1 – Il delitto tentato: nozione e fondamento

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Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012
DIRITTO PENALE I
Lezioni del 18/1/2012 e del 15/2/2012: il tentativo
dott. Michele Toriello
§ 1 – Il delitto tentato: nozione e fondamento politico criminale
La fattispecie del delitto tentato è descritta dall’art. 56, primo comma, c. p., in forza del quale chi compie atti
idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o
l’evento non si verifica.
Sotto il profilo dell’elemento oggettivo, nel caso del tentativo si è in presenza di una condotta che guardando al modello legale delineato dal legislatore - non può considerarsi tipica, poiché è tipico solo il
fatto umano che sia perfettamente corrispondente nei suoi requisiti oggettivi (condotta, evento, nesso di
causalità) alla fattispecie descritta da una norma incriminatrice
Nel delitto tentato gli atti, pur se non equivoci ed idonei, non hanno integrato la condotta, nei reati di mera
condotta, o non hanno prodotto l’evento, nei reati di evento (può in proposito richiamarsi la tradizionale
distinzione tra tentativo incompiuto e tentativo compiuto: il primo ricorre nei reati di mera condotta, ove
questa non venga realizzata; il secondo attiene ai reati di evento e presuppone la mancata produzione di
quest’ultimo, nonostante il compimento dell’azione; tale distinzione, certamente rilevante in passato, poiché
il codice Zanardelli collegava le due ipotesi a trattamenti sanzionatori differenti, oggi ha perso d’interesse, a
fronte del regime sanzionatorio unitario che caratterizza il tentativo): non può dunque evidentemente
ritenersi consumato il delitto, laddove parliamo di consumazione proprio riferendoci alla compiuta
realizzazione di tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie criminosa.
Pur se l’agente non è riuscito a portare a compimento il delitto che aveva programmato di commettere, si è
comunque in presenza di atti idonei ad esteriorizzare la sua intenzione criminosa ed a porre in pericolo il
bene tutelato dall’ordinamento: per questo il delitto tentato deve essere sottoposto a sanzione (una sanzione
che sarà ragionevolmente più lieve di quella prevista per il delitto consumato).
L’esigenza politico-criminale della punibilità del tentativo, originariamente ravvisata nella repressione della
volontà colpevole, ribelle e antisociale dell’agente (cd. teoria soggettiva del positivismo criminologico,
secondo cui il tentativo manifestava la pericolosità criminale dell’individuo), nell’intenzione di reprimere
quegli atteggiamenti che, pur non avendo comportato alcuna lesione del bene giuridico tutelato dalla norma,
siano stati posti in essere per creare una situazione di potenziale pregiudizio per il bene tutelato, trova oggi
una risposta di carattere oggettivo, che deve ritenersi maggiormente aderente ai principi della Costituzione:
a prescindere dall’intenzione del soggetto agente, è la situazione di pericolo nei confronti del bene tutelato
dalla norma incriminatrice a giustificare la sanzione penale, e proprio nella prevenzione dell’esposizione a
pericolo degli interessi protetti sta il fondamento della punibilità del tentativo.
Detta concezione obiettiva, molto più coerente con il diritto penale del fatto, trova conferma non solo
nell’avere il legislatore posto a fondamento della punibilità del tentativo anche il requisito della idoneità
degli atti (con ciò pretendendosi dunque una concreta attitudine della condotta posta in essere dal soggetto
agente ad aggredire il bene tutelato), ma anche nel principio di necessaria lesività (ex art. 49, secondo
comma, c. p.), secondo cui non esiste reato ove il fatto corrispondente alla fattispecie penale non leda o metta
in pericolo beni giuridici. Da tale interpretazione emerge come, in realtà, il tentativo rappresenti un minus
rispetto al delitto consumato, perchè mentre quest’ultimo realizza una lesione effettiva dell’interesse
protetto, il tentativo ne integra una lesione solo potenziale, per questo sanzionata in modo meno grave.
Se dunque la condotta non diviene concretamente pericolosa per il bene tutelato, essa non potrà essere
punita: ed è solo il caso di notare che, seguendo la più risalente impostazione che dà rilievo al profilo
soggettivo, la semplice condotta volontaria diretta a nuocere sarebbe punibile, e, nelle teorie più radicali,
descriventi un diritto penale della volontà (detto anche dell’atteggiamento interiore), addirittura sarebbe
punibile allo stesso modo del reato consumato (ponendosi a fondamento della punibilità la volontà
colpevole, indipendentemente dalla circostanza che sia o meno stato posto in essere un fatto oggettivamente
idoneo a ledere l’interesse protetto dalla norma incriminatrice).
Nel chiudere questo discorso introduttivo, occorre brevemente ritornare su quanto si è detto in principio
circa l’assenza di tipicità della condotta: è bene precisare che tanto si è detto avendo come parametro di
riferimento il fatto descritto dalla norma incriminatrice; in sé considerato, invece, il delitto tentato è un
delitto perfetto al pari del delitto consumato: per poterlo ravvisare dobbiamo necessariamente rinvenire i
medesimi elementi necessari per la configurabilità del reato perfetto (tipicità, antigiuridicità e colpevolezza),
tenendo presente che la tipicità in questo caso non la si ricava dalla sola norma incriminatrice, poiché nasce
dalla combinazione tra la norma incriminatrice e il generale principio dell’art. 56 c. p., norma che,
disciplinando i requisiti del tentativo punibile, svolge una funzione estensiva della punibilità, consentendo
di sanzionare fatti non pervenuti alla soglia della consumazione.
Da un punto di vista normativo, dunque, anche il delitto tentato è, come si diceva, un delitto perfetto, e
costituisce un titolo autonomo di reato, pur conservando lo stesso nomen juris della figura delittuosa
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consumata cui di volta in volta si riferisce (ad esempio il tentato omicidio nasce dalla combinazione tra l’art.
575 e l’art. 56 c. p.; il tentato furto dalla combinazione tra l’art. 624 e l’art. 56 c. p., ecc.).
§ 2 – L’inizio dell’attività punibile.
L’aspetto più problematico in materia di tentativo è rappresentato dalla individuazione dell’inizio
dell’attività punibile: arretrando troppo la soglia della punibilità si rischierebbe di sanzionare
comportamenti innocui o meri propositi delittuosi non sfociati in una effettiva messa in pericolo del bene
protetto; avanzandola troppo, invece, potrebbero risultarne frustrate le esigenze preventive dell’istituto.
Il codice Zanardelli, che già contemplava la punibilità del tentativo, distingueva tra atti meramente
preparatori ed atti esecutivi del delitto: i primi non erano punibili in quanto rientravano nella sfera della
risoluzione criminosa interiore, mentre lo erano i secondi, attuativi dell’iter criminis allo stesso modo il codice
napoleonico richiedeva il commencement d’esecution).
Tale criterio, tuttavia, era piuttosto generico ed, a volte, risultava ardua e quasi arbitraria la classificazione
degli atti (ad es. nel reato di omicidio quando si sfocia dall’atto preparatorio all’atto esecutivo: quando
l’agente si apposta, quando impugna l’arma, quando prende la mira o quando mette il dito sul grilletto?).
Eminente dottrina escogitò dunque i criteri della univocità degli atti e della sfera giuridica del soggetto passivo. In
forza del primo, devono ritenersi preparatori quegli atti che, seppure idonei alla commissione del delitto, si
dimostrano equivoci rispetto ad esso; sono invece esecutive le azioni univocamente dirette alla commissione
del reato: solo queste possono rientrare nell’ambito di punibilità tracciato dal legislatore. I fautori di tale tesi
arrivarono in seguito a sostenere che gli atti preparatori devono rimanere esenti da sanzione poiché operano
nella sfera giuridica dell’agente, mentre gli atti esecutivi devono essere sanzionati in quanto invadono la
sfera soggettiva della vittima.
Altra dottrina elaborò il criterio dell’azione tipica: sono esecutive le sole azioni che danno inizio alla condotta
tipizzata dalla norma incriminatrice (cd. teoria formale oggettiva); sulla scorta delle critiche mosse a questa
impostazione (che porta a considerare esecutivi anche atti in realtà remoti: ad esempio in relazione al delitto
di omicidio dovremmo considerare atto esecutivo anche l’acquisto dell’arma ?), essa è stata poi rielaborata
fino a ricomprendere nell’esecutività tutte le condotte connesse, omogenee, coerenti con quelle attuative del
fatto previsto dalla norma penale (cd. teoria materiale oggettiva).
Con l’avvento del nuovo codice, la distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi è stata superata.
Il legislatore del 1930 ha infatti optato per collocare la soglia di punibilità del tentativo in corrispondenza del
compimento di atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, così prescindendo dalla
circostanza che l’agente abbia iniziato l’esecuzione della condotta tipica (è solo il caso di ricordare che il
codice Rocco è espressione di un regime autoritario, che di regola preferisce anticipare notevolmente l’inizio
della condotta punibile, così ampliando, anche per ragioni di controllo politico, l’area della illiceità: al
contrario un sistema democratico dovrebbe pretendere che la condotta, seppur non tipica, sia punita solo
ove si avvicini notevolmente alla lesione del bene tutelato).
Non ha dunque più rilievo la distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi, dovendosi valutare
esclusivamente i requisiti della idoneità e della univocità degli atti: con la conseguenza che anche atti
meramente preparatori – se idonei ed univoci - potrebbero rientrare nel fuoco della incriminazione.
Gli atti preparatori sono punibili a titolo di tentativo quando risultino, con giudizio "ex ante" e con
riferimento al contesto, idonei e diretti in modo non equivoco a commettere il delitto. (Fattispecie nella
quale è stato ritenuto il tentativo nella predisposizione di un agguato a fine di omicidio concepito con
l'appostamento all'uscita di un casello autostradale, dal quale sarebbero dovute transitare le vittime
designate). (Cassazione penale, sez. I, 15 gennaio 2010, n. 19511). Ai fini della punibilità del tentativo, possono assumere rilevanza anche gli atti meramente preparatori,
quando essi, per le concrete circostanze di luogo, di tempo o di mezzi, evidenzino che l'agente
commetterà il delitto progettato a meno del sopravvenire di eventi imprevedibili, indipendenti dalla
volontà dell'agente, e che l'azione abbia la rilevante probabilità di conseguire l'obiettivo programmato
(Cassazione penale, sez. II, 15 giugno 2010, n. 28213).
LE MOTIVAZIONI DI QUESTA SENTENZA, PER LA ESTREMA CHIAREZZA DEL PERCORSO
ARGOMENTATIVO, SONO ALLEGATE PER INTERO NELLA PARTE FINALE DELLA PRESENTE
RELAZIONE (ALLEGATO 1)
Anche un atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo punibile, quando sia idoneo e diretto
in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità, sulla base di una
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valutazione "ex ante" e in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a
tale risultato sia univocamente diretto. (Fattispecie in cui è stata negata l'idoneità ad integrare gli
estremi del tentativo punibile di truffa ai danni dello Stato della mera richiesta avanzata da funzionari
del Ministero del Lavoro in missione ad un albergatore di rilasciare loro ricevute fiscali indicanti costi
superiori a quelli sostenuti per l'alloggio e i pasti consumati). (Cassazione penale, sez. II, 5 novembre
2010, n. 41649).
Nel caso di specie la Corte di Appello di Genova, riformando la sentenza di primo grado, aveva assolto dal
delitto di tentata truffa aggravata ai danni del Ministero del lavoro gli imputati (ispettori del citato Ministero
che, trovandosi in missione, avevano insistentemente chiesto ai titolari dell'albergo ove avevano soggiornato
e del ristorante ove avevano consumato i pasti di emettere nei loro confronti ricevute fiscali superiori al
prezzo effettivo delle prestazioni erogate, ovvero ricevute per pasti non fruiti, non realizzando il proposito a
cagione del rifiuto loro opposto dai gestori degli esercizi commerciali, che - anzi - avevano denunciato
l’accaduto al Ministero: non poteva invero dirsi superata la soglia di punibilità di cui all'art. 56 c. p.,
dovendosi ravvisare un'ipotesi di istigazione non accolta a commettere un delitto (art. 115 c. p.).
La Suprema Corte così argomenta il rigetto del ricorso del Procuratore Generale:
La giurisprudenza di questa S.C. - che qui merita di essere ribadita - è da lungo tempo largamente prevalente ..
nello statuire che l’art. 56 c.p. ha abbandonato la vecchia distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi (questi
ultimi intesi come atti tipici corrispondenti, anche solo in minima parte, alla descrizione legale di una fattispecie
delittuosa a forma libera o vincolata), richiedendosi - invece - per l'esistenza d'un tentativo punibile l'idoneità e
l'univocità degli atti posti in essere dal soggetto agente…
Nel caso di specie, premesso che nemmeno l'impugnata sentenza, nega l'univocità degli atti, ma soltanto la loro
idoneità, deve rilevarsi che la mera richiesta del rilascio di ricevute mendaci non era ancora idonea, neppure con
valutazione ex ante, a produrre l'evento (vale a dire l'induzione in errore dell'amministrazione circa l'ammontare
delle spese di missione, con conseguente danno erariale ed ingiusto profitto per i soggetti attivi), id est non era
idonea ad innescare quella serie causale che, in ipotesi, avrebbe potuto portare l'amministrazione ad esaminare le
spese di missione dei prevenuti e a considerarle come veritiere, conseguentemente disponendone il rimborso.
In altre parole, la condotta degli odierni prevenuti non era, neppure con giudizio ex ante, idonea a realizzare la
frode ai danni della P.A. fino a quando sul proposito delittuoso non si fosse ottenuto il consenso dei titolari degli
esercizi commerciali interpellati e non si fosse conseguita la formazione di ricevute ingannevoli: prima di allora si
era ancora in una fase di mera ideazione e verifica della altrui disponibilità a concorrere in un reato di truffa ai
danni dello Stato.
Nello specifico di tale delitto, i comportamenti fraudolenti devono essere astrattamente capaci di trarre in
inganno e oggettivamente adeguati all'attivazione del procedimento contabile in vista di un ingiusto vantaggio (cfr.,
ad es., Cass. Sez. 2 n. 20975 del 6.5.08, dep. 23.5.08), il che non è a fronte della pura e semplice istigazione (non
accolta) a commettere un reato, istigazione che, fatte salve specifiche eccezioni legislative (v., ad es., il caso
dell'istigazione alla corruzione), non è punibile, nemmeno a livello di more ipotesi delittuosa tentata (cfr., ad es.,
Cass. Sez. 1 n. 49975 del 1.12.09, dep. 30.12.09).
Si introduce così l'esame della questione anche sotto ulteriore visuale, che conferma la soluzione qui accolta.
L'art. 115 c.p. individua (insieme con l'art. 56 c.p.) il limite della rilevanza penale del tentativo; la norma si era resa
opportuna una volta abbandonata la distinzione fra atti preparatori ed atti esecutivi per delimitare la soglia di
punibilità. .. L'art. 115 c.p., affermando l'irrilevanza tanto del mero accordo quanto della pura e semplice
istigazione, statuisce che tali comportamenti, ove pure - in ipotesi - considerati in concreto idonei a commettere un
reato ed univocamente diretti a tal fine, del pari resterebbero non punibili in virtù - appunto - dell'espressa
previsione legislativa in tal senso. A maggior ragione, dunque, non è punibile l'istigazione non accolta ed infatti
l'art. 115 c.p., ult. comma ,consente in tal caso solo l'applicazione di una misura di sicurezza.
Va dato atto, tuttavia, dell’esistenza di una isolata ma autorevole voce difforme nella giurisprudenza di
legittimità degli ultimi anni:
In tema di tentativo, ai fini della configurabilità dell'ipotesi disciplinata dall'art. 56 c.p. è necessario il
passaggio della condotta dalla fase preparatoria a quella esecutiva. Gli atti diretti in modo non equivoco
a commettere un delitto possono, infatti, essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici,
corrispondenti, anche solo in minima parte - come inizio di esecuzione - alla descrizione legale di una
fattispecie delittuosa a forma libera o a forma vincolata. Se l'idoneità di un atto può denotarne al più la
potenzialità a conseguire una pluralità di risultati, soltanto dall'inizio di esecuzione di una fattispecie
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delittuosa può dedursi la direzione univoca dell'atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso
voluto dall'agente. Sono, pertanto, irrilevanti, a titolo di tentativo, gli atti preparatori, ossia le
manifestazioni esterne del proposito delittuoso che abbiano carattere strumentale rispetto alla
realizzazione, non ancora iniziata, di una figura delittuosa. Essi non sono puniti come tentativo per la
loro “lontananza” dal risultato lesivo e, dunque, per la loro bassa pericolosità rispetto al bene giuridico
(Cassazione penale, sez. I, 24 settembre 2008, n. 40058).
Nel caso di specie gli imputati erano stati condannati in primo ed in secondo grado per il delitto di tentato
omicidio, avendo posto in essere le seguenti condotte: furto di una autovettura che sarebbe servita a
raggiungere il luogo del delitto; effettuazione di un sopralluogo sotto l'abitazione della vittima designata e
nelle zone ad essa circostanti; esecuzione, il giorno successivo, di un nuovo sopralluogo in prossimità della
casa della vittima, questa volta portando a bordo dell’auto un fucile a pompa cal. 12 Winchester con relativo
munizionamento. L'intervento dei Carabinieri, che, nell'ambito delle indagini relative ad un rapina in banca,
erano stati delegati all'esecuzione delle operazioni di intercettazione ambientale sull'auto in uso ad uno degli
imputati, aveva impedito che l'azione potesse avere conseguenze ben più gravi.
Nell’annullare senza rinvio la sentenza di condanna, assolvendo gli imputati perché il fatto non sussiste, la
Suprema Corte ripropone dunque la distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi, assegnando rilevanza
solo ai secondi, e confinando i primi al di fuori dell’incriminazione, alla luce di una interpretazione dell’art.
56 c. p. coerente con quel diritto penale "del fatto", quale quello delineato dalla Costituzione:
… La struttura normativa del tentativo è contraddistinta da due elementi essenziali: la direzione non equivoca degli
atti e la loro idoneità. Pur in assenza di una riproduzione, nel codice penale vigente, della formula (inizio
dell'esecuzione), contenuta nell'art. 61 Codice Zanardelli, ai fini della configurabilità dell'ipotesi disciplinata
dall'art. 56 c.p. è, comunque, necessario il passaggio della condotta dalla fase preparatoria a quella esecutiva. Gli
atti diretti in modo non equivoco a commettere un delitto possono, infatti, essere esclusivamente gli atti esecutivi,
ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte - come inizio di esecuzione - alla descrizione legale di
una fattispecie delittuosa a forma libera o a forma vincolata. Se l'idoneità di un atto può denotarne al più la
potenzialità a conseguire una pluralità di risultati, soltanto dall'inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa
può dedursi la direzione univoca dell'atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall'agente. Sono,
pertanto, irrilevanti, a titolo di tentativo, gli atti preparatori, ossia le manifestazioni esterne del proposito
delittuoso che abbiano carattere strumentale rispetto alla realizzazione, non ancora iniziata, di una figura
delittuosa. Essi non sono puniti come tentativo per la loro "lontananza" dal risultato lesivo e, dunque, per la loro
bassa pericolosità rispetto al bene giuridico.
L'art. 115 c.p. conferma tale interpretazione per quanto attiene alle condizioni e ai limiti di rilevanza del tentativo
punibile. Dal medesimo art. 115 c.p., d'altra parte, si deduce anche la (possibile) rilevanza per l'ordinamento di atti
che ancora non sono esecutivi di una fattispecie criminosa, ma che, a partire dalla prima manifestazione esterna
del proposito delittuoso, predispongono i mezzi e creano le condizioni per il delitto. Si tratta, appunto, degli atti
preparatori, che vengono presi in considerazione dal citato art. 115 c.p., per l'applicazione di misure di sicurezza,
fatti salvi i casi in cui, in via di eccezione, la legge li preveda come figure autonome di reato …
La stessa nozione di univocità degli atti, contenuta nell'art. 56 c.p., depone a favore dell'impunità, a titolo di
tentativo, dei meri atti preparatori. La "direzione non equivoca" indica, infatti, non un parametro probatorio, bensì
un criterio di essenza e deve essere intesa come una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti
posti in essere devono di per sé rivelare l'intenzione dell'agente. L'univocità, intesa come criterio di "essenza", non
esclude che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, ma impone soltanto che, una volta acquisita tale prova,
sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettività per
il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e
l'id quod plerumque accidit, l'intenzione, il fine perseguito dall'agente …
L'ulteriore elemento strutturale - oggettivo del tentativo, richiesto dall'art. 56 c.p., è costituito dall'idoneità degli
atti, per tali dovendosi intendere quelli dotati di un'effettiva e concreta potenzialità lesiva per il bene giuridico
tutelato. L'interpretazione letterale e storico-sistematica dell'art. 56 c.p., contenente una significativa differenza
rispetto al codice Zanardelli, rende evidente che il concetto di idoneità deve essere riferito non al mezzo,
costituente lo strumento di cui l'agente si serve per commettere un reato, bensì all'atto .. volto alla commissione di
un delitto perfetto (sia esso di evento o di mera condotta).
L'idoneità deve essere intesa come capacità potenziale, ossia come rilevante attitudine degli atti, alla luce di una
valutazione prognostica effettuata non dal punto di vista del soggetto agente, bensì nella prospettiva del bene
protetto, a contribuire in modo rilevante alla commissione di un delitto …
4. La sentenza impugnata non appare conforme ai principi giuridici in precedenza illustrati.
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… Al fine di valutare la sussistenza, sotto un profilo oggettivo, del delitto di concorso nel tentato omicidio di D.G.,
occorre fare esclusivo riferimento alle attività di sopralluogo sotto l'abitazione di quest'ultimo, al furto
dell'autovettura Fiat Uno destinata ad essere utilizzata per la commissione dell'illecito, alla disponibilità dell'arma
con relative munizioni sequestrata a bordo del suddetto mezzo, al complesso dei movimenti realizzati dai ricorrenti
.. La sentenza .., dopo avere desunto aliunde la prova del presunto dolo omicidario, ha omesso di accertare se i
comportamenti effettivamente posti in essere, considerati di per sé nella loro oggettività, erano in grado di
rivelare la direzione verso il fine criminoso o dovevano, più correttamente, essere qualificati come meri atti
preparatori, non essendosi concretizzati in atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte - come inizio di
esecuzione - alla descrizione legale della fattispecie delittuosa contestata.
Infine, è da osservare che, poichè la prova del fine criminoso è necessaria a prescindere dal requisito dell'univocità
degli atti, la concezione soggettiva, incentrata sulla ricostruzione probatoria del presunto dolo omicidiario, con
parallela svalutazione del dato obiettivo - prospettata nella sentenza impugnata -, finisce per legittimare una non
consentita interpretatio abrogans dell'art. 56 c.p. e per sanzionare penalmente intenzioni criminose non ancora
estrinsecatesi in un'iniziale, effettiva aggressione di un bene giuridico.
A conclusioni opposte è giunta, in un caso sostanzialmente analogo, una più recente pronuncia della
Suprema Corte, relativa al caso di imputati condannati per il tentato omicidio di un consigliere comunale, al
quale erano stati tesi tre agguati nei pressi della sua abitazione, non andati a buon fine per essere la vittima
designata rientrata in casa prima del tempo previsto
L'idoneità degli atti, richiesta per la configurabilità del reato tentato, deve essere valutata con
giudizio "ex ante", tenendo conto delle circostanze in cui opera l'agente e delle modalità dell'azione, in
modo da determinarne la reale adeguatezza causale e l'attitudine a creare una situazione di pericolo
attuale e concreto di lesione del bene protetto. (Nella fattispecie, il tentativo di omicidio è stato
ravvisato in una situazione nella quale erano stati predisposti più appostamenti, con il fine di localizzare
il luogo dove si sarebbe dovuta recare la vittima designata, che tuttavia non era stata presente in
occasione degli agguati, forse perché avvertita dai carabinieri a seguito di intercettazioni telefoniche e
ambientali) (Cassazione penale, sez. I, 4 marzo 2010, n. 27918).
La Corte rileva in particolare che gli imputati nelle tre occasioni nelle quali .. hanno atteso la vittima designata ..
hanno compiuto ben più che semplici attività ricognitive propedeutiche ad un vero e proprio agguato omicidiario,
atteso che:
nel primo agguato, era stata registrata una conversazione ambientale fra il M. ed il S., svoltasi sull'auto in uso al
M., con la quale entrambi si erano portati innanzi alla casa della vittima designata; e nel corso di tale conversazione,
era emerso che il primo ha chiesto al secondo se fosse sicuro di riconoscere la vittima designata, ha riferito delle
abitudini di quest'ultima, ha indicato il garage nel quale la stessa normalmente custodiva l'auto ed il posto,
caratterizzato da piante e fioriere, in cui era possibile appostarsi per essere sicuri di colpire la vittima; era
pertanto da ritenere che essi già in quella occasione erano pronti a commettere l'omicidio.
Nel successivo 8 marzo, la vettura dell'odierno ricorrente era stata localizzata nei pressi di un'abitazione che la
vittima designata aveva in corso di ristrutturazione; e dal contesto delle registrazioni ambientali captate in tale
occasione, era evidente che il S. era in possesso di una pistola, si che, anche in detta occasione, la condotta tenuta
dal ricorrente era idonea a determinare l'evento omicidiario progettato.
Anche nel terzo episodio del 9 marzo erano state captate telefonate intercorse fra l'odierno ricorrente ed il
coimputato R.F. A. in cui i due si erano scambiate informazioni sull'ora in cui la vittima designata avrebbe dovuto
rincasare; subito dopo l'odierno ricorrente aveva telefonicamente avvisato il S. che, se voleva, avrebbe potuto
appostarsi per colpire la vittima designata al momento del suo rientro a casa.
Trattasi pertanto di atti preparatori idonei ad integrare gli estremi del tentativo punibile, essendo stati essi
idonei e diretti in modo non equivoco alla consumazione dell'omicidio di F.G., nei cui confronti erano stati
predisposti più appostamenti, con il fine di localizzare il luogo in cui la vittima si sarebbe dovuta recare; ed a nulla
rileva che nessuno degli agguati anzidetti sia stato portato a termine, per non essere stata la vittima presente nei
luoghi, probabilmente per essere stata la medesima allertata dai carabinieri, che avevano effettuato le
intercettazioni ambientali e telefoniche sopra descritte.
Quindi la sentenza impugnata, con motivazione ineccepibile nella presente sede, ha ritenuto la sussistenza della
idoneità degli atti non esaminando ex post le conseguenze del comportamento tenuto dal ricorrente, ma
analizzando invece il comportamento dal medesimo tenuto "in atto", e cioè come esso si era materialmente
estrinsecato nelle tre occasioni sopra descritte.
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Nello stesso senso la Suprema Corte si era già pronunciata nel settembre 2009, giudicando un gruppo di
persone che aveva predisposto molteplici agguati nell'imminenza del verosimile passaggio della vittima da
un determinato luogo; alcuni dei soggetti avevano il compito di localizzare la vittima, mentre altri, armati,
erano appostati in luoghi prossimi a quello nel quale la vittima sarebbe dovuta comparire; agguati non
portati a termine per fattori esterni quali l'intervento della forza pubblica ovvero il mancato passaggio della
stessa vittima in quanto avvertita del pericolo.
L'atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo punibile, quando sia idoneo e diretto in modo
non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità, sulla base di una valutazione
"ex ante" e in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato
sia univocamente diretto (Cassazione penale, sez. V, 24 settembre 2009, n. 43255).
In motivazione può leggersi che, superata la distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi, la giurisprudenza
di questa Corte è largamente e da tempo attestata sul principio che anche un atto preparatorio può integrare gli
estremi del tentativo, ove sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia quando
abbia la capacità valutabile ex ante, di raggiungere il risultato prefisso, in relazione alle circostanze del caso, e sia
inoltre univocamente diretto alla consumazione del reato … Di recente è stato riaffermato l'indirizzo minoritario,
secondo cui non sono punibili gli atti meramente preparatori, mentre gli atti diretti in modo non equivoco a
commettere un reato possono essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici,corrispondenti anche solo
in minima parte alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata (il riferimento è alla
sentenza 40058/2008 innanzi citata): tale criterio formale-oggettivo, basato sul principio del "commencement
d'execution" del codice napoleonico, mutuato pure dal codice Zanardelli, pur valorizzando l'univocità degli atti
(intesa come sintomatica della volontà criminosa dell'agente), restringe l'area di punibilità degli atti del conato,
escludendone quelli pre- tipici, pur dotati di idoneità e non equivocità. Non v'è dubbio che il criterio sancito
dall'art. 56 c.p. comporta il rischio di segno contrario, ossia quello di estendere oltre il dovuto il limite della
punibilità degli atti idonei e univoci, grazie ad una valutazione discrezionale del giudice. Ma va detto che al dato
letterale, espresso con la norma in questione, non è consentito sottrarsi, se non a costo di una interpretatio
abrogans e che il rischio paventato va scongiurato mediante un'esegesi costituzionalmente orientata, rispettosa
dei principi di causalità e di offensività.
Dunque sono punibili a titolo di tentativo anche gli atti pre-tipici che si trovano in rapporto di immediatezza
cronologica e di stretta anticipazione con la condotta di esecuzione. Il parametro di giudizio è ancorato al pericolo
attuale di realizzazione del delitto, da accertare in rapporto alle concrete condizioni in cui l'agente si è trovato ad
operare ed allo scopo avuto di mira.
Applicando il principio al caso di specie, caratterizzato dal fatto che per ben quattro volte avvistatori e killer
armati scesero in campo, dotati di tutto il necessario supporto logistico per eliminare la vittima designata, la
Corte conclude dunque nel senso che la ripetuta predisposizione dell'agguato, posta in atto ogni volta
nell'imminenza del verosimile passaggio della vittima da parte di soggetti che debbono localizzarla e di altri che
devono fare fuoco, integra il tentativo punibile del reato di omicidio, non potendosi dubitare nè della idoneità, nè
dell'univocità di tale condotta.
Nello stesso senso altra recente pronuncia di legittimità: in questo caso l'imputato munito di passamontagna
e fucile si era appostato nei pressi di un ufficio postale; la Corte d’appello, ribaltando il giudizio di primo
grado, lo aveva assolto perché “sebbene portasse con sé gli strumenti necessari per la consumazione di una
rapina, non aveva ancora iniziato alcuna condotta tipica, tale non potendo considerarsi l'aver guardato
dall'esterno dentro le finestre del locali” dell’ufficio.
Nell’annullare con rinvio la sentenza, la Suprema Corte ha statuito che
Integra il tentativo di rapina anche il mero possesso di armi, pur se di fatto non utilizzate, in quanto
l'univocità della condotta va apprezzata, senza tenere conto della distinzione tra atti preparatori ed
atti esecutivi, nelle sue caratteristiche oggettive, così da verificare se sia tale da rivelare le finalità
attraverso l'apprezzamento, secondo le regole di comune esperienza, della natura e dell'essenza degli
atti compiuti e del contesto in cui si inseriscono (Cassazione penale, sez. I, 30 settembre 2009, n.
40702).
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§ 3 – L’idoneità degli atti.
Il primo requisito per la configurabilità del tentativo è l’idoneità degli atti alla realizzazione del reato, che
possiamo genericamente definire come la capacità di portare ad un determinato risultato, risultato che, in
termini giuridici, coincide con il delitto consumato.
Differentemente dal codice dal 1889, in cui l’idoneità era riferita ai soli mezzi usati per compiere il delitto, il
codice Rocco ricollega il requisito dell’idoneità all’azione del reo: si tratta di una scelta certamente
condivisibile, poiché ove il giudizio di idoneità guardasse solo agli strumenti adoperati dall’agente si
arriverebbe a conclusioni bizzarre, poiché anche un mezzo astrattamente inidoneo può servire ad un’azione
idonea (ad esempio uno spillo è uno strumento astrattamente inidoneo a cagionare la morte di un uomo; ma
se con quello spillo pungo un emofiliaco, la mia azione deve essere considerata certamente idonea ad
uccidere), così come può accadere che l’uso di un mezzo astrattamente idoneo non sia sufficiente a rendere
idonea l’azione (ad esempio una pistola è strumento certamente idoneo in astratto a cagionare la morte di un
uomo; ma se uso la pistola al di fuori della sua portata, ad esempio sparando con una pistola calibro 6,35 ad
un soggetto che si trova a duecento metri di distanza da me, ho sicuramente dato vita ad una azione non
idonea a commettere il delitto).
I problemi sorgono quando si cerca di individuare l’esatta portata di questo elemento: specie in passato si
era soliti agganciare il concetto di idoneità a quello di efficienza causale, dicendo che l’atto deve considerarsi
idoneo ogni volta che sia capace di cagionare l’evento del reato avuto di mira (dunque: idoneità come
efficienza causale degli atti alla produzione dell’evento). Tale tesi è oramai superata, poiché in dottrina si è
evidenziato che essa presta il fianco a decisive critiche:
a) è applicabile solo ai reati di evento, e solo al tentativo compiuto (dove l’azione si compie, ma l’evento non
si verifica), ma non anche ai reati di mera condotta, né al tentativo incompiuto (nei quali l’azione non si
compie): in questi due casi manca uno dei due necessari elementi del nesso eziologico (l’evento, nei reati di
mera condotta; la condotta, nel tentativo incompiuto);
b) presuppone (dovendosi dare una risposta in termini di causalità) che si analizzi il tentativo punibile
sempre in un’ottica ex post rispetto alla condotta: ma, secondo una valutazione ex post, non vi potrebbe mai
essere tentativo punibile, proprio perché il mancato verificarsi dell’evento costituirebbe inconfutabile prova
della inidoneità di quegli atti a cagionarlo.
