il realismo e la fine della filosofia moderna

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Vittorio Possenti
Il realismo
e la fine della
filosofia moderna
Armando
editore
Sommario
Introduzione 7
Prima parte: La strada maestra del realismo
23
Capitolo I
Realismo diretto e verità
25
Capitolo II
Il realismo e il futuro della filosofia
61
Capitolo III
Perché la filosofia non può fare a meno della verità 79
Capitolo IV
Sulla concezione tomista dell’essere e la nozione
di esse ipsum (per se subsistens) Annesso – Sul metodo della metafisica 103
129
Seconda parte: Filosofia dell’essere e chiusura
133
della modernità filosofica Capitolo V
Da dove occorre fare il cominciamento della Scienza?
Sulle metafisiche libertiste (Schelling e Pareyson)
e quelle logicistiche (Hegel, Gentile, Severino, Bontadini) 135
Capitolo VI
Dottrina della conoscenza, logica, metafisica.
Gentile, Bontadini e noi Capitolo VII
La chiusura del ciclo filosofico moderno:
realismo e gradi del sapere in J. Maritain Annesso – Sul realismo integrale e la mistica
Annesso – Intermezzo breve sulla filosofia italiana
(contemporanea)
159
189
210
212
Terza parte: Problemi del divenire
e dell’eterno
223
Capitolo VIII
Caso, evoluzione, finalità
225
Capitolo IX
Il ritorno all’eterno quale compito essenziale del pensiero
257
contemporaneo
Capitolo X
Rinnovare la filosofia: l’alleanza socratico-mosaica 269
Indice dei nomi 285
Introduzione
“Ma che cosa c’è di più nobile dello spirito non pratico?”1
1. Rinnovare la filosofia. La frase di Heschel ha una valenza generale
e persuade che per rinnovare la filosofia vi sia bisogno in ogni campo di
pensiero speculativo, non solo o principalmente di storia della filosofia.
Indubbiamente lo slancio rinnovatore ha bisogno della cultura storica,
senza però che divenga predominante: in tal caso la filosofia si limiterebbe a celebrare se stessa, andando a rivisitare il proprio passato. Il
rinnovamento della filosofia prende origine da domande vitali, che implicano una lotta tra il filosofo e il reale. Conosciamo le domande antiche
che si ripresentano puntuali dinanzi ad ogni generazione; poi ci sono
le domande nuove, oggi stimolate dal complesso scienza-tecnica che ci
lascia tra ammirazione e timore e che è per la filosofia una provocazione quotidiana. Il rinnovamento auspicato non può lasciare da parte la
domanda sull’essere e la questione dell’Assoluto. Dopo un periodo di
relativo silenzio, esse sembrano riprendere lentamente per una necessità
interna, che forse nasce dall’insoddisfazione dinanzi alle varie culture
immanentiste e scientiste che hanno promesso molto ed edificato poco.
Come rinnovare la filosofia se non attraverso la metafisica e il realismo? E come evadere dalla grigia gora della filosofia moderna ormai
irreversibilmente conclusa? Il filo conduttore del discorso svolto nel
presente volume si sostanzia in due nuclei fortemente connessi. Dapprima la nostra via sistematica è la filosofia dell’essere, la metafisica
1 A.J.
Heschel, La terra è del Signore, Genova, Marietti, 1989, p. 45.
7
che le è connessa e il realismo che le è intrinseco. Occorre ristabilire
la dottrina dell’essere e del sapere, ormai da tempo emarginata, e per
questo scopo una sola “ontologia del mondo” appare ricerca rilevante
ma insufficiente in ordine alla costituzione di una metafisica compiuta.
L’oblio dell’essere che porta con sé la crisi della metafisica e che fonda
il potere della tecnica sull’ente, è sormontato dalla Seinsphilosophie.
In secondo luogo per rinnovare la filosofia bisogna considerare dove
ci troviamo e da che cosa partire. In proposito il punto di partenza è
la dichiarazione, semplice e radicale ad un tempo, della chiusura da
molti decenni della filosofia moderna: questa è ormai da tempo conclusa e il presente clima postmoderno segnala la necessità di un profondo
riorientamento.
