il diritto internazionale umanitario e la tutela delle vittime di tensioni

DIRITTO INTERNAZIONALE
IL DIRITTO INTERNAZIONALE UMANITARIO
E LA TUTELA DELLE VITTIME DI TENSIONI
E DI DISORDINI INTERNI
TEN.COL. MARIO TARANTINO
L’evoluzione del Diritto dei conflitti nel
XX secolo
Prima del 1945, il diritto di ricorrere alla
forza armata (ius ad bellum) veniva considerato come parte del diritto internazionale di pace (1), mentre il diritto relativo alla
disciplina delle ostilità tra belligeranti e
delle relazioni tra questi e terzi Stati (ius in
bello) faceva parte del diritto internazionale
bellico (2).
L’entrata in vigore della Carta delle
Nazioni Unite, che ha bandito la guerra
nelle relazioni internazionali (3), ha segnato
l’inizio di un processo volto a diminuire
l’importanza del diritto bellico nelle trattazioni dottrinali. Si è preferito, dunque, parlare di diritto dei conflitti armati come una
parte del diritto internazionale di pace che
regola i rapporti fra Stati interessati alle
ostilità, proprio per l’incertezza circa l’esistenza di un vero e proprio stato di guerra.
Di recente, il diritto dei conflitti armati è
qualificato come il diritto internazionale umanitario, comprendente sia il cosiddetto diritto
dell’Aja sia il cosiddetto diritto di Ginevra. Il
primo, relativo alla disciplina dell’uso della
violenza bellica tra belligeranti ed ai rapporti
(1)
(2)
(3)
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Il diritto internazionale di pace disciplina le relazioni fra Stati in assenza di un conflitto armato
Il diritto internazionale bellico disciplinava i rapporti fra due contendenti, mentre il diritto della neutralità disciplina i rapporti tra i
contendenti e gli Stati terzi
Prima dell’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite (24 ottobre 1945) la guerra era un mezzo ammesso dall’ordinamento
internazionale (possibilità di un illimitato ricorso allo ius ad bellum), che ne disciplinava le modalità di esecuzione (ius in bello). Non
era così necessario dimostrare l’esistenza di un titolo giuridico per ricorrere alla guerra. Essa poteva venire dichiarata a tutela di semplici interessi ed era considerata un mezzo per la soluzione delle controversie internazionali, in particolare di quelle politiche. Al contrario, per ricorrere a misure di coercizione diverse dalla guerra occorreva dimostrare l’esistenza di un titolo giuridico. Già l’Art. 1 delle
Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 faceva riferimento alla soluzione pacifica delle controversie. In particolare, il Patto della
Società delle Nazioni, concluso nel 1919 ed entrato in vigore nel 1920, intendeva limitare la libertà che avevano gli Stati di ricorrere
alla forza, imponendo loro il dovere di ricomporre pacificamente le controversie internazionali (le controversie dovevano essere sottoposte al giudizio della Corte permanente di giustizia internazionale o al Consiglio della Società delle Nazioni)
DIRITTO INTERNAZIONALE
tra belligeranti e neutrali (4). Il secondo, rela- Il Diritto dei conflitti armati
tivo alla protezione delle vittime dei conflitti
armati e della popolazione civile (5). Tale dicoIl diritto internazionale distingue tra i contomia è stata poi superata grazie ai Protocolli flitti armati internazionali ed i conflitti armati
del 1977, addizionali alle quattro Convenzioni interni, comprendendo distinte categorie di
di Ginevra del 1949. Tuttavia, ciò non vietava norme per ciascuno di essi. Il principale tratto
esplicitamente il ricorso alla guerra, né tanto caratteristico tra i due tipi di diritto consiste
meno ai procedimenti di autotutela diversi nel fatto che coloro che prendono parte ai condalla guerra.
flitti armati internazionali sono normalmente
Un’altra tappa fondamentale è rappresentata considerati legittimi combattenti e pertanto
dal Patto Kellog-Briand del 1928 (o Patto di non possono essere puniti per gli atti di belliParigi o di rinuncia alla guerra). Esso consta di geranza compiuti; in caso di cattura vengono,
due soli articoli, che sanciscono la rinuncia alla quindi, considerati come prigionieri di guerra.