Per questo oggi si afferma unanimemente che il riferimento non deve essere all’evento, ma bensì alla
commissione del delitto: cioè, l’azione non deve essere idonea a cagionare l’evento, ma deve essere idonea a
commettere il delitto: il giudizio relativo alla idoneità è giudizio circa la potenziale capacità, l’attitudine, la
congruità delle azioni poste in essere a provocare l’offesa al bene giuridico protetto.
Si concorda nel ritenere che il parametro di accertamento dell’idoneità deve consistere - in base al cd. criterio
della prognosi postuma – in un giudizio ex ante ed in concreto; ed infatti, mentre il reato consumato è
sottoposto ad un giudizio ex post, ovvero a fatto oramai compiuto, per cui il fine dell’indagine è verificare
quale sia stato l’effetto del comportamento umano, nel delitto tentato, mancando il risultato sperato (azione
nei reati di mera condotta, evento nei reati ad evento naturalistico), l’indagine deve seguire un percorso
differente: l’interprete, dopo che i fatti sono avvenuti, deve riportarsi idealmente all’istante precedente il
compimento dell’azione (poiché ove la valutazione venisse effettuata ex post si dovrebbe sempre concludere
nel senso della inidoneità: ex post nessun atto sarebbe mai idoneo) e valutare la concreta idoneità dell’azione
medesima, guardando ad ogni singolo atto posto in essere, e tenendo conto di tutte le circostanze concrete
conosciute o conoscibili dall’agente avveduto al momento dell’azione (questo perché la capacità dell’atto a
cagionare l’evento non dipende solo dall’atto in sé, ma anche dal contesto di circostanze concrete entro le
quali il soggetto opera: si pensi all’esempio che abbiamo fatto in precedenza circa un’azione solo
astrattamente idonea - esplosione di un colpo di pistola in direzione della vittima -, ma concretamente
inidonea, perché la vittima era assolutamente fuori della portata dell’arma).
L'idoneità dell'azione .. va apprezzata in concreto, senza essere condizionata dagli effetti realmente
raggiunti, perché altrimenti l'azione, per non avere conseguito l'evento, sarebbe sempre inidonea .. Il
giudizio di idoneità consiste, quindi, in una prognosi formulata .. con riferimento alla situazione che si
presentava all'imputato al momento dell'azione, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso
particolare (Cassazione penale, sez. I, 7 luglio 2009, n. 31121).
Dunque, collocandosi idealmente nella stessa posizione dell’agente all’inizio dell’attività criminosa, ci si
deve chiedere (secondo le conoscenze dell’homo ejusdem condicionis et professionis, arricchite dalle eventuali
superiori conoscenze dell’agente concreto) se gli atti erano in grado, tenuto conto delle circostanze concrete
del caso, di causare o favorire la commissione del reato; all’esito del giudizio saranno ritenuti idonei tutti
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gli atti che si presentino adeguati alla realizzazione del delitto perfetto, perché potenzialmente capaci di
causarne o di favorirne la verificazione; tutti gli atti che, dunque, manifestino un potenziale offensivo, che
non si è concretizzato per ragioni indipendenti dalla volontà del colpevole.
In tema di tentativo, il giudizio di "idoneità" degli atti deve essere effettuato con valutazione "ex
ante" e in concreto, cioè tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto e, a tal fine, l'idoneità
deve ritenersi sussistente quando l'azione in sé considerata ha capacità causale, cioè è suscettibile di
produrre l'evento che poi non si verifica per le circostanze impreviste verificatesi (Cassazione penale,
sez. IV, 17 settembre 2010, n. 36820).
La necessità di considerare appieno tutte le caratteristiche del caso concreto ha ad esempio portato la
Suprema Corte a confermare l’assoluzione di un imputato – per la conclamata inidoneità degli atti da quello
posti in essere - in un caso in cui l’azione, apparentemente adeguata alla realizzazione del reato avuto di
mira (ingresso in banca impugnando un’arma giocattolo; intimazione al dipendente dell’istituto di
consegnargli i soldi detenuti in cassa), si era in concreto manifestata in tutta la sua inevitabile inconcludenza
(l’arma era visibilmente un giocattolo, presentando riparazioni fatte col nastro adesivo; l’imputato era
talmente impacciato che, di fronte all’irridente risposta negativa del cassiere, si allontanava dalla banca):
… L'idoneità dell'atto è, quindi, la sua capacità causale, cioè la suscettività di produrre l'evento che rende
consumato il delitto voluto, considerata nella sua potenzialità, e valutata con giudizio "ex ante", che tenga conto
delle circostanze in cui opera l'agente e delle modalità dell'azione, si da determinarne la reale ed effettiva
adeguatezza causale e l'attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene
protetto dalla norma incriminatrice, al momento in cui l'agente ha posto in essere la sua condotta .. Rileva il
Collegio che la sentenza impugnata, facendo corretta applicazione dei suddetti principi giurisprudenziali alla
fattispecie in esame, con motivazione incensurabile, siccome conforme ai canoni della logica e della non
contraddizione, ha ritenuto, nella condotta del C., il difetto di capacità potenziale a produrre l'evento.
Nessun dubbio che l'accedere in una banca, impugnando un'arma contro il cassiere e intimandogli di consegnare il
danaro .. sia atto idoneo a produrre l'evento antigiuridico previsto dalla norma e voluto dall'agente, e ciò a
prescindere dal fatto che l'arma impugnata sia o meno un'arma giocattolo.
Nella fattispecie, però, siffatta capacità potenziale è stata correttamente esclusa dal Tribunale, in quanto il
comportamento dell'imputato, definito "singolarmente impacciato" e maldestro dal cassiere della banca (che ha
immediatamente percepito l'arma impugnata, e riparata con nastro adesivo, come un giocattolo), lungi dall'incutere
timore era tale da suscitare unicamente ilarità. Che il piano d'azione predisposto dal reo, nel momento in cui è
stato intrapreso, non presentasse pertanto alcuna possibilità di successo, difettando del carattere di "serietà",
risulta poi evidente dal fatto che, al diniego irridente del cassiere, il C. non solo non ha avuto alcuna reazione
violenta o minacciosa, nè ha in alcun modo insistito nella richiesta, ma si è immediatamente allontanato dai locali
della banca (Cassazione penale, sez. II, 7 gennaio 2011, n. 17146).
Sono invece stati ritenuti idonei, e non meramente preparatori, gli atti posti in essere in occasione di un
mercato settimanale da due borseggiatori, che si erano avvicinati alle spalle della vittima indossando una
giacca che impediva di vedere i movimenti delle loro braccia: costoro iniziarono a spingere la vittima con
movimenti veloci ma anche leggeri delle braccia, contemporaneamente iniziavano a muovere freneticamente le due
braccia e mani poste tra loro con il chiaro intento di frugare nelle tasche posteriori della vittima che non faceva caso alle
spinte ricevute. La Corte, rigettando il ricorso avverso la sentenza di condanna, argomenta che
il codice penale vigente non pone distinzione alcuna tra atti preparatori ed atti esecutivi ai fini del tentativo
punibile, non essendovi menzione di questa tipologia in seno all'art. 56 c.p., appuntandosi, invece, la classificazione
della fattispecie, nella forma tentata, esclusivamente sulla dimostrazione che l'azione risulti idonea e diretta in
modo non equivoco alla consumazione di un delitto: in sostanza, essa deve rivestirsi di potenzialità causale rispetto
all'evento e rivelare oggettivamente, in modo non equivoco, l'intenzione di commettere un delitto.
Nel caso di specie, sottolineata l'accertata volontà delittuosa del prevenuto, si richiama la esauriente motivazione
della Corte territoriale sulla idoneità della condotta: la calca di folla che si assiepava nel mercato, la posizione ben
studiata a tergo della vittima, la particolare (e fraudolenta) confezione della giubba, indossata dai prevenuti, che
impediva di seguire i movimenti delle loro mani.
E', dunque, incontestabile che gli imputati non diedero vita soltanto ad una situazione statica, di attesa per
saggiare l'opportunità di agire proficuamente, ma avviarono un processo dinamico, incidente sulla sfera del
possesso della vittima, interrotto soltanto dal tempestivo intervento della forza pubblica che aveva percepito
dall'esterno la finalità di quell'altrimenti inspiegabile movimento coordinato tra i due soggetti. Essi, dunque,
oltrepassarono indubbiamente la soglia della preparazione delittuosa (Cassazione penale, sez. V, 20 ottobre
2009, n. 49670)..
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L’ultima precisazione attiene al grado dell’idoneità, problema in relazione al quale la dottrina ha
prospettato numerose soluzioni (possibilità, ragionevole possibilità, adeguatezza, probabilità). Tenendo
presente che la ratio del tentativo risiede nell’esigenza di punire quella manifestazione della volontà
colpevole che abbia messo in pericolo il bene giuridicamente protetto, deve convenirsi con la dottrina
maggioritaria che ritiene che il grado o livello di idoneità necessario al compimento del delitto debba essere
più vicino alla probabilità che alla non impossibilità: tanto perché appare certamente opportuno
pretendere che l’azione abbia mostrato una rilevante attitudine alla commissione del reato. Dunque, tale
commissione, al momento in cui l’agente tenne la condotta incriminata, doveva essere probabile, o
comunque più vicina alla probabilità che alla non possibilità di verificazione.
Naturalmente bisognerà adattare questo criterio di massima ai singoli casi sottoposti alla nostra attenzione:
nell’esempio prospettato dal Fiandaca (figlia che, volendo uccidere il padre, versa dosi letali di veleno nella
botte dalla quale quello attinge quotidianamente il vino; il padre, notando il colore più torbido ed il gusto
leggermente diverso del vino, ne beve solo un sorso: non morirà, ma accuserà solo dolori allo stomaco)
possiamo certamente parlare di un’azione che ex ante ed alla luce delle concrete conoscenze dell’agente,
appare idonea a cagionare la morte dell’uomo; a diverse conclusioni si potrebbe arrivare, ad esempio, ove la
figlia avesse versato dosi non letali di veleno, ovvero se le alterazioni di gusto e di colore fossero state così
macroscopiche da destare nel padre un sicuro allarme.
La più recente giurisprudenza di legittimità pare attestata su posizioni meno garantiste, accontentandosi che
gli atti posti in essere dall’agente rendano meramente possibile il verificarsi dell’evento
In tema di tentativo, l'idoneità degli atti non va valutata con riferimento al criterio probabilistico di
realizzazione dell'intento delittuoso, infatti l'idoneità altro non è che la possibilità che alla condotta
consegua lo scopo che l'agente si propone (Cassazione penale, sez. V, 27 maggio 2011, n. 30139).
Nel caso di specie un soggetto affetto da epatite C aveva riportato condanna per il delitto di tentate lesioni
personali gravissime, commesso in danno di un tassista che (pretendendo il pagamento anticipato della
corsa) aveva rifiutato di prenderlo a bordo: in particolare, di fronte al diniego della persona offesa,
l’imputato aveva estratto una siringa, prelevato il suo sangue, e punto il tassista al dito di una mano.
Il difensore dell’imputato ricorre per cassazione, evidenziando che la possibilità di contagio di epatite C a
seguito di inoculazione di sangue infetto è pari all'1,8%: non sarebbe dunque possibile parlare di tentativo, in
quanto una possibilità di contagio vicina allo zero non può determinare idoneità degli atti in relazione al
delitto di lesioni.
Nel rigettare il ricorso la Corte evidenzia che
.. la idoneità dell'atto non va valutata con riferimento al criterio probabilistico di realizzazione dell'intento
delittuoso. Invero, la idoneità altro non è che la possibilità che alla condotta consegua lo scopo che l'agente si
propone. Dunque, ferire intenzionalmente la vittima con una siringa contenete sangue infetto, perché prelevato da
un soggetto affetto da una malattia - appunto - infettiva, e propagabile attraverso contatto ematico, costituisce
atto idoneo a cagionare lesioni. Il fatto che l'evento non si sia verificato, certo, non è dipeso dalla volontà
dell'agente, ma da un fattore "esterno", che, nel caso di specie, è riconducibile alla scarsa probabilità che
l'infezione si propaghi. Ma, come correttamente ha affermato la Corte d’Appello, i concetti di probabilità e di
possibilità non devono essere sovrapposti. E, per quel che si è detto, la idoneità ha correlazione con il secondo, non
con il primo. .. D'altra parte, se il contagio vi fosse stato (verificandosi l'eventualità che si realizza -come si
apprende- solo nel l'1,8% dei casi), nessuno avrebbe dubitato della sussistenza del nesso causale. Ma ammettere la
possibilità della consumazione di un reato di evento ed escludere, in radice, la ipotizzabilità del tentativo
rappresenta una contraddizione.
§ 4 – L’univocità degli atti.
Accanto al requisito della idoneità, l’art. 56 c. p. richiede – perché sia integrato il delitto tentato - anche
quello della univocità degli atti: è infatti un dato di comune esperienza che determinati atti, pur se dotati in
sé del requisito della idoneità, vengono commessi per scopi leciti, ovvero tendono indifferentemente alla
commissione di più reati: ad esempio chi, imbracciando un fucile, si appresta a sparare, può essere
intenzionato ad abbattere l’animale feroce che sta attaccando il proprio amico, ovvero a distruggere, a scopo
intimidatorio, la vetrina di un negozio, ovvero a ferire o ad uccidere un uomo.
Ecco dunque la ratio della univocità: impedire l’eccessiva dilatazione della sfera del tentativo punibile, che si
avrebbe ove si punissero anche atti privi della concreta attitudine ad esprimere una chiara intenzione
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delittuosa; il criterio dell’univocità degli atti stempera dunque quello dell’idoneità e restringe l’ambito
applicativo dell’istituto.
Anche questo requisito va inteso in senso oggettivo, poiché l’univocità deve essere considerata una
caratteristica oggettiva della condotta: gli atti posti in essere devono cioè possedere in sé stessi, riguardati nel
contesto in cui sono inseriti, l’attitudine a denotare il proposito criminoso perseguito. Si può quindi parlare
di atti diretti in modo non equivoco a commettere un delitto quando essi appaiano oggettivamente diretti
alla realizzazione del reato.
E’ dunque da respingere la concezione soggettiva, che vede nella univocità non un criterio di essenza
dell’atto, ma un criterio di prova: l’univocità degli atti starebbe ad indicare l’esigenza che, in sede
processuale, venga raggiunta la prova che l’atto tendeva al fine criminoso; ma in questo modo si renderebbe
inutile il disposto dell’art. 56 c. p., poiché l’esigenza appena illustrata viene già esaurientemente assolta
rispettando le regole generali in tema di elemento soggettivo del reato; privando di effettivo contenuto il
requisito della univocità, si avrebbe come inevitabile conseguenza la smisurata dilatazione della sfera del
tentativo punibile (essendo la punibilità fondata sul solo amplissimo requisito della idoneità, requisito che
correttamente la Cassazione anche in recenti pronunce definisce di per sé “non selettivo”).
Considerare l’univocità una caratteristica dell’azione non esclude che la prova del fine delittuoso possa
essere desunta in qualsiasi modo, anche grazie ai consueti canoni probatori in tema di elemento soggettivo.
Solo che, una volta raggiunta la prova del fine verso cui tende l’agente, è necessaria una seconda verifica: si
tratta questa volta di accertare se gli atti, considerati nella loro oggettività, riflettano in maniera
sufficientemente congrua la direzione verso il fine criminoso (eventualmente) già accertato per altra via,
senza dare decisivo rilievo (poiché si è pur sempre nella fase dell'accertamento dell'elemento materiale del
reato) ad atti di volizione interna che non si siano tradotti in attività obiettivamente valutabili
Accertato il fine verso cui si dirigeva l’azione, è pertanto necessario verificare se gli atti posti in essere
tendessero in modo non incerto alla consumazione di quel particolare delitto, rammentando che non
equivoco equivale a non dubbio, certo, sicuro, e rammentando altresì che, poiché la non equivocità è
riferita agli “atti”, il giudizio andrà riferito non già all’ultimo degli atti posti in essere, bensì a tutti gli atti
facenti parte dell’azione, naturalisticamente intesa.
Il requisito dell’univocità va accertato ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione
teleologica della volontà dell'agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua
azione, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il
massimo grado di precisione possibile alla individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e
concretamente posto in pericolo (Cassazione penale, sez. IV, 17 settembre 2010, n. 36820).
L’univocità sarà facilmente dimostrabile in tutti i casi di tentativo compiuto (ad es. collocazione della bomba,
poi scoperta e disinnescata dalle forze dell’ordine), ma anche in molti casi di tentativo incompiuto (ad es.
quando l’azione tipica sia stata portata ad un sufficiente grado di sviluppo: i detenuti che, nel tentativo di
evadere, scavalcano i primi tratti del cunicolo che li porta all’esterno del carcere, ma vengono scoperti dai
secondini), ed infine anche in alcuni casi nei quali l’azione tipica non è stata neppure iniziata (ad es. i
malviventi che, appostati dinanzi ad una banca con pistole cariche, calze per mascherarsi, guanti per non
lasciare impronte, sacchi per riporvi la refurtiva, vengono sorpresi ed arrestati dalla polizia).
Proprio guardando a quest’ultimo esempio, dobbiamo precisare che se i malviventi fossero stati catturati nel
percorso dal loro covo alla banca da rapinare, non vi sarebbero stati elementi sufficienti per configurare un
tentativo punibile. In un caso del tutto analogo la Suprema Corte, non ravvisando l’estremo della univocità
degli atti, ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna per tentato omicidio emessa nei confronti di
alcuni soggetti che erano stati sorpresi dalla polizia all’interno di una autovettura, armati e pronti all'azione.
I giudici di merito, sulla base di ulteriori elementi acquisiti nel corso del dibattimento (in particolare, si era
accertato che un capo mafia aveva deciso di eliminare un soggetto che aveva realizzato una estorsione in
danno di un supermercato controllato dal clan), avevano ritenuto sufficientemente provata la sussistenza del
tentativo di omicidio, integrata dall’essersi gli imputati appostati – armi in pugno – sul tratto di strada che
avrebbe dovuto percorrere la vittima designata.
La Suprema Corte rileva tuttavia che non sussiste il requisito della univocità degli atti: ed infatti
la polizia sorprese alcuni componenti di quello che sarebbe dovuto essere il gruppo di fuoco nei pressi di un istituto
di credito ubicato lungo il tragitto che avrebbe dovuto percorrere P.R.; non si tratta solo di una contraddizione tra
l'imputazione e quanto ritenuto in sentenza: ciò che è mancata è la verifica sulla effettiva vicinanza rispetto
all'abitazione della vittima e sul fatto che il gruppo si trovasse sull'itinerario abitualmente percorso dal P.. Si
tratta di elementi fondamentali per la valutazione in ordine all'univocità degli atti in ordine al tentativo di omicidio,
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sui quali i giudici di merito non hanno speso alcuna parola, dandoli quasi per scontati, nonostante fossero oggetto di
specifiche censure da parte dei ricorrenti, che hanno sempre sostenuto che l'abitazione della vittima fosse assai
distante dal luogo in cui vennero sorpresi. Inoltre, l'univocità viene di fatto contraddetta dalla circostanza,
obiettiva, che alcuni dei partecipanti all'agguato vennero arrestati e giudicati per porto di armi e tentata rapina
alla banca nei cui pressi sono stati fermati, circostanza che dimostra come gli atti presi in considerazione
nell'imputazione e nelle sentenze non fossero dotati di quella non equivocità richiesta dalla norma, tanto è vero che
alcuni dei fermati sono stati giudicati per un reato del tutto incompatibile con quello contestato in questo processo
(Cassazione penale, sez. VI, 17 febbraio 2011, n. 25065).
Gli imputati sono stati dunque assolti, poiché gli atti da loro compiuti, valutati nella loro oggettività e nel
contesto in cui si sono inseriti, non hanno manifestato l'attitudine a denotare in maniera inequivoca il
proposito criminoso perseguito.
In un caso oggetto di una recente pronuncia di legittimità, la Suprema Corte ha annullato con rinvio la
sentenza di condanna di un soggetto, imputato di tentata violenza sessuale in quanto, dopo essersi
denudato, si era mostrato ad una ragazza di quindici anni mentre era intento a masturbarsi e, dopo che la
stessa si era allontanata, l'aveva seguita con la propria auto, fino a che la ragazza non era riuscita a rifugiarsi
in una vicina abitazione.
La Corte parte dalla distinzione tra l'atto sessuale propriamente detto, incriminato dall’art. 609 bis c. p. e
comunque caratterizzato dal coinvolgimento della corporeità sessuale del soggetto passivo (il quale, secondo
la indicata norma incriminatrice, è costretto a compiere o subire atti sessuali), e tutti gli altri atti che, sebbene
significativi di concupiscenza sessuale, siano tuttavia inidonei ad intaccare la sfera della sessualità fisica
della vittima, in quanto comportano esclusivamente un'offesa alla libertà morale o al sentimento pubblico
del pudore, come avviene nel caso dell'esibizionismo, dell'autoerotismo praticato in presenza di altri
costretti ad assistervi o del cd. voyeurismo. Sono dunque estranei alla nozione di atto sessuale tutti gli atti o
comportamenti che, pur essendo manifestazione di istinto sessuale, non si risolvano in un contatto corporeo
tra soggetto attivo e soggetto passivo o comunque non coinvolgano la corporeità sessuale di quest'ultimo.
Ciò premesso, la Corte evidenzia che nel caso di specie non è configurabile il requisito della univoca
direzione degli atti verso il delitto di cui all’art. 609 bis c. p.:
Alla luce di tali principi .. deve rilevarsi che, nella fattispecie, la sentenza impugnata non fornisce alcuna indicazione
circa le ragioni per le quali debba riconoscersi nel pedinamento della minore l'univoca finalità del ricorrente di
compiere atti sessuali con la stessa o farli ad essa subire, e non anche il solo intento di procedere ulteriormente
nella attività di esibizionismo che l'allontanamento della giovane aveva impedito di portare a compimento. Potendosi
tale dato fattuale ricondurre in diverse ipotesi di reato .. le conclusioni cui perviene la Corte territoriale si
palesano, in assenza di ulteriori specificazioni, come del tutto apodittiche, con la conseguenza che la lacuna
motivazionale dovrà essere colmata nel successivo giudizio di rinvio tenendo conto dei principi menzionati
(Cassazione penale, sez. III, 11 maggio 2011, n. 23094).
§ 4,1 – Il requisito dell’univocità nel tentativo di reato in concorso
Date le considerazioni che precedono, l'ulteriore problema è quello di individuare l'inizio dell'attività
punibile con riferimento all'esecuzione del reato in concorso.
Se, infatti, per la configurabilità del tentativo nella fattispecie monosoggettiva è necessario che l'agente
ponga in essere una condotta penalmente rilevante di per sé, nel senso che la propria azione deve essere
diretta in maniera non equivoca alla commissione del reato, nella fattispecie concorsuale l'univocità degli atti
va esaminata con riferimento alla complessiva situazione oggettivamente esistente.
Più precisamente, nel caso di esecuzione del reato in concorso, a taluni correi spetta il compito di porre in
essere azioni atipiche, azioni che, isolatamente considerate, non appaiono univocamente dirette alla
commissione del reato.
Dette azioni atipiche, riferite all'ipotesi monosoggettiva, potrebbero rimanere nell'area del penalmente
irrilevante, in quanto non qualificabili come univocamente dirette alla commissione del reato; riferite, invece,
alla fattispecie concorsuale, le medesime azioni potrebbero determinare l'inizio dell'attività punibile, nel
momento in cui coincidono con il ruolo specifico che ciascuno dei correi doveva intraprendere.
Da ciò discende che il momento che segna l'inizio dell'attività punibile, nell'ipotesi di esecuzione del reato in
concorso, potrebbe risultare anticipato rispetto alla fattispecie monosoggettiva: ciò nel senso che la condotta
di taluno dei correi, pur non potendo di per sé essere considerata univocamente diretta alla commissione del
reato, diviene punibile a norma dell’art. 56 c. p., se considerata unitariamente a quelle degli altri correi
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In altre parole, si può affermare che nel caso di concorso nel reato, l'univocità dei singoli atti è valutata non
soltanto rispetto alla commissione del delitto, ma anche rispetto allo svolgimento dello specifico compito che
ciascuno dei correi deve portare a compimento per la commissione del delitto medesimo.
È quindi necessario, al fine di valutare l'univocità nel caso di tentativo di reato in concorso, combinare due
criteri: da un lato la necessaria visione di insieme delle condotte dei correi e dall'altro la considerazione delle
condotte anche atipiche degli stessi. Se così non fosse, si sposterebbe troppo in avanti l'inizio dell'esecuzione
del reato.
In un recente caso giurisprudenziale, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di condanna di alcuni
imputati tratti a giudizio per il tentato furto presso un istituto di credito, ed in particolare anche di coloro il
cui compito si era esaurito nel compiere il sopralluogo presso la filiale in oggetto:
Il concorso di persone, nella specie in un tentativo di furto, si configura, oltre che nei
confronti di quanti hanno preso parte alla fase di esecuzione, nei confronti di coloro che
hanno partecipato ad attività preparatorie di sopralluogo, perché anche da costoro è
provenuto un apporto per il raggiungimento di un unico risultato, costituito dalla commissione
del reato avuto di mira (Cassazione penale, sez. II, 13 aprile 2011, n. 23395).
In motivazione si evidenzia tra l’altro che il concorso di persone nel reato, in conformità alla teoria monistica,
accolta dal legislatore ha una struttura unitaria nella quale l'azione tipica è composta dalle condotte dei
compartecipi, sicchè gli atti dei singoli sono, al tempo stesso loro propri e comuni anche agli altri e di essi ciascuno
risponde interamente. Nel paradigma dell'art. 110 c.p. sono infatti riunite tutte le ipotesi di partecipazione
criminosa per la cui realizzazione non è richiesto il previo concerto fra tutti i partecipanti, ma è indispensabile un
individuale apporto materiale o psichico di ognuno verso l'identico risultato da tutti perseguito e cioè l'evento
criminoso avuto di mira. Con la conseguenza che attività costitutiva del concorso nel reato non è quindi solo quella
rappresentata dalla partecipazione all'esecuzione materiale dello stesso, bensì anche quella riguardante la
decisione e la preparazione del reato e la fornitura dei mezzi che ne consentano o ne facilitano la consumazione,
perchè anche attraverso l'esplicazione di tale attività si viene a realizzare quell'associazione di diverse volontà
costituenti altrettante cause coscienti produttrici dell'evento per effetto del quale ciascuno deve rispondere del
risultato conseguito. Una volta accertato che un soggetto ha accettato e svolto il compito assegnatogli costui deve
rispondere, non solo dei reati da lui commessi, ma anche del reato fine e degli altri reati strumentali,
materialmente eseguiti dai complici che, a loro volta devono rispondere di quello o di quelli da lui commesso.
Dunque correttamente la Corte Territoriale ha ritenuto sussistere gli estremi del concorso di persone nel reato
anche nei confronti di coloro che hanno partecipato ad attività preparatorie di sopralluogo aventi ad oggetto la
filiale bancaria bersaglio del tentativo di furto.
§ 5 – L’elemento soggettivo: in particolare, delitto tentato e dolo eventuale.
Non è in discussione che il delitto tentato sia punibile solo se commesso con dolo: e ciò sia perché (da un
punto di vista sistematico) manca nel nostro ordinamento una disposizione che preveda la rilevanza del
tentativo colposo (con le inevitabili conseguenze imposte dall’art. 43, secondo comma, c. p.), sia perché (da
un punto di vista logico) il tentativo è atto intenzionalmente diretto a cagionare un determinato risultato, e
dunque non residua spazio per la configurabilità di un tentativo involontario.
Il dolo del tentativo è dolo di consumazione, nel senso che si richiede che il soggetto abbia voluto
commettere, ad esempio, non un tentato furto, ma un furto.
E’ tuttavia controverso se il dolo del tentativo sia o meno identico in tutto al dolo del delitto perfetto avuto di
mira: se, cioè, possa manifestarsi in tutte le forme in cui si manifesta il dolo del delitto perfetto (intenzionale,
diretto, alternativo, eventuale).
Non vi sono, naturalmente, dubbi, circa la compatibilità tra il delitto tentato e le prime tre categorie appena
illustrate. Ad esempio di recente la Suprema Corte ha giudicato il ricorso del soggetto condannato per
tentato omicidio perché, armato di coltello, compiva atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la morte di X,
in particolare lo attingeva con una coltellata in zona addominale provocando una lesione alla parete addominale,
all'intestino tenue e ad un ramo arterioso principale addominale. Il difensore dell’imputato lamentava erronea
applicazione dell’art. 56 c. p., ma la Corte, nel rigettare il ricorso, argomenta circa la sicura configurabilità del
delitto tentato in caso di dolo alternativo:
Il giudice .. ha qualificato l'elemento soggettivo in termini di dolo alternativo, e dunque in forma diretta .. Avuto
riguardo alle peculiarità della fattispecie, alla potenzialità lesiva dello strumento usato (un coltello con lama lunga
16 cm e larga 4 cm), alla localizzazione del colpo inferto (parte addominale), alla sua intensità (profondità della
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ferita e suoi esiti che avevano messo in pericolo la vita dello stesso offeso), il giudice .. ha ritenuto che il C., nello
sferrare la coltellata, avesse agito con l'intento di cagionare, indifferentemente, lesioni personali o la morte del
suo antagonista e fosse dunque animato, rispetto al più grave evento, da quella forma di dolo diretto che è il dolo
alternativo, reputando che quell'evento fosse stato voluto (sia pure alternativamente a quello meno grave) e non
semplicemente previsto nell'eventualità del suo verificarsi.
La conclusione, in termini di piena compatibilità dell'elemento psicologico così qualificato con la fattispecie del
tentativo, è giuridicamente corretta e deve essere, dunque, confermata, ribadendosi il principio di diritto secondo
cui è configurabile l'ipotesi del tentato omicidio ove l'agente abbia agito accettando - e quindi volendo indifferentemente l'evento meno grave (lesione personale) e quello più grave (morte dell'offeso), in termini di dolo
diretto (quanto meno in forma alternativa) e non eventuale (Cassazione penale, sez. V, 31 maggio 2011, n.
32100).
La questione problematica afferisce alla compatibilità tra tentativo e dolo eventuale.
Secondo la tesi oggi minoritaria, il dolo del tentativo è volontà di commettere il delitto perfetto, e come tale è
comprensivo anche del dolo eventuale; non esiste peraltro alcuna disposizione che distingua il dolo del
delitto consumato dal dolo del delitto tentato; si evidenzia infine che l’ordinamento distingue il delitto
consumato ed il delitto tentato solo sulla base della diversa struttura oggettiva (perché il delitto tentato è
privo dell’evento o della parte finale dell’azione), ma non per le caratteristiche dell’elemento soggettivo.
Ad avviso dei sostenitori di questa teoria, non è corretto dire che il dolo eventuale non si concilierebbe con il
requisito della univocità degli atti: esistono, infatti, atti con plurimo significato finalistico, cosicché un
soggetto che si rappresenta e vuole un determinato atto realizzativo dei propri intenti ben può essere
consapevole che da quello stesso atto potranno scaturire ulteriori eventi criminosi: ciò comporta la
accettazione del rischio della realizzazione di tali eventi, e dunque la configurabilità di un tentativo punibile
nel caso in cui la condotta del soggetto presenti i requisiti richiesti dall’art. 56 c. p. (cioè gli atti sono idonei
ed univoci, ma l’azione non si compie).
Deve, ad esempio, rispondere di tentato omicidio il soggetto che, per intimidire gli agenti che lo inseguono
per trarlo in arresto, spari più colpi di pistola in aria, rappresentandosi il rischio di colpire gli abitanti del
caseggiato in direzione del quale quei colpi sono esplosi, ma agendo lo stesso, accettando il rischio che
quell’evento si verifichi. Se, dunque, un colpo ferisce non mortalmente la persona che in quel momento era
affacciata alla finestra della propria abitazione, il colpevole sarà chiamato a rispondere di tentato omicidio di
quella persona (l’atto era idoneo ad ucciderla; era univoco, non nel senso che quello fosse il fine dell’agente,
ma nel senso che egli si era rappresentato il rischio che dalla sua azione potesse scaturire quell’evento;
ricorre l’elemento soggettivo, nelle forme del dolo eventuale).
Ad avviso dei sostenitori di questa teoria, negare la compatibilità tra tentativo e dolo eventuale significa
operare una indebita commistione tra l’elemento oggettivo e quello soggettivo: cioè, il fatto che il soggetto
abbia come fine solo indiretto della sua azione l’evento, non impedisce di poter considerare gli atti come
concretamente idonei ed univoci. Dire che gli atti non erano univoci perché il soggetto versava in dolo
eventuale, sarebbe come dire che l’elemento oggettivo non era integrato per la particolare natura
dell’elemento soggettivo (ciò che era dolo al momento dell’azione – scrive Morselli – non può non esserlo più, ex
post, per il semplice fatto che l’evento non si è verificato).