Il realismo di cui parlo è a pieno arco, capace di interessare i più svariati domini del sapere, compresi quelli delle scienze che per loro natura
sono intimamente realiste; ma tale realismo è in specie un ‘realismo
metafisico’ che non rigetta il rapporto con la metafisica, e che è proprio
della filosofia dell’essere e di quell’ampia tradizione del pensiero cristiano che ha tenuto fermo il nesso con l’ontologia. Potremmo chiamarlo anche ‘realismo classico’ non nel senso che voglia rinchiudersi nel
passato, ma in quello che è capace di farsi intendere in tutte le epoche. Il
tragitto proposto per il pensiero postmoderno potrebbe allora suonare:
dal nichilismo teoretico alla metafisica dell’essere.
In effetti la nostra è sia l’epoca della postmetafisica sostenuta da
tanti, sia quella di una possibile rinascita della metafisica. Le fondamentali correnti antimetafisiche del ’900 (neopositivismo, fallibilismo,
esistenzialismo ateo, ermeneutica radicale, neoidealismo) sono finite,
non rappresentano più una possibilità reale, di modo che appare possibile riaprire il discorso metafisico. Pensiamo a un ritorno alla metafisica attraverso, ossia attraversando il pensiero moderno, non mediante
un salto all’indietro di secoli: per tale motivo una quota significativa
del libro è dedicata a temi e problemi della modernità e dell’epoca
contemporanea.
Rinnovare la filosofia significa anche la consapevolezza che nessun altro sapere o cultura può prenderne il posto: non si rinnova ciò
che è inutile o morto. Né le scienze umane, né la storia della cultura,
né le vicissitudini delle concezioni antropologiche possono sostituirla.
Per rinnovare la filosofia la prima condizione è che vi sia ancora filo8
sofia e questa sembra una condizione non scontata, dal momento che
varie correnti vedono il pensiero filosofico come un ambito residuale
che andrà scomparendo man mano che le scienze aumenteranno le loro
conoscenze. Siamo qui dinanzi ad un’idea assai povera di filosofia, che
proviene in specie da un positivismo che ignora la diversità tra scienza
e filosofia, o che sopravvaluta molto l’aiuto che le scienze possono dare
al pensiero filosofico. Questo cerca da sempre il significato del tutto, e
per le problematiche che avanza, si pone necessariamente ad un livello
più alto delle scienze, che accertano il che e non domandano sul perché. Tale discorso vale altrettanto bene a livello pratico-morale dove le
questioni poste da neuroscienze, genetica, sfruttamento dissennato del
creato esigono una risposta filosofico-etica. Di per sé nessuna scienza si
occupa del dover essere, per cui esse, non potendo offrire indicazioni in
un campo vitale per ognuno di noi, indicano la necessità di altre fonti.
L’interazione tra filosofia, scienza ed epistemologia è stata enorme
per tanti decenni, ma ora che il fumo della battaglia si è alquanto diradato, non si può dire che il dibattito abbia recato un particolare giovamento per stabilire lo statuto della filosofia, spesso ridotta a metascienza, a
cogliere solo l’interazione tra i saperi positivi.
Riportato il sapere allo specialismo e alla frammentazione delle
conoscenze scientifiche, si entra in un campo altamente plurale in cui
giganteggia la negazione di ogni sapere sovraordinato della realtà, che
non ha più alcuna unità effettiva, perché non è più letto entro un Scienza
prima, ma come insieme di singole regioni della cultura e della natura
che non comunicano se non accidentalmente e senza alcuna necessità
ricompositiva. Dunque un estremo pluralismo che non possiede principi di ordinamento e che, mentre mantiene i metodi delle singole scienze falsificabili e fallibili, depone severamente l’idea stessa di Scienza
come sapere stabile e certo. Tale è l’esito tanto dello storicismo come
del positivismo, che rifiutano a buon diritto il mito neoidealistico del
soggetto assoluto che fa la storia e di cui noi siamo condensati empirici
transeunti, ma che poi finiscono per sparpagliarsi nelle mille regioni
dell’azione umana, giungendo ad un pluralismo etico incomponibile.
Qui sono i soggetti empirici a porre il valore secondo orientamenti soggettivi ingiustificabili, e collocati in un’infinità priva di senso.
2. Reincantare. Abbiamo bisogno di rinnovare la filosofia attraverso
un suo reincantamento che l’allontani dalla tentazione della sfiducia.
9
Reincantamento non significa cedere a sentimenti irrazionali, ma vedere il rapporto tra se stessi, il mondo e l’essere in modo meno schematico
e meccanico di quanto accada oggi. Comporta aguzzare la nostra percezione degli altri e della realtà, scoprendo nuove dimensioni, simboli,
allusioni, presenze, ulteriorità che sfuggono allo sguardo scettico e distratto. Abbiamo bisogno di antenne più sensibili per percepire quote di
realtà che non si concedono facilmente.
