazionale umanitario 91 sumono un ruolo secondario e integrativo mentre la regolamentazione prevalente sarà il diritto internazionale umanitario. In caso di lacune, la soluzione andrà trovata impiegando il diritto internazionale dei diritti umani come fonte integrativa. Di diversa opinione sono invece alcuni governi, che ritengono i due sistemi di norme mutualmente esclusivi. Così il governo degli Stati Uniti, che ritiene i due complessi normativi non applicabili simultaneamente. In un recente manuale dell’esercito americano si legge che il diritto internazionale dei diritti umani è applicable to situations other than extraterritorial armed conflict7 , con ciò peraltro ammettendo che l’applicazione simultanea può riferirsi ad ipotesi di conflitto interno cui gli Stati Uniti partecipino, come sta avvenendo in Afghanistan, ovvero a contesti operativi non caratterizzati come conflitto armato, come sta avvenendo in Pakistan, all’interno del quale le forze americane compiono operazioni di targeted killing. Su questo punto, intervenendo sulla questione della liceità della costruzione di un muro nei Territori occupati, il governo israeliano ha affermato che humanitarian law is the protection granted in a conflict situation such as the one in the West Bank and Gaza Strip, whereas human rights treaties were intended for the protection of citizens from their own Government in times of peace8 . Secondo Meron9 , [t]he insistence by states that non-international armed conflicts are, except upon recognition of belligerency, governed by national rather than international law sarebbe confermata dal diverso tenore della Clausola Martens nel I e nel II Protocollo. Nel I, la clausola in esame esordisce infatti con «In cases not covered by this Protocol or by other international agreements», mentre nel II l’incipit prevede «In cases not covered by the law in force», e mentre nel I si fa espresso riferimento al diritto internazionale, nel secondo non si fa menzione di norme e principi di diritto internazionale se non in termini di diritti umani che offrono una protezione di livello base alle vittime dei conflitti armati, protezione che il II Protocollo integra. Significativo inoltre è che nel II non si parli di combattenti e civili (o popolazione) ma di human person. Per determinare che cosa costituisca privazione arbitraria della vita nel contesto di un conflitto armato, si dovranno porre in secondo piano le norme generali contenute negli strumenti di tutela dei diritti umani e si dovrà fare riferimento al diritto umanitario applicabile a quel conflitto armato. L’art. 15 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), al comma 2, consente una deroga eccezionale all’art. 2 (diritto alla vita) in caso di legittimi atti di guerra. Cosicché, anche nel diritto della Convenzione, la privazione della vita durante un conflitto armato sarà arbitraria, e quindi in violazione dell’art. 2, se provocata da una violazione del diritto internazionale umanitario, ma le uccisioni derivate da legittimi atti di guerra non potranno essere imputate allo Stato come violazioni degli obblighi derivanti dalla Convenzione europea. In una situazione comportante la violenza bellica varrà una speciale deroga all’art. 2, rappresentata dall’uso della forza conforme al diritto dei conflitti armati. L’art. 15 della Convenzione 7 8 9 U. S. Department of the Army, ATTP 3-37.31, Civilian Casualty Mitigation, July 2012, p. 1-3. Legal Consequences of the Construction of a Wall in the Occupied Palestinian Territory, I .C. J. Rep., 2004, par. 102. T. Meron, Human Rights and Humanitarian Norms as Customary Law (1989), p. 73–74 92 Tutela dei diritti umani nei conflitti armati stabilisce in un certo senso il primato del diritto internazionale sul diritto interno, di tal che condizioni di liceità degli atti bellici possono essere solo quelle che risultano dalla conformità dell’atto stesso al diritto internazionale. Questo aspetto non può non incidere sulle regole di ingaggio. Lo Stato dovrà fornire ai propri agenti specifiche autorizzazioni ad usare la forza (in situazioni diverse dalla legittima difesa) rispettose del diritto dei conflitti armati, in particolare assicurando la massima protezione ai civili che non partecipano direttamente alle ostilità. 