E’ tuttavia largamente prevalente in dottrina e giurisprudenza la tesi contraria: il dolo del tentativo è
intenzione di commettere il delitto perfetto, con conseguente esclusione del dolo eventuale. Non sembra
infatti superabile la dizione legislativa, che pretende che l’azione sia diretta in modo non equivoco alla
commissione del delitto: chi, mirando ad altro risultato (lecito o illecito), accetta il rischio che abbia a
verificarsi anche un (ulteriore) delitto (e, dunque, versi in dolo eventuale), non può rappresentarsi né volere
gli atti come diretti alla commissione di questo ulteriore delitto. L’indifferenza per il risultato della propria
azione fa venire meno la univocità degli atti, perché viene meno la precisa intenzione di raggiungere un
determinato risultato: chi, tendendo ad un determinato evento delittuoso, accetti il rischio di un evento
diverso, considerato solo come possibile o probabile, non può rappresentarsi gli atti come univocamente
diretti alla realizzazione di quell’evento, che perciò rimane fuori dalla sua intenzione.
Al di là di queste considerazioni, appare ulteriormente convincente e decisivo l’argomento che si fonda sulla
duplice ratio dell’istituto del tentativo, sulle esigenze che giustificano l’arretramento della soglia della
punibilità. Come abbiamo visto, queste esigenze sono:
1) punire la manifestazione della volontà criminosa dell’agente: questo deve indurci a ritenere che il
requisito della univocità non vada riferito solo al fatto, ma anche all’elemento psicologico, perché solo in
presenza di entrambe le situazioni si ravvisa quella volontà riprovevole che giustifica la punibilità di una
intenzione non tramutatasi in fatto tipico. Dunque, grazie ad una corretta valorizzazione del requisito della
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univocità, possiamo affermare che il delitto tentato è configurabile solo quando possa cogliersi un
atteggiamento psicologico del soggetto orientato in modo non subbio proprio verso quell’offesa che poi non
si è verificata. Il punto fondamentale è dunque l’univocità, che va riferita anche all’elemento soggettivo, al
programma criminoso del soggetto agente, così che possono dirsi rientranti nella sfera dell’univocità e, di
conseguenza, nella sfera del tentativo punibile, solo quegli eventi che il soggetto aveva in mente di realizzare
come scopo principale (dolo diretto) o secondario (dolo indiretto) della propria azione.
2) Prevenire l’esposizione a pericolo dei beni giuridicamente protetti: come fa notare Mantovani, questa
disposizione non può che essere interpretata in ossequio ad uno dei principi cardine del nostro sistema
penale, il principio di offensività, in modo che sia costantemente assicurata la reale pericolosità del tentativo
punibile. Nelle ipotesi di delitto tentato con dolo eventuale, sarebbe ben difficile riscontrare l’effettivo
pericolo per i beni presi di mira “eventualmente”: nel caso di astratta possibilità di esposizione a pericolo del
bene protetto, potremmo al più parlare di un pericolo di esposizione a pericolo. Si vuole cioè dire che il
tentativo serve a punire chi, in determinati casi, ha provocato un pericolo di lesione del bene protetto: se
allarghiamo l’elemento soggettivo del delitto tentato fino a ricomprendervi le ipotesi di dolo eventuale,
allarghiamo correlativamente la soglia della punibilità, fino a comprendervi non solo (come è corretto) gli
eventi previsti e voluti dall’agente, e non realizzate per circostanze esterne (A vuole uccidere B, ma nello
sparargli sbaglia mira), ma anche gli eventi dei quali l’agente ha accettato il rischio di una verificazione che
poi, in realtà, non si è avuta: nel primo caso è giusto punire l’esposizione a pericolo del bene protetto, nel
secondo caso non sarebbe giusto punire il mero pericolo di una esposizione a pericolo del bene protetto.
Il fuggitivo dell’esempio precedente, nello sparare dei colpi per intimidire gli agenti, sfiora un passante:
ammettendo l’operatività del dolo eventuale, dovremmo parlare di tentato omicidio (l’agente si è
rappresentato di poter colpire qualcuno, ed ha posto in essere atti univoci, idonei ad uccidere quel passante);
la soluzione da preferire è evidentemente quella opposta: nel momento in cui effettua la prognosi postuma,
il ragionamento ex post ponendosi in un momento anteriore alla condotta, il giudice vede da un lato una
volontà che, avendo altri obiettivi., non era in alcun modo protesa verso l’evento dannoso, e dall’altro un
evento dannoso che non si è neppure verificato. Ove i colpi esplosi dalla pistola del fuggitivo attingano,
ferendolo, un soggetto casualmente affacciatosi al balcone della propria vicina abitazione, l’agente
risponderà non di tentato omicidio (delitto che il fuggitivo non si è rappresentato e non ha voluto: i suoi atti
non erano dunque diretti alla commissione di quel reato), ma di lesioni personali gravi o gravissime,
aggravate dall’uso dell’arma (sussistendo l’elemento materiale del reato, e l’elemento soggettivo nelle forme
del dolo eventuale).
Ben riassume i termini della questione una pronuncia della Suprema Corte relativa ad ipotesi di tentato
omicidio commesso attingendo la vittima all’addome con un coltello da cucina della lunghezza di cm. 10:
E' pacifico, secondo arresti consolidati di questa Corte di legittimità, che ha natura di dolo diretto ed è
compatibile con il tentativo di omicidio quella particolare manifestazione di volontà dolosa definita dolo alternativo,
che sussiste quando il soggetto attivo prevede e vuole, con scelta sostanzialmente equipollente, l'uno o l'altro degli
eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria .. Avendo l'ordinamento ricollegato una
responsabilità penale al compimento di atti finalizzati ("diretti in modo non equivoco") alla commissione di un
delitto, la specifica ed autonoma figura di reato prevista dall'art. 56 c.p. non può ricomprendere atti rispetto ai
quali un evento delittuoso si prospetta solo come un accadimento possibile o probabile non preso direttamente in
considerazione dall'agente.
Sicchè se il dolo cosiddetto "eventuale" o per "accettazione del rischio" può costituire il fondamento di una
responsabilità dolosa per eventi determinati non intenzionalmente e imputabili all'agente a titolo di dolo generico,
nel caso in cui l'evento rispetto al quale è stato corso il rischio non si è verificato, discende dalla specifica
previsione dell'art. 56 c.p. che gli atti posti in essere devono avere concretezza tale da risultare inequivocamente
diretti all'evento specificamente richiesto per la realizzazione della fattispecie delittuosa di riferimento.
L'affermazione giurisprudenziale che tale forma dolosa è compatibile anche con una volontà "alternativa", nulla
toglie dunque alla necessità che risulti una inequivoca direzione della condotta: non superabile mediante la sola
astratta assunzione a regola della dicotomia "accettazione del risultato" (dolo alternativo) - "accettazione del
rischio del risultato" (dolo eventuale), assolutamente ambigua se priva di adeguato supporto fattuale.
Il problema del tentativo è dunque per lo più un problema di prova e di (inequivocità del) fatto. E tanto più lo è
quando, in presenza di una condotta che già costituisce un reato consumato (resistenza, lesioni), alla cui
realizzazione s'è arrestata l'azione, s'intenda dimostrare che l'agente voleva in realtà anche altro (la morte).
Tanto premesso, i giudici del merito, hanno logicamente ritenuto che gli accadimenti e la loro sequenza non
consentivano di affermare che la prefata avesse voluto altro se non uccidere la vittima. Il tipo di arma utilizzata,
la forza impiegata, la sede corporea attinta facevano ben comprendere che l'evento morte non era stato
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rappresentato solo come possibile, ma accettato nella sua concreta accadibilità (Cassazione penale, sez. I, 22
settembre 2010, n. 37516).
Nello stesso senso, di recente, si è espressa la Suprema Corte annullando con rinvio la sentenza di condanna
in ipotesi di tentato omicidio contestato a soggetto che, fuggendo dall’alt intimato dalle forze dell’ordine,
aveva travolto un carabiniere che si era posto alle spalle del mezzo con l’intento di arrestarne la corsa.
Il difensore aveva proposto ricorso per cassazione, evidenziando tra l’altro che l’imputato aveva agito
ignorando che un carabiniere era sceso dal mezzo di servizio collocandosi alle spalle della sua vettura, e ciò
in considerazione della scarsa visibilità offerta posteriormente dallo specifico veicolo, delle condizioni di
scarsa illuminazione dei luoghi, e delle condizioni psicofisiche alterate conseguenti all'assunzione di
sostanze stupefacenti.
La Corte accoglie il ricorso con queste motivazioni:
E' pacifico, in giurisprudenza, che l'ipotesi del tentativo richiede il dolo diretto, nella forma, al più, di dolo
alternativo. Non è configurabile, invece, ove ricorra il solo dolo eventuale. Secondo principi consolidati tale forma
più tenue della volontà dolosa, oltre la quale si colloca la colpa (cosciente), è costituita .. da un realtà psicologica in
cui si ha consapevolezza che l'evento, non direttamente voluto, ha la probabilità di verificarsi in conseguenza della
propria azione nonché dall'accettazione volontaristica di tale rischio. A siffatto livello, nel caso di azione posta in
essere cioè con accettazione del rischio dell'evento, si richiederà poi di fatto all'autore una adesione di volontà,
maggiore o minore, a seconda che egli consideri maggiore o minore la probabilità di verificazione dell'evento.
Nel caso in cui, invece, l'agente ritiene "altamente probabile o certo" l'evento, egli non si limita ad accettarne il
rischio, ma necessariamente accetta l'evento stesso, cioè alternativamente lo vuole "con un'intensità
evidentemente maggiore di quelle precedenti". Se l'evento, oltre che accettato, è perseguito, la volontà si colloca
in un ulteriore livello di gravità, e potrà, altresì, distinguersi fra un evento voluto, come mezzo necessario per
raggiungere uno scopo finale, e un evento perseguito come scopo finale.
La qualificazione di dolo eventuale è attribuita dunque all'accettazione del rischio; quella di dolo alternativo
all'accettazione, che non può che essere positiva, dell'evento.
Nel caso in esame la Corte d'appello non mostra d'avere chiari tali principi e, soprattutto, non mostra d'averli
applicati … La Corte d'appello afferma che essendo preclusa la via di fuga in avanti dalla "chiusura della strada" e
dalla parte posteriore "per la presenza dell'auto dei verbalizzanti" la volontà del V. era quella "di porre i CC in
condizioni di non nuocere, per garantirsi la fuga, non essendo realisticamente attuabile nelle condizioni date un
allontanamento con l'automezzo". Si sofferma quindi sul carattere "imprudente" della manovra in retromarcia requisito questo di per sè caratterizzante una condotta colposa - da ciò illogicamente desumendo che la stessa
venne realizzata per tentare di "annientare l'avversario", senza tuttavia fornire le basi fattuali di tale
affermazione (avuto riguardo in particolare alla deduzione difensiva diretta a segnalare la non elevata velocità
dell'auto dovuta dalla partenza da fermo) e senza dunque ricondurre la idoneità della condotta in astratto alla
idoneità in concreto.
Prosegue ancora la sentenza addentrandosi in considerazioni sulla nozione di dolo eventuale e alternativo, confuse
ovvero palesemente errate, soprattutto quando, per escludere la possibilità che il V. non abbia visto il maresciallo
N., giunge alla non riparabile conclusione che sussisteva il dolo alternativo in quanto avendo l'auto dei Carabinieri
arrestato la sua marcia "era pacificamente preventivabile" che uno dei suoi occupanti scendesse dal mezzo per
eseguire il controllo al quale V. aveva tentato di sfuggire.
Non solo l'affermata consapevolezza del V. circa l'abbandono dell'auto dei militari da parte di uno dei suoi
occupanti sì basa su valutazioni apodittiche, mancando una esaustiva indicazione dei dati fattuali che la giustificano
- specie ove si consideri che i giudici di appello in alcun modo hanno tenuto conto delle condizioni di alterazione in
cui versava l'imputato (assunzione di sostanze stupefacenti) e delle condizioni di illuminazione del luogo - ma è
formalmente contraddittoria e giuridicamente errata la conseguenza trattane, giacché quello che si richiede per il
dolo alternativo non è la esclusione della sicurezza e quindi della volontà di non provocare l'evento, ma
l'affermazione, in positivo, della rappresentazione e della accettazione di un evento altamente probabile: cosa che
la Corte non ha dimostrato, sviluppando sul punto argomentazioni incongrue. Con riferimento al reato di tentato
omicidio la sentenza impugnata deve di conseguenza essere annullata con rinvio, per nuovo esame, ad altra sezione
della Corte d'appello di Bologna (Cassazione penale, sez. I, 31 marzo 2010, n. 25114).
In punto di prova dell’elemento soggettivo, nulla di particolare deve dirsi in relazione al delitto tentato:
valgono dunque gli stessi principi elaborati ed applicati in relazione al delitto consumato.
In un recente caso la Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell’imputato condannato per tentato omicidio per
aver sparato due colpi di pistola all’indirizzo della vittima (uno dei quali lo attingeva al torace): il ricorrente
aveva sostenuto che i fatti dovessero essere derubricati nel delitto di lesioni aggravate, non essendovi prova
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dell’animus necandi; la Corte evidenzia che l'oggettiva idoneità del mezzo usato è in grado di superare anche
un'intenzione del soggetto agente solo in parte denunciata:
Nel delitto di tentato omicidio, pur avendo valenza concorrente i due profili dell'intenzione dell'agente
e dell'idoneità degli atti, quest'ultimo prevale rispetto a un'intenzione del soggetto agente solo in
parte denunciata, concorrendo alla configurazione del tentativo soprattutto criteri di natura oggettiva,
come la natura del mezzo usato, la parte del corpo attinta e la gravità delle lesioni inferte (Cassazione
penale, sez. I, 16 giugno 2010, n. 24808).
§ 6 – Il tentativo e le diverse forme di manifestazione del reato.
Il tentativo è giuridicamente inammissibile:
* nelle contravvenzioni; l’art. 56 c. p. fa infatti esplicito riferimento ai soli delitti; le ragioni, più che di
carattere strutturale, sono di natura politico criminale: la minore gravità delle contravvenzioni rende
inopportuna, a giudizio del legislatore, la loro perseguibilità anche a titolo di tentativo;
* nei delitti preterintenzionali: se, nell’omicidio preterintenzionale, l’agente tenta di percuotere o ferire, e si
verifica la morte, si tratta di un delitto già perfetto; se il soggetto passivo non muore, la responsabilità resta
circoscritta, in assenza di volontà omicida, al delitto di lesioni o percosse;
* nei delitti di pericolo: punire il tentativo di un reato di pericolo equivarrebbe a punire il pericolo di
pericolo, così finendo con l’anticipare eccessivamente la soglia della punibilità. Peraltro, se gli atti sono
idonei e diretti in modo non equivoco a ledere il bene protetto, ciò significa che hanno raggiunto quella
pericolosità necessaria ad integrare il delitto di pericolo
* nei delitti di attentato o a consumazione anticipata, quali ad esempio molti dei delitti contro la personalità
dello Stato: in questi casi, infatti, il minimum necessario a dare vita al tentativo è già sufficiente per la piena
consumazione del reato (ad es. l’art. 286 c. p.: chiunque commette un fatto diretto a suscitare la guerra civile..), non
rimanendo spazio per la configurabilità di un atto diretto a commettere un atto diretto.
Il tentativo è ontologicamente inconcepibile:
* nei delitti colposi: come si è detto, al di là di quanto si ricava dagli articoli 43 cpv. e 56 c. p., il tentativo non
può essere involontario, essendo atto intenzionalmente diretto a cagionare un determinato risultato;
* nei reati unisussistenti di mera condotta, che si perfezionano con la commissione di un unico atto (se
invece si tratta di un reato unisussistente ma di evento, vi è spazio per la configurabilità del tentativo: ad
esempio l’espressione ingiuriosa proferita all’indirizzo della persona offesa, e dalla stessa non percepita).
Il tentativo è ammissibile:
* nei reati aggravati dall’evento, ma solo se l’evento ulteriore può verificarsi anche se la condotta
incriminata non è portata a termine (ad es. morte della donna in seguito a tentativo di aborto);
* nei reati condizionati, ma solo se la condizione oggettiva di punibilità può verificarsi anche se la condotta
tipica non si è perfezionata (ad es. l’imprenditore che, dichiarato fallito, abbia tentato di sottrarre o di
occultare i propri beni alla garanzia dei creditori);
* nei reati permanenti, allorchè la situazione offensiva non sia stata ancora instaurata, o non abbia raggiunto
il minimum necessario per la perfezione del reato (ad es. fallito sequestro di persona per la resistenza della
vittima);
* nei reati abituali (per la cui esistenza la legge richiede la reiterazione di più condotte identiche od
omogenee), allorché il soggetto ponga in essere, senza successo, atti idonei e diretti in modo non equivoco a
commettere quei fatti che, da soli o aggiungendosi ai precedenti, avrebbero integrato la serie minima
richiesta per il reato abituale.
§ 7 – Il tentativo e le circostanze: il tentativo di delitto circostanziato ed il tentativo
circostanziato di delitto
Il tentativo e le circostanze sono sicuramente compatibili da un punto di vista strutturale: ad esempio la
circostanza aggravante del rapporto di parentela deve applicarsi anche nel caso di tentato omicidio.
Si è soliti distinguere tra delitto tentato circostanziato (ipotesi in cui le circostanze sono state interamente
realizzate, poiché riguardano elementi preesistenti o concomitanti alla esecuzione del reato: ad esempio
cerco di effettuare il furto di un bene esposto alla pubblica fede sui banchi di un supermercato, o di
cagionare la morte di uno stretto congiunto) e tentativo di delitto circostanziato (ipotesi in cui le circostanze
non sono state realizzate, perché attengono al momento perfezionativo del reato, ma rientrano pur tuttavia
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nel proposito criminoso dell’agente: gli atti compiuti si rivelano idonei e diretti in modo non equivoco a
commettere il delitto circostanziato).
Dottrina e giurisprudenza non hanno mai dubitato della compatibilità strutturale tra il tentativo e le
circostanze che si sono compiutamente realizzate: peraltro l'art. 59 c. p. prevede l'applicabilità di dette
circostanze senza fare distinzione tra fattispecie tentata e consumata, e l'art. 56 c.p., nello stabilire che
l'azione vada valutata in base ai criteri dell'idoneità ed univocità degli atti, non può non tenere in
considerazione, a tal fine, le circostanze che quell’azione hanno caratterizzato.
E’ dunque pacifico che possa sussistere il delitto tentato circostanziato (cfr. ad esempio Cassazione penale,
sez. V, 28 aprile 2011, n. 24386: gli imputati avevano cercato, senza riuscirci, di impossessarsi della borsetta
che la persona offesa aveva riposto sul sedile posteriore dell’auto sulla quale viaggiava: la Corte ha ritenuto
sussistente l’ipotesi di tentato furto aggravato ai sensi dell’art. 625 n. 6 c. p. - fatto commesso sul bagaglio dei
viaggiatori; o Cassazione penale, sez. V, 11 marzo 2011, n. 19615: la Corte ha confermato la condanna per
tentato furto aggravato, laddove l’aggravante contestata era quella di cui all’art. 61 n. 5 c. p., per avere
l’imputato agito in tempo di notte in strada priva di illuminazione).
Quanto alle circostanze che, pur rientrando nel programma criminoso avuto di mira dall’agente, non si
sono comunque realizzate (si può fare l’esempio di chi sia scoperto nell’atto di impossessarsi di un quadro
di Picasso ovvero dei pochi spiccioli presenti nella cassa di un piccolo esercizio commerciale: gli autori
risponderanno di tentato furto semplice, o potrà contestarsi al primo l’aggravante del danno di speciale
gravità, e riconoscersi al secondo l’attenuante del danno di speciale tenuità?), secondo parte della dottrina
(Fiandaca, Padovano, Pagliaro) la figura del tentativo di delitto circostanziato da un lato concretizzerebbe
una violazione del principio di legalità, posto che le circostanze possono essere applicate solo in presenza
dei presupposti esplicitamente previsti dalla legge, e dall’altro sarebbe contrario alla logica delle cose,
perché darebbe luogo ad un aumento o ad una diminuzione della pena previsti per un fatto, anche se quel
fatto non è riscontrabile negli eventi (rimanendo all’esempio di prima, arriveremmo a diminuire la pena per
il danno di speciale tenuità, senza che sia effettivamente e ontologicamente riscontrabile alcun danno).
Altra dottrina (fra tutti Mantovani) ritiene che la gravità del pericolo corso dal bene giuridico per la
commissione di un delitto tentato può ben essere graduata secondo le ipotesi circostanziali, sia comuni che
spaciali, senza che ciò comporti alcuna lesione del principio di legalità: non si vede, infatti, perché l’articolo
56 non possa combinarsi non solo con le norme incriminatrici di parte speciale, ma anche con le norme di
parte generale sul delitto circostanziato (peraltro il titolo terzo, secondo capo, del codice penale, relativo alle
circostanze fa riferimento a tutte le fattispecie contenute nel precedente capo I, relativo al reato consumato e
tentato).
Questa interpretazione sarebbe peraltro più conforme ai principi di colpevolezza e di offensività: il
pericolo di commissione di un reato più grave (nell’esempio precedente il tentato furto di un dipinto di
incommensurabile valore) non può evidentemente essere accostato sotto il profilo del trattamento
sanzionatorio al pericolo di commissione di un reato quasi spernibile (nell’esempio precedente il tentato
furto di qualche euro dalle casse di un negozio); sicché è conforme a giustizia che alla diversa gravità del
tentativo debba corrispondere una pena maggiore o minore rispetto a quella del tentativo del delitto
semplice.
L'estensione al tentativo delle circostanze previste per la fattispecie consumata, pertanto, comporta solo il
problema di valutare la compatibilità logica ed ontologica tra gli istituti: ad esempio è evidente che la
circostanza attenuante della riparazione del danno, ex art. 62, n. 6, c. p., non può essere applicata al delitto di
tentato furto, presupponendo la necessaria consumazione del reato perché si possa avere un danno inerente
alla sottrazione della res.
La giurisprudenza non ha dato una specifica risposta al problema, preferendo affrontare il tema
analizzando caso per caso la compatibilità del tentativo con le singole circostanze, in relazione allo sviluppo
concreto e fattuale del caso in esame.
Ad esempio, rimanendo all’esempio al quale si è più volte fatto riferimento, una parte della giusirprudenza
di legittimità ritiene non applicabile al delitto di tentato furto l'attenuante della speciale tenuità del danno di
cui all’art. 62 n. 4 c. p.: la mancata sottrazione della cosa determina l'impossibilità di procedere ad una
valutazione del danno, in quanto, non essendosi perfezionato il reato, si ritiene che il danno non si sia
realizzato e non possa considerarsi esistente.
L'attenuante invocata, fermo restando che il danno da considerare è solo quello patrimoniale diretto ed
immediato subito dalla persona offesa, ricorre solamente quando il danno sia di minima rilevanza, non
essendo sufficiente che esso sia minimo, ma non trova applicazione nell'ipotesi di reato tentato, nel
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quale il danno patrimoniale non costituisce elemento costitutivo dell'ipotesi delittuosa (Cassazione
penale, Sez. V, 6 ottobre 2005, n. 11142).
Il principio è stato di recente ribadito da altra pronuncia di legittimità:
In tema di reati contro il patrimonio, l'attenuante comune del danno di speciale tenuità (art. 62, comma
1, n. 4, c.p.) non si applica al delitto tentato, posto che il danno patrimoniale non è elemento costitutivo
dell'ipotesi delittuosa (Cassazione penale, sez. V, 27 gennaio 2010, n. 11923).
In altre pronunce si affermato invece l’opposto principio:
In tema di tentato furto, l'applicazione della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità
presuppone che il giudice, avuto riguardo alle concrete modalità dell'azione e a tutte le circostanze di
fatto desumibili dalle risultanze processuali, accerti che il reato, qualora fosse stato consumato,
avrebbe cagionato alla vittima un danno di speciale tenuità (Cassazione penale, sez. V, 4 giugno
2010, n. 35827).
Nella motivazione, per vero molto ragionevole, di questa sentenza la Corte chiarisce di non condividere il
giudizio di astratta incompatibilità della circostanza attenuante con il delitto tentato espresso dal giudice di
merito; e tuttavia evidenzia che l'applicazione della circostanza attenuante al tentativo presuppone che il
giudice, avuto riguardo alle concrete modalità dell'azione e a tutte le circostanze di fatto desumibili dalle
risultanze processuali, individui con certezza ed esattezza il bene di valore particolarmente tenue che
avrebbe costituito l’unico possibile oggetto del tentato furto (si può fare l’esempio del borseggiatore che infili la
mano in una borsa nella quale vi sono solo pochi spiccioli e niente altro).
L'apprezzamento della circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 4 c.p., nel reato tentato deve avere
riguardo alle concrete modalità dell'azione e a tutte le circostanze del fatto desumibili dalle risultanze
processuali, in modo da accertare che il reato, ove fosse stato consumato, avrebbe cagionato in modo
diretto ed immediato un danno di speciale tenuità (Cassazione penale, sez. II, 22 maggio 2009, n.
39837).
Nel reato di furto tentato, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del danno di
speciale tenuità, deve aversi riguardo al danno ipotetico che il reato avrebbe cagionato qualora fosse
stato consumato (Cassazione penale, sez. V, 30 settembre 2008, n. 44153).
Allo stesso modo, anche se in relazione alla diversa ipotesi del delitto di truffa aggravata:
La circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità può essere ravvisata anche nel
delitto tentato, quando le modalità del fatto criminoso siano idonee a fornire concrete e univoche
indicazioni sull'entità del pregiudizio che si sarebbe determinato nel caso in cui l'azione delittuosa
fosse stata portata a compimento (Cassazione penale, sez. fer, 13 agosto 2009, n. 33408).
§ 8 – Delitto tentato e decorrenza del termine della prescrizione.
A norma dell’art. 158 c. p. il termine della prescrizione decorre ... per il reato tentato, dal giorno in cui è cessata
l'attività del colpevole.
Per espressa previsione legislativa, dunque, assume rilievo il giorno in cui è cessata l’attività posta in essere
dal reo, sicché gli eventi successivi possono assumere vario rilievo, ma non ai fini della delimitazione
fattuale e temporale del reato tentato.
In un recente caso giurisprudenziale, la Suprema Corte, ritenendo interamente spirato il termine di
prescrizione del reato, ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna di un soggetto imputato del delitto
di tentata truffa ai danni di una compagnia assicuratrice, per avere prodotto, in un atto di citazione
depositato nell'ottobre del 2000, documentazione sanitaria poi risultata essere falsa.
I giudici di merito avevano ritenuto che il reato non fosse prescritto, in quanto nel 2005 quel giudizio civile si
era concluso con una transazione, ritenuta un evento eziologicamente ricollegato alla condotta artificiosa,
che aveva dunque comportato lo spostamento in avanti del dies di consumazione del reato.
La Suprema Corte così censura quel percorso motivazionale:
Ai fini prescrizionali .. ha rilievo non il giorno in cui la condotta illecita viene scoperta o comunque il reato non può
essere più consumato per cause indipendenti dalla volontà dell'agente, bensì il giorno in cui il reo ha compiuto
l'ultimo suo atto, qualificabile come tentativo. Ora, poiché nel caso di specie l'ultimo atto accertato a carico del
ricorrente avvenne nella .. data in cui produsse, secondo l'accusa, i falsi certificati medici, il reato deve ritenersi
ampiamente prescritto. Il comportamento successivo (nella specie la transazione parziale a seguito della quale
l'imputato percepì la somma di Euro 5.100,00) va, quindi, considerato irrilevante ai fini della decorrenza della
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prescrizione, essendo qualificabile pur sempre come una conseguenza dell'originario comportamento delittuoso
(produzione dei falsi certificati medici) e non come un ulteriore tentativo idoneo a spostare in avanti il dies a quo ai
fini prescrizionali.
E' evidente, quindi, l'equivoco in cui sono incorsi entrambi i giudici di merito che hanno confuso e sovrapposto
l'effetto (transazione parziale) con la causa (produzione della falsa certificazione medica), non avvedendosi che la
transazione non era un nuovo ed autonomo tentativo ma una semplice conseguenza (parziale) dell'originario
comportamento delittuoso (produzione falsi certificati medici). Nell'accogliere il gravame, va, pertanto, ribadito il
principio di diritto (male interpretato ed applicato dalla Corte territoriale) .. secondo il quale "ai fini della
decorrenza del termine di prescrizione del delitto tentato ha rilievo non il giorno in cui la condotta illecita viene
scoperta o comunque il reato non può essere più consumato per cause indipendenti dalla volontà dell'agente, bensì il
giorno in cui il reo ha compiuto l'ultimo suo atto, qualificabile come tentativo" (Cassazione penale, sez. II, 8
aprile 2011, n. 16609).
§ 9 – Ipotesi particolari: la configurabilità del tentativo di rapina impropria in caso di
mancato impossessamento della cosa mobile altrui.
Con particolare riguardo alla fattispecie delittuosa incriminata dal capoverso dell’art. 628 c. p. (che
ricorre quando la violenza o la minaccia sono utilizzate dall'agente non come strumenti per entrare
in possesso del bene, ma immediatamente dopo la sottrazione della cosa mobile altrui, e dunque come
mezzi diretti ad assicurare l'avvenuto impossessamento della cosa ed a garantire l'impunità),
occorre rilevare che non vi sono particolari problemi in ordine alla configurabilità del tentativo di
rapina impropria quando il reo abbia sottratto la cosa altrui e subito dopo abbia tentato di
percuotere la vittima del reato per assicurarsi il possesso del bene, non riuscendo nel suo intento
ad esempio perché fermato dalle forze dell’ordine.
Vi è invece contrasto in ordine all’ipotesi in cui l’agente non porti a compimento la sottrazione
della cosa altrui per fatti estranei alla sua volontà, ed immediatamente dopo eserciti una
violenza o una minaccia per assicurarsi l’impunità in relazione all’azione delittuosa appena
commessa.
L'orientamento prevalente in dottrina (Antolisei, Mantovani) ritiene integrati gli estremi del
tentativo di rapina impropria ogni volta che l’agente, impossessatosi della cosa mobile altrui,
cerchi senza riuscirvi di usare violenza o minaccia contro chi vuole impedirgli di conservare il
possesso ovvero contro chi vuole impedirgli di assicurarsi l'impunità. Fondamento di questo
orientamento è proprio il dato letterale dell’art. 628 c.p. in base al quale nella rapina impropria la
violenza o la minaccia costituiscono condotte di cui la sottrazione è il presupposto, essendo alla
stessa successive. Con la conseguenza che non può prescindersi dalla sottrazione neppure nella
forma tentata.
La giurisprudenza di legittimità si spinge invece oltre, ritenendo configurabile il tentativo di
rapina impropria anche nei casi in cui l'impossessamento non si sia ancora perfezionato; il
tentativo di rapina impropria sarebbe cioè configurabile laddove rimangano allo stadio del
tentativo entrambe le figure criminose unificate ai sensi dell’art. 84 c.p. (il furto e la violenza o
minaccia), e dunque non solo quando l’agente, dopo la sottrazione, non abbia portato a
compimento la violenza o la minaccia, ma anche quando l’agente, fallita la sottrazione, abbia posto
in essere la violenza o la minaccia.
Si evidenzia in proposito che il legislatore intende punire con un adeguato rigore la particolare
criminosità del ladro che ricorre alla violenza o alla minaccia contro le persone: non è dunque
logico sottrarre a questo speciale trattamento punitivo chi attenti al patrimonio e commetta
violenza fisica solo perché l'aggressione si è arrestata in itinere per cause indipendenti dalla volontà
dell'agente.
Dunque, il reato in commento sussiste anche ove il reo abbia compiuto atti esecutivi diretti alla
consumazione del furto, abbia arrestato in itinere la condotta criminosa per cause indipendenti
dalla sua volontà, ed infine abbia usato violenza alla persona per assicurarsi l'impunità; nonostante
non via sia stata sottrazione, la condotta non potrebbe essere sussunta sotto fattispecie normative
diverse, poiché la violenza o la minaccia sono state commesse con lo scopo di acquisire la
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disponibilità del bene con una finalità specifica che è l’elemento qualificante il reato di cui all’art.
628 comma 2 c.p.
È configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso di violenza o minaccia adoperate per conseguire
l'impunità subito dopo che siano stati posti in essere atti idonei diretti in modo non equivoco ad
impossessarsi della cosa mobile altrui (Cassazione penale, sez. II, 23 marzo 2011, n. 17268).
In motivazione si evidenzia che l'ipotesi di cui all'art. 628 cpv. c.p., si perfeziona anche nei casi in cui la condotta di
impossessamento della cosa non sia completata ma sia ancora in atto .., atteso che il criterio qualificante della condotta
criminosa va individuato nell'esercizio della violenza o della minaccia mentre è ancora "in itinere" l'azione difensiva, il
cui esercizio impedisce all'agente di completare l'azione di sottrazione del bene, sottrazione per la quale erano ormai
avviati in maniera non equivoca gli atti esecutivi. La prevalente giurisprudenza si fonda sulla considerazione che
l'elemento caratteristico della rapina impropria si fonda su una fattispecie "a tempi invertiti" atteso che la violenza o la
minaccia non sono presi in considerazione come "modalità per la sottrazione ed impossessamento" - come nell'ipotesi di
rapina consumata- ma come "mezzi diretti ad assicurare l'impossessamento ovvero l'impunità", ove elementi primari
divengono questi ultimi aspetti rispetto all'attività di sottrazione del bene … La sentenza impugnata risulta immune da
censure in quanto ha ravvisato la penale responsabilità dell'imputato sulla scorta della predetta giurisprudenza,
sottolineando che la condotta violenta dell'imputato era diretta ad assicurarsi l'impunità e si era manifestata dopo che
egli ed il complice avevano compiuto degli atti idonei ed inequivocabilmente diretti ad impossessarsi dei beni presenti
nell'abitazione sottostante.