guerra come strumento di politica internaziona- Invece, nell’altro caso i contendenti sono su
le e ne condanna il ricorso come strumento per piani diversi, nel senso che, in un conflitto
la soluzione delle controversie internazionali. interno, lo Stato è libero di assoggettare i ribelTuttavia, esso non si estese a tal punto da com- li alla propria potestà punitiva. In effetti, tali
prendere anche la disciplina dei casi particolari ribelli non possono essere considerati legittimi
che avrebbero potuto manifestarsi in futuro combattenti, ma una volta catturati devono
(non impediva, cioè, le measures short of war – essere trattati nel rispetto delle regole del diritmisure vicine alla guerra). In realtà, non aveva to umanitario.
definito i criteri e le procedure per poter stabiliAlla categoria dei conflitti internazionali
re quando una guerra si può definire di aggres- appartengono i conflitti fra Stati e, dopo il prosione, né aveva previsto le relative sanzioni da cesso di decolonizzazione, sono venute ad essecomminare nel caso in cui ciò si fosse verificato re comprese anche le guerre di liberazione
(6). Questo Patto, però, gettava le basi giuridiche nazionale, note anche come conflitti in cui un
dei processi di Norimberga e di Tokyo, condannando la guerra
come strumento di
politica internazionale.
L’Accordo di Londra
dell’8 agosto 1945, istitutivo del tribunale di
Norimberga,
definì
infatti (Art. 6a) la guerra
di aggressione un crimine internazionale, in
particolare un crimine
contro la pace. Ciò
segnava la fine di un
processo iniziato dopo la
Prima Guerra Mondiale
e nello stesso tempo
poneva le premesse per
ulteriori sviluppi.
Reparti italiani nell’Operazione ISAF (Centro Cinefoto SME)
(4)
(5)
(6)
Fonte: Convenzione dell’Aja del 1899 e 1907
Fonte: Convenzione del 1864 e poi in quelle di Ginevra del 1906, 1929 e 1949
Il Patto Kellog – Briand prevede solo una responsabilità collettiva e sanzioni, nella forma di rappresaglie belliche, nei confronti di una
guerra illegittima. In particolare, esso è un patto di rinuncia perpetua alla guerra, negoziato tra il segretario di Stato americano sotto
la presidenza Coolidge (1925 – 1929), F.B. Kellog e il ministro francese Briand. Il Patto, firmato a Parigi da quattordici Stati (agosto
1928), vide successivamente l’adesione di sessanta Nazioni fra cui l’Italia
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popolo, non ancora costituitosi in Stato indipendente, lotta contro il governo al potere per
realizzare il diritto all’autodeterminazione.
Alla categoria di conflitti interni appartengono quelli che si svolgono all’interno di uno Stato.
Mentre i conflitti armati interni sono disciplinati nell’Art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 (7) e nel II Protocollo addizionale del 1977 (8), i conflitti
armati internazionali, e segnatamente le guerre
di liberazione, sono qualificati come tali in
virtù del I Protocollo addizionale alle citate
quattro Convenzioni di Ginevra (9).
Prima del 1977, i conflitti per l’autodeter(7)
(8)
minazione erano disciplinati dal diritto relativo ai conflitti interni. Attualmente, la loro
qualificazione come conflitti interstatuali vale
solo per gli Stati che hanno ratificato il I Protocollo. In caso contrario, cioè se manca la ratifica, lo Stato interessato non è obbligato a considerare come legittimi combattenti coloro che
combattono per l’autodeterminazione. Ciò
perché non si può ammettere che l’Art. 1, para.
4 del I Protocollo sia diventato diritto consuetudinario. In particolare, anche il movimento
di liberazione è tenuto a notificare al depositario una dichiarazione di intenti, volta ad accettare ed applicare le Convenzioni e il
I Protocollo addizionale (10). Ovviamente, ci sono dei casi particolari
che rimangono privi di disciplina,
ovvero che sono regolati da altre
fonti del diritto internazionale. Per
esempio, è opportuno osservare che i
conflitti promossi da minoranze
etniche non sono qualificabili come
conflitti per l’autodeterminazione.
Infatti, le minoranze etniche non
sono titolari di tale diritto, sia perché
tale condizione non rientra nella fattispecie del citato Art. 1, para. 4 del
I Protocollo addizionale del 1977,
sia perché l’Art. 1 del Patto sui diritti civili e politici del 1966 riconosce
la titolarità del diritto in argomento
solo ai popoli (11).