10.2 Operazioni militari e giurisdizione extraterritoriale La maggior parte degli studiosi è dell’opinione che le norme a tutela dei diritti umani si applicano nella loro interezza anche durante i conflitti armati. Come visto sopra, questa posizione è condivisa dalle corti per i diritti umani e trova eco anche nel dibattito politico. La Corte Suprema di Israele ha sostenuto, parafrasando un analoga opinione della Corte internazionale di giustizia, che Humanitarian law is the lex specialis which applies in the case of an armed conflict. When there is a gap (lacuna) in that law, it can be supplemented by human rights law10 . La violazione delle norme sui diritti dell’uomo, compiuta nel territorio dell’avversario, solleva la questione dell’operatività degli strumenti di garanzia in materia di diritti umani, in relazione all’estensione del concetto di giurisdizione risultante dagli artt. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’art. 2 del Protocollo facoltativo al Patto sui diritti civili e politici del 1966. In linea di principio, la Convenzione europea trova applicazione nel territorio di uno Stato membro, e non anche nel territorio di uno Stato terzo. La giurisprudenza della Corte e della Commissione ha però interpretato in senso lato la nozione di giurisdizione, fino a comprendervi azioni compiute in territorio altrui da organi dello Stato parte. Il principio trova applicazione anche alle attività delle forze armate, che esercitano il controllo su di una zona situata oltre i confini statali. Il 12 dic. 2001 la Corte europea per i diritti dell’uomo, con decisione della Grande Camera, ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dai parenti delle vittime del bombardamento della stazione radiotelevisiva serba a Belgrado, avvenuto il 23 aprile 1999, durante la guerra per il Kosovo11 . Nella sua decisione, la Corte di Strasburgo ha escluso che le vittime si trovassero nella giurisdizione degli Stati convenuti, rigettando l’idea che accanto ad una giurisdizione territoriale ve ne sia una personale, riaffermando così il carattere essenzialmente territoriale della giurisdizione, e definendo la Convenzione europea uno strumento destinato ad operare nell’espace juridique europeo. Nella decisione sul caso Issa and others v. Turkey12 , del 16 nov. 2004, riguardante l’uccisione di civili da parte di forze turche impegnate in azioni contro-terrorismo nel nord dell’Iraq (dunque oltre i confini sia della Turchia che dell’espace juridique europeo), la Corte ha evitato di analizzare il merito della questione, perché non è stato provato al di là di ogni 10 11 12 H.C.J. 769/02, par. 18. Bankovic and others v. Belgium and Other 16 Contracting Parties, Appl. No. 52207/99. Issa and others v. Turkey, Appl. No. 31821/96 10.2 Operazioni militari e giurisdizione extraterritoriale 93 ragionevole dubbio che i civili si trovassero nella giurisdizione della Turchia. Tuttavia, a differenza che nel caso Bankovic, qui la Corte ha ammesso non potersi escludere che un territorio al di fuori dello spazio giuridico europeo posto sotto controllo effettivo di uno Stato parte possa essere considerato nella sua giurisdizione ai sensi dell’art. 1 della Convenzione. Un test circa l’applicazione contestuale dei due complessi di norme ad una situazione di conflitto armato internazionale si è avuto dopo la chiusura delle major combat operation in Iraq e il passaggio al regime di occupatio bellica certificato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con la ris. n. 1483, e può essere ben inquadrato scorrendo il giudizio della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Al-Skeini13 . Il caso è noto. Riguardava in particolare l’esistenza della giurisdizione extraterritoriale del Regno Unito in relazione alla protezione dei diritti garantiti dalla Convenzione europea del 1950 nell’area di Bassora, in Iraq, di competenza, per quanto atteneva alla sicurezza, della brigata multinazionale sotto