Integra il tentativo di rapina impropria la condotta del soggetto che adopera violenza o minaccia per
assicurarsi l'impunità, immediatamente dopo il compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco ad
impossessarsi della cosa mobile altrui (Cassazione penale, sez. II, 23 settembre 2010, n. 36723).
Nel caso di specie la Suprema Corte ha confermato la statuizione dei giudici di merito, ritenendo
configurabile il tentativo di rapina impropria nella condotta degli imputati che avevano prelevato alcune
bottiglie dai banchi di vendita di un supermercato, le avevano nascoste in un sacchetto, ed avevano cercato di
allontanarsi dal supermercato; scoperti dagli addetti alla sicurezza, avevano reagito con violenza, nel
tentativo di impossessarsi della refurtiva e di garantirsi l'impunità: integra il tentativo di rapina impropria la
condotta del soggetto che adopera violenza o minaccia per assicurarsi l'impunità, immediatamente dopo il compimento di
atti idonei diretti in modo non equivoco ad impossessarsi della cosa mobile altrui, come accertato nel caso di specie. La
norma incriminatrice di cui all'art. 628 c.p., comma 2 va, infatti, integrata con la norma generale sul delitto tentato
sicché non si richiede, in ipotesi di tentativo, l'effettivo impossessamento del bene altrui, essendo, invece, sufficiente che
la condotta dell'agente sia potenzialmente idonea a produrre l'impossessamento stesso, mediante violenza o minaccia e
che la direzione univoca degli atti, desumibile da qualsiasi elemento di prova, renda manifesta la volontà di conseguire
l'intento criminoso. Occorre, in particolare, tener presente che, secondo la disciplina del delitto tentato, ai fini della
qualificazione giuridica di un determinato fatto storico, si richiede che la relativa valutazione sia effettuata al temine
della condotta posta in essere dall'imputato e che quando, l'azione non si compie o l'evento non si verifica, deve aversi
riguardo alla condotta complessivamente realizzata fino all'intervento di fattori esterni interruttivi.
È configurabile il tentativo di rapina impropria, e non quello di tentato furto in concorso con la violenza
o la minaccia, anche in assenza dell'avvenuta sottrazione della cosa, quando l'agente mantenga una
condotta violenta o minacciosa dopo l'azione diretta a impossessarsi della cosa altrui che non sia però
riuscito a sottrarre (Cassazione penale, sez. II, 19 maggio 2010, n. 22661)
Nel caso di specie la Corte ha confermato la statuizione dei giudici di merito, ritenendo configurabile il
tentativo di rapina impropria nonostante l’imputato fosse stato fermato da un carabiniere (poi rimasto ferito a
seguito della violenta reazione del reo) prima di aver completato l’azione di impossesamento del bene,
argomentando che è configurabile il tentativo di rapina c.d. impropria anche in assenza dell'elemento dell'avvenuta
sottrazione della cosa, giacché il capoverso dell'art. 628 c.p., dove è descritta la fattispecie del reato consumato, si integra
necessariamente con la norma generale di cui all'art. 56 c.p., di guisa che non può escludersi che l'una o l'altra delle
figure criminose unificate nella norma (il furto e la violenza o minaccia) possa presentarsi in astratto nella forma del
tentativo e che non sia correlabile al fine specifico di assicurare al reo, o ad altri, se non il possesso della cosa, l'impunità
della condotta. In altri termini, l'azione diretta alla sottrazione del bene, anche se incompiuta, assorbe, come nel reato
consumato, l'azione violenta, strumentale alla sottrazione, ma non all'evento dell'impossessamento, perché questo è
previsto in alternativa, nella norma, al fine dell'impunità.
Analogo principio è stato di recente affermato da altre pronunce di legittimità:
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È configurabile il tentativo di rapina impropria nella condotta di colui che, dopo avere compiuto atti
idonei all'impossessamento del bene altrui non realizzatosi per cause indipendenti dalla sua volontà,
adoperi violenza o minaccia finalizzate ad assicurarsi l'impunità per quanto commesso (Cassazione
penale, sez. II, 12 marzo 2010, n. 23610)
Nel caso di specie la Suprema Corte ha confermato la statuizione dei giudici di merito, ritenendo
configurabile il tentativo di rapina impropria nei confronti di alcuni soggetti che, entrati nel giardino di una
villa al fine di commettere un furto, erano stati bloccati dai Carabinieri (poi rimasti feriti a seguito della
violenta reazione degli imputati) che si erano appostati avendo ricevuto in via confidenziale notizia della
progettata rapina: la giurisprudenza di questa sezione è costante nel ritenere la possibilità di configurare il tentativo di
rapina impropria nella condotta di colui che, dopo aver compiuto (come nel caso in esame) atti idonei
all'impossessamento della cosa altrui non realizzati per cause indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia
per assicurarsi l'impunità .., ciò anche quando la violenza o la minaccia per assicurarsi l'impunità siano esercitate nel
corso degli atti esecutivi e senza che si sia realizzata la sottrazione della cosa per l'intervento di fattori esterni
interruttivi dell'azione criminosa. Una lettura logico-sistematica e non meramente letterale dell'art. 628 c.p., comma 2,
che descrive la condotta tipica della rapina impropria, permette infatti di individuare la condotta che configura la forma
tentata del reato in questione ogni qual volta l'azione tipica non si compia o l'evento non si verifichi, fattispecie che
ricorre specificamente nell'ipotesi di colui che adopera violenza o minaccia per procurarsi l'impunità immediatamente
dopo aver compiuto atti idonei,diretti in modo non equivoco a sottrarre la cosa mobile altrui, senza essere riuscito
nell'intento a causa di fattori sopravvenuti estranei al suo volere. Il delitto di rapina, infatti, sia nella forma propria che
in quella impropria, costituisce un tipico delitto di evento, suscettibile come tale di arrestarsi allo stadio del tentativo,
qualora la sottrazione non si verifichi. Pertanto allorché un tentativo di furto sfoci, come nel caso di specie, in violenza o
minaccia finalizzate ad assicurarsi l'impunità una valutazione sistematica impone di concludere che, anche in caso di
mancato conseguimento della sottrazione del bene altrui, sia stata messa in atto una rapina impropria incompiuta e
quindi un tentativo di rapina impropria.
Cfr., negli stessi termini, Cassazione penale, sez. II, 26 novembre 2010, n. 44365 (è configurabile il
tentativo di rapina impropria nel caso in cui l'agente, dopo aver compiuto atti idonei all'impossessamento
della "res" altrui, non portati a compimento per cause indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o
minaccia per assicurarsi l'impunità), sez. II, 18 novembre 2010, n. 42961 (è configurabile il tentativo di
rapina impropria nella condotta di chi, dopo aver compiuto atti idonei all'impossessamento della cosa altrui,
non realizzati per cause indipendenti della sua volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi
l'impunità. In motivazione la Corte ha, altresì, precisato che ad analoga soluzione si perviene anche quando
la violenza o la minaccia per assicurarsi l'impunità siano esercitate nel corso degli atti esecutivi e senza che
si sia realizzata la sottrazione della cosa per l'intervento di fattori esterni interruttivi dell'azione criminosa).
§ 10 – Segue: il furto nei supermercati organizzati con il sistema del self service.
Altro tema da sempre dibattuto in dottrina e giurisprudenza attiene alla individuazione del
momento consumativo del reato nel caso in cui l’agente si impossessi di merce dagli scaffali di un
supermercato organizzato con il sistema del self service.
Il sistema è come noto caratterizzato dal prelievo diretto degli oggetti esposti da parte del cliente,
che ne diviene così non possessore ma detentore; titolare del possesso del bene rimane il gestore
dell’esercizio commerciale, che esercita il possesso a mezzo della vigilanza sua o di persone da lui
preposte a tale scopo; la trasmissione della titolarità del possesso dal gestore del negozio, o da chi
ne fa le veci, all'acquirente, si perfeziona solo al momento del pagamento del dovuto corrispettivo
alla cassa.
La soluzione della questione passa attraverso la valorizzazione del concetto di “impossessamento”
di cui all’art. 624 c. p.: se il possesso equivale ad autonoma disponibilità della cosa, si ha
impossessamento solo nel momento in cui si acquista una tale disponibilità. Non è dunque
sufficiente che il bene sia entrato nella materiale disponibilità dell’agente, ma è necessario che
l’agente acquisisca su di esso una signoria autonoma ed indipendente, ossia che il bene esca dalla
sfera di vigilanza del legittimo detentore: solo in questo momento può configurarsi un nuovo
possesso in capo all’agente.
Non può dunque sostenersi che il furto si consumi con condotta del ladro che sottrae gli oggetti
esposti nel negozio, ad esempio infilandoli sotto il giaccone o in una sacca che porta con sé: lo
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spostamento della merce, dallo scaffale alla borsa dell’agente, non è sufficiente ad integrare il
furto, perché i beni non sono ancora usciti dalla sfera di vigilanza e controllo del soggetto passivo,
sfera comprensiva dello spazio del negozio e di quello ulteriore - ad esempio il magazzino o il
piazzale antistante - in cui la condotta rimane sotto la percezione di sistemi di controllo del
supermercato o del personale addetto.
Pertanto, se il ladro acquisisce autonoma disponibilità della merce portandola fuori dalla predetta
sfera di vigilanza, il delitto sarà consumato; in caso contrario si configurerà un tentativo di furto.
Il principio è affermato dalla prevalente giurisprudenza della Suprema Corte, anche se non
mancano pronunce in senso opposto.
In tema di furto, il prelevamento della merce dai banchi di vendita di un grande magazzino a sistema
'self servicè e l'allontanamento senza pagare realizzano il reato di furto consumato; tuttavia, allorché
l'avente diritto o persona da questi incaricata sorvegli l'azione furtiva, così da poterla interrompere in
qualsiasi momento, il delitto non può dirsi consumato neanche con l'occultamento della cosa sulla
persona del colpevole, perché la cosa non è ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto
dell'offeso (Cassazione penale, sez. V, 20 dicembre 2010, n. 7042).
Nel caso di specie l’imputato era stato condannati per il delitto di furto consumato, per essersi impossessato
di merce esposta sui banchi di un supermercato, occultandola sotto la giacca; solo una volta oltrepassate le
casse, l’imputato era stato fermato dal personale di vigilanza, che aveva percepito la intera azione delittuosa dal
suo iniziale dispiegarsi..
La Corte accoglie il ricorso del difensore dell’imputato, essendo configurabile solo il furto tentato, poiché
l’imputato rimase sempre sotto la sfera di vigilanza del personale del supermercato: allorché l'avente diritto o
persona da lui incaricata sorvegli l'azione furtiva, si da poterla interrompere in ogni momento, il delitto non può dirsi
consumato neanche con l'occultamento della cosa sulla persona del colpevole, perché la cosa non è ancora uscita dalla
sfera di vigilanza e di controllo diretto dell'offeso .. In altri termini, se è indubbio che il passaggio attraverso le casse del
supermercato con la merce occultata sulla persona dell'agente costituisce, in linea generale, prova dell'avvenuto
spossessamento della cosa mobile altrui e della correlata sottrazione a chi la detiene, deve però anche considerarsi che
possono verificarsi situazioni concrete nelle quali, pur essendosi verificata la "sottrazione" del bene, tolto alla
disponibilità del detentore, può non essersi invece concretato lo "spossessamento", situazione quest'ultima che si verifica
solo quando il titolare del diritto abbia perduto il possesso della cosa, sottratta alla sua sfera di "vigilanza e di controllo
diretto", sicchè egli non abbia più la disponibilità autonoma.
Integra un tentativo di furto la condotta di prelevamento della merce dai banchi di vendita di un
grande magazzino a sistema "self service" e di allontanamento, con la merce occultata, senza pagare,
allorché l'avente diritto o persona da lui incaricata sorvegli l'azione furtiva, sì da poterla interrompere
in ogni momento, perché la cosa non è ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto
dell'offeso (Cassazione penale, sez. IV, 22 settembre 2010, n. 38534).
Nel caso di specie gli imputati erano stati condannati per il delitto di furto consumato per essersi impossessati
di alcuni alimenti sottratti dal banco della gastronomia di un supermercato, occultandoli all'interno delle
proprie borse, ed oltrepassando le casse, provvedendo a pagare solo alcuni alimenti riposti in una busta
tenuta in vista.
Il giudice di merito aveva ritenuto trattarsi di furto consumato poiché gli imputati avevano superato i varchi
dove erano collocate le casse, omettendo di esibire e di pagare la merce occultata nelle proprie borse, così
conseguendo il possesso della merce stessa per un certo lasso di tempo (vi era cioè stato un concreto anche se
breve intervallo nel quale la merce era uscita dalla sfera di controllo e vigilanza della parte offesa o dei suoi
incaricati).
La Corte accoglie il ricorso del difensore degli imputati, osservando che gli imputati erano rimasti sempre
sotto la costante osservazione (anche a mezzo dell’impianto di videosorveglianza) dall'addetta
all'antitaccheggio del supermercato sia al momento nel quale costei fu insospettita dall'osservare che le tre donne
avevano riposto nelle loro borse parte della merce ritirata dal banco della gastronomia, sia nel momento nel quale le stesse
si presentarono alle casse laddove la sorvegliante si recò, a sua volta, proprio al fine di verificare i comportamenti delle tre
imputate, perdendo il contatto visivo delle stesse solo in un arco temporale ed in una contingenza spaziale irrilevanti:
sicchè costituisce un argomento privo di apprezzabile senso logico, al fine di qualificare il fatto come furto consumato,
quello per il quale le medesime tre imputate non sarebbero state tenute costantemente sotto sorveglianza sol perchè la
condotta dell'addetta all'antitaccheggio fu quella prudenziale testè descritta
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Il prelevamento della merce dai banchi di vendita di un grande magazzino a sistema "self service" e
l'allontanamento senza pagare realizzano il reato di furto consumato, ma allorché l'avente diritto o
persona da lui incaricata sorvegli l'azione furtiva, sì da poterla interrompere in ogni momento, il delitto
non può dirsi consumato neanche con l'occultamento della cosa sulla persona del colpevole, perché la
cosa non è ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto dell'offeso (Cassazione penale,
sez. V, 6 maggio 2010, n. 21937)
Nel caso di specie la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso del Procuratore Generale avverso la sentenza
di applicazione della pena per il reato di tentato furto aggravato di un paio di occhiali dagli espositori di un
supermercato: il ricorrente aveva osservato che gli imputati furono bloccati solo dopo avere varcato la linea
delle casse, e quindi fuori dell'area di vendita; inoltre essi avevano celato la refurtiva in una tasca. La Corte
rileva che in tema di furto, fermo restando che il prelevamento della merce dai banchi di vendita dei grandi magazzini a
sistema "self service" e l'allontanamento senza pagare realizzano il reato in esame, deve ritenersi che quando l'avente
diritto o persona da lui incaricata sorvegli le fasi dell'azione furtiva, sì da poterla interrompere in ogni momento, il
delitto non è consumato neanche con l'occultamento della cosa sulla persona del colpevole. Ciò perché la cosa non è
ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto dell'offeso .. il Tribunale ha inteso aderire alla giurisprudenza
appena richiamata, valorizzando, in particolare, il fatto della installazione di un circuito di telecamere nel supermercato e
la presenza di personale di vigilanza che aveva tenuto sotto controllo tutta l'azione furtiva.
Integra il tentativo di furto - e non il furto consumato - la sottrazione di merce all'interno di un
supermercato, avvenuta in zona monitorata dal sistema di videosorveglianza, considerato che, in tal
caso, l'avente diritto o, comunque, i soggetti da questi preposti sorvegliano tutte le fasi dell'azione
furtiva, in modo da poterla interrompere in qualsiasi momento (Cassazione penale, sez. V,
28 gennaio 2010, n. 11592)
Nel caso di specie la Corte ha così motivato l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, con
riqualificazione del fatto ascritto agli imputati come tentato furto aggravato (e conseguenziale
rideterminazione della pena): questa Corte ha affermato il principio che si è in presenza di tentativo allorquando
l'avente diritto o persona da lui incaricate abbia sorvegliato tutte le fasi dell'azione furtiva, sì da poterla interrompere in
ogni momento .. Nel merito, risulta dalla sentenza impugnata che l'addetto alla sorveglianza aveva monitorato tutta la
fase dell'azione, chiamando i carabinieri; per cui può riconoscersi soltanto il tentativo, come del resto qualificato per i
coimputati minorenni dalla sezione relativa della stessa Corte.
In senso contrario a quanto fin qui prospettato:
Costituisce furto consumato e non tentato quello che si commette all'atto del superamento della
barriera delle casse di un supermercato con merce prelevata dai banchi e sottratta al pagamento, a
nulla rilevando che il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del supermercato,
incaricato della sorveglianza (Cassazione penale, sez. V, 19 gennaio 2011, n. 7086).
La Corte evidenzia che il momento consumativo del reato è ravvisabile fin dal momento in cui l’agente
nasconda la merce in una tasca o nella borsa, in modo da predisporre le condizioni per passare dalla cassa senza
pagare. Invero, oltre alla amotio, la condotta sopra illustrata determina l'impossessamento della res (non importa se per
lungo tempo o per pochi secondi) e, dunque, integra, in presenza del relativo elemento psicologico, gli elementi costitutivi
del delitto di furto. Il superamento delle "linee di cassa" non rappresenta .. una sorta di profanazione di un inesistente
limes sacrale, ma semplicemente rende manifesta la volontà dell'agente di non pagare le cose che, operando nel sistema
c.d. a self service, ha prelevato dagli scaffali Detto superamento, insomma, opera più sul piano della prova, che su quello
della integrazione degli elementi tipici.
Integra il reato di furto consumato e non tentato la condotta di colui che si impossessi, superando la
barriera antitaccheggio, di un oggetto (nella specie un televisore), sottratto ad un supermercato,
occultandolo sotto il giubbotto, a nulla rilevando che il fatto sia avvenuto sotto il controllo degli addetti
alla sicurezza (Cassazione penale, sez. V, 13 luglio 2010, n. 37242).
Con motivazione stringata la Corte conferma la sentenza di condanna per il delitto di furto consumato degli
imputati, che si erano impossessati di un televisore LCD di 14 pollici e del relativo alimentatore, esposti su un
bancone di un grande magazzino, occultandoli sotto il giaccone indossato da uno di essi, osservando che
legittimamente è stato qualificato il fatto come furto consumato, sia perché gli imputati erano riusciti a oltrepassare la
barriera antitacheggio con il televisore nascosto sotto il giubbotto, a nulla rilevando che il fatto fosse avvenuto sotto il
controllo degli addetti alla sicurezza, sia perché la U. come risulta dalla sentenza appellata era riuscita a portare fuori dal
supermercato l'alimentatore, recuperato solo dopo opportune ricerche.
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Si ha furto consumato, e non tentato, se con la merce prelevata dai banchi di un supermercato e
sottratta al pagamento si supera la barriera delle casse, a nulla rilevando che il fatto sia avvenuto sotto
il costante controllo del personale del supermercato incaricato della sorveglianza (Cassazione penale,
sez. V, 8 giugno 2010, n. 27631).
§ 11 – La desistenza ed il recesso.
Gli ultimi due commi dell'articolo 56 c. p. regolano il caso in cui il soggetto, dopo aver compiuto atti che già
di per sé costituiscono tentativo punibile, muti il proprio intento e si adoperi in modo che il delitto non si
perfezioni: in tali casi il soggetto andrà incontro ad un trattamento sanzionatorio più mite.
Il fondamento politico-criminale di questi due istituti viene tradizionalmente individuato nella teoria cd. del
ponte d'oro: essi infatti, attraverso la promessa di impunità totale o parziale, incentivano l'agente ad
abbandonare la condotta criminosa, evitando che la consapevolezza della pena già meritata sia di incentivo
alla consumazione del reato.
Questa teoria è stata sottoposta a critica, soprattutto perché, si dice, essa presuppone che tutti i rei conoscano
la norma sulla desistenza; il reo, inoltre, può agire per i motivi più disparati, così che egli non è sempre (ed
in effetti non è quasi mai) in grado di valutare i pro ed i contro della sua azione.
Le critiche non sembrano tuttavia tali da poter destituite di ogni fondamento la teoria in esame: va infatti
considerato che l'uomo comune perviene per induzione alla conoscenza della sanzionabilità del suo agire
antisociale e della premialità derivante dall'essersi fermato, poiché sa, per esperienza generale, che la
sanzione è graduata a seconda che maggiore o minore sia il "male" fatto.
Si ha desistenza dall'azione quando l'agente rinuncia a compiere gli ulteriori atti che poteva ancora
compiere perché il reato si perfezionasse: desiste, ad esempio, chi abbandona il proposito omicida dopo
aver propinato alla vittima solo la prima delle dosi di veleno che aveva programmato di somministrare. Per
desistere, dunque, all'agente è sufficiente non continuare nel proprio comportamento, o, in rari casi, attivarsi
per eliminare le conseguenze del proprio comportamento (l'esempio può essere quello di chi ha presentato
una falsa denuncia di sinistro alla compagnia assicuratrice: costui può desistere ritirando la denuncia prima
che essa sia esaminata). Più precisamente, nei delitti commissivi l’agente deve interrompere l’azione che
stava compiendo, mentre nei delitti omissivi deve intraprendere ciò che stava omettendo, cioè l’azione
doverosa.
Ad esempio nel caso oggetto di una recente pronuncia di legittimità, la Corte di Cassazione non ha ritenuto
configurabile l’istituto della desistenza nei confronti del soggetto imputato del delitto di blocco ferroviario,
evidenziando che
il fatto che il blocco ferroviario è effettivamente avvenuto per almeno un'ora esclude che, nella specie,
possa parlarsi di desistenza attiva dal reato anzidetto (Cassazione penale, sez. I, 29 aprile 2010, n.
20312).
Si ha invece recesso (o pentimento operoso) quando l'agente, dopo aver posto in essere tutti gli atti
necessari, impedisce l'evento tenendo una controcondotta che arresta il processo causale già in atto: in
questo caso il processo causale si è quindi già messo in moto, "staccandosi" dalla signoria dell'agente, al
quale non rimane altro che attivarsi per arrestare le conseguenze del proprio comportamento; recede, ad
esempio, colui che, dopo aver somministrato tutte le dosi di veleno programmate, impedisce la morte della
propria vittima trasportandola all'ospedale per le urgenti cure.
Per recedere, dunque, l'agente deve attivarsi per fermare quel processo causale che altrimenti porterebbe
inesorabilmente alla verificazione dell'evento; ove sia stato commesso un reato di pericolo, difficilmente
residuerà spazio per la configurabilità di un recesso; ad esempio la Suprema Corte ha di recente statuito che
l’istituto in argomento non è configurabile in relazione al reato di cui all’art. 189, settimo comma, cds,
confermando la sentenza di condanna del soggetto che, dopo essere rimasto coinvolto quale conducente di
una autovettura in un sinistro stradale, non si era fermato per prestare i necessari soccorsi al conducente del
motociclo coinvolto nel sinistro, ritornando tuttavia sul luogo del sinistro dopo circa un quarto d’ora:
E' da rilevare che, rifacendoci alla ratio della norma di cui all'art. 189 cds, è un presupposto, per così
dire in re ipsa, che l'obbligo di fermarsi, ancorchè non specificamente richiesto, debba essere
immediato, altrimenti verrebbe vanificato il fine precipuo della tutela della norma che è quello della
salvaguardia della salute della o delle persone coinvolte in un incidente stradale, laddove perdere tempo
utile nel chiamare le forze dell'ordine o i presidi sanitari, o nel dare personalmente da parte
dell'agente un primo soccorso, potrebbe comprometterne anche la vita. Orbene, se, nel caso di specie,
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fosse stata effettivamente accertata l'impossibilità materiale del B. di fermarsi subito dopo il luogo
ove si è verificato l'incidente, il ritardo ovviamente non potrebbe addebitarsi al medesimo, ma se egli
ne ha avuto la possibilità e non lo ha fatto, correttamente, come ritenuto dalla Corte distrettuale, egli
deve rispondere del reato contestato. Non rileva a questo punto accertare le ragioni del perché il
ricorrente sia ritornato sul posto dell'incidente non nell'immediatezza, se perché preso da senso civico
di solidarietà o per timore della sanzione penale, il fatto oggettivo è che egli, avendo l'obbligo di
fermarsi immediatamente, non l'ha fatto, pur essendosi reso conto di aver provocato un incidente che
ha coinvolto delle persone .. In considerazione proprio dell'obbligo immediato di fermarsi non rileva il
fatto che egli, volontariamente sia pure in ritardo, sia tornato sul luogo dell'incidente stradale, atteso
che non si può far ricorso al ravvedimento operoso di cui all'art. 56 c.p., u.c., trattandosi di reato di
pericolo e non di evento (Cassazione penale, sez. IV, 3 novembre 2010, n. 44849).
Allo stesso modo, ove si sia già verificato l’evento, non vi può essere spazio per la configurabilità della
desistenza, essendosi già in presenza di un tentativo compiuto: in tal caso è del tutto minoritaria la posizione
di chi, in dottrina, ritiene che si ha desistenza anche nel caso di mancata ripetizione, possibile e contestuale,
dell’azione tipica, come nell’esempio di chi, dopo avere sparato il primo colpo, e potendone esplodere altri,
vi rinuncia. Ad avviso del Mantovani, anche in questo caso dovrebbe parlarsi di desistenza, mentre secondo
la dottrina prevalente e secondo la univoca giurisprudenza si è in presenza di un tentativo punibile. Si
leggano, ad esempio, le motivazioni di Cassazione penale, sez. I, 7 luglio 2009, n. 31221, relativa al
caso di soggetto condannato per tentato omicidio (perché armato di coltello a serramanico colpiva con un
unico colpo sferrato con violenza al basso ventre il presunto amante di sua moglie, subito dopo
allontanandosi e andando via), che, nel rigettare il motivo di ricorso basato sul mancato riconoscimento della
desistenza volontaria, testualmente argomenta nel senso che
la desistenza può aversi solo nella fase del "tentativo incompiuto" e non è configurabile una volta che
siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l'evento rispetto ai
quali può, semmai, operare, se il soggetto agente tiene una condotta attiva che valga a scongiurare
l'evento, la diminuente per il cosiddetto recesso attivo .. Essa postula, pertanto, che l'agente abbandoni
l'azione criminosa prima che questa sia portata a compimento e, cioè, prima che egli realizzi
compiutamente l'azione tipica della fattispecie incriminatrice, se trattasi di reati a forma vincolata, o
che egli impedisca, avendone ancora il dominio, che l'azione sia completamente realizzata quando il
delitto è causalmente orientato o a forma libera. La sentenza impugnata è esente dai vizi denunciati,
avendo correttamente sottolineato che l'imputato si allontanò dopo avere posto in essere una condotta
concretamente e univocamente diretta a cagionare la morte della parte offesa che non si verificò
esclusivamente per cause indipendenti dalla volontà di P.
Si è recentemente soffermata sulla distinzione tra i due istituti una pronuncia di legittimità relativa al caso
del medico in servizio presso una struttura pubblica, condannato per il delitto di tentata truffa aggravata per
avere falsamente attestato sul foglio presenze giornaliero di essere stato in servizio per un orario più lungo
rispetto a quello effettivamente osservato. L’imputato, qualche giorno dopo, aveva fatto recapitare all'ufficio
preposto al conteggio delle ore lavorative una rettifica con cui indicava l'esatto ammontare delle ore
lavorate, così evitando l'induzione in errore del funzionario dell'ente deputato ad erogargli lo stipendio.
Ricorrendo avverso la condanna, il difensore dell’imputato invocava il riconoscimento dell’esimente della
desistenza (in luogo della attenuante, riconosciuta dal giudice di merito, del recesso): la Corte rigetta il
ricorso evidenziando che
l'artificio (mendace indicazione delle ore lavorative) era già perfettamente compiuto ed era (sempre
secondo la doverosa prognosi postuma) astrattamente tale da mettere in moto il procedimento causale
(e contabile) che sarebbe sfociato nell'erogazione della retribuzione: prova ne sia che per impedire
l'evento è stato necessario il ricorso ad un'azione uguale e contraria, vale a dire alla rettifica .. Dunque,
a fronte di univocità ed idoneità dell'artificio sopra descritto, deve confermarsi che la condotta posta
in essere prima della rettifica comunicata il 13.8.04 di per sè integrava già un tentativo punibile,
presupposto - questo - di ogni discorso di potenziale applicazione dell'art. 56 c.p., comma 3 o comma 4.
Orbene, per antica e costante giurisprudenza di questa Corte Suprema la desistenza volontaria si
differenzia dal recesso attivo in quanto la prima interviene quando s'interrompe l'attività esecutiva,
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mentre il secondo è ravvisabile quando l'attività esecutiva è compiutamente esaurita e manca solo che
si realizzi l'evento .. Per attività esecutiva compiutamente esaurita deve intendersi l'intera condotta
tipica, come descritta dalla norma incriminatrice (e, quindi, non intesa in senso meramente
naturalistico).
A questo punto il discorso deve scindersi in due tronconi, a seconda che si versi in tema di reati
omissivi impropri o di reati commissivi d'evento (come nel caso di specie).
Nella prima evenienza, per arrestare il processo causale ed aversi desistenza basta che l'agente
intraprenda l'azione dovuta, che fino a quel momento aveva omesso.
Nella seconda - che è quella che qui interessa, posto che la truffa costituisce reato d'evento, che si
perfeziona nel momento in cui alla realizzazione della condotta tipica da parte dell'autore abbia fatto
seguito la "deminutio patrimonii" del soggetto passivo .., l'agente deve interrompere la sequenza di atti
all'esito dei quali si ha per esaurita la condotta tipica, nel senso che deve arrestarsi prima di porre in
essere quegli atti ulteriori senza i quali l'evento non potrebbe verificarsi.
Non costituisce mai desistenza, invece, astenersi dal ripetere un'azione tipica già esaurita: in tal caso
l'autore attende solo che si produca l'evento.
Se, invece, prima del verificarsi dell'evento il soggetto agente interviene con nuovi atti di segno
eziologicamente contrario a quelli (in precedenza posti in essere) esecutivi del reato, sarà ravvisabile
un recesso attivo.
In altre parole, nei reati commissivi (come quello per cui oggi è processo) la desistenza ha sempre
carattere omissivo (degli ulteriori necessari atti esecutivi): diversamente, se - cioè - vengono posti in
essere ulteriori atti, o questi avranno conforme direzione causale rispetto alla condotta tipica già
esauritasi (ed allora saranno causalmente ininfluenti), oppure saranno di segno eziologicamente
contrario a quelli già posti in essere e allora si verserà nell'ipotesi del recesso attivo (o ravvedimento
operoso, secondo altra nota - seppur meno propria - terminologia), sempre che la condotta tipica si sia
già esaurita.
In breve, a negare fondatezza all'assunto dell'odierno ricorrente è la natura stessa della desistenza
nei reati commissivi, che consiste nell'omettere - appunto - ulteriori (e causalmente necessari) atti
esecutivi, mentre è solo nei reati omissivi impropri che la desistenza consiste in un facere (vale a dire
nell'intraprendere la condotta dovuta, che si stava omettendo).
Dunque, in sintesi, mentre nei reati omissivi impropri la condotta commissiva integra desistenza, in
quelli commissivi costituisce - invece - recesso attivo (sempre, s'intende, in ipotesi di condotta tipica
già esaurita).
La conclusione che precede è confermata anche sotto altro profilo.
La condotta tipica nel reato p. e p. ex art. 640 c.p. consiste in artifici e raggiri idonei all'altrui
induzione in errore, mentre il conseguente atto di disposizione patrimoniale produttivo di danno per il
deceptus e di ingiusto profitto per il deceptor integra l'evento del delitto in discorso.
A sua volta, l'avvenuta induzione in errore è evento (inteso in senso naturalistico) intermedio, che si
colloca tra gli artifici e/o raggiri e l'atto di disposizione patrimoniale da parte del deceptus; per
l'esattezza, costituisce la deliberazione volitiva (viziata dall'altrui frode) che è alla base dell'atto
dispositivo.
Contrariamente a quanto si legge in ricorso, l'avvenuta induzione in errore non appartiene alla condotta
tipica del delitto p. e p. ex art. 640 c.p. perché in essa rientrano soltanto gli atti su cui il soggetto
attivo mantenga pieno e personale dominio (nel senso che può porli in essere od astenersi dal farlo):
invece, il cadere o meno in errore dipende dalla maggiore o minore capacità di resistenza all'altrui
frode da parte del deceptus, vale a dire da processi mentali propri di quest'ultimo.
Né rientra nella condotta tipica de qua la rettifica posta in essere dal ricorrente il 13.8.04, trattandosi
- come si è già visto - di atto di segno eziologicamente contrario a quello posto in essere
precedentemente.
Dunque, l'adoperarsi fattivamente - così come ha fatto l'odierno ricorrente – affinché il destinatario
dell'artificio non cadesse in errore è azione che si colloca all'esterno di una condotta tipica già
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realizzata in tutti i necessari segmenti: quindi, non integra desistenza, ma recesso attivo (Cassazione
penale, sez. II, 22 dicembre 2009, n. 2772)1.
Desistenza e recesso devono avvenire, secondo il tenore letterale dell'articolo 56 c. p., "volontariamente":
questo, però, non vuol dire che il ravvedimento deve essere anche spontaneo (quando la legge esige la
spontaneità, la richiede espressamente, come ad esempio nel caso dell'art. 62 n. 6 c. p.), poiché il legislatore
prescinde dalla meritevolezza dei motivi che inducono il reo a mutare proposito: ciò implica che gli istituti in
esame sono indifferentemente configurabili laddove l’agente interrompa la propria azione per paura, per
mero calcolo utilitaristico, per ribrezzo, per superstizione.