Inoltre, tale diritto non è riconosciuto neppure nel caso di fenomeni
di mera secessione, ovvero nel caso di
due popoli che coesistono nell’ambito di uno Stato federale indipendente. In questo contesto, l’Art. 1, para.
4 del I Protocollo del 1977 è applicabile se si determina una situazione
tale per cui il popolo che chiede la
secessione sia soggetto, da parte del
governo al potere, a una dominazione colonia-
Vedi paragrafo seguente: “I conflitti armati non internazionali e l’Art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra”
Art. 1, para. 1 del II Protocollo del 1977: “….che sviluppa e completa l’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949
senza modificarne le condizioni attuali di applicazione, si applicherà a tutti i conflitti armati che non rientrano nell’articolo 1 del Protocollo
aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali (Protocollo I), e….”
(9) Art. 1, para. 4 del I Protocollo del 1977: “…i conflitti armati nei quali i popoli lottano contro la dominazione coloniale e l’occupazione straniera e contro i regimi razzisti, nell’esercizio del diritto dei popoli all’autodeterminazione, consacrato nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione relativa ai principi di diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli e la cooperazione fra gli
Stati in conformità alla Carta delle Nazioni Unite”
(10) Art. 96, para. 3 del I Protocollo addizionale
(11) Gli individui appartenenti alle minoranze sono tutelati dall’Art. 27 del citato Patto del 1966
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le e razzista o a una
occupazione straniera
(12).
È da osservare, infine,
come tra conflitti
internazionali e conflitti interni vi possono essere delle situazioni che potrebbero
indurre a confusione,
ma che, invece, vanno
distinte attentamente.
Per esempio, se un
terzo Stato interviene
in una guerra civile a
fianco dei ribelli, le
ostilità tra governo
legittimo e Stato
interveniente saranno G-222 della 46a Aerobrigata
disciplinate dal diritto
relativo ai conflitti internazionali, mentre quelli tra governo legittimo e ribelli saranno regolate dal diritto dei conflitti interni. Invece, nel
caso in cui il terzo Stato interviene a favore del
governo legittimo, le ostilità tra Stato interveniente e ribelli saranno disciplinate dal diritto
relativo ai conflitti interni.
I conflitti armati non internazionali e
l’Art. 3 comune alle quattro Convenzioni
di Ginevra
Come abbiamo già detto, la disciplina umanitaria dei conflitti armati non internazionali,
ovvero le guerre civili, ha trovato completa
disciplina con l’Art. 3 comune alle quattro
Convenzioni di Ginevra.
Precedentemente, la guerra civile era considerata una questione prettamente interna ad
uno Stato, il quale decideva del comportamento da adottare di volta in volta. L’Art. 3 citato
fissa le regole minime dello standard umanitario da rispettare sia per il governo legittimo che
per gli insorti. Tuttavia, vi sono dei fattori di
indeterminazione: affinchè l’Art. 3 trovi applicazione, deve sussistere un “conflitto armato”;
la soglia di tale conflitto non è definita, al contrario di quanto avviene nel II Protocollo addi-
zionale che, come abbiamo detto in nota, sviluppa e completa l’Art. 3 in argomento. Infatti, il II Protocollo non solo indica i requisiti
positivi della soglia del conflitto interno, ma
ne precisa anche quelli negativi, poiché dispone che esso non viene applicato nei casi di tensioni interne e di troubles interieurs, come i
moti, gli atti isolati e sporadici di violenza e
altri atti analoghi. Il II Protocollo trova, quindi, applicazione quando la guerra civile abbia
raggiunto un’intensità tale da poter essere
equiparata ad uno scontro tra due eserciti convenzionali. Vista questa indeterminatezza ed
allo scopo di evitare la internazionalizzazione
del conflitto, il governo legittimo non riconosce l’esistenza di un conflitto armato (sebbene
l’applicazione delle disposizioni contenute in
questo articolo non hanno effetto sullo statuto
giuridico delle Parti in conflitto – ultimo
comma). Ma questo non giustifica lo Stato in
argomento a compiere qualsiasi illiceità o
sopruso, rimanendo al tempo stesso impunito
di fronte alla comunità internazionale.