comando britannico. Un primo aspetto da segnalare è l’affermazione del governo inglese (par. 116) secondo cui durante l’attività di pattuglia the military action of United Kingdom soldiers in shooting the applicants’ relatives whilst carrying out military security operations in Iraq did not constitute an exercise of jurisdiction over them a meno di volere considerare una qualsiasi operazione, fosse essa un pattugliamento, una operazione offensiva di terra o un bombardamento aereo come esercizio della giurisdizione ai sensi dell’art. 1 della Convenzione. Nel giudizio sono intervenute come terze parti alcune organizzazioni non-governative per la tutela dei diritti umani (Bar Human Rights Committee, the European Human Rights Advocacy Centre, Human Rights Watch, Interights, the International Federation for Human Rights, the Law Society, and Liberty ), che hanno sostenuto (par. 129) che once a situation was qualified as an occupation within the meaning of international humanitarian law, there was a strong presumption of “jurisdiction” for the purposes of the application of human rights law (corsivo aggiunto). La Grande Camera ha concluso per l’esistenza della giurisdizione e del correlato dovere di garantire i diritti fondamentali derivanti dalla Convenzione del 1950, passando in rassegna gli episodi contestati. Le conclusioni della Grande Camera sono nettamente in favore dell’applicazione contestuale di diritto internazionale umanitario (lex specialis per la protezione dei civili nella specifica situazione di occupazione militare) e della Convenzione del 1950 (lex generalis sulla protezione dei diritti umani, per i membri del Consiglio d’Europa, da applicare in ogni circostanza, anche extraterritorialmente). Così nel caso in esame sussiste, secondo la legge speciale, l’art. 27 della IV Convenzione di Ginevra, un dovere dell’occupante di proteggere i civili da qualsiasi atto di violenza. Che cosa significhi nello specifico questa norma lo dice la Corte, che per esempio comprende nel dovere di protezione anche le situazioni in cui l’incidente non era da attribuire alle forze britanniche ma a gruppi armati e altri attori non statali: 13 Al-Skeini and Others v. the United Kingdom , Application no. 55721/07, 7 July 2011. 94 Tutela dei diritti umani nei conflitti armati The third applicant’s wife was killed during an exchange of fire between a patrol of British soldiers and unidentified gunmen and it is not known which side fired the fatal bullet. The Court considers that, since the death occurred in the course of a United Kingdom security operation, when British soldiers carried out a patrol in the vicinity of the applicant’s home and joined in the fatal exchange of fire, there was a jurisdictional link between the United Kingdom and this deceased also. Riferimenti bibliografici [1]G. H. Aldrich. The Taliban, Al Qaeda, and the Determination of Illegal Combatants. Am. J. 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Indice analitico accordi in forma semplificata, 7 accordi solenni, 7 acque neutrali, 39 aerei, 38 Afghanistan, 20, 71 aggressione, 4 Alleanza del Nord (Afghanistan), 20 alto mare, 14, 39 amnistia, 20 anticipatory self-defence, 5 apartheid, 82 armi indiscriminate, 37 armi vietate, 36 attacchi effetti cumulativi, 31 pluralità di, 30 attacco definizione, 31 deliberato, 32 indiscriminato, 26, 29, 30, 82 atti di guerra, 55 atto di stato, dottrina, 80 atto ostile, 66 autodeterminazione, 19 azioni ostili (operazioni navali), 39 bambini, 59 bandiera (della nave), 40 belligeranza, 19 beni culturali, 35, 82 beni liberi, 40 blocco navale, 14, 25 bombe a grappolo, 37 cappellani militari, 51 Caroline case, 5 cattura (della nave), 40 civili, 29 internati, 50 partecipazione alle ostilità, 55 cluster munitions, 37 comandante militare (responsabilità), 81 comandante militare (territorio occupato), 15 combattenti illegittimi, 50 irregolari, 46, 47 legittimi, 44 regolari, 45 Comitato internazionale della Croce Rossa, 78 comunicazione, diritti di, 16 conflitto armato inter-etnico, 50, 83 internazionalizzato, 20 interno, 22, 71 nozione, 18 