La volontarietà indica dunque l'esigenza che il soggetto si prefiguri il ravvedimento come una possibilità di
scelta ragionevolmente libera: l'importante è che non si tratti di una scelta forzata, imposta dalle circostanze
(ad esempio dalla resistenza della vittima, dall'abbaiare dei cani da guardia, dall'arrivo sulla scena del
crimine delle forze dell'ordine).
La "volontarietà" della desistenza non deve essere confusa con la "spontaneità" della medesima nel
senso che la desistenza è volontaria anche quando non è spontanea perché indotta da ragioni
utilitaristiche o da considerazioni dirette ad evitare un male ipotizzabile o dalla presa di coscienza
degli svantaggi che potrebbero derivare dal proseguimento dell'azione criminosa .. La legge non prende
in considerazione le intime ragioni che inducono l'agente a desistere dall'azione criminosa ma richiede
invece, con la previsione del requisito della volontarietà, che la desistenza non sia riconducibile a cause
esterne che rendano impossibile, o gravemente rischiosa, la prosecuzione dell'azione. Insomma, seppur
non spontanea, tale prosecuzione non deve essere impedita da fattori esterni che renderebbero
estremamente improbabile il successo dell'azione medesima; la scelta deve quindi essere operata in una
situazione di libertà interiore indipendente dalla presenza di fattori esterni idonei a menomare la
libera determinazione dell'agente (Cassazione penale, sez. IV, 24 giugno 2010, n. 32145).
Nel caso oggetto della pronuncia appena riportata, la Corte ha rigettato il ricorso del soggetto condannato
per il delitto di tentata estorsione, non ritenendo configurabile l’invocata desistenza sulla base della
considerazione che la desistenza non era stata volontaria ma resa necessaria dalla circostanza che S. era venuto a
conoscenza di essere stato ripreso dalle telecamere installate in prossimità dell'esercizio nei confronti del cui titolare
veniva esercitata l'attività estorsiva.
In una recente pronuncia la Suprema Corte ha giudicato l’analogo caso di due soggetti indagati per il delitto
di tentata estorsione per aver compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere M.A., amministratore
unico della "Supermercati (OMISSIS) s.r.l." a pagare una somma imprecisata di denaro a titolo di "pizzo". In
particolare, il R. ed il G. si erano presentati in due occasioni presso il suddetto esercizio commerciale, qualificandosi
come "gli amici dell'Acquasanta", così palesando l'interesse di Cosa Nostra, chiedendo di incontrare i titolari e
mandando a dire loro che se non volevano incontrarli "stavano commettendo un errore".
Il Tribunale del riesame, rilevando che la misura cautelare era intervenuta 16 mesi dopo la commissione dei
fatti, e che a quelle due richieste di incontri non aveva fatto seguito alcun ulteriore incontro o alcun atto di
intimidazione nei successivi 16 mesi, annullava l’ordinanza custodiale, ritenendo che, quand’anche fosse
concretamente configurabile il delitto di tentata estorsione, doveva comunque ritenersi non punibile la
condotta per l'esimente di cui all'art. 56, terzo comma, c. p.
La Suprema Corte annulla il provvedimento sollecitando una più attenta disamina della volontarietà della
decisione degli indagati di non dare corso alle richieste estorsive, anche alla luce del fatto che la persona
offesa, pochi giorni dopo i fatti, aveva sporto denuncia. In motivazione può leggersi tra l’altro che
l'esimente della desistenza volontaria è un istituto che trova giustificazione in ragioni di politica
criminale: il legislatore, pur a fronte di atti già compiuti e volti alla consumazione di un determinato
delitto, ha ritenuto opportuno privilegiare il momento di utile volontario ripensamento prima del
definitivo compimento dell'azione che mette in moto l'autonomo sviluppo causale che conduce
1 Del tutto conforme il principio statuito da Cassazione penale, sez. VI, 9 aprile 2009, n. 32830, relativo al
caso di resistenza a pubblico ufficiale: l’imputato, condannato per avere sfilato uno sfollagente ad un poliziotto e per
averlo strattonato al fine di impedire l’arresto del suo convivente, invocava l’applicazione dell’art. 56, terzo comma, c.
p.,poiché prima che venissero concluse le operazioni di polizia si determinò a restituire lo sfollagente; la Corte rigetta il
ricorso evidenziando che l’azione lesiva era giunta a pieno compimento, giacché l’aver usato violenza nei confronti degli
agenti e l’aver sottratto loro uno sfollagente già in sé ha concretizzato compiutamente il reato di resistenza. Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012
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all'evento, sui presupposti della ridotta volontà criminale dimostrata da chi volontariamente desista e
dell'attenzione alla tutela dell'effettivo interesse delle vittime .. La desistenza attiva, per assumere
giuridico rilievo, presuppone che l'azione sia penalmente rilevante. Pertanto, si richiede che la
fattispecie sia pervenuta alla fase del tentativo punibile; diversamente, la disposizione sarebbe inutile…
In ogni caso, la desistenza volontaria presuppone - al pari del recesso attivo - la costanza della
possibilità di consumazione del delitto. Pertanto, qualora tale possibilità non vi sia più, ricorre,
sussistendone i requisiti, l'ipotesi del delitto tentato …
In definitiva, ciò che rileva per configurare la desistenza volontaria nei casi in cui già la parte di
condotta compiuta presenterebbe i requisiti per la configurabilità degli elementi costitutivi del delitto
tentato è che - in termini di sostanziale continuità temporale - l'autore inverta con modalità
inequivoche la situazione, di cui ha ancora la piena disponibilità, il pieno dominio, sicchè quella situazione
già concretizzatasi e penalmente rilevante non sia, per sè, inevitabilmente suscettibile di muovere
autonomamente verso la piena consumazione del delitto.
Venendo al caso in esame, il Tribunale, nel ravvisare nella fattispecie gli estremi della desistenza
volontaria, non ha fatto buon governo dei principi ora ricordati, in quanto .. si è limitato a rilevare che
gli indagati avevano rinunziato al proposito criminoso, valorizzando soltanto il mero decorso del tempo
senza ulteriori iniziative violente o minacciose. Il Tribunale doveva invece verificare se, al momento in
cui la desistenza sarebbe volontariamente intervenuta, vi fosse ancora la "oggettiva possibilità" della
realizzazione del delitto di estorsione e comunque il "permanente dominio" da parte dell'indagato
dell'azione in atto, che costituisce il presupposto necessario perchè rilevi la desistenza stessa. Risulta
infatti che, a distanza di pochi giorni dall'ultimo episodio contestato, la parte offesa aveva denunziato i
fatti alle forze dell'ordine (Cassazione penale, sez. VI, 11 ottobre 2011, n. 40678).
In altra recente pronuncia la Suprema Corte ha affermato il medesimo principio che deve guidare
l’interprete nel caso di richieste estorsive non reiterate da parte del soggetto agente (anche in questo caso il
ricorrente evidenziava che all’incontro tra imputato e persona offesa nel quale erano state formulate le
richieste estorsive, non ne erano seguiti altri, né l’imputato aveva formulato in altro modo ulteriori richieste
estorsive):
quando l'azione intimidatoria non si realizza in modo continuativo, ma attraverso il succedersi di
contatti verbali distanziati nel tempo, non è possibile riconoscere la desistenza nella pura e semplice
inattività dell'agente nei periodi intermedi, se non quando essa si sia protratta per un tempo
sufficiente a dimostrare che vi sia stato un vero e proprio abbandono del progetto estorsivo. Nel caso
di specie la Corte d'Appello, nell'esercizio della facoltà di apprezzamento che è propria del giudice di
merito, ha giudicato che l'arco temporale di circa un mese, decorso fra l'ultimo atto propedeutico
all'estorsione e l'arresto dell' A., non fosse sufficiente a far ritenere abbandonato il proposito
criminoso. E la conclusione così raggiunta, quale risultato di un processo logico ineccepibile, si sottrae a
censura in sede di legittimità (Cassazione penale, sez. V, 3 giugno 2010, n. 32742).
In altro caso oggetto di diverse pronunce di legittimità, quello del ladro che, introdottosi in un
appartamento, non abbia sottratto alcun bene, la Suprema Corte evidenzia a ragione che non può parlarsi di
desistenza dall'azione ove il ladro non abbia rinvenuto alcun bene da sottrarre: tale atteggiamento .. non
potrà mai configurare quel tipo di determinazione libera e non condizionata che costituisce la ragion
d'essere della particolare disposizione contenuta nell'art. 56, terzo comma, c.p.": in altri termini,
conclude la Corte, i ladri si allontanarono "soltanto dopo aver esaurito la loro attività criminosa nei
confronti della vittima, non conseguendo tuttavia l'evento per cause indipendenti dalla loro volontà. Si
versa cioè nella specie in un'ipotesi di tentativo punibile" (Cassazione penale, sez. II, 8 novembre
1988).
Laddove, invece, l’interruzione dell’azione criminosa sia riconducibile ad una scelta, anche meramente
opportunistica, del soggetto agente, sarà configurabile l’ipotesi della desistenza: nel recente caso qui di
seguito illustrato, la Corte ha annullato la sentenza di condanna per il delitto di tentato furto in abitazione
del soggetto che, introdottosi in un casolare di campagna, previa forzatura della finestra, ne era uscito, dopo
avere rovistato all'interno, senza asportare alcunché, evidenziando che non poteva avere alcun rilievo la
circostanza che (probabilmente) il reo si era determinato in tal senso per lo scarso valore dei beni rinvenuti.
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Nel caso in esame non è condivisibile la decisione del giudice di merito, che nella condotta
dell'imputato, che si era allontanato dall'abitazione, dopo averne forzato la porta di ingresso e
rovistato all'interno di essa e messo tutto a soqquadro, senza avere asportato nulla, pur correttamente
escludendo l'ipotesi del reato impossibile, non ha ravvisato comunque l'esimente della desistenza
volontaria. Non ha valutato la corte di merito che tra le tante cose presenti, che potevano essere
asportate, pur se di scarso valore, trattandosi di una abitazione rurale, l'imputato ha preferito non
persistere nel suo proposito criminoso e di non asportare niente, determinandosi liberamente a tale
scelta senza che intervenissero fattori esterni, a nulla rilevando che tale volontà si sia formata per
l'assenza di oggetti di suo gradimento.
Non corrisponde ai criteri della logica e alle regole del diritto punire colui, che abbandona
volontariamente il proposito criminoso e di conseguenza nella specie anche il corresponsabile dell'azione
criminosa, attuale ricorrente (Cassazione penale, sez. VI, 20 dicembre 2011, n. 203).
Se infine l’interruzione dell’azione criminosa sia necessitata per l’insuperabile opposizione manifestata dalla
persona offesa o per l’intervento delle forze dell’ordine, non vi è spazio per la configurabilità della
desistenza: nel caso oggetto di una recente pronuncia di legittimità il giudice di merito aveva assolto
l’imputato del delitto di tentata rapina aggravata, rilevando che quando l’imputato aveva cercato di entrare
all'interno della filiale, il personale, insospettitosi, gli aveva negato l'accesso; alle insistenze dell’imputato,
che chiedeva di entrare per effettuare un versamento su conto corrente, il personale gli chiedeva tramite
interfono di specificarne numero ed intestatario; a questo punto l’imputato si era allontanato, ed era poco
dopo stato fermato dai Carabinieri (allertati dal direttore della filiale), che gli avevano trovato in dosso un
taglierino.
Il giudice aveva come detto assolto l’imputato, rilevando che l'essersi allontanato dopo il rifiuto oppostogli
avesse integrato desistenza volontaria. La Corte annulla con rinvio la sentenza, sottolineando la non
volontarietà della scelta dell’imputato:
per configurare l'ipotesi della desistenza è necessario che la determinazione del soggetto agente di
non proseguire nell'azione criminosa si sia verificata al di fuori di cause che ne abbiano impedito la
prosecuzione o l'abbiano resa vana ..; fra tali cause va annoverata .. non solo la resistenza opposta dalla
parte offesa, ma anche l'intervento di qualsiasi fattore esterno tale da impedire il prosieguo
dell'azione o da renderlo vano .. Nella specie, la richiesta di chiarimenti (che il soggetto attivo non
poteva fornire) equivaleva a resistenza opposta dal personale della banca e, ad ogni modo, integrava un
imprevisto fattore esterno che costituiva di per sé un ostacolo insormontabile nella prosecuzione della
condotta (visto che, come si è già detto, senza la collaborazione del personale il M. non avrebbe potuto
introdursi nell'agenzia). Ne discende l'annullamento dell'impugnata sentenza con rinvio al Tribunale di
Catania (Cassazione penale, sez. II, 29 settembre 2009, n. 41484).
Quanto agli effetti, la desistenza comporta la impunità del soggetto per il delitto tentato, salva la
responsabilità per un reato diverso, se gli atti fino a quel momento compiuti ne integrano gli estremi (ad
esempio il ladro che interrompa l’azione subito dopo aver scardinato la porta d’ingresso di un appartamento
risponderà del delitto di danneggiamento: nel caso della sentenza 208/2011 innanzi citata, la Corte ha
ritenuto configurabile a carico dell’imputato il delitto di violazione di domicilio aggravata): si tratta, secondo
la prevalente dottrina, di una causa di estinzione della punibilità. Parte della dottrina ritiene invece che la
desistenza integri una causa sopravvenuta di non punibilità, prevista dal legislatore come estremo mezzo
di tutela del bene protetto (Cassazione penale, sez. VI, 9 aprile 2009, n. 32830 parla di una esimente
di carattere speciale determinata da opzioni di politica criminale connesse all'affievolirsi della carica
offensiva della condotta illecita. In ogni caso,
stante la natura giuridica di esimente della desistenza volontaria, essa, qualora non risulti chiaramente
agli atti, deve essere provata da chi la invoca (Cassazione penale, sez. I, 2 febbraio 2010, n.
21955).
Il recesso comporta invece solo una diminuzione della pena stabilita per il delitto tentato: esso ha dunque
natura di circostanza attenuante.
La diversità di trattamento si fonda sui principi di offensività e meritevolezza, in quanto al momento del
recesso l'agente ha già messo in moto tutti i fattori causali per il verificarsi dell'evento, e quindi il tentativo
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ha raggiunto il massimo grado di pericolosità per il bene tutelato: rimanendo all'esempio fatto in
precedenza, vi è una profonda differenza tra l'aver somministrato una sola dose di veleno, e l'aver
miracolosamente scongiurato la morte del soggetto cui sono state somministrate tutte le dosi di veleno
necessarie ad ucciderlo.
§ 11,1 – Segue: la desistenza nell’ipotesi di reato concorsuale.
E’ noto che in caso di reato concorsuale le cause di esclusione della pena, a norma dell’art. 119 c. p., si
estendono a tutti i concorrenti solo ove si tratti di circostanze oggettive (ad esempio le cause di
giustificazioni, che escludendo l’antigiuridicità del fatto non possono che valere per tutti i partecipanti
all’azione).
Le circostanze soggettive, tra le quali va certamente annoverata la desistenza volontaria, hanno invece effetto
soltanto riguardo alla persona a cui si riferiscono: la diversità della disciplina si spiega facilmente, considerando
che solo nel primo caso si è in presenza di un elemento che fa venir meno il contrasto tra il fatto tipico e
l’ordinamento giuridico, mentre nel secondo caso l’illiceità del fatto permane, ed a venire meno,
principalmente per ragioni di politica criminale, è solo la punibilità del singolo reo.
Il problema, in questo secondo caso, sta nell’individuare l’estensione della contro condotta che l’agente deve
porre in essere: egli deve cioè limitarsi ad interrompere la propria condotta, deve elidere il proprio
contributo già fornito, ovvero deve addirittura addivenire all’impedimento del reato?
La risposta varia a seconda della natura del contributo che il soggetto è chiamato a fornire.
Il soggetto al quale, nella suddivisione dei compiti, è stato assegnato il ruolo di esecutore materiale del
delitto, potrà sottrarsi alla commissione del fatto semplicemente interrompendo l’attività, non ponendo in
essere l’azione esecutiva.
Più complessa la situazione del soggetto chiamato a fornire un contributo agevolatore (classico l’esempio di
colui che fornisce all’esecutore materiale del furto l’arnese da scasso indispensabile per scardinare la porta
d’ingresso dell’abitazione): spesso accade infatti che costui abbia per intero fornito il proprio contributo
ancor prima che la realizzazione collettiva abbia raggiunto la soglia del tentativo. Ed allora, questo soggetto
desiste semplicemente eliminando il contributo che ha già fornito, ovvero desiste impedendo ai correi di
portare a compimento il programma delittuoso?
Secondo la dottrina prevalente e l’unanime giurisprudenza di legittimità, in casi del genere, in ossequio al
principio costituzionale della personalità della responsabilità penale, è sufficiente che l’agente neutralizzi la
propria condotta elidendone gli effetti, indipendentemente dalla circostanza (che non gli potrà dunque
essere addebitata) che i correi decidano e riescano a porre ugualmente in essere il delitto in altro modo,
diverso da quello originariamente programmato. Nell’esempio precedente, il correo desiste privando il
complice dell’arnese da scasso; ove il complice porti ugualmente a termine il delitto (ad esempio non
scassinando la porta di ingresso dell’abitazione, come programmato, ma introducendosi nella stessa
infrangendo il vetro di una finestra), si sarà in presenza di un delitto che non appartiene più in nulla
all’originario correo dissociatosi.
La desistenza può aversi solo nella fase del "tentativo incompiuto" e non è configurabile una volta che
siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l'evento rispetto ai
quali può, semmai, operare, se il soggetto agente tiene una condotta attiva che valga a scongiurare
l'evento, la diminuente per il cosiddetto recesso attivo .. Essa postula, pertanto, che l'agente abbandoni
l'azione criminosa prima che questa sia portata a compimento e, cioè, prima che egli realizzi
compiutamente l'azione tipica della fattispecie incriminatrice, se trattasi di reati a forma vincolata, o
che egli impedisca, avendone ancora il dominio, che l'azione sia completamente realizzata quando il
delitto è causalmente orientato o a forma libera.
Tale criterio, valido nell'ipotesi di esecuzione monosoggettiva del delitto, non vale, peraltro, allorché
l'imputato che abbandona l'azione criminosa concorra con altri alla commissione del delitto; in tal caso,
infatti, l'interruzione dell'azione criminosa da parte del partecipe non basta perché si abbia
desistenza, occorrendo un quid pluris che consiste nell'annullamento del contributo dato alla
realizzazione collettiva, in modo che esso non possa essere più efficace per la prosecuzione del reato, e
nella eliminazione delle conseguenze dell'azione che fino a quel momento si sono prodotte (Cassazione
penale, sez. I, 1 febbraio 2008, n. 9775).
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§ 12 – Il reato impossibile.
A norma dell’art. 49, secondo comma, c. p., la punibilità è esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per
l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso.
Secondo la tradizionale dottrina (Antolisei, Bettiol) la disposizione sarebbe superflua, perché si limiterebbe
ad esprimere in negativo gli stessi requisiti positivamente richiesti per la punibilità del tentativo: il reato
impossibile, dunque, altro non sarebbe se non un tentativo impossibile, poiché anche ove non vi fosse la
disposizione in commento l’inidoneità dell’azione ovvero l’inesistenza dell’oggetto materiale della condotta
avrebbero comunque giustificato, alla stregua dei principi che regolano il delitto tentato, l’impunità del
soggetto agente.
Secondo altra impostazione (Gallo, Bricola, Vassalli) il reato impossibile svolge una funzione essenziale
nell'ambito dell'intero sistema penale: esso introduce il principio generale in base al quale non può esserci
reato senza una lesione o messa in pericolo effettiva del bene protetto (concezione cd. realistica
dell'illecito).
Il reato impossibile starebbe dunque a dimostrare che possono esservi dei fatti del tutto conformi al fatto
tipico, ma non offensivi dell'interesse tutelato, e dunque non punibili. Scrive M. Gallo che la ragion d'essere
dell'art. 49 c. p. sta nell'escludere la punibilità "di un comportamento perfettamente rispondente alla
descrizione della norma incriminatrice, ma che, per un motivo qualsiasi, risulti posto in essere in circostanze
tali da rendere assolutamente impossibile il realizzarsi dell'evento-contenuto del reato".
La teoria in esame viene sottoposta ad una critica fondamentale: l'idea di un fatto "tipico" ma non punibile
perché non offensivo, in un sistema come il nostro incentrato sul principio di legalità, rappresenta una
contraddizione in termini: o si fa rientrare l'offesa nella tipicità, nel fatto tipico, ed allora il reato inoffensivo
non è punibile perché atipico; oppure non la si fa rientrare (come accade per i reati di mera condotta), ed
allora il fatto è tipico (e quindi punibile) anche se inoffensivo.
Alla luce del diritto positivo, possiamo affermare che il nostro legislatore non prevede necessariamente
un'offesa perché si possa avere un reato: si pensi ai reati di scopo, nei quali non si incrimina l'offesa ad un
bene giuridico, ma bensì la realizzazione di certe situazioni che lo Stato ha interesse a che non si realizzino
(ad esempio i reati senza bene giuridico, come il gioco d'azzardo; o i reati senza offesa, come il possesso
ingiustificato di chiavi e grimaldelli).
Inoltre, se il giudice fosse costretto ad indagare l'esistenza in concreto di un'offesa, anche in quelle fattispecie
nelle quali un'offesa non è reperibile, lo Stato di diritto correrebbe un grave pericolo, poiché risulterebbe
minacciata la certezza del diritto, aprendosi la porta a soggettivismi giurisprudenziali comunque pericolosi
(non essendo possibile ricavare dalla legge i parametri del giudizio di effettiva lesività della condotta).
Da ultimo è stata sviluppata la concezione realistica del tentativo punibile (Marinucci, Fiandaca), secondo
la quale il delitto tentato è disciplinato tanto dall’art. 56 c. p., quanto, in negativo, dall’art. 49 cpv. c. p.:
mentre l’art. 56 richiede un giudizio di idoneità ed univocità, e dunque di sostanziale pericolosità degli atti
posti in essere dall’agente, l’art. 49 richiede un giudizio sul pericolo corso dal bene protetto e dal suo titolare.
Infatti per accertare se il bene protetto abbia corso un reale pericolo, non ci si può accontentare del giudizio
prognostico effettuato ex art. 56 c. p. nell'ottica del soggetto agente; a questa prima verifica se ne deve
aggiungere un'altra, compiuta questa volta nell'ottica della vittima come titolare del bene posto in
pericolo; dunque lo stesso criterio della prognosi postuma verrà ora applicato tenendo conto non solo delle
circostanze conosciute e conoscibili dall'agente al momento dell'azione, ma di tutte le circostanze presenti
nella situazione data, quale che sia il momento in cui vengono conosciute.
Vi sono infatti numerosi casi nei quali un fatto astrattamente idoneo, al momento dell'azione, a raggiungere
l'obiettivo criminoso perseguito, non potrebbe in ogni caso sfociare in un delitto consumato per la presenza
di circostanze che ne rendono in concreto impossibile la realizzazione.
Nella giurisprudenza di legittimità degli ultimi anni è stata sostenuta la concezione realistica dell’illecito,
facendo derivare dalla radicale assenza di lesione del bene protetto (ovvero dalla radicale assenza del
pericolo di lesione del bene protetto), e dunque dalla mancanza di concreta offensività della condotta,
l’insussistenza del reato ex art. 49 c. p.
Illuminante una recentissima sentenza (Cassazione penale, sez. IV, 17 febbraio 2011, n. 25674) in
tema di coltivazione “domestica” di sostanze stupefacenti, che, rigettando il ricorso del Procuratore della
Repubblica, ha confermato (riprendendo i concetti già autorevolmente affermati dalle Sezioni Unite con la
sentenza n. 28605 del 24 aprile 2008) l’assoluzione dell’imputato tratto a giudizio per avere coltivato una
piantina di canapa indiana dalla quale era ricavabile una spernibile quantità di sostanza stupefacente dal
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minimo principio attivo, ritenendo trattarsi di condotta inidonea a porre in pericolo il bene della salute
pubblica o della sicurezza pubblica:
Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Va premesso che questa Corte di legittimità ha statuito di recente che la coltivazione di stupefacenti,
sia essa svolta a livello industriale o domestico, costituisce reato anche quando sia realizzata per la
destinazione del prodotto ad uso personale .. La stessa giurisprudenza di legittimità ha più volte
precisato che ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono
estraibili sostanze stupefacenti, spetta al giudice verificare in concreto l'offensività della condotta
ovvero l'idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile ..
L'aspetto che qui maggiormente interessa è il principio di "necessaria" offensività del reato, come
criterio guida per l'interprete onde valutare la tipicità della condotta.
Come è noto, si ha "tipicità" del fatto, quando questo corrisponde perfettamente alla fattispecie
astratta prevista dalla norma incriminatrice.
Secondo la più attenta dottrina e giurisprudenza, la mera aderenza del fatto alla norma di per sé non
integra il reato, essendo necessario anche che la condotta sia effettivamente lesiva del bene giuridico
protetto dalla norma : non solo quindi "nullum crimen sine lege" ma anche "nullum crimen sine iniuria".
Secondo i sostenitori della "concezione realistica", la previsione del reato non mira a punire la mera
disobbedienza alla norma, ma la condotta effettivamente lesiva del bene protetto: in tale ottica il reato
non può che essere un "fatto tipico offensivo". Il principio di offensività deve ritenersi essere stato
costituzionalizzato nel nostro ordinamento. A riprova di ciò vi sono gli artt. 25 e 27 Cost., che
distinguono tra pene e misure di sicurezza, le prime dirette a colpire fatti offensivi, le seconde, la
mera pericolosità del soggetto. Ancora, significativo in tale ottica è l'art. 13 Cost. che consente il
sacrificio della libertà (connesso alla pena) solo in presenza della necessità di tutela di un concreto
interesse.
La necessaria offensività del reato si desume, inoltre, dalla disposizione di cui all'art. 49 c.p., comma 2
che prevede la non punibilità del reato impossibile. Tale norma, lungi dall'essere un inutile duplicato
dell'art. 56 c.p. (laddove non prevede la punibilità del tentativo inidoneo), ha una sua propria autonomia
se interpretata nel senso di ritenere non punibili quelle condotte solo apparentemente consumate e
quindi aderenti al tipo, ma in realtà totalmente deficitarie di lesività secondo una valutazione
effettuata "ex post".
Dell'esistenza del detto principio vi è traccia sia nella giurisprudenza costituzionale che in quella
ordinaria.
Con la sentenza n. 62 del 26/3/1986 la Corte Costituzionale, dichiarando non fondata una questione
relativa alla normativa sulle armi ed esplosivi, affrontò per la prima volta la problematica della
offensività e della sua "costituzionalizzazione". Il giudice delle leggi ebbe ad osservare che spetta al
giudice individuare il bene od i beni tutelati attraverso l'incriminazione d'una determinata fattispecie
tipica, nonché determinare, in concreto, ciò che, non raggiungendo la soglia dell'offensività dei beni in
discussione, è fuori del penalmente rilevante. Inoltre, ribadendo che non era compito della Corte
prendere posizione sul significato, nel sistema, del reato impossibile e se cioè esso, nella forma
dell'inidoneità dell'azione, costituisse il rovescio degli atti idonei di cui all'art. 56 c.p. oppure fosse
espressione di un principio generale integratore del principio di tipicità formale di cui all'art. 1 c.p.,
sottolineava che l'art. 49 c.p., comma 2, non poteva non giovare all'interprete al fine di determinare in
concreto, la soglia del penalmente rilevante.
Con altra pronuncia, la Corte Costituzionale ha precisato che diversa dal principio della offensività,
come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore penale ordinario, è la offensività
specifica della singola condotta in concreto accertata.
Ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la
riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, proprio perchè la indispensabile
connotazione di offensività in generale di quest'ultima implica di riflesso la necessità che anche in
concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell'agente, in
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difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile (art. 49 cod. pen.). La
mancanza dell'offensività in concreto della condotta dell'agente non radica però alcuna questione di
costituzionalità, ma implica soltanto un giudizio di merito devoluto al giudice ordinario (Corte Cost. 360
del 14/5/1995).
La giurisprudenza di merito e di legittimità, sebbene timidamente, hanno fatto appello al difetto di
offensività per ritenere non punibile, a titolo esemplificativo, il tentato omicidio attraverso colpi
sparati alla vittima protetta da un vetro antiproiettile (Cass. 1^, 8527/1989, rv. 181564); la cessione di
stupefacente con un principio attivo di scarsa capacità drogante (Cass. 4^, 601/1997, rv. 208011; Cass.
4^, 1222/2008, Rv. 242371); l'abuso d'ufficio, nel caso in cui esso incideva su un rapporto di lavoro
oramai estinto (Cass. 6^, 8406/1997, rv. 208852); la violazione di norme tributarie determinata da
irregolarità del tutto sporadica e casuale (Cass. 3^, 845U999, rv. 212305); il falso innocuo (Cass. 5^,
7875/1987, rv. 176302); il furto di merce di modesto valore (Trib. di Roma 2/5/2000).
Peraltro, con molta cautela, il principio di offensività si va facendo strada anche nel diritto positivo:
l'art. 27 del processo penale minorile, stabilisce che "Durante le indagini preliminari, se risulta la
tenuità del fatto e la occasionalità del comportamento, il pubblico ministero chiede al giudice sentenza
di non luogo procedere per irrilevanza del fatto quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le
esigenza educative del minorenne".
Ancora, il D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 34 (Giudice di pace), prevede la possibilità dell'archiviazione del
procedimento nei casi di particolare tenuità. Secondo la disposizione, "Il fatto è di particolare tenuità
quando, rispetto all'interesse tutelato, l'esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonchè la
sua occasionala e il grado della colpevolezza non giustificano l'esercizio dell'azione penale, tenuto conto
altresì del pregiudizio che l'ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di
studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato".
L'apertura mostrata dal legislatore verso la problematica dell'offensività appare destinata in futuro ad
innovare tutto il sistema penale.
Ciò detto e venendo al caso di specie, è da ritenere che il giudice di merito abbia fatto buon governo
dei principi illustrati, laddove ha riconosciuto a fronte delle oggetti ve circostanze del fatto e della
modestia dell'attività posta in essere (coltivazione domestica di una piantina posta in un piccolo lo vaso
sul terrazzo di casa, contenete un principio attivo di mg. 16), una condotta del tutto inoffensiva dei
beni giuridici tutelati dalla norma incriminatrice. L'infondatezza del ricorso ne impone il rigetto.
§ 12,1 –Reato impossibile per inidoneità della condotta; in particolare: reato
impossibile, intervento delle forze dell’ordine, agente provocatore.
Il primo caso menzionato dal capoverso dell’art. 49 c. p. è quello del reato impossibile per inidoneità della
condotta: mentre nel caso del tentativo impossibile il soggetto ha posto in essere solo alcuni atti, e la loro
complessiva inidoneità rende il tentativo inidoneo, impossibile, nel caso del reato impossibile il soggetto ha
posto in essere l'intera condotta, che tuttavia si è rivelata inidonea ad offendere il bene protetto.
Quanto ai criteri di valutazione della inidoneità, essa, secondo l’univoca giurisprudenza di legittimità, deve
essere assoluta, intrinseca ed originaria, e va valutata oggettivamente in concreto e con giudizio ex ante: il
verificarsi dell’evento e, conseguentemente, il pericolo di offesa per il bene tutelato devono dunque profilarsi
come geneticamente impossibili a causa delle intrinseche caratteristiche dell’azione.
In applicazione di questo principio si è ad esempio statuito:
* in tema di contraffazione di opere d’arte che l'inidoneità della condotta, tale da rendere configurabile il
reato impossibile, sussiste solo quando, per la grossolanità della contraffazione, il falso risulti così
evidente da escludere la stessa possibilità, e non soltanto la probabilità, che lo stesso venga
riconosciuto come tale non già da un esperto d'arte, ma da un aspirante compratore, magari neppure
troppo esperto; nel caso di specie, l'aver messo in commercio l'opera, consegnandola alla Galleria
d'arte, munita di falsa dichiarazione di expertise, esclude in radice il carattere grossolano della
falsificazione, in quanto tale attestazione correda la realizzazione dell'esemplare contraffatto del
dipinto e consente il sicuro affidamento, da parte del futuro compratore, nell'autenticità dell'opera
stessa (Cassazione penale, sez. III, 24 marzo 2011, n. 26710);
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* in tema di falso nummario che si ha inidoneità dell’azione e quindi reato impossibile previsto dall'art.
49 c.p., comma 2 allorché la grossolanità della contraffazione renda il falso ictu oculi riconoscibile da
qualsiasi persona di comune discernimento e avvedutezza, essendo così evidente da escludere la
possibilità e non soltanto la probabilità dell'inganno (Cassazione penale, sez. VI, 23 giugno 2010, n.
37019);
* in tema di falso documentale che l’azione è inidonea quando mancano al documento i caratteri minimi
quale quelli del simbolo di riconoscimento dell'ente emittente e di qualsiasi timbro e comunque essendo
all'evidenza riconoscibile la non genuinità di esso (Cassazione penale, sez. V, 2 luglio 2008, n.