In effetti, l’Art. 3 garantisce un grado di
tutela dei diritti umani che è sicuramente inferiore a ciò che è garantito dagli strumenti
internazionali. Tuttavia, uno Stato che non
intenda attenersi alla disciplina di questo arti-
(12) Il termine occupazione è usato qui in senso atecnico, per indicare quei conflitti che insorgono tra un popolo autoctono del territorio
ed un governo che sia l’espressione di settlers, cioè di popolazioni che si sono stabilite nel territorio successivamente. Assimilabile a
questo è anche il caso in cui un territorio, non ancora costituitosi in Stato indipendente e quindi non appartenente tecnicamente ad
alcuno Stato, sia stato occupato parzialmente o totalmente con la forza da un altro Stato
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DIRITTO INTERNAZIONALE
Reparti italiani con unità cinofile - Operazione ISAF (Centro Cinefoto SME)
colo, è tenuto comunque a rispettare le disposizioni degli strumenti internazionali di protezione dei diritti umani. Queste, in caso di
emergenza, possono essere sospese, anche se
non si può comunque derogare da un nucleo
fondamentale di norme che sono generalmente condivise dalla comunità internazionale.
Per quanto riguarda il contenuto minimo
indispensabile del trattamento che l’Art. 3
impone sia attuato nei confronti delle persone, esso comprende: l’obbligo di trattare con
umanità, e senza discriminazioni fondate sulla
razza, il colore, la religione, il sesso, la nascita,
il censo, ecc., coloro che non partecipano
direttamente alle ostilità, incluse le persone
che abbiano deposto le armi o siano state
messe fuori combattimento.
Inoltre, è fatto obbligo di raccogliere e
curare i feriti e i malati, sono vietati gli atti
inumani e le mutilazioni, le torture e atti
simili.
La novità più eclatante dell’Art. 3, sia pure
solo sul piano teorico, è quella che esso conferisce agli insorti la capacità giuridica di concludere “accordi speciali” con il governo legittimo che rendano applicabili altre disposizioni
delle Convenzioni. È così evidente un contrasto tra questa forma di legittimazione prevista
dall’Art. 3 e l’impossibilità per gli insorti di
una formale adesione alle Convenzioni. Proprio per queste ragioni, infatti, la revisione del
Protocollo sulle mine, annesso alla Convenzione sulle armi inumane, ha suscitato il risentimento di alcuni Paesi del terzo mondo, che
non accettavano di buon grado il fatto che il
Protocollo in argomento fosse esteso ai conflitti armati non internazionali. È specificato,
infatti, che le parti del conflitto – governo
costituito e insorti – “sono obbligate ad applicare le proibizioni e restrizioni del Protocollo”.
Per agevolare l’applicazione dell’Art. 3 per
la messa in vigore, in tutto o in parte, delle
altre disposizioni contenute nelle Convenzioni, è previsto l’intervento di un terzo che, normalmente, è il CICR (Comitato Internazionale della Croce Rossa), ma può anche essere un
altro “ente umanitario imparziale”.
Altro aspetto importante, espresso nel citato articolo, è che i principi umanitari, da esso
tutelati, “umanizzano” i crimini che i ribelli
consumano nei confronti dello Stato. Infatti,
sebbene i primi non hanno il diritto al trattamento di prigionieri di guerra (13), il secondo
è tenuto a condannarli (anche alla pena capitale se necessario), ma subordinatamente a un
giudizio pronunciato da “un tribunale regolarmente costituito, che offra le garanzie giudiziarie riconosciute indispensabili dai popoli civili” (14).
Questi principi sono stati dichiarati come
appartenenti al diritto internazionale consuetudinario dalla Corte internazionale di giustizia in
sede di risoluzione della questione
Nicaragua/Stati Uniti (ICJ, Reports 1986, 114).
La natura consuetudinaria di queste norme è
stata altresì ribadita dal tribunale per la ex
Jugoslavia nelle sentenze enunciate per il caso
(13) La ribellione è un crimine nei confronti dello Stato e può essere perseguita. Ne segue che i ribelli non possono essere considerati come
legittimi belligeranti e non hanno il diritto al trattamento di prigionieri di guerra
(14) Art. 3, 1d, comune alle quattro Convenzioni di Ginevra
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DIRITTO INTERNAZIONALE
Tadic (15).