contrabbando di guerra, 14, 40 contractors, 52 contras, 11 corrispondenti di guerra, 51 corsa agli armamenti, 37 CPA, Coalition Provisional Authority, 74 crimini di guerra, 77, 81, 83 crimini internazionali, 77 danno collaterale, 30, 32 denuncia (di trattati), 11 deportazione, 82 detenzione, 71, 82 amministrativa, 17 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, 89 diritti umani, 90 e diritto umanitario, 90 nei conflitti armati, 90 diritto dei conflitti armati, 4 diritto di visita, 14, 40 diritto internazionale consuetudinario, 6 dei conflitti armati, 3 umanitario, 3, 4, 6 diritto internazionale penale, 81 dirottamento (della nave), 40 disarmo, 37, 38 distinzione, principio di, 8, 26, 28, 29, 41, 42, 46 drones, 39 Enduring Freedom, 20, 48 erga omnes, obblighi, 13 fonti del diritto internazionale, 6 consuetudine, 6 fonti primarie, 6 fonti sussidiarie, 6 principi riconosciuti dalle Nazioni civili, 8 trattati, 6 forze armate, 45 forze speciali, 40, 50 nazionalità passiva, 81 necessità militare, 26, 32 necessità militare imperativa, 35, 40 neutrali, 14 neutralità, 14 giurisdizione penale, 80 giurisdizione universale, 49, 77, 83, 90 giustizia penale internazionale, 77 guerra asimmetrica, 40, 47 guerra di corsa, 73 guerra di liberazione nazionale, 12, 46 guerra totale, 30 guerriglia, 11, 46, 50 obiettivi civili, 29 militari, 29 obligatio erga omnes, 7 occupazione militare, 18, 23, 41 definizione, 24 operazioni aeree, 38 operazioni navali, 39 operazioni speciali, 41 ostaggi, 31, 32, 82 ostilità partecipazione diretta, 55 partecipazione indiretta, 56 hors de combat, 43, 44 illecito internazionale (dello Stato), 77 immunità funzionale, 80 infrazioni gravi, 77, 83 nozione, 81 repressione delle, 83 insorgenza, 19 insorti, 19 intento ostile, 66 intercettazione, 40 internamento, 16, 17 invasione, 16 ISAF, 20 ISAF (Afghanistan), 66, 69, 71 joint criminal enterprise, 80 Juan Carlos Abella v. Argentina, 89 jus ad bellum, 4 jus cogens, 5, 7 effetti, 7, 8 nozione, 7 jus in bello, 4 Kosovo, 79 La Tablada, 89 legittima difesa, 5, 71, 75 levée en masse, 19 liste di contrabbando, 40 località non difese, 82 luoghi di culto, 35 luoghi sanitari, 51 Martens, clausola, 7, 8, 10, 37, 90, 91 meccanismo umanitario, 15 mercenari, 48 mine, 36 monumenti, 35 munizioni a grappolo, 38 nave ausiliaria, 40 da guerra, 40 mercantile, 40 ospedale, 40 nazionalità attiva, 81 paramilitari, 46 passaggio in transito, 40 passaggio inoffensivo, 40 peace-keeping, 70 perfidia, 33, 46, 47, 63, 82 perquisizione, 40 personale sanitario, 51 personality strike, 65 persone protette, 14, 83 pirateria, 70 polizia, 46 polizia marittima, 40 Potenza protettrice, 16 potenza protettrice, 78 pre-emption, 5 precauzione, principio di, 33, 38, 42 prigionieri di guerra, 49 internamento, 17 privateering, 73 proporzionalità (nell’occupazione militare), 16 proporzionalità, principio di, 26, 29, 30 proprietà culturale, 35 rappresaglia, 32, 34, 49, 55, 78 bellica, 78 reciprocità, 13 regole di ingaggio, 66, 70, 92 responsabilità internazionale dello Stato, 77 responsabilità penale del superiore gerarchico, 80 dell’individuo, 80 riconoscimento di belligeranza, 22 risarcimento del danno, 78 Rules of Air Warfare, 38 sabotaggio, 48 scudi umani, 31, 32 si omnes, clausola, 13 signature strike, 65 soccorso difensivo, 66 specialità, principio di, 89, 90 spia, spionaggio, 47 Stati neutrali, 14 stato di guerra, 4 stretti internazionali, 39 Taliban, 20 targeting, 38 territorio occupato, 41 terrorismo, 33 transnazionale, 73 tortura, 7, 82 trappole esplosive, 36 trasporti sanitari, 40 trattato internazionale, 7 Tribunale internazionale penale per la ex-Jugoslavia, 84 Tribunale militare internazionale (Norimberga), 84 tu quoque, 13 uccisioni mirate (v. anche targeted killings), 57 umanità, principio di, 7, 8, 26, 28, 31 uniforme, 47 unità sanitarie, 29 unità sanitarie civili, 29 violazioni delle leggi e degli usi di guerra, 82, 84 Webster, Daniel, 5, 64 zone smilitarizzate, 82 Tavola dei casi International Court of Justice Corfu Channel (Corfu Channel) [1949] I.C.J . 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