41155, relativa a carta d’identità palesemente falsa in quanto priva di timbri e di qualsiasi altro simbolo di
riconoscimento dell’ente emittente);
* in tema di reati inerenti alle sostanze stupefacenti, come si è innanzi già illustrato, che la condotta è
"inoffensiva" soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo
(irrilevante, infatti, è a tal fine il grado dell'offesa), cioè .. quando la sostanza ricavabile dalla
coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile. … Esulano, quindi,
dalla sfera dell'illecito solo le condotte afferenti a quantitativi di stupefacente talmente tenui, quanto
alla presente del principio attivo, da non poter indurre, neppure in misura trascurabile, la modificazione
dell'assetto neuropsichico dell'utilizzatore (Cassazione penale, sez. IV, 12 maggio 2010, n.
21814); l'offensività, laddove le piante non siano ancora giunte a maturazione, va correlata non tanto al
momento dell'accertamento del reato, atteso che la coltivazione è fenomeno di durata che ha inizio con
la posa dei semi, ma va parametrato alla ben diversa idoneità "anche solo potenziale" delle piante stesse
a produrre una germinazione ad effetti stupefacenti .. Pur trattandosi di reato di pericolo presunto ..
la condotta è "inoffensiva" (offensività in concreto ..), soltanto se il bene tutelato non è stato per nulla
leso o messo in pericolo anche in grado minimo (irrilevante, infatti, è a tal fine il grado dell'offesa)
trattandosi di attività assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto,
risultando appunto, in concreto ed a tal fine inoffensiva (Cassazione penale, sez. VI, 11 maggio
2010, n. 20557).
IN ALLEGATO (N. 2) ALTRA SENTENZA IN TEMA DI COLTIVAZIONE DI SOSTANZE
STUPEFACENTI E REATO IMPOSSIBILE, ED UNA NOTA DOTTRINALE.
Dovendo l’inidoneità essere intrinseca e genetica, essa viene esclusa dalla giurisprudenza di legittimità in
ipotesi di azione delittuosa avvenuta sotto il costante monitoraggio delle forze dell’ordine: nel caso
oggetto di Cassazione penale, sez. II, 19 marzo 2010, n. 18012 gli imputati, condannati per il delitto
di tentata rapina presso un esercizio commerciale, avevano proposto ricorso per cassazione invocando
l’applicazione dell’art. 49 cpv. c. p., perché dal verbale di arresto risulta chiaro ed evidente che tutta l'operazione si è
svolta sotto il controllo diretto ed assoluto degli operanti i quali hanno avuto la percezione diretta di tutte le fasi
dell'azione: la partenza dal supermercato MD .. con la targa coperta; il controllo della marcia del ciclomotore fino alla
sosta sulla piazzola del distributore; la vista dell'imputato che si calava il passamontagna sul viso ed entrava nel bar ..
E' evidente che i carabinieri avrebbero potuto fermare i correi in qualsiasi momento .. perché i due si muovevano a bordo
di uno scooter di piccola cilindrata e, in ogni caso, infinitamente meno potente dell'autopattuglia.. Nel rigettare il
ricorso la Corte osserva che l'azione in tanto può stimarsi inidonea in quanto, in concreto, si manifesti
assolutamente inadeguata ed inefficiente ai fini della realizzazione del proposito criminoso. Tale
inidoneità va stabilita facendo riferimento all'inefficacia assoluta, intrinseca ed originaria degli atti
stessi a produrre, sotto il profilo esclusivamente potenziale, l'evento consumativo e deve essere
apprezzata con giudizio ex ante, onde l'inadeguatezza non può essere tale che in sè per sè,
indipendentemente da ogni fattore estraneo che in concreto abbia impedito la lesione dell'interesse
giuridico protetto .. La circostanza che gli organi investigativi, attraverso indagini continue ed
accurate, riescano a monitorare e tenere sotto controllo la dinamica dell'azione criminosa che si
protrae nel tempo non vale di per sé a rendere la stessa assolutamente inidonea e inadeguata al fine cui
era diretta e quindi a rendere applicabile l'esimente di cui dell'art. 49 c.p., comma 2, trattandosi di atti
che nulla tolgono all'intrinseca pericolosità dell'azione medesima e che sono estranei ad essa .. Nel caso
di specie.. è decisivo quanto affermato dalla Corte territoriale ossia che la distanza dei Carabinieri dal
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luogo di compimento dell'azione non poteva essere eccessivamente ridotta, perché altrimenti l' I. si
sarebbe accorto della loro presenza dandosi alla fuga: il che significa che l'azione delittuosa
perpetrata dal ricorrente, in concreto, era adeguata ed efficiente ai fini della realizzazione del
proposito criminoso.
Nel caso oggetto di Cassazione penale, sez. VI, 6 giugno 2008, n. 36699 l’imputato, condannati per il
reato di traffico internazionale di sostanze stupefacenti, avendo importato dal Brasile 3 kg. di cocaina,
denunciava l’erronea applicazione della legge penale in ordine al mancato riconoscimento dell’ipotesi di non
punibilità di cui all’art. 49 c. p., poiché l’azione delittuosa, fin dall'inizio, fu conosciuta e monitorata dagli
organi investigativi grazie alle operazioni di intercettazione telefonica in atto.
La Corte rigetta il ricorso evidenziando che l'azione in tanto può stimarsi inidonea in quanto, in concreto,
si manifesti assolutamente inadeguata ed inefficiente ai fini della realizzazione del proposito criminoso.
Tale inidoneità va stabilita facendo riferimento all'inefficacia assoluta, intrinseca ed originaria degli
atti stessi a produrre, sotto il profilo esclusivamente potenziale, l'evento consumativo e deve essere
apprezzata con giudizio ex ante, onde l'inadeguatezza non può essere tale che in sè per sè,
indipendentemente da ogni fattore estraneo che in concreto abbia impedito la lesione dell'interesse
giuridico protetto .. La circostanza che gli organi investigativi, attraverso indagini continue ed
accurate, riescano a monitorare e tenere sotto controllo la dinamica dell'azione criminosa che si
protrae nel tempo non vale di per sè a rendere la stessa assolutamente inidonea e inadeguata al fine cui
era diretta e quindi a rendere applicabile l'esimente di cui dell'art. 49 c.p., comma 2, trattandosi di atti
che nulla tolgono all'intrinseca pericolosità dell'azione medesima e che sono estranei ad essa.
In relazione all’ipotesi di azione delittuosa sollecitata dall’agente provocatore, e salvi i casi nei quali le forze
di polizia, prima di intervenire, lasciano che il reato di compia, ci si chiede, laddove detto intervento venga
anticipato ed il reato non si compia, se il provocato debba essere chiamato a rispondere del reato che ha
tentato di porre in essere, ovvero se la presenza delle forze dell’ordine consenta di configurare il reato
impossibile per inidoneità genetica dell’azione.
Secondo la prevalente dottrina potrebbe configurarsi in casi del genere un reato impossibile, ove sia
raggiunta la prova che le forze dell’ordine sono state presenti sulla scena del crimine con forze e mezzi tali
da far ritenere impossibile, con una probabilità confinante con la certezza, la realizzazione del reato.
La giurisprudenza di legittimità, e la dottrina più tradizionale, ritengono che l’attività dell’agente
provocatore sia causa estrinseca, per nulla incidente sulla attuazione della condotta del reo.
Nel caso oggetto di Cassazione penale, sez. V, 26 gennaio 2010, n. 11915 gli imputati, condannati per
il delitto di cui all’art. 453 c. p., per avere ricevuto al fine di metterle in commercio, cedendole ad un agente
provocatore che ne aveva fatto espressa richiesta, 16.000 banconote da 50 euro, invocavano in sede di ricorso
per cassazione l’art. 49 c. p., evidenziando da un lato che l’agente provocatore aveva in realtà operato quale
istigatore di un'attività illecita che mai sarebbe stata realizzata senza il suo intervento, e dall’altro che
l’azione delittuosa era inidonea in quanto avvenuta sotto il costante controllo delle forze dell’ordine.
La Corte, nel rigettare il ricorso, evidenzia da un lato che non si ha .. reato impossibile quando l'azione sia
inidonea a cagionare il risultato voluto a causa dell'incidenza di fattori esterni .. L'attività dell'agente
provocatore è appunto, in tal senso, un fattore "esterno", indipendente dalla condotta tenuta dal
soggetto che ha disponibilità di banconote falsificate destinate alla spendita sul mercato. In altre
parole, l'attività dell'agente provocatore, al pari della predisposizione della forza pubblica, costituendo
fattore esterno indipendente dalla condotta del reo, non elide l'originaria idoneità dell'azione che valutata ex ante ed in concreto - può portare a configurare la sussistenza del reato e dall’altro che nel
caso di specie l'attività investigativa della polizia giudiziaria aveva avuto origine dalla riscontrata
possibilità da parte del F. di procurarsi un certo quantitativo di Euro, in banconote falsificate; gli
avvenimenti successivi, con la richiesta di fornitura sollecitata dalla polizia giudiziaria, non hanno quindi
potuto concretizzare quella situazione - di derivazione assoluta ed esclusiva dell'azione delittuosa
dall'istigazione di tali soggetti - da cui potrebbe discendere l'esclusione di punibilità stabilita nel
capoverso dell'art. 49 c.p., che, al contrario non è configurabile, come insegna costante giurisprudenza
(Cass., sez. 1, 31 maggio 1996, Fidanzati), quando l'azione dell'imputato dipende anche e soprattutto,
come nella specie, da differenti e preesistenti spunti criminali, perché in simile ipotesi, l'attività
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dell'agente provocatore, pur costituendo un fattore estrinseco che ha dato spunto all'azione
delittuosa, non esclude affatto che questa sia stata voluta e realizzata dal reo secondo impulsi e
modalità concrete allo stesso autonomamente riconducibili (v. tra le altre Cass., sez. 6, 17 giugno 1993,
Chianale; Id., 4 giugno 1990, Pappalardo).
§ 12,2 –Reato impossibile per inesistenza dell’oggetto.
Il secondo caso è quello del reato impossibile per inesistenza dell’oggetto materiale, da intendersi, secondo
la dottrina tradizionale, come inesistenza assoluta, in rerum natura, dell’oggetto, perché mai esistito o perché
estintosi; diverso è invece il discorso quando l’inesistenza dipende da circostanze eccezionali, ed è dunque di
natura accidentale o temporanea. Secondo la dottrina tradizionale, dunque, si può parlare di reato
impossibile nel caso del ladro che, mentre sta svaligiando un negozio, credendo di vedere un agente di
polizia, esplode un colpo di pistola contro un manichino; dovrebbe invece rispondere di tentato omicidio il
soggetto che, entrato nella stanza da letto della vittima, abbia esploso dei colpi di pistola all’indirizzo della
presunta sagoma della vittima stessa, colpendo tuttavia il manichino che la vittima, sapendo dell’agguato,
aveva appositamente collocato.
La dottrina più recente contesta questa impostazione.
Secondo i sostenitori della concezione realistica dell’illecito l’inesistenza dell’oggetto va accertata con
giudizio ex post, e la punibilità va esclusa (anche) ogni volta che l’agente non fosse in grado di conoscere
l’inesistenza in rerum natura dell’oggetto: ad esempio, sarebbe una palese violazione del principio di
offensività il fare rispondere di tentato omicidio chi spara ad una persona morta un attimo prima per infarto.
Secondo i sostenitori della concezione realistica del tentativo, invece, si deve ritenere insussistente il
tentativo punibile ogni volta che, sulla base di una prognosi postuma, cioè di un giudizio ex ante che tenga
però conto non solo delle circostanze conosciute dall’agente, ma di tutti gli elementi accertati anche
successivamente, risulti che era impossibile che si verificasse l’evento dannoso o pericoloso; nell’esempio del
borsaiolo che introduce la mano nella tasca vuota, acquista rilievo l’indagine compiuta sul versante della
potenziale vittima, consapevole della inesistenza del denaro sottraibile: il gesto del borsaiolo appare,
dunque, ex ante inidoneo a commettere il furto.
Per meglio comprendere le tre teorie possiamo ipotizzare alcuni esempi pratici.
A vuole uccidere B, che si trova in un negozio, ed esplode contro di lui dei colpi di pistola; il negozio ha le
vetrine antiproiettile, ed i colpi non vanno a segno: tentato omicidio o reato impossibile?
Dottrina tradizionale: tentato omicidio, perché l’azione di A è, ex ante, idonea ad uccidere B, considerate le
cognizioni che A aveva al momento della condotta.
Concezione realistica dell’illecito: reato impossibile, perché la condotta dell’agente non era idonea ad
offendere o a mettere in pericolo il bene tutelato.
Concezione realistica del tentativo: reato impossibile, perché ex ante le circostanze oggettive dell’azione
dimostrano come in nessun caso A sarebbe riuscito con quella condotta ad uccidere B (indipendentemente
dal fatto che A riteneva l’azione idonea ad uccidere B).
A vuole uccidere B, e punta a breve distanza contro di lui una pistola, che però fortuitamente si inceppa e
non è in grado di esplodere alcun colpo: tentato omicidio o reato impossibile?
Dottrina tradizionale: tentato omicidio, perché l’azione di A è, ex ante, idonea ad uccidere B, considerate le
cognizioni che A aveva al momento della condotta.
Concezione realistica dell’illecito: reato impossibile, perché ex post emerge che la condotta non poteva
comunque cagionare l’evento sperato.
Concezione realistica del tentativo: tentato omicidio, perché sia dal punto di vista dell’agente, che dal punto
di vista della vittima l’azione risultava ex ante idonea a conseguire il risultato lesivo.
Il borsaiolo introduce la mano nella tasca vuota: tentato furto o reato impossibile?
Dottrina tradizionale: tentato furto, perché l’azione del borsaiolo è, ex ante, idonea a realizzare il furto,
considerate le cognizioni che il reo aveva al momento della condotta.
Concezione realistica dell’illecito: reato impossibile, perché ex post emerge che l’azione del borsaiolo non era
in grado di provocare l’offesa, essendo in rerum natura inesistente l’oggetto della condotta.
Concezione realistica del tentativo: reato impossibile, perché ex ante la vittima sapeva che il borsaiolo non
avrebbe potuto rubare alcunché; l’azione, idonea dal punto di vista dell’agente, è inidonea dal punto di vista
della vittima, data l’inesistenza dell’oggetto materiale.
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La giurisprudenza sembra anche in questo caso privilegiare l’impostazione della più tradizionale dottrina: il
caso del tentativo di sottrazione di denaro da una borsetta vuota è stato di recente oggetto di Cassazione
penale, sez. II, 8 gennaio 2009, n. 3189, che ha respinto il motivo di ricorso dell’imputato afferente
alla mancata applicazione dell’art. 49 c. p.: manifestamente infondato è, poi, il sostenere che l'aver
rovistato nella borsetta di una delle due parti offese, dopo averla minacciata con un coltello, non
integrerebbe attività punibile a titolo di tentata rapina, noto essendo - al contrario - che in tema di
rapina tentata la non punibilità dell'agente per inesistenza dell'oggetto può aversi solo quando
l'inesistenza sia assoluta, cioè quando manchi qualsiasi possibilità che in quel contesto di tempo la cosa
possa trovarsi in un determinato luogo e non, invece, quando essa sia puramente temporanea e
accidentale (cfr. giurisprudenza costante e mai mutata sin da Cass. Sez. 2, n. 3964 del 21.11.88, dep.
20.3.89; Cass. Sez. 2, n. 8496 del 16.5.85, dep. 3.10.85; Cass. Sez. 2, n. 11227 del 3.3.76, dep.
28.10.76), come nel caso, appunto, di mancanza di denaro nella borsa della C. rovistata dall'imputato.
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ALLEGATO 1
Cassazione penale, sezione II, 15 giugno 2010, n. 28213
Con ordinanza del 3/12/2009, il Tribunale di Reggio Calabria, confermava l'ordinanza con la
quale il g.i.p. del Tribunale di Palmi, in data 25/11/2009, aveva disposto l'applicazione della
misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di M.A. per i reati di tentata rapina
aggravata …
Avverso la suddetta ordinanza, l'indagato, in proprio, ha proposto ricorso per cassazione,
deducendo i seguenti motivi …:
VIOLAZIONE dell’art. 56 c. p., in quanto il tribunale, pur offrendo "una pregevole ricostruzione in
fatto ed in diritto", dell'episodio, non aveva sufficientemente considerato che gli indizi non
potevano essere considerati univoci al fine di ritenere che esso ricorrente, insieme agli altri
coindagati, stessero per compiere una rapina ai danni della sala giochi, ben potendo essere
ipotizzate "centinaia di ipotesi alternative". Invero, "proprio la dinamica degli eventi ed il
precipitoso intervento delle forze dell'ordine, ha escluso, nei fatti, l'univocità degli atti perchè non
esiste un grado di precisione sufficientemente plausibile ad asseverare la ricostruzione dei
Carabinieri" …
Il fatto che ha dato origine al presente procedimento è stato così ricostruito dal Tribunale:
"Alle ore 18.18 del 21 novembre 2009, una pattuglia automontata del N.O.R. del Comando
Compagnia Carabinieri di Taurianova (RC), mentre percorreva le vie del centro abitato di Gioia
Tauro, notava transitare a velocità estremamente ridotta - nei pressi della sala giochi e da biliardo
denominata (OMISSIS), sita in detto centro e precisamente, alla via (OMISSIS) - l'autovettura Fiat
Panda, di colore nero, targata (OMISSIS).
Analogo comportamento veniva riscontrato alle successive ore 18.29, allorquando i due occupanti
del mezzo attenzionato si soffermavano a guardare all'interno della sala giochi. In considerazione
di ciò, i militari decidevano di effettuare un accertamento tramite la Banca Dati Interforze da cui
emergeva che il veicolo risultava essere intestato a V.F., soggetto gravato da alcuni precedenti di
polizia, uno dei quali inerente ad una rapina ad un'attività commerciale. Le riscontrate circostanze
sospette, cioè i due passaggi della citata autovettura a velocità estremamente ridotta e davanti
l'esercizio commerciale di cui sopra, unitamente a quanto emerso dall'accertamento tramite CED
Interforze in relazione al conducente del mezzo, facevano ritenere plausibile l'ipotesi che questi,
insieme al soggetto notato sul lato passeggero, stesse per compiere una rapina ai danni della
predetta sala giochi. Veniva predisposto, pertanto, un servizio di P.G. con una rete di autovetture
in tinta civile e con targhe di copertura che permetteva di circoscrivere la zona adiacente a quella
della sala giochi. In particolare, una pattuglia controllava la via su cui affaccia il locale, una
seconda pattuglia teneva sotto diretta osservazione l'accesso dalla via (OMISSIS), mentre una terza
registrava le autovetture in transito nell'intersezione tra la via (OMISSIS). Il dispositivo messo in
atto dai militari operanti permetteva di osservare e controllare, quindi, tutte le vie di accesso utili
per raggiungere la sala giochi in questione. In effetti, come preventivato, dopo oltre un'ora la Fiat
Panda notata alle ore 18.18 faceva ritorno in quella zona ma, in questa ulteriore circostanza, veniva
chiaramente notata la presenza di una seconda autovettura, anche questa una Fiat Panda di colore
nero, targata (OMISSIS), risultata poi essere intestata a C.G.. Gli occupanti di entrambe le
autovetture iniziavano un monitoraggio costante dell'esercizio preso di mira eseguito con ripetuti
ed alternati passaggi delle stesse autovetture. In particolare, i militari registravano i seguenti
movimenti della Fiat Panda targata (OMISSIS), a bordo della quale vi erano due ragazzi:
alle 20.11 effettuava una sosta nei pressi della sala giochi; alle 20.17, effettuava un ulteriore
passaggio davanti alla sala giochi;
alle 20.25, effettuava un terzo passaggio lungo tutta via (OMISSIS);
alle ore 20.39 effettuava una sosta a circa 70 metri dal locale; alle ore 20.44 si soffermava proprio
davanti alle vetrine della sala giochi per poi ripartire in direzione della (OMISSIS). Gli stessi
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passaggi, anche se talvolta nel senso di marcia contrario, venivano effettuati dalla seconda Fiat
Panda, quella targata (OMISSIS), all'interno della quale la P.G. procedente notava quattro ragazzi.
Inoltre, in questo arco temporale, uno dei giovani, poi identificato per P.V., scendeva dal veicolo
ed allo scopo di scongiurare la presenza di eventuali operatori delle Forze di Polizia percorreva a
piedi via (OMISSIS) e parte di Via (OMISSIS).
A quel punto, entrambe le autovetture Fiata Panda, oggetto di osservazione e controllo da parte
dei militari, venivano bloccate "a circa 200 metri dalla sala giochi" e nella circostanza veniva
accertato che il mezzo targato (OMISSIS) era condotto da C.G. e vi erano, a bordo, V.F. (passeggero
anteriore), M. A. e MA.Sa. (passeggeri sui sedili posteriori).
Sulla seconda autovettura, quella targata (OMISSIS), veniva accertata la presenza del solo P.V. che,
in quel frangente, si era affiancato ad un'altra Fiat Panda, targata (OMISSIS). A bordo di
quest'ultimo mezzo venivano controllati T.G., T. P. e B.M..
Eseguita una perquisizione personale e veicolare, finalizzata ad accertare il possesso di armi o altri
strumenti atti ad offendere, all'interno della Fiat Panda targata (OMISSIS), precisamente sotto il
sedile anteriore lato passeggero (dove era seduto V.F.) veniva rinvenuta una busta bianca di
cellophane contenente quattro passamontagna neri, di lana, tipo "mephisto", nonchè una pistola
marca FN HERSTAL, cal. 7,65, con matricola abrasa. L'arma risultava essere perfettamente
funzionante, aveva il colpo in canna ed era munita di un caricatore con ulteriori sei proiettili.
Inoltre, risultava essere stata modificata - con l'esecuzione di una filettatura sul vivo di volata - per
l'istallazione di silenziatore"…
In via di stretto diritto, in ordine ai principi applicabili in tema di tentativo, va affermato quanto
segue.
L’art. 56 c. p. disciplina il tentativo nei delitti e, essendo una fattispecie autonoma rispetto al reato
consumato (ex plurimis Cass. 13/6/2001 riv 220330), richiede, come tutti i reati, la sussistenza sia
dell'elemento soggettivo che oggettivo.
L'elemento soggettivo è identico al dolo del reato che il soggetto agente si propone di compiere.
L'elemento oggettivo, invece, presenta spiccate peculiarità in quanto ruota intorno a tre concetti:
- l'idoneità degli atti;
- l'univocità degli atti;
- il mancato compimento dell'azione o il mancato verificarsi dell'evento.
La linea di demarcazione fra la semplice intenzione non punibile (secondo il vecchio brocardo
cogitationis poenam nemo patitur) e quella punibile si snoda proprio attraverso l'esatta
comprensione dei suddetti principi.
Una premessa di natura sistematica: sebbene l’art. 56 c. p. sia l'unica norma che disciplini
espressamente il tentativo, tuttavia, utili argomenti si possono trarre, ai fini sistematici, anche
dall’art. 115 c. p., a norma del quale "qualora due o più persone si accordino allo scopo di
commettere un reato e questo non sia commesso, nessuna di essa è punibile per il solo fatto
dell'accordo".
La suddetta norma, evidenzia, quindi, in modo plastico, il principio secondo il quale anche un
semplice accordo a commettere un delitto (e, quindi, a fortiori, il semplice averlo pensato) non è
punibile (salva l'applicazione della misura di sicurezza) ponendosi all'estremo opposto del delitto
consumato.
Ma è proprio fra questi due estremi, ossia fra la semplice cogitatio o accordo (non punibile) ed il
delitto consumato che si colloca la problematica del delitto tentato che consiste, appunto, nello
stabilire quando un'azione, avendo superato la soglia della mera cogitatio, pur non avendo
raggiunto il suo scopo criminoso, dev'essere ugualmente punibile.
Il codice penale del 1889 (cd. codice Zanardelli), influenzato dal codice napoleonico, all'art. 61,
punendo "colui che, al fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l'esecuzione",
poneva la soglia di punibilità del delitto programmato nel momento in cui l'agente avesse
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cominciato l'esecuzione dell'azione: da qui, la distinzione fra atti preparatori non punibili ed atti di
esecuzione punibili.
La distinzione, però, creò notevoli problemi interpretativi tanto che il legislatore del 1930 - peraltro
anche per precise ragioni ideologiche - abbandonò espressamente il suddetto criterio,
introducendo l'attuale art. 56 c. p. che ruota intorno a due criteri: l'idoneità e la inequivocità degli
atti compiuti dall'agente, nel senso che solo ove l'azione presenti le suddette caratteristiche,
l'agente può essere punito a titolo di tentativo.
Il dibattito (dottrinale e giurisprudenziale), però, si è riacutizzato perchè, mentre prima la
domanda era quali fossero i criteri per stabilire la differenza fra atti preparatori (non punibili) ed
atti di esecuzione (punibili), ora la questione consiste nell'individuare la linea di confine che separa
il semplice accordo (o la mera cogitatio), non punibile, dagli atti idonei inequivoci, punibili. In
ordine al concetto di idoneità degli atti (e non del mezzo come prescriveva il codice Zanardelli),
l'opinione maggioritaria sia della dottrina che della stessa giurisprudenza di questa Corte, è
alquanto compatta nel ritenere che un atto si può ritenere idoneo quando, valutato ex ante ed in
concreto (cd. criterio della prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze
conosciute e conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo (ed criterio di
valutazione su base parziale: ex plurimis Cass. 9/12/1996, Tansino, rv 206562), il giudice, sulla
base della comune esperienza dell'uomo medio, possa ritenere che quegli atti - indipendentemente
dall'insuccesso determinato da fattori estranei - erano tali da ledere, ove portati a compimento, il
bene giuridico tutelato dalla norma violata: ex plurimis Cass. 40058/2008 riv 241649 (in
motivazione) - Cass. 43255/2009 riv 245721 - Cass. 27323/2008 riv 240736 - Cass. 34242/2009 riv
244915.
Tanto risulta confermato anche dall'art. 49 c.p., comma 2 che è la norma speculare dell'art. 56 c.p.
nella parte in cui dispone la non punibilità per l'inidoneità dell'azione. Più controversa è la nozione
di univocità degli atti. Secondo una prima tesi "anche gli atti preparatori possono configurare
l'ipotesi del tentativo, allorquando essi rivelino, sulla base di una valutazione ex ante e
indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei, l'adeguatezza causale nella
sequenza operativa che conduce alla consumazione del delitto e l'attitudine a creare una situazione
di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto, dimostrando contemporaneamente, per
la loro essenza ed il contesto nel quale s'inseriscono, l'intenzione dell'agente di commettere il
delitto":
Cass. 27323/2008 riv. 240736 - Cass. 43255/2009 Rv. 245720 "L'atto preparatorio può integrare gli
estremi del tentativo punibile, quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla
consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità, sulla base di una valutazione "ex ante" e
in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato sia
univocamente diretto" - Cass. 40702/2009 Rv. 245123.
E' la cd. tesi soggettiva in base alla quale, appunto, la prova del requisito dell'univocità dell'atto
può essere raggiunta non solo sulla base dell'atto in sè considerato ma anche aliunde e, quindi,
anche sulla base di semplici atti preparatori qualora rivelino la finalità che l'agente intendeva
perseguire.
Ad avviso, invece, di un'altra tesi, "gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un reato
possono essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in
minima parte, come inizio di esecuzione, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a
forma libera o vincolata, in quanto la univocità degli atti indica non un parametro probatorio, ma
un criterio di essenza e una caratteristica oggettiva della condotta; ne consegue che non sono
punibili, a titolo di tentativo, i meri atti preparatori": Cass. 9411/2010 Rv. 246620 - Cass.
40058/2008 cit. - Cass. 36283/2003 riv 228310 - Cass. 43406/2001 riv 220144.
"Se è vero, infatti, che il legislatore del 1930, obbedendo a sollecitazioni politiche dell'epoca, aveva
ritenuto di allargare l'area del tentativo punibile redigendo il testo dell'art. 56 c.p., non è men vero
che gran parte della dottrina e della giurisprudenza hanno dimostrato l'illusorietà del proposito
che, con quel mezzo, si intendeva attuare. Ciò perchè atti idonei diretti in modo non equivoco a
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commettere un delitto possono essere esclusivamente atti esecutivi, in quanto se l'idoneità di un
atto può denotare al più la potenzialità dell'atto a conseguire una pluralità di risultati, soltanto
dall'inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione univoca dell'atto
stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall'agente": Corte Cost. 177/1980.
E' la cd. tesi oggettiva secondo la quale gli atti possono essere considerati univoci ogni qualvolta,
valutati in quel singolo contesto, rivelano, in sè e per sè considerati, l'intenzione dell'agente (ed
criterio di essenza). Per questa tesi, quindi, "la "direzione non equivoca" indica, infatti, non un
parametro probatorio, bensì un criterio di essenza e deve essere intesa come una caratteristica
oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per sè rivelare l'intenzione
dell'agente.
L'univocità, intesa come criterio di "essenza", non esclude che la prova del dolo possa essere
desunta aliunde, ma impone soltanto che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda
verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettività per il contesto nel
quale si inseriscono, per la loro natura, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e
l'id quod plerumque accidit, l'intenzione, il fine perseguito dall'agente": Cass. 40058/2008 cit..
E' evidente il punto di frizione fra le due tesi. Infatti, mentre per la tesi soggettiva, l'univocità va
valutata sulla base delle circostanze concrete (con la conseguenza che si determina, sul piano della
repressione penale, un arretramento della soglia di punibilità, in quanto anche gli atti in sè
preparatori, possono, a determinate condizioni, essere considerati univoci), al contrario per la tesi
oggettiva, l'univocità coincide con l'inizio degli atti tipici di un determinato reato (con conseguente
spostamento in avanti della soglia di punibilità, escludendosi l'univocità negli atti meramente
preparatori).
Questa Corte ritiene che la tesi ed oggettiva non sia condivisibile perchè, riproponendo, di fatto,
l'antica problematica di cui si discuteva sotto il codice Zanardelli, opera un'interpretazione
abrogans della nuova normativa, lasciando insoluti, in specie per i reati a forma libera, quegli
stessi interrogativi che avevano indotto il legislatore del 1930 a rivedere radicalmente l'intera
normativa.
Infatti, nella Relazione al progetto definitivo al codice penale, si trova scritto:
"innovazioni radicali sono state introdotte nella disciplina del tentativo, sopprimendo la
distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi".
Si ritiene, quindi, che la tesi più corretta sia quella soggettiva per i motivi di seguito indicati.
Il punto di partenza, per una corretta esegesi dell'art. 56 c.p., non può che essere il dato storico:
come si è detto, fu proprio per evitare le incertezze interpretative derivanti dall'individuare quali
fossero i mezzi che potevano essere considerati inizio dell'esecuzione criminosa (problema che
diventava quasi irresolubile nei reati a forma libera) che il legislatore del 1930 s'indusse ad
abbandonare la formula che parlava di "cominciamento" "mezzi" "esecuzione".
Nel nuovo art. 56 c.p., infatti, non si parla più di mezzi ma di atti idonei (in contrapposizione agli
atti inidonei di cui all'art. 49 c.p., comma 2) e di azione che non si compie o di evento che non si
verifica.
La terminologia adoperata dal legislatore è molto importante: una cosa è parlare di cominciamento
dell'esecuzione con mezzi idonei, altro è parlare di azione non compiuta e di atti idonei a
commettere il delitto.
E' evidente, infatti, l'arretramento della soglia di punibilità, laddove si consideri che i termini
"azione" ed "atti", indicano, proprio a livello semantico, una maggiore estensione rispetto alla più
ristretta categoria degli atti esecutivi.
In altri termini, il legislatore ha focalizzato la sua attenzione non solo sull'esecuzione ma anche
sull'azione.
Ora, siccome l'azione è quell'attività umana composta da uno o più atti, ne deriva, proprio sul
piano logico (oltre che semantico) che il tentativo è punibile non solo quando l'esecuzione è
compiuta ma anche quando l'agente ha compiuto uno o più atti (non necessariamente esecutivi)
che indichino, in modo inequivoco, la sua volontà di voler compiere un determinato delitto. Sul
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punto, è lo stesso art. 56 c.p. che offre utili spunti di riflessione nella parte in cui dispone che il
delitto tentato si verifica in due ipotesi: 1) quando l'azione non si compie (cd. tentativo non
compiuto); 2) quando l'evento non si verifica (cd. tentativo compiuto). Sebbene si sia soliti
attribuire poca importanza alla suddetta distinzione, in quanto la si assimila a quella del codice
Zanardelli fra "delitto tentato" e delitto mancato" (peraltro sanzionato più gravemente), il dato di
fatto semanticamente rilevante è che non si parla di "delitto tentato o mancato" ma di azione non
compiuta e di evento non verificatosi.
Il suddetto dato non può non avere una sua rilevanza giuridica.
Infatti, quando la legge adopera la locuzione "evento che non si verifica" è chiaro che ipotizza il
caso dell'agente che ha compito l'esecuzione degli atti tipici del delitto programmato, ma che
questo non si è verificato per un fatto indipendente dalla sua volontà (ad es. l'agente ha sparato a
Tizio ma questi, all'ultimo momento, casualmente, si è spostato, facendo, quindi, fallire l'attentato).
Se, quindi, la legge ha già previsto la punibilità dell'esecuzione degli atti di un delitto, quando
prevede la punibilità anche dell'azione, necessariamente non può che far riferimento ad un
qualcosa che precede l'esecuzione vera e propria, ossia quell'insieme di atti (o semplice atto) che,
sebbene non esecutivi, valutati unitariamente, abbiamo l'astratta attitudine a produrre il delitto
programmato. L'azione, lo si ripete, è un termine molto ampio ed indica il risultato finale del
compimento di un atto o più atti, e contiene, in sè, tutti gli elementi che consentono di affermare,
sia pure ex posi, che quell'azione era idonea, ove portata a termine (rectius: eseguita) a perpetrare
il delitto programmato. Ciò, quindi, permette di affermare che ci si trova di fronte ad un tentativo
punibile in tutti quei casi in cui l'agente abbia approntato e completato il suo piano criminoso in
ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera
e propria ossia alla concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.