I diritti fondamentali della persona
umana e le vittime di tensioni
e di disordini interni
Lo scopo di questa analisi è quello di esaminare il rapporto tra le norme imperative
contenute nell’Art. 3 delle Convenzioni di
Ginevra del 1949, i requisiti negativi del II
Protocollo che portano ad escludere l’applicazione ai casi di tensioni interne che non
siano sufficientemente intense e la deroga
concessa agli Stati nell’applicazione dei
Diritti dell’uomo. In altre parole, trovare una
fonte giuridica capace di giustificare l’applicazione dell’assistenza e della protezione alle
vittime in situazioni di disordini e tensioni
interne, di sommosse o atti di violenza. Tali
circostanze si collocano al confine tra il diritto umanitario dei conflitti armati ed i Diritti dell’uomo.
Cosa succede agli individui vittime di tali
circostanze? La serie di articoli sui Diritti
fondamentali ed inalienabili della persona
umana, contenuti nelle Convenzioni sui
Diritti dell’uomo, non autorizza alcuna deroga alla sospensione della tutela della persona
umana: ciò significa che le vittime dei casi di
tensioni e disordini interni potrebbero ricadere sotto la tutela dei Diritti dell’uomo. Tuttavia, questi stessi diritti mancano di disposizioni particolari che regolino, per esempio,
la protezione e l’assistenza dei feriti e dei
malati, il divieto delle deportazioni, degli
arresti massicci o della presa di ostaggi, le
limitazioni all’uso della forza da parte dei
corpi della polizia e delle forze dell’ordine.
Non sono del tutto regolate nemmeno le
garanzie giudiziarie, che impediscano l’impiego di procedure sommarie ed arbitrarie,
lesive dell’integrità fisica e morale degli individui. Appare, quindi, necessario invocare
una norma generale di diritto umanitario,
come l’Art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra, pur se non ci si trova sempre alla presenza di un conflitto armato. È
quanto da decenni il Comitato Internazionale della Croce Rossa continua a fare.
D’altra parte, come abbiamo detto, il II
Protocollo Aggiuntivo del 1977 esclude
espressamente, al suo Art. 1, para. 2, le situazioni di tensioni e disordini interni, perché
non considerate conflitti armati ad alta
intensità. Dunque ci troviamo davanti a tre
ipotesi:
a) tensioni, sommosse, disordini non internazionali, durante i quali si fa uso di armi.
Quindi conflitti a bassa intensità, interamente disciplinati dall’Art. 3 e, in aggiunta, dai Diritti dell’uomo, ridotti al loro
nucleo essenziale;
b) tensioni, disordini, sommosse, in cui è
assente l’uso di armi e di qualsiasi organizzazione militare. Quindi una situazione di crisi che può essere regolata solo dai
Diritti dell’uomo;
c) particolari stati di disordini e di tensioni
con o senza armi, nei quali non sono sufficienti le garanzie fondamentali dei Diritti dell’uomo, ma necessitano servizi di protezione e assistenza particolari, offerti da
organismi umanitari imparziali, come
previsto dalle Convenzioni di Ginevra.
Tuttavia, nell’applicazione delle norme, è
difficile non scontrarsi con il dogma della
sovranità statale, infrangendone la sacralità, la
ragione di stato in nome della quale esso rivendica la propria autonomia negli affari interni.
Tra le varie ipotesi di soluzione, avanzate
in questi ultimi anni, la più fattibile e realisticamente perseguibile sarebbe quella di una
risoluzione da adottare in seno all’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite: un esplicito
Memorandum di principi fondamentali e
inderogabili, da applicare appunto ai casi di
disordini interni, tensioni e violenze prolungate. L’Assemblea Generale, quale organo
dell’ONU, potrebbe raccogliere da parte
degli Stati forte consenso. Il Memorandum
indurrebbe forse gli Stati ad una condotta
politica umanitaria più coerente e rigorosa,
mentre la imparzialità di una risoluzione
assunta in seno alle Nazioni Unite sottrarrebbe l’azione di controllo del CICR alle
pressioni (e ai sospetti di influenza politica)
consentendogli maggiore libertà di movimento.
(15) Camera di appello, Sentenza del 2 ottobre 1995 e Trial Chamber, Sentenza del 7 maggio 1997
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