Quanto appena detto, trova una conferma negli speculari commi terzo e quarto dell'art. 56 che,
ancora una volta, confermano i due livelli del tentativo punibile (sanzionati in modo differente): la
desistenza dell'azione nel senso sopra specificato, nel quale caso, la norma prevede che l'agente
risponde degli atti compiuti solo se questi costituiscano un reato diverso; l'impedimento, da parte
dell'agente, dell'evento determinato dal compimento degli atti esecutivi veri e propri, nel quale
caso, l'agente risponde pur sempre del tentativo, sebbene con una diminuzione della pena.
E' evidente, quindi, che, anche a livello sanzionatorio, la legge ha voluto distinguere le due
tipologie di tentativi che, se non vengono attuati per cause indipendenti dalla volontà dell'agente,
vengono puniti allo stesso modo (primo comma), mentre se il delitto non si verifica per la
resipiscenza dell'agente, vengono sanzionati diversamente rendendo, pertanto, palese che l'azione
che non si compie (o dalla quale l'agente desiste) è un qualcosa che precede l'evento che non si
verifica (o compie).
Ed ulteriore conferma può trarsi dall'art. 49 c.p., comma 2 (che rappresenta, per così dire, il lato
speculare e contrario dell'art. 56 c.p.) che esclude la punibilità per "l'inidoneità dell'azione" non
degli atti esecutivi: il che significa che, per stabilire se ci si trova di fronte ad un tentativo punibile,
a parte l'ipotesi del compimento degli atti esecutivi veri e propri (ipotesi considerata
espressamente, come si è detto, dall'art. 56 c.p., comma 1, ultima parte), occorre aver riguardo più
che all'idoneità dei singoli atti, all'idoneità dell'azione valutata nel suo complesso così come appare
cristallizzata in un determinato momento storico, tenuto conto di tutti gli elementi esterni ed
interni, conosciuti e conoscibili.
Solo se l'azione viene valutata unitariamente, può aversi un quadro d'insieme dei singoli atti che,
se valutati singolarmente, possono anche sembrare in sè inidonei, ma che se inseriti in un più
ampio contesto, appaiono per quelli che sono, ossia dei singoli anelli di una più complessa ed
unica catena, l'uno funzionale all'altro per il compimento dell'azione finale destinata a sfociare
nella consumazione del delitto programmato.
Si può, quindi, concludere affermando che il legislatore del 1930, arretrando la soglia di punibilità
del tentativo, ha completamente ribaltato l'impostazione del codice Zanardelli in quanto ora sono
punibili non solo gli atti di esecuzione veri e propri ma anche gli atti ad essi antecedenti che, per
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comodità descrittiva, si possono continuare a chiamare ancora atti preparatori, a condizione però
che posseggano quelle caratteristiche si cui si è detto. Si deve, pertanto, affermare il seguente
principio di diritto: "ai fini del tentativo punibile, assumono rilevanza penale non solo gli atti
esecutivi veri propri del delitto pianificato, ma anche quegli atti che, pur essendo classificabili
come atti preparatori, tuttavia, per le circostanze concrete (di luogo - di tempo - di mezzi ecc.)
fanno fondatamente ritenere che l'azione - considerata come l'insieme dei suddetti atti - abbia la
rilevante probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che l'agente si trovi ormai ad un
punto di non ritorno dall'imminente progettato delitto e che il medesimo sarà commesso a meno
che non risultino percepibili incognite che pongano in dubbio tale eventualità, dovendosi, a tal
fine, escludere solo quegli eventi imprevedibili non dipendenti dalla volontà del soggetto agente
atteso che costui ha solo un modo per dimostrare di avere receduto dal proposito criminoso: ossia
la desistenza volontaria (art. 56 c.p., comma 3) o il recesso attivo (art. 56 c.p., comma 4)".
p. 4.1. Tanto premesso in diritto, richiamata la dinamica dei fatti così come accertata dal Tribunale
(cfr supra sub p. 3), la censura, nei termini in cui è stata proposta, va disattesa.
Il ricorrente non contesta, in punto di fatto, quanto accertato dal Tribunale, ma sostiene che il
tentativo non sarebbe configurabile sia perchè potevano essere ipotizzate "centinaia di ipotesi
alternative" sia perchè l'azione tipica della rapina (il compimento di atti violenti) non era ancora
iniziata quando fu arrestato.
Il caso di specie, è emblematico della problematica di cui si è parlato. In punto di fatto, la
doglianza secondo la quale sarebbero ipotizzabili "centinaia di ipotesi alternative", non è
accoglibile in quanto il Tribunale - anche dopo avere valutato le dichiarazioni rese dal M. e dai
suoi complici ritenute "inverosimili ed assolutamente contraddittorie": cfr pag. 11 ss ordinanza sulla base di precisi riscontri fattuali ha coerentemente e logicamente concluso che il ricorrente,
insieme agli altri complici, era in procinto di perpetrare la rapina.
Peraltro, sul punto, il motivo è generico perchè il ricorrente si è semplicemente limitato ad
affermare, in modo assertorio ed ipotetico, che sarebbero ipotizzabili "centinaia di ipotesi
alternative". In punto di diritto, va, invece, rilevato quanto segue.
Si è chiarito che l'art. 56 c.p. prevede e sanziona due ipotesi di tentativo: quello in cui l'azione non
si verifica e quello in cui l'evento non si compie, per cause indipendenti dalla volontà dell'agente
(nel qual caso le due ipotesi, ai fini sanzionatori, vengono assimilate) ovvero per resipiscenza
dell'agente (nel qual caso, ai sensi dei commi 3 e 4, la sanzione varia).
Si è anche chiarito che l'azione può essere considerata idonea quando, sulla base degli elementi
fattuali in atti, può affermarsi che il programma criminoso dell'agente si è ormai concluso e
l'agente sta per passare alla fase operativa vera e propria.
Nel caso di specie, da quanto emerge dall'ordinanza impugnata, il piano operativo era stato
completamente esaurito: erano stati effettuati gli appostamenti - erano stati predisposti i mezzi per
eseguire il piano - gli indagati avevano la disponibilità di tutto l'armamentario necessario per
perpetrare materialmente la rapina.
E' evidente, quindi, che, tutto era stato predisposto per passare alla fase esecutiva vera e propria.
Si verte, pertanto, nella prima delle ipotesi considerate: infatti, gli imputati non furono sorpresi ed
arrestati mentre, ad es.
eseguivano i sopralluoghi: in tale ipotesi, invero, sarebbe stato configurabile il reato impossibile
per inidoneità dell'azione ex art. 49, comma 2.
Al contrario, vennero arrestati quando tutte le suddette operazioni prodromiche erano già state
eseguite e, quindi, l'azione, in sè e per sè considerata, come correttamente ha rilevato il Tribunale,
era ormai potenzialmente idonea al compimento della progettata rapina.
In conclusione, applicandosi il principio di diritto supra enunciato e poichè il Tribunale ad esso si è
correttamente adeguato, la censura va disattesa.
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ALLEGATO 2
Cassazione penale, sez. IV, 28 ottobre 2008, n. 1222
Con sentenza emessa il 23.10.2003, la Corte di appello di Ancona ha confermato la sentenza
pronunciata il 3.2.1998 dal tribunale di Urbino, con la quale N.D. veniva condannato alla pena di 1
anno e 4 mesi di reclusione e L. 7.000.000 di multa, in quanto ritenuto colpevole del reato D.P.R. n.
309 del 1990, ex art. 73 comma 1 e 4, per aver coltivato, senza la prescritta autorizzazione, 23
piantine di sostanza stupefacente, tipo cannabis sativa, in una fascia di terreno nei pressi della
propria abitazione.
Nella motivazione della corte di merito, in via preliminare, si osserva che l'attività di coltivazione
di sostanze stupefacenti o psicotrope costituisce reato, indipendentemente dalla destinazione e
dall'uso che l'autore intende fare della sostanza.
Il richiamo fatto dall'appellante all'art. 75 della medesima normativa non è pertinente, in quanto le
uniche attività che vengono sottratte al rilievo penale e ricomprese nella figura dell'illecito
amministrativo sono quelle di importazione, acquisto e detenzione, in caso di destinazione della
sostanza a uso personale.
Tale disciplina è pienamente coerente con la maggiore pericolosità della coltivazione, in quanto
mirata alla produzione di nuova sostanza stupefacente. Secondo la corte di appello, non ha
rilevanza l'assenza di principio attivo nelle 23 piantine, non ancora giunte a maturazione, in
quanto è stato accertato, tramite consulenza tossicologica che le piante che avevano attecchito nel
terreno, se lasciate giungere a maturazione, avrebbero prodotto una notevole quantità di principio
attivo. La S.C. ha precisato che la effettiva tossicità delle piante e la quantità di sostanza drogante
dalle stesse ricavabile non rilevano ai fini della configurabilità del reato (sez. 4^ 16.1.2002, n. 6851;
id 18.5.2001, 36524).
Nel ricorso a questo giudice, il N. esprime la doglianza sulla violazione di legge per inosservanza,
da parte della sentenza impugnata, dell'orientamento interpretativo della Corte costituzionale,
secondo cui la non punibilità per uso personale va estesa alla coltivazione di sostanza stupefacenti
(sentenza 360/95).
La motivazione è carente, laddove afferma che le piante sarebbero giunte a maturazione
producendo sostanza psicotropa, avendo attecchito al terreno, in quanto per giungere a
maturazione e a produrre sostanza drogante sono necessari altri fattori favorevoli (terreno, clima
etc.), la cui esistenza non è stata accertata. Si profila quindi l'ipotesi di omissione di concreto
accertamento della messa in pericolo del bene protetto.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L'esame della fondatezza o meno delle censure mosse alla sentenza impugnata comporta
necessariamente e preliminarmente l'analisi dell'interrogativo centrale della questione
interpretativa: quale sia il bene giuridico che il legislatore, con la normativa penale in materia di
stupefacenti, intenda tutelare, nel contesto della dovuta osservanza del principio di offensività.
Nella sentenza della Corte costituzionale - interpretativa di rigetto della questione di legittimità
sollevata sullo stesso argomento - (sentenza n. 360 del 24 luglio 1995, (in Cass. pen., 1995, n. 1679) si fa esplicito riferimento alla salute quale bene tutelato dalla disciplina sugli stupefacenti e al
pericolo che da questi possono derivare a tale bene. Nella sentenza è rinvenibile la interpretazione
fatta propria dal giudice delle leggi come l'unica conforme alla Costituzione e come tale avente
efficacia diretta nel giudizio a quo e efficacia riflessa in altri giudizi (vedi Sez. un, 29.2.2000,
Musitano, in Cass. pen. 2000, n. 1056 con i richiami a Sez. un. 16.12.1998, Alagni; Sez. un. 13.6.1998,
Gallieri; Sez. un. 13, 12, 1995, Clarke).
Nel senso indicato da questa sentenza può essere individuato nella salute il bene tutelato dalla
normativa in esame nella prospettiva del suo rispetto per il principio di offensività (o di necessaria
lesività).Tale principio comporta che la incriminazione di un fatto attinente a una sostanza
stupefacente è giustificata solo se offensivo (espressione comprensiva sia della lesione che della
messa in pericolo) della salute, bene/interesse di rilevanza costituzionale. Il bene della libertà
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personale, cui l'art. 13 Cost., riconosce rilievo fondamentale tra i diritti della persona, può essere
sacrificato solo a seguito di offesa di un bene/interesse del medesimo rango. Il presupposto
fondamentale di legittimazione della scelta punitiva è quindi la tutela della salute dei consumatori
(attuali e potenziali) e la rilevanza costituzionale del bene è garantita dal chiaro ed inequivoco
riferimento agli artt. 2 e 32 della Carta fondamentale.
La costituzionalizzazione di questo principio si collega alla concezione materiale o realistica del
reato: tale concezione, riconoscendo il reato come fatto conforme al modello legale e lesivo
dell'interesse tutelato, in caso di scissione tra tipicità e offensività, disconosce rilevanza penale al
fatto - tipico ma non offensivo- accertato dal giudice. Secondo tale concezione, l'art. 49 cpv. c.p.,
costituisce - più che un completamento della disciplina del delitto tentato, attraverso
l'affermazione della non punibilità del tentativo impossibile - un principio generale, operante in
ogni settore dell'ordinamento, in base al quale non sono punibili i comportamenti conformi al tipo
descrittivo, ma non lesivi dell'interesse protetto.
Va ancora richiamata la citata sentenza della Corte costituzionale, in tema di coltivazione di
sostanze stupefacenti (N. 360/1995):
"La verifica del rispetto del principio di offensività come limite di rango costituzionale alla
discrezionalità del legislatore ordinario nel perseguire penalmente condotte segnate da un giudizio
di disvalore implica la ricognizione della astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilità del
suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili. Operata questa astrazione
degli elementi essenziali del delitto in esame, risulta una condotta (quella della coltivazione di
piante da cui sono estraibili principi attivi di sostanze stupefacenti) che ben può valutarsi come
"pericolosa", ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire
la provvista esistente di materia e quindi di creare occasioni di spaccio di droga; tanto più che
l'attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili Si tratta
quindi di un tipico reato di pericolo connotato dalla necessaria offensività, proprio perchè non è
irragionevole la valutazione prognostica sottesa alla astratta fattispecie criminosa di attentato al
bene giuridico protetto. E -come già questa Corte ha avuto occasione di rilevare (sent. N. 133 del
1992 e n. 333 del 1991, ma cfr. anche sent. 62 del 1986) - non è incompatibile con il principio di
offensività la configurazione di reato di pericolo presunto, nè nella specie è irragionevole o
arbitraria la valutazione, operata dal legislatore, nella sua discrezionalità, della pericolosità
connessa alla condotta di coltivazione".
E' condivisibile la posizione della dottrina, secondo cui il bene della salute tutelato dalla disciplina
sugli stupefacenti va inteso non come diritto soggettivo individuale, ma come bene di cui
l'individuo è portatore nell'interesse della collettività. Questi reati sono tali in quanto pongono in
pericolo - in forme più o meno incisive- la salute degli assuntori, a seguito di prolungate
assunzioni, nessuna delle quali è normalmente idonea a compromettere il bene tutelato. Si tratta
dunque di reati di pericolo astratto, destinati a sanzionare condotte seriali con effetti cumulativi, in
quanto fonti di pericolo del verificarsi non già di una lesione, bensì di una situazione pericolosa
per il bene della salute (in tal senso la sentenza S.U. 28605/08, in tema di coltivazione;li ha
classificati come reati di pericolo di pericolo).
Essenziale connotato è quindi la dimostrazione della probabilità di un evento lesivo, attraverso la
dimostrazione dell'efficacia drogante della sostanza, a prescindere della idoneità concreta
dell'assunzione a ledere la salute del consumatore.
Secondo il giudice delle leggi (sentenza 360/1995), diverso profilo è quello dell'offensività specifica
della singola condotta in concreto accertata dal giudice: ove questa sia assolutamente inidonea a
porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie
concreta a quella astratta "perchè la indispensabile connotazione di offensività in generale di
quest'ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile
almeno in grado minimo, nella singola condotta dell'agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie
a rifluire nella figura del reato impossibile (art. 49 c.p.)".
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Seguendo tale chiave interpretativa, va dimostrata con assoluta certezza, al di là di ogni
ragionevole dubbio, che la sostanza detenuta, sia in grado di produrre effetti droganti.
La sentenza delle S.U., sempre in tema di coltivazione di sostanze stupefacenti (n. 28605 del 2008),
affermata la offensività in astratto della condotta di coltivazione di piante da cui è ricavabile
sostanza stupefacente, esamina la necessità "della verifica - demandata al giudice di merito dell'offensività specifica della singola condotta in concreto accertata. Il principio della offensività in forza del quale non è concepibile un reato senza offesa (nullum crimen sine iniura), secondo la
consolidata giurisprudenza costituzionale, opera su due piani "rispettivamente della previsione
normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in
astratto un contenuto lesivo o comunque la messa in pericolo di un bene o interesse oggetto di
tutela penale (offensività in astratto), e della applicazione giurisprudenziale (offensività in
concreto), quale criterio interpretativo - applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il
fatto reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l'interesse tutelato" (così
testualmente la Corte cost. n. 265/05, e in senso conforme, vedi pure le decisioni 360/95, 263/00,
519/00, 354/02). Nella specie, la Corte costituzionale, come già si è detto, con la sentenza n. 360 del
1995, ha ritenuto che la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di
sostanza stupefacenti integra un tipico reato di pericolo presunto, connotato dalla necessaria
offensività della fattispecie criminosa astratta.
In ossequio, però, al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, spetterà al giudice
verificare se la condotta, di volta in volta contestata all'agente ed accertata, sia assolutamente
inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva.
La condotta è inoffensiva soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in
grado minimo (irrilevante, infatti, è a tal fine il grado dell'offesa), sicchè con riferimento allo
specifico caso in esame, la 'offensività non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla
coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile."Questa
prospettiva interpretativa della Corte costituzionale è stata seguita in maniera prevalente dalle
decisioni della S.C., che hanno escluso la sussistenza del reato D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73,
qualora la sostanza stupefacente o psicotropa, pur essendo ricompresa nelle tabelle allegate alla
legge, sia priva di qualsiasi efficacia farmacologica e quindi sia inidonea a determinare l'effetto
drogante.
Secondo sez. 4^ n. 601 del 28.2.1997, Iannelli, rv 208011 "il reato di cessione va escluso, per
inidoneità del mezzo, quando il principio attivo contenuto nella dose ceduta sia di entità tale da
non poter produrre un concreto effetto drogante, che in tal caso il fatto è solo apparentemente, ma
non sostanzialmente, conforme al modello legale, dato che l'impossibilità che si produca l'effetto
che la legge mira ad impedire lo priva dell'essenziale requisito dell'offensività, correlata al
principio di legalità" (conf. 4^, 19.12.1996, Bongiovanni, rv 206652; 6^, 15.10.1996, Basseoni, rv
206578; 4^, 3.11.1993, Rassid, rv 196606; 4^ 9.11.1993, Nabil, rv 196949).
L'esclusivo riferimento costituzionale come indice di ricerca del bene tutelato da queste norme
sugli stupefacenti viene abbandonato dalla giurisprudenza minoritaria, che è sostenuta da una
decisione delle Sezioni Unite del 24.6.1998, n. 9973, che ha affermato il principio di diritto così
massimato:
"In tema di stupefacenti, scopo dell'incriminazione delle condotte previste dal D.P.R. n. 309 del
1990, art. 73, è quello di combattere il mercato della droga espellendolo dal circuito nazionale,
poichè, proprio attraverso la cessione al consumatore, viene realizzata la circolazione della droga e
viene alimentato il mercato di essa che mette in pericolo la salute pubblica, la sicurezza e l'ordine
pubblico, nonchè il normale sviluppo delle giovani generazioni. Ne consegue che, avendo, nel
nostro ordinamento, la nozione di stupefacente natura legale - nel senso che sono soggette alla
normativa che ne vieta la circolazione tutte e soltanto le sostanze stupefacenti indicate negli elenchi
appositamente predisposti - la circostanza che il principio attivo contenuto nella singola sostanza
oggetto di spaccio possa non superare la cosiddetta soglia drogante, in mancanza di ogni
riferimento parametrico previsto per legge o per decreto, non ha rilevanza ai fini della punibilità
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del fatto" E' evidente che la sentenza - dinanzi all'accertamento dell'assenza di pericolo specifico
per il bene della salute - fa ricorso alla sussistenza del pericolo per beni giuridici non contemplati
dalla Carta Costituzionale - inserendo il tema della necessaria lesività in un contesto di
plurioffensività, ricavato dalla ratio legis. Il bene della salute, come parametro di selezione
qualitativa della meritevolezza della pena, viene affiancato da altri beni/interessi, ritenuti
strumentali alla tutela del primo - che è quindi ridimensionato come strumento di orientamento
dell'intervento punitivo dello Stato - o viene sovradimensionato, mediante il ricorso a beni
giuridici di vaga determinazione, che ne ampliano la sua influenza, pur in assenza di specifica
offensività.
In tal modo l'assenza di efficacia drogante e quindi l'assenza del pericolo di offensività specifica
per il bene della salute non esclude la rilevanza penale del fatto, in quanto l'attitudine offensiva
della condotta viene proiettata su interessi visti come strumenti per una mediata tutela del bene
costituzionalmente protetto (quale la lotta al mercato della droga), o su valori, quali la sicurezza e
l'ordine pubblico e il normale sviluppo delle giovani generazioni, visti come strumenti per una più
estesa tutela di questi beni.
Questo indirizzo interpretativo è stato seguito da Cass. 13 maggio 1999, n. 6864, Trovato rv 214204
secondo cui il divieto di circolazione coinvolge tutte le sostanze specificamente indicate negli
elenchi allegati, indipendentemente dalla presenza dei canonici principi attivi nei quantitativi
commercializzati "conseguentemente, la circostanza che il principio attivo contenuto nella singola
sostanza oggetto di spaccio possa non superare la cosiddetta soglia drogante, non ha alcuna
rilevanza ai fini della punibilità del fatto". Sulla stessa linea sono 4^, 15.5.2003, De Paoli rv 225127;
4^ 13.6.2001, Palmella, rv 219778; 6^ 8.11.2000, Giallonardo, rv 217533.
Sull'opposto versante, pur dopo la decisione delle S.U, è sez. 4^, 12.1.2000, Fucile, rv 215876.
L'abbandono del riferimento costituzionale quale indice di ricerca degli interessi tutelabili,
comporta il venir meno della funzione del principio di offensività quale criterio di controllo della
aderenza ai principi costituzionali dell'intervento repressivo.
E' stato sostenuto dalla dottrina che si cade così in un equivoco metodologico, determinando una
confusione tra e l'omnicomprensivo e dilatabile concetto di ratio legis e il concetto di bene
giuridico, che dovrebbe essere assunto come interesse predefinito e preesistente rispetto alla
legislazione penale, legittimato da norme costituzionali anche implicite e funzionalmente destinate
a delimitare l'area del penalmente rilevante.
Non va inoltre sottovalutata la rilevanza della Costituzione non solo come limite ma anche come
base giustificativa, sotto il profilo della ragionevolezza, dell'intervento punitivo dello Stato. Ogni
scelta di politica criminale che voglia rispettare il principio di uguaglianza/ragionevolezza (art. 3
Cost.) è condizionata dall'esito positivo del vaglio sul razionale bilanciamento dei beni/interessi
contrapposti o la proporzione tra mezzi approntati e il fine asseritamente perseguito. Il principio di
ragionevolezza è pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale come altro limite
per il diritto penale (vedi, tra le altre, la sentenza della Corte costituzionale n. 364/1988, che
sottolinea "la necessità che il diritto penale costituisca davvero la extrema ratio di tutela della
società, sia costituito da norme non numerose, non eccessive rispetto ai fini di tutela, chiaramente
formulate, dirette alla tutela dei valori di rilievo costituzionale").
Nel doveroso bilanciamento di principi di rango costituzionale con il principio cardine della libertà
personale si pone il problema della possibilità che questo bilanciamento coinvolga i generici beni
che sono indicati nella sentenza delle Sezioni Unite del 1998 ("la salute pubblica, la sicurezza e
l'ordine pubblico, nonchè il normale sviluppo delle giovani generazioni") non presenti
esplicitamente nella Costituzione, ma che ricorrono come valori guida di scelte di politica
criminale (prevalentemente contingenti, per ricorrenti "emergenze").
Questa punizione - ove la si consideri razionalmente ingiustificata o proporzionalmente non
adeguata - non è giustificabile mediante il richiamo alla natura di reati di pericolo presunto,
riconosciuta ai reati in tema di stupefacenti. Dinanzi al paradosso di condotte tipiche ma
concretamente non pericolose per la salute individuale e collettiva tutelata dalla Costituzione, il
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giudice, guidato dal combinato disposto dei principi di offensività e della ragionevolezza, deve
chiedersi se possa esercitare il potere punitivo dello Stato, sacrificando la libertà personale, per
tutelare il bene della salute, dinanzi a una offensività, non ravvisabile neanche in grado minimo,
nella singola condotta dell'agente. Come già detto, per essere meritevole di punizione, la condotta
tipica deve avere come oggetto sostanze stupefacenti aventi un requisito formale (rientrare negli
elenchi delle tabelle) e sostanziale (avere efficacia stupefacente o psicotropa e quindi capacità o
potenzialità lesiva). In caso di assenza di quest'ultimo, deve escludere la rilevanza penale del fatto.
Venendo alla fattispecie in esame, deve concludersi che in concreto non è rilevabile e quindi non è
suscettibile dell'accertamento chiesto al giudice l'effetto stupefacente in una pianta il cui ciclo non
si è completato e che quindi non ha prodotto sostanza idonea a costituire oggetto del concreto
accertamento della presenza di principi attivi.
La prognosi espressa dal consulente tecnico sulla futura esistenza dei principi attivi non può
equivalere all'accertamento richiesto al giudice dalla Corte costituzionale e dalle Sezioni Unite,
all'esito del quale può ritenersi dimostrata l'offensività della condotta dell'agente, nella sua
accezione concreta.
Questo accertamento a futura memoria, in cui si ipotizza - più che la attuale produzione di principi
attivi - l'attuale assenza di ostacoli alla futura produzione di principi attivi, non può fondare una
dichiarazione di responsabilità in un ordinamento in cui, inoltre, vige il principio della
presunzione di non colpevolezza.
Pertanto, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.
COLTIVAZIONE DI STUPEFACENTI E PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ: UNA LETTURA
OBBLIGATA DELLE DISPOSIZIONI DETTATE DAL D.P.R. 309/90
Ambra Gentile, Dottoranda di ricerca in Discipline penalistiche sostanziali Università degli Studi
di Messina, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2009, 3, 1535
Sommario: 1. Rilevanza penale della coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti: la
questione affrontata dalla Suprema Corte. - 2. L'evoluzione storica della disciplina penale in tema di
stupefacenti. - 3. Il reato di coltivazione alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 360/95: i
rapporti con i principi di uguaglianza-ragionevolezza ed offensività. - 4. L'interpretazione della norma che
incrimina la coltivazione: reato di pericolo presunto o concreto? - 5. Gli interventi delle S.U. del 2008 (sent.
n. 28605/08 e 28606/08) e il duplice livello di operatività del principio di offensività. - 6. Gli aspetti
"stupefacenti" della riforma della disciplina dettata dal d.P.R. 309/90 nella sua attuale configurazione.
1. Rilevanza penale della coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti: la
questione affrontata dalla Suprema Corte. - Con la decisione in commento, la Cassazione torna ad
affrontare il problema della rilevanza penale, ex art. 73 d.P.R. 309/90, della condotta di
coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti.
La sentenza del 14 gennaio 2009 segue infatti - a distanza di pochi mesi - le pronunce delle Sezioni
Unite del 2008, le quali - note per aver posto fine al dibattito giurisprudenziale sorto in ordine
all'interpretazione della norma che incrimina la coltivazione - hanno concluso per la rilevanza
penale della stessa, ancorché finalizzata ad uso esclusivamente personale.
La fattispecie concreta sottoposta all'esame della quarta sezione penale della Corte riguarda
l'ipotesi di coltivazione di piantine di cannabis il cui ciclo di maturazione non era ancora giunto a
completamento.
L'interrogativo affrontato e risolto dai Supremi Giudici nella pronuncia de qua è se tale condotta
integri o meno gli estremi del reato di coltivazione ex art. 73 d.P.R. 309/90.
La Cassazione, pur mostrando in tale occasione di aderire all'orientamento ermeneutico sposato
qualche mese prima dalle Sezioni Unite - in forza del quale qualsiasi attività non autorizzata di
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coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata
per la destinazione del prodotto ad uso personale, costituisce condotta penalmente rilevante giunge, nel caso di specie, ad escludere la sussistenza del reato di coltivazione, svolgendo alcune
considerazioni in ordine al principio di offensività dell'illecito.
La Cassazione si richiama, in particolare, a quanto già affermato dalla Corte costituzionale con la
sentenza n. 360/95, e successivamente confermato dalle stesse Sezioni Unite con le pronunce n.
28605/08 e 28606/08.
Dopo aver ribadito l'individuazione del bene giuridico protetto dalla normativa in tema di
stupefacenti nella salute pubblica dei consumatori, attuali e potenziali, di sostanze droganti, e
condividendo la classificazione del reato di coltivazione fra gli illeciti di pericolo astratto connotati
dalla necessaria offensività, la Cassazione afferma che, se la previsione inerente la coltivazione ex
art. 73 d.P.R. 309/90 non può assolutamente ritenersi incompatibile con i postulati del nullum
crimen sine iniuria dal punto di vista della c.d. offensività in astratto, ossia della « previsione
normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in
astratto un contenuto lesivo o comunque la messa in pericolo di un bene o interesse protetto di
tutela penale », è compito del giudice verificare la c.d. offensività in concreto della condotta
contestata all'agente, vale a dire la sua idoneità a porre a repentaglio il bene giuridico protetto.
Per tale via, la Corte reputa il fatto sottoposto al proprio vaglio insussistente, proprio in quanto
carente sul piano della concreta offensività.
Posto che una condotta è in concreto inoffensiva « soltanto se il bene tutelato non è stato leso o
messo in pericolo anche in grado minimo », « l'offensività non ricorre ... se la sostanza ricavabile
dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile », cosa che
accade anche (e soprattutto!) nel caso di piantine il cui ciclo di maturazione non sia ancora giunto a
termine.
La decisione in commento, sulla scia di una quantomai pacifica giurisprudenza, costituisce
ulteriore dimostrazione della rilevanza del principio di offensività che, in materia di stupefacenti,
costituisce un'indispensabile "chiave di lettura" delle singole fattispecie incriminatrici contemplate
dal d.P.R. 309/90, come modificato dal d.l. 272/2005 (decreto-legge sulle Olimpiadi invernali di
Torino), convertito in l. 49/06 (c.d. legge "Fini-Giovanardi").
Come si vedrà nelle pagine seguenti, la disciplina sanzionatoria in tema di stupefacenti ha da
sempre suscitato seri dubbi circa la sua compatibilità con i principi costituzionali. In tale ambito, la
riforma del d.P.R. 309/90 - definita argutamente in dottrina stereotipo di una "legislazione
logorroica" - non ha fatto altro che arguire le perplessità riguardanti il coordinamento con il diktat
della Carta Fondamentale.
2. L'evoluzione storica della disciplina penale in tema di stupefacenti. - La disciplina è
principalmente quella oggi dettata dagli artt. 73 e 75 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, come modificati
dall'art. 4 bis, co. 1, lett. c), e dall'art. 4-ter del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con
modificazioni in l. 21 febbraio 2006,n. 49.
L'assetto attuale della normativa in tema di stupefacenti è la risultante di un'evoluzione legislativa
e giurisprudenziale che ha radici lontane.
L'ordinamento è stato per lungo tempo fermo nel considerare penalmente illecite tutte le condotte
connesse all'uso di sostanze stupefacenti (importazione, acquisto, detenzione, coltivazione),
indipendentemente dallo scopo perseguito dal soggetto attivo nell'ambito delle singole fattispecie
incriminatrici (uso personale o cessione) e dal quantitativo ricevuto o detenuto (art. 151 T.U. leggi
sanitarie, approvato con r.d. 27 luglio 1934, n. 1265; art. 6, co. 4, l. 22 ottobre 1954, n. 1041).
La successiva l. 22 dicembre 1975, n. 685, introduceva un'innovativa disciplina della materia: il
legislatore, pur mantenendo ferma in linea di principio l'illiceità delle condotte in tema di
stupefacenti, riguardo alle fattispecie di importazione, acquisto e detenzione, ne escludeva la
punibilità allorché avessero ad oggetto stupefacenti ricevuti o acquistati in modica quantità e per
uso esclusivamente personale (art. 80 l. 685/75).
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Con la l. 26 giugno 1990, n. 162, pressoché immediatamente trasfusa nel T.U. tuttora in vigore,
seppur rimaneggiato (d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), il sistema repressivo subiva un'ulteriore
modifica, dalla quale derivava un sostanziale inasprimento di regime. Tutte le condotte in materia
di stupefacenti ritornavano a costituire illecito, con una peculiarità: si sarebbe trattato di illecito
penale unicamente in caso di superamento di un parametro di tipo "oggettivo-quantitativo",
corrispondente alla c.d. "dose media giornaliera", ricadendo, in caso contrario, la condotta (limitata
all'uso personale di stupefacenti) nell'area meno grave dell'illecito amministrativo.
Il limite della dose media giornaliera operava pertanto come elemento negativo della fattispecie di
rilevanza penale, questa identificandosi nella detenzione, importazione o acquisto di sostanze
stupefacenti contenenti un quantitativo di principio attivo superiore al massimo consentito.
Il referendum del 18-19 aprile 1993, cui è stata data formale applicazione con il d.P.R. 5 giugno
1993, n. 171, ha comportato l'abrogazione delle norme del d.P.R. 309/90, che sanzionavano
penalmente il procacciamento e la detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti ed in
particolare dell'inciso, contenuto al co. 1 dell'art. 75, che escludeva la rilevanza penale della sola
ricezione e detenzione di sostanza stupefacente in dose non superiore a quella media giornaliera.
Ne consegue che, in base alla disciplina risultante dalla modifica referendaria, l'acquisto o
detenzione per uso personale di stupefacente è comportamento sì illegale (perché vietato dal
ricordato art. 75, che lo sanziona in via amministrativa), ma in ogni caso penalmente irrilevante;
correlativamente, la norma incriminatrice di cui all'art. 73 del T.U. va interpretata nel senso che le
condotte ivi descritte (limitatamente all'importazione, acquisto o illecita detenzione) sono riferite
in via esclusiva all'ipotesi in cui emerga la destinazione ad uso di terzi, e non personale, delle
sostanze stupefacenti detenute o acquistate.
In sostanza, in base alla disciplina oggi vigente, per le condotte di ricezione, acquisto e detenzione,
viene adottato - quale indice di rilevanza penale - un criterio di tipo "soggettivo-finalistico" della
destinazione a fini di spaccio della sostanza stupefacente. Il discrimen tra illecito penale ed
amministrativo è dunque rinvenibile nella circostanza che processualmente emerga la finalità di
cessione a terzi da parte del detentore o acquirente di droga, ricadendo la condotta, in caso
contrario, nella diversa area dell'illecito amministrativo.
In tal modo, la cessione al terzo diviene elemento costitutivo del reato, ma è evidente che la
distinzione tra le condotte penalmente rilevanti e quelle costituenti unicamente illecito
amministrativo diviene operazione ardua. Mentre, infatti, in base alla disciplina previgente,
bastava verificare se in concreto fossero stati superati i c.d. quantitativi-soglia normativamente
fissati, a partire dal '93, i giudici, "accantonata la bilancia", sono chiamati a verificare le intenzioni
di chi detiene ed acquista stupefacenti e valutare se lo fa al fine di cedere le sostanze a terzi.
Proprio per far fronte a tale esigenza, nell'elaborazione pretoria sono stati elaborati degli indici
presuntivi della finalità - perseguita dal detentore o acquirente - di spaccio della droga: si trattava
sostanzialmente di indici presuntivi di reato, tra i quali, oltre al parametro quantitativo (la cui
individuazione era rimessa alla discrezionalità del giudice), il ritrovamento di materiale per la
pesatura o di somme di denaro corrispettive della cessione, le modalità di confezionamento in dosi
della sostanza, ecc. Tali indici sono stati infine recepiti dal legislatore nella l. 49/06, la quale però,
intervenendo sul testo dell'art. 73 d.P.R. 309/90, affida, più ragionevolmente, l'individuazione del
quantitativo presuntivo non più alle valutazioni discrezionali del singolo giudice, ma ad apposito
Decreto interministeriale.
Nel ripercorrere le tappe dell'evoluzione che ha interessato la normativa in tema di stupefacenti,
nessuna menzione è stata fatta in merito alle ipotesi di coltivazione, non per una (altrimenti
imperdonabile!) dimenticanza di chi scrive ma perché, invero, nessuna modifica ha storicamente
interessato tali condotte che - come nell'originaria disciplina - ricadono nell'area del penalmente
illecito anche se non finalizzate allo spaccio.
3. Il reato di coltivazione alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 360/95: i rapporti
con i principi di uguaglianza-ragionevolezza ed offensività. - Il trattamento differenziato che il
d.P.R. 309/90 assegna alla condotta di coltivazione (destinata, in ogni caso, a costituire illecito
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penale) rispetto alle ipotesi di ricezione, acquisto e detenzione (le quali integrano reato unicamente
se finalizzate allo spaccio, in caso contrario costituendo illecito amministrativo), ha comportato
l'insorgere di dubbi circa la compatibilità degli artt. 75 e 73 T.U., rispettivamente con i principi di
uguaglianza, sub specie di ragionevolezza e parità di trattamento ex art. 3 Cost., e di necessaria
offensività (artt. 13, 25 e 27 Cost.).
Su tali questioni ha avuto modo di pronunciarsi la Corte costituzionale nella "storica" sentenza 24
luglio 1995, n. 360.
Più precisamente, il Giudice delle Leggi è stato chiamato a vagliare la legittimità costituzionale
dell'art. 75 T.U., come modificato a seguito del d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171, nella parte in cui non
prevede che anche la coltivazione di piante da cui si estraggono sostanze stupefacenti - oltre che
l'importazione, l'acquisto o la detenzione - venga punita soltanto con sanzioni amministrative se
finalizzata all'uso personale della sostanza, e dell'art. 73 T.U. cit., nella parte in cui prevede
l'illiceità penale della condotta di coltivazione di piante indicate dall'art. 26 del medesimo T.U., da
cui si estraggono sostanze stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all'uso personale,
indipendentemente dalla percentuale di principio attivo contenuta nel prodotto della coltivazione
stessa.
Nell'arresto del '95, la Corte dichiara le avanzate questioni di legittimità costituzionale infondate.
Quanto alla pretesa violazione del principio di uguaglianza sub specie di ragionevolezza e parità
di trattamento ex art. 3 Cost., i Giudici delle Leggi, dopo aver preso atto degli orientamenti
giurisprudenziali formatisi sulla questione, affermano non essere irragionevole la mancata
previsione della condotta di coltivazione, quando destinata all'uso personale, tra quelle di
importazione, acquisto e detenzione, punite soltanto con sanzioni amministrative ex art. 75 d.P.R.
309/90, come successivamente modificato nel '93.
Al riguardo, si esclude la sussistenza della disparità di trattamento tra le condotte di detenzione,
acquisto ed importazione, da un lato, e quella di coltivazione, dall'altro, ipotizzata dal giudice
remittente, sul rilievo della non comparabilità delle diverse condotte prese in considerazione dalla
legge: la detenzione, l'acquisto e l'importazione di sostanze stupefacenti per uso personale
rappresentano - si afferma in motivazione - condotte collegate immediatamente e direttamente
all'uso stesso, il che rende non irragionevole un atteggiamento meno rigoroso del legislatore nei
confronti del responsabile; nel caso della coltivazione manca invece questo nesso di immediatezza
con l'uso personale e ciò giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella
discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici
all'approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale.
A ciò va aggiunto, sempre secondo il ragionamento seguito dalla Corte, che la stessa destinazione
della sostanza stupefacente all'uso personale è apprezzabile in termini diversi nelle situazioni
poste in comparazione.
Infatti, nella detenzione, nell'acquisto e nell'importazione, il quantitativo della sostanza
stupefacente è certo e determinato e consente, valutato unitamente alle altre circostanze oggettive e
soggettive della condotta, un giudizio prognostico sulla effettiva destinazione della sostanza.
Per converso, nella coltivazione non è apprezzabile ex ante, con sufficiente grado di certezza, il
quantitativo di sostanza stupefacente estraibile dalle piante, onde la conseguente valutazione circa
la futura destinazione - all'uso personale e/o di terzi - appare ipotetica e non affidabile: ciò si
risolve in una maggiore pericolosità della condotta, fondata sul rilievo che questa è destinata ad
accrescere indiscriminatamente il quantitativo di sostanza stupefacente presente sul mercato. La
Corte completa il proprio ragionamento ribadendo che la coltivazione costituisce una tipica figura
di reato di pericolo presunto, dove il pericolo preso in considerazione ai fini della sanzionabilità in
sede penale è costituito dall'idoneità della condotta ad attentare al bene della salute dei singoli per
il solo fatto di arricchire la provvista di droga e, quindi, di creare potenzialmente più occasioni di
spaccio.
Quest'ultimo argomento è stato utilizzato per dichiarare infondata la seconda eccezione di
costituzionalità, ossia quella avente ad oggetto l'art. 73 d.P.R. 309/90, nella parte in cui questo
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prevederebbe, secondo l'assunto del giudice a quo, l'illiceità penale della coltivazione a
prescindere dal quantitativo di principio attivo effettivamente ottenibile dalle piante coltivate.
Al riguardo, la Corte, pur ribadendo la legittimità della costruzione del delitto di coltivazione
come reato di pericolo presunto, ha comunque tenuto a precisare che spetta in ogni caso al giudice
ordinario verificare se la specifica condotta di coltivazione oggetto della contestazione risulti
effettivamente e concretamente pericolosa, cioè idonea a ledere o a porre in pericolo il bene
giuridico tutelato.
Laddove quindi risultasse, nel concreto, la presenza di quantitativi di principio attivo insufficienti
a produrre un apprezzabile stato stupefacente, dovrebbe concludersi per la non offensività della
condotta, con la conseguente applicazione della disciplina del reato impossibile (art. 49, co. 2, c.p.).
Quanto alla dedotta violazione del principio di offensività, la Corte, dunque, distingue l'accezione
astratta del principio citato che, rivolta al legislatore, gli impone di incriminare condotte lesive o
pericolose di beni giuridici meritevoli di tutela, e la sua dimensione concreta che, rivolta al giudice,
gli impone di optare per interpretazioni della norma incriminatrice coerenti, per quanto possibile,
con l'esigenza di un fatto concreto obiettivamente dotato di lesività quanto meno potenziale.
Riguardo all'offensività in astratto, la Corte non dubita che l'incriminazione della condotta di
coltivazione risponda all'esigenza di presidiare beni meritevoli di tutela, in specie quello della
salute, esposto a pericolo per effetto di condotte implicanti la produzione di nuove sostanze
stupefacenti. Evidenziano infatti, al riguardo, i giudici costituzionali che la astratta pericolosità
della condotta di coltivazione deriva anche dall'impossibilità di determinare a priori il prodotto
stupefacente ricavabile e la sua potenzialità diffusiva.
La stessa Corte peraltro, sostiene però che spetta comunque al giudice il vaglio circa l'offensività in
concreto della condotta.
È bene precisare che, in questi casi, il discrimine con l'illiceità penale non è costituito dalla
destinazione ad uso di terzi ma - sempre che venga esclusa questa destinazione - dall'inesistenza
della ripetuta offensività in concreto: la Corte costituzionale, nella sentenza ricordata, fa l'esempio
della coltivazione di una sola pianta da cui possa estrarsi un esiguo quantitativo di sostanza,
insufficiente a provocare un apprezzabile stato stupefacente.
4. L'interpretazione della norma che incrimina la coltivazione: reato di pericolo presunto o
concreto? - Così superata la questione di costituzionalità, ci si è interrogati sui criteri
d'interpretazione della disciplina penale della condotta di coltivazione. Ci si è chiesti, in
particolare, se il principio di offensività possa fungere da criterio interpretativo della disposizione
incriminatrice ex art. 73 d.P.R. 309/90.
Sono emerse, sul punto, tre tesi.
Per un primo e più rigoroso orientamento, si deve far leva sulla lettera del decreto 309/90 che non
distingue, come avviene in fatto di detenzione, a seconda della destinazione della coltivazione. Ne
consegue che, anche in presenza di un esiguo numero di piantine, deve ritenersi integrato il reato
di cui all'art. 73 d.P.R. cit.
A sostegno dell'assunto si valorizza la natura del reato in questione, inteso come fattispecie di
pericolo astratto.
Ne discenderebbe l'irrilevanza sia di fattori qualitativi (il grado di tossicità) che quantitativi (il
numero di piante), utili solamente in chiave sanzionatoria, potendo rilevare ai fini
dell'applicazione della circostanza aggravante speciale della "ingente quantità" ex art. 80 d.P.R.
309/90. Anche il grado di maturazione raggiunto dalla pianta non sarebbe determinante, dovendo
ritenersi per coltivazione proibita quell'attività che, partendo dalla semina, giunge sino alla
raccolta.
In quest'ottica, l'attività di coltivazione costituirebbe reato, a prescindere dall'uso che il coltivatore
intende fare della sostanza ricavabile, innanzitutto perché la coltivazione e la detenzione
costituiscono due condotte del tutto distinte e l'art. 75 d.P.R. 309/90, come modificato dal d.P.R.
171/93 in applicazione degli esiti referendari, nell'attribuire rilevanza scriminante all'uso
personale, non fa alcun riferimento all'attività di coltivazione. In secondo luogo, la destinazione ad
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uso personale non potrebbe assumere alcun valore scriminante, sia perché difetterebbe il nesso di
immediatezza della coltivazione con l'uso personale, sia perché non potrebbe determinarsi a priori
la potenzialità della sostanza stupefacente ricavabile.
Il differente trattamento riservato alla coltivazione rispetto alla mera detenzione - secondo questo
orientamento interpretativo - non è irragionevole in quanto si fonda sulla valutazione di una
maggiore pericolosità ed offensività insita nell'essere la coltivazione, la produzione e la
fabbricazione di sostanze stupefacenti attività che sono tutte rivolte alla creazione di nuove
disponibilità, con conseguente pericolo di circolazione e diffusione delle droghe nel territorio
nazionale e rischio per la salute pubblica.
Agevole dubitare della coerenza di tale impostazione con le indicazioni fornite dalla Corte
costituzionale nella citata sentenza 24 luglio 1995, n. 360, laddove rimise al giudice di merito il
compito di valutare, in concreto, che la quantità di stupefacente coltivato fosse "assolutamente
inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato", dovendo quest'ultimo in tal caso
escludere l'offensività in concreto e ritenere la condotta non punibile.
Per una seconda, e meno rigida, posizione, che valorizza quanto sostenuto dalla Corte
costituzionale nella citata sentenza 360/95, la realizzazione del delitto di coltivazione andrebbe
esclusa solamente in presenza di un dato quantitativo estremamente ridotto.
Sebbene il legislatore abbia - secondo detta impostazione - nelle sue previsioni presunto una
oggettiva pericolosità in fatto di coltivazioni di stupefacenti, la coltivazione di un solo esemplare di
pianta proibita verrebbe a privare dei crismi della tipicità la condotta concreta.
Per un terzo orientamento, invero minoritario, infine, sarebbe stato necessario distinguere tra due
forme di coltivazione.
Una prima tipologia (certamente punibile), detta anche tecnico-agraria, si caratterizzerebbe per un
elevato coefficiente organizzativo desumibile dal tipo di coltivazione posta in essere (se in terreno
o in vaso), dal tipo di semina e di governo della coltivazione, dalla disponibilità di attrezzi,
strutture e sostanze da cui desumere un approccio chiaramente imprenditoriale nella coltivazione.
Diversa, invece, la coltura c.d. domestica, effettuata in via approssimativa e rudimentale e i cui
frutti sarebbero funzionali ad un utilizzo meramente personale: la stessa sarebbe equiparabile, sul
piano del trattamento penale, alla mera detenzione e, come tale, non assumerebbe rilievo penale,
attesa la destinazione ad uso personale della sostanza estraibile dalla pianta coltivata.
In tal modo, l'orientamento che si espone aveva, di fatto, finito per escludere la rilevanza penale
della coltivazione c.d. domestica finalizzata all'uso personale dello stupefacente: ciò sulla scorta di
un'equiparazione, operata in via interpretativa, di siffatta tipologia di coltivazione con la condotta
di mera detenzione.
La coltivazione c.d. domestica non integrerebbe - secondo l'orientamento da ultimo citato - gli
estremi della fattispecie tipica della coltivazione, oggetto d'incriminazione nell'ambito dell'art. 73,
co. 1, d.P.R. 309/90, ma costituirebbe species del più ampio genus della detenzione ex art. 75, co. 1,
d.P.R. cit., risultando conseguentemente depenalizzata se finalizzata all'esclusivo uso personale.
Si è in particolare osservato che, una volta abrogato il divieto dell'uso personale di sostanze
stupefacenti a seguito degli esiti referendari del '93, ed una volta che il discrimine fra illecito
penale ed amministrativo resta fissato soltanto nella destinazione della sostanza al consumo
personale, l'esigenza di evitare irragionevoli disparità di trattamento per condotte caratterizzate
dal medesimo fine, e quindi di interpretare l'art. 75 in senso conforme alla Costituzione, impone in
modo più stringente di estendere tale discrimine alla coltivazione. Questo risultato può essere
agevolmente raggiunto attraverso un'interpretazione estensiva dell'espressione "comunque
detiene" di cui al testo dell'art. 75, co. 1, d.P.R. 309/90, in modo da comprendervi anche quelle
attività che, come appunto la coltivazione, implicano comunque la detenzione della sostanza
stupefacente prodotta.
L'espressione "o comunque detiene" si riferirebbe, dunque, a un comportamento descrittivo
formulato in termini di sintesi, dato che tutte le condotte previste dall'art. 73 d.P.R. 309/90
sembrano presupporre una qualche forma di detenzione.
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5. Gli interventi delle S.U. del 2008 (sent. n. 28605/08 e 28606/08) e il duplice livello di operatività
del principio di offensività. - A dirimere il contrasto giurisprudenziale di cui si è appena dato atto
sono intervenute le Sezioni Unite con le due pronunce "gemelle" di aprile-luglio 2008.
Nelle decisioni in questione, le S.U. affermano il principio secondo il quale costituisce condotta
penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono
estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad
uso personale.
La Suprema Corte innanzitutto, richiama e ribadisce gli argomenti svolti dalla Corte costituzionale
nella sentenza 360/95 con riferimento alla mancanza del nesso di immediatezza tra la coltivazione
e l'uso personale e all'impossibilità di determinare ex ante la potenzialità della sostanza drogante
ricavabile dalla coltivazione, così da rendere ipotetiche e comunque meno affidabili le valutazioni
in merito alla destinazione della droga all'uso personale piuttosto che alla cessione.
Le S.U. evidenziano, in secondo luogo, che la condotta di coltivazione, anche dopo l'intervento
normativo del 2006, non è stata richiamata dall'art. 73, co. 1 bis, né dall'art. 75, co. 1, d.p.R. 309/90,
ma solamente dal novellato art. 73, co. 1. Il legislatore, pertanto, ha voluto attribuire a tale condotta
una perdurante rilevanza penale, quali che siano le caratteristiche della coltivazione e quale che sia
il quantitativo di principio attivo ricavabile dalle piante.
Imprescindibile è al riguardo - precisano i Supremi Giudici - il rispetto delle garanzie di riserva di
legge e di tassatività, tenuto conto che il c.d. problema della droga presenta il pericolo effettivo che
la carica ideologica ad esso inerente, in senso vuoi libertario vuoi conservatore e repressivo, induca
a risolverlo con schemi di ampliamento e dilatazione ovvero, per contro, riduttivi. Deve essere
pertanto circoscritta al legislatore e ad esso soltanto la responsabilità delle scelte circa i limiti, gli
strumenti, e le forme di controllo, da adottare.
Secondo la Corte, inoltre, è agevole ricavare dall'art. 75 d.P.R. 309/90 l'esclusione dal regime
dell'uso personale di tutte le altre condotte previste dall'art. 73 d.P.R. cit., ad eccezione
dell'importazione, dell'acquisto o della detenzione.
Il precedente art. 28, del resto, prevede espressamente l'assoggettabilità delle sanzioni anche penali
stabilite per la fabbricazione illecita di chiunque, senza essere autorizzato, coltiva le piante indicate
nell'art. 36.
Alla luce del chiaro tenore letterale delle norme appena richiamate, quindi, sarebbe del tutto
arbitraria la distinzione tra coltivazione in senso "tecnico-agrario" ovvero imprenditoriale e
coltivazione "domestica".
L'art. 26 d.P.R. 309/90, sotto il capo "Della coltivazione e produzioni vietate", infatti, pone il divieto
generale ed assoluto di coltivare le piante comprese nella tabella 1 di cui all'art. 14, salvo il potere
del Ministro della Salute di autorizzare " istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini
istituzionali e di ricerca alla coltivazione delle piante...per scopi scientifici, sperimentali e didattici".
Deve ritenersi vietata, pertanto, qualunque forma di coltivazione delle piante stupefacenti indicate
nella tabella 1 - non necessariamente connotata (poiché la legge non lo prevede) da aspetti di
imprenditorialità ovvero dalle caratteristiche proprie della coltivazione tecnico-agraria - fatta
eccezione soltanto per quella a scopi scientifici, sperimentali e didattici, previa autorizzazione in
favore degli istituti indicati dalla legge.
Osservano, da ultimo, i giudici di legittimità che qualsiasi tipo di coltivazione è caratterizzato da
un dato essenziale e distintivo rispetto alle fattispecie di detenzione, che è quello di contribuire ad
accrescere la quantità di sostanza stupefacente esistente sul mercato, sì da meritare un trattamento
sanzionatorio diverso e più grave. Ciò anche in considerazione del fatto che la coltivazione
presenta la peculiarità ulteriore di dare luogo a un processo produttivo astrattamente capace di
autoalimentarsi attraverso la riproduzione dei vegetali.
Una volta ammessa la rilevanza penale della coltivazione non autorizzata di piante da cui sono
estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti, e rigettata dunque la distinzione accolta dalla
giurisprudenza minoritaria tra coltivazione tecnico agraria c.d. "imprenditoriale" e coltivazione
c.d. "domestica", le S.U. si soffermano sul problema del rapporto tra la fattispecie di coltivazione
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ed il principio di offensività. In tal senso, precisano che quest'ultimo - in forza del quale non è
concepibile un reato senza la lesione o messa in pericolo di un bene giuridicamente protetto
(nullum crimen sine iniuria) opera su due piani, rispettivamente della previsione normativa, sotto
forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano, già in astratto, un
contenuto lesivo (offensività in astratto), e dell'applicazione giurisprudenziale (offensività in
concreto), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad attribuire rilievo a
quei soli fatti concretamente offensivi dell'interesse tutelato.
In ossequio al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, le S.U. concludono
sostenendo che spetta al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all'agente ed
accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in
concreto inoffensiva.
Dunque, sebbene la Corte abbia optato per l'orientamento più rigido esistente in materia, la stessa
puntualizza la necessità di ricorrere al principio di offensività quale criterio fondamentale a cui il
giudice deve fare ricorso nell'applicazione concreta delle singole fattispecie incriminatrici.
6. Gli aspetti "stupefacenti" della riforma della disciplina dettata dal d.P.R. 309/90 nella sua attuale
configurazione. - Come già accennato nelle pagine precedenti, la disciplina sanzionatoria in
materia di stupefacenti, oggi contenuta nelle norme del d.P.R. 309/90, è stata interessata, da
ultimo, e precisamente nel 2006, da un importante intervento riformatore.
Nonostante la riforma non abbia alterato la struttura di fondo del modello italiano di contrasto al
fenomeno degli stupefacenti - un modello sostanzialmente "proibizionista" incentrato (anche) sulla
massima sanzione punitiva, e tuttavia temperato, dopo la consultazione referendaria del 1993,
secondo la distinzione tra consumo, da un lato, e produzione-traffico, dall'altro lato, e sulla
correlativa differenziazione tra i restanti "tipi criminologici" del produttore-spacciatore e del
consumatore-tossicofilo-tossicodipendente -, tra le diverse innovazioni proposte dalla l. 49/06,
alcune scelte sembrano profilare dubbi di legittimità in merito al coordinamento con i parametri
costituzionali di ragionevolezza. Ciò sia rispetto all'orientamento consolidato che declina il
paradigma di giudizio sui criteri della ragionevolezza-uguaglianza e della ragionevolezzaproporzione, con peculiare riguardo alla coerenza ordinamentale interna, sia rispetto ad un
aggiornamento del medesimo paradigma che dovrebbe suggerire di ricomprendervi parametri
normativi rilevanti a livello sopranazionale e, segnatamente, comunitario e di riserva di legge sub
specie di tassatività-determinatezza.
Quanto al primo dei segnalati profili, che inquadra la riforma nel prisma del canone di
ragionevolezza, va innanzitutto considerata la novità, introdotta dalla riforma, della parificazione
sanzionatoria tra le condotte concernenti la produzione, il traffico e la detenzione illeciti di droghe
c.d. pesanti e droghe c.d. leggere, ora ricomprese in un'unica tabella. A differenza della disciplina
precedente, che prevedeva cornici edittali significativamente (e più ragionevolmente) distinte, la
novella ha stabilito per le condotte lato sensu riconducibili allo "spaccio" (e/o destinate ad un "uso
non esclusivamente personale") una medesima cornice, dai margini peraltro amplissimi, fissati
nella pena della reclusione da sei a venti anni e la multa da 26.000 a 260.000 euro (art. 73, co. 1 e 1
bis, d.P.R. 309/90).
A tal proposito, si è sottolineato da parte di taluno dei commentatori della riforma che siffatta
innovazione rappresenterebbe il culmine del progressivo inasprimento sanzionatorio che - in uno
col peggioramento complessivo della qualità formale e sostanziale della disciplina - costituisce "il
filo rosso che attraversa gli interventi normativi a partire dalla riforma del 1975".
In particolare, la classificazione delle sostanze droganti adottata dal legislatore della riforma non
rispecchia i criteri proposti dalla letteratura scientifica medica e tossicologica, risultando così
eccessivamente generalizzante e dall'aspetto "terroristico", persino a chi non condivide le voci
frequenti che si richiamano all'innocuità dell'uso dei cannabinoidi: non assume, infatti, rilevanza la
diversa tipologia di effetti e il diverso grado di dipendenza riferibile alle differenti droghe e - in
ultima istanza - la diversità di conseguenze lesive alle stesse riconducibili. Ciò palesa i profili
squisitamente politici dell'opzione prescelta dal legislatore della riforma.
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A prescindere da tale ultima considerazione, vagliando la razionalità dell'opzione penale alla luce
della criteriologia costituzionale, la ricomprensione in un'unica cornice edittale di condotte
concernenti droghe pesanti e leggere sembra, anzitutto, estromettere dal fuoco degli interessi
direttamente protetti il bene giuridico della salute dei consumatori attuali o potenziali di sostanze
droganti.
Tale oggetto di tutela infatti, con riferimento al consumo di talune sostanze "leggere"
(segnatamente i derivati della canapa indiana), non può ritenersi se non in termini di mero ed
astratto pericolo. L'oggetto di tutela della criminalizzazione del consumo di cannabinoidi, in tal
caso, lambisce appena il dato - in sé "precario" - della "salute pubblica" per approdare ad istanze
politico-criminali che con la "salute pubblica" hanno ben poco in comune. In particolare, da un lato
si tratta di pericolo di gran lunga inferiore rispetto a quello connesso all'utilizzo delle (ex) "droghe
pesanti"; dall'altro, si tratta di un pericolo sostanzialmente non superiore - stando alle risultanze
degli studi tossicologici - a quello derivante dall'utilizzo di altre sostanze psicoattive (come alcool e
tabacco), che viene spesso mistificato - più che con il rischio di dipendenza (il c.d. craving) - con la
"tesi" del rischio di progressiva degenerazione verso altre sostanze maggiormente nocive.
Parrebbe che il legislatore abbia voluto ricostruire le incriminazioni in ambito di stupefacenti in
termini di plurioffensività: la scelta legislativa inerente la parificazione quoad poenam della
repressione per droghe "pesanti" e "leggere" travisa l'emersione, oltre alla tutela del bene salute, di
ulteriori e più immediati interessi come ad esempio l'ordine pubblico, autentico ripostiglio
concettuale di istanze di tutela di una costellazione di valori a base etica ("tranquillità", "quiete
pubblica", "serenità delle famiglie", ecc.) tutte apertamente confessate in sede politica.
Risulta evidente quanto una siffatta ricostruzione dell'oggetto di tutela sia distante da una
valorizzazione seria del principio di offensività, ed aggiri, di fatto, lo sforzo di rintracciare un
plausibile fondamento costituzionale a base giustificativa dell'opzione penale, cristallizzando
peraltro un interesse incapace di significative prestazioni selettive. Un tale interesse, peraltro,
potrebbe persino condurre a delegittimare l'orientamento giurisprudenziale ormai consolidato che,
come si è visto nelle pagine precedenti, assume univocamente ad oggetto di tutela penale il bene
salute.
Insomma, l'emersione dell'inconsistenza degli interessi protetti al cospetto della straordinaria
tariffa punitiva, evidenzia un chiaro contrasto con il principio di ragionevolezza, di cui appunto
l'offensività e la proporzione possono essere assunti a parametri.
Vi sono poi ulteriori parametri che sembrano delegittimare la scelta politica di parificazione delle
condotte concernenti gli stupefacenti sotto un'unica cornice edittale, sempre nella prospettiva del
giudizio di ragionevolezza sub specie di ragionevolezza-uguaglianza.
In comparazione con altri delitti che possono presentare una certa omogeneità di lesione con beni
personalistici (ad es., lesioni personali), le pene detentive previste dal T.U. del 1990 risultano ben
più gravi, senza considerare che esse sono accompagnate da esose pene pecuniarie.
La vistosa eccedenza sanzionatoria emerge anche con il metro imposto dall'ordinamento
comunitario. Il riferimento è, in particolare, alla Decisione quadro 2004/757/GAI del Consiglio del
25 ottobre 2004, riguardante la "fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei
reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti". In tale atto, che si
colloca nel contesto di una strategia dell'UE in materia di droga (non affidata di certo al solo
strumentario repressivo!), si segnala, già tra i considerando iniziali, che per stabilire l'entità della
pena si dovrebbe tener conto di elementi di fatto tra cui anche la natura degli stupefacenti,
nell'ambito di un doveroso rispetto del principio di proporzione del trattamento sanzionatorio.
In considerazione delle frizioni del novellato T.U. rispetto al principio di ragionevolezzaproporzione e di ragionevolezza-uguaglianza, alla luce dei diversi tertia comparationis
rintracciabili a livello sistematico interno e comunitario, si auspica un intervento della Corte
costituzionale ablativo sul minimo edittale della pena prevista dall'art. 73 T.U.
Altro aspetto poco "felice" del T.U. quale risultante agli esiti della riforma è rappresentato dal
sistema delle soglie ex art. 73, co. 1 bis. È stato a tal proposito rilevato come - sebbene il
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superamento dei quantitativi soglia normativamente fissati non costituisca l'unico elemento su cui
la pubblica accusa possa richiedere all'organo giudicante una condanna penale - il dato
quantitativo stabilito, tendenzialmente alto, presumibilmente riuscirà ad assicurare tassatività solo
in odium rei. In altre parole, da un lato, la condotta, in caso di superamento, assume
inevitabilmente una valenza presuntiva di rilevanza penale, dall'altro, la pluralità dei criteri offerti
ai sensi dell'art. 1 bis lett. a) potrebbe condurre a ritenere meramente indicativo ed irrilevante il
mancato superamento delle soglie, se altri indizi rendano plausibile la detenzione a fini non
esclusivamente personali (come nel caso della "classica" ripartizione della sostanza in microdosi).
Sarebbe, a tal proposito, opportuno il consolidarsi di un'interpretazione correttiva nella prassi
giurisprudenziale che coordini l'istanza di tassatività con la ricerca di un possibile equilibrio in
termini di offensività e proporzione. Lo spessore delle conseguenze sanzionatorie dovrebbe
imporre di registrare il contenuto di lesività del fatto al livello più alto, esigendo sempre come
requisito necessario il superamento dei limiti-soglia ed imponendo al contempo, quantomeno, di
ritenere questo dato non sufficiente, qualora diversi indizi fondino comunque un dubbio
"ragionevole" sul possibile uso esclusivamente personale della sostanza detenuta.
La perdurante fluidità di confini dell'ambito di rilevanza penale, nel tracciato offerto dal nuovo art.
73, è confermata dal raffronto tra il co. 1 bis e il co. 1, che prevede una serie di condotte, tra cui la
coltivazione, per le quali non sono richiamati criteri per la dimostrazione della destinazione a terzi,
essendo ritenute oggettivamente ed intrinsecamente caratterizzate dalla finalità di uso non
esclusivamente personale.
Sempre nel prisma del principio di ragionevolezza, e del suo necessario coordinamento con i
principi di tassatività ed offensività, un cenno va fatto anche alla rimodulazione della circostanza
attenuante del "fatto di lieve entità", che nella nuova veste dell'art. 73, co. 5, T.U., consente di
registrare non solo il quadro sanzionatorio su un'escursione edittale inferiore, ma persino di
accedere al diverso trattamento del "lavoro sostitutivo" come radicale alternativa sanzionatoria, la
quale è però rimessa alla discrezionalità del giudicante in contrasto con imprescindibili esigenze di
tassatività e determinatezza.
Ulteriore profilo poco convincente del novellato T.U. riguarda, infine, l'apparato sanzionatorio
amministrativo previsto per il consumatore "pericoloso" per la sicurezza pubblica, la cui natura
"intrinsecamente penale" emerge in tutta la sua evidenza. Il riferimento va, in particolare,
all'ipotesi di cui all'art. 75 bis, che contempla - in aggiunta alle sanzioni previste dall'art. 75 - un
significativo irrigidimento sanzionatorio che attinge ad un livello di gravità tale da far supporre
una vera e propria "truffa delle etichette".
Peraltro, di fronte ai diversi profili di irragionevolezza segnalati, non sembra possibile annoverare
tra i risultati positivi della riforma un innalzamento complessivo del coefficiente di deterrenza
conseguente all'impiego di pene draconiane. Lo dimostra l'estrema frequenza con cui,
quotidianamente, nelle aule dei nostri tribunali si discute di fatti inerenti il consumo o il traffico di
stupefacenti.
Tra i consistenti profili di ambiguità rilevabili nelle disposizioni del d.P.R. 309/90, soltanto
un'applicazione giurisprudenziale ponderata e "ragionevole" può portare colore alle "tinte fosche"
dell'attuale T.U. in materia di stupefacenti. In quest'ambito, il principio di offensività "in concreto"
costituisce l'unico criterio ermeneutico in grado di arginare gli effetti potenzialmente deleteri delle
stratificazioni normative che hanno interessato, dalle origini ad ora, la normativa penale in tema di
stupefacenti.
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