Alludendo al reincanto, la mente va a M. Weber: questi ha introdotto
la questione del disincanto del mondo che accade mediante la progressiva razionalizzazione e intellettualizzazione della vita. Ciò comporta
una fondamentale conseguenza: «la coscienza o la fede che basta soltanto volere per potere, ogni cosa – in linea di principio – può essere
dominata con la ragione. Il che significa il disincantamento del mondo.
Non occorre più ricorrere alla magia per dominare o per ingraziarsi
gli spiriti, come fa il selvaggio per il quale esistono simili potenze. A
ciò sopperiscono la ragione e i mezzi tecnici»2. Differentemente da E.
Durkheim, secondo il quale la religione è un fattore fondamentale della
società e un coefficiente della sua coesione, per cui non bisogna abbandonarla, Weber ritenne destino della nostra epoca che proprio i valori
supremi e sublimi fossero diventati a noi estranei, “per rifugiarsi nel
regno extramondano della vita mistica o nella fraternità dei rapporti
immediati e diretti tra i singoli”3.
3. Il compito di rinnovare la filosofia si pone in ogni momento come
primario, perché il filosofare rimane un rischio imminente che deve essere assunto ed onorato, per quanto modeste siano le proprie forze rispetto alla sconfinata ampiezza dell’obiettivo. Il moto di rinnovamento
della filosofia inizia con uno sguardo diverso sul reale: questo non è mai
superato, ma è l’orizzonte verso cui guardare per effettive novità. Rinnovare la filosofia è possibile se ci si lascia dietro le spalle lo storicismo
che spesso sostituisce un giudizio temporale ad un giudizio di merito;
è superato, si dice, e tanto basta per lasciare da parte immense regioni
e tradizioni.
Quanto alla metafisica sappiamo che da lungo tempo circolano i termini di pensiero postmetafisico e di ‘oltrepassamento’ della metafisica,
2 “La scienza come professione”, in Il lavoro intellettuale come professione, Torino,
Einaudi, 1980, p. 20.
3 Ivi, p. 41.
10
come sostiene Heidegger in Überwindung der Metaphysik4. Sino ad
un passato recente chi riconosceva la necessità della metafisica aveva
la chiara sensazione di essere in una posizione di forte minoranza, se
non anche di isolamento. Oltre 35 anni fa assistetti presso l’Università
Cattolica di Milano ad un dibattito tra Gustavo Bontadini, caposcuola
dell’espressione milanese della metafisica (neo)classica, e Marino Gentile esponente di spicco della metafisica classica insegnata a Padova.
Il titolo del dibattito era spiritoso e significativo: “I quattro gatti della
metafisica ed i polli di Renzo”, i quali continuano a beccarsi tra loro pur
essendo pochi e precari (vedi I Promessi Sposi). Al di fuori dell’Italia
la situazione della metafisica non appariva migliore, essendo nei principali Paesi il proscenio tenuto da correnti filosofiche che professavano
senza infingimenti un’opzione antimetafisica o postmetafisica.
Un punto di svolta nel percorso della filosofia italiana verso la
postmetafisica può essere collocato intorno agli anni ’80, quando in
rapporto alla situazione del 1945 accadono nuovi eventi: la chiusura
del ciclo idealistico; l’essor dell’epistemologia e della filosofia della
scienza; la presenza ancora per brevi anni del marxismo e poi la sua
caduta rovinosa; esteso riferimento all’ermeneutica; spiccato atteggiamento postmetafisico. Dal lato della filosofia cristiana in quegli anni
accadono la chiusura dell’epoca della neoscolastica e le insuperabili
difficoltà della metafisica classica così come era stata concepita all’Università Cattolica di Milano: questa aveva elevato a proprio riferimento
privilegiato l’attualismo gentiliano, il cui ciclo si era chiuso da tempo.
Forse qualcosa di diverso accadeva 50 anni fa nell’ambiente anglosassone in cui opere come Individui di Strawson, che porta come sottotitolo Saggio di metafisica descrittiva o testi di discepoli di Wittgenstein come G.E.M. Anscombe e P.T. Geach (cfr ad es. il loro Three
Philosophers, dedicato ad Aristotele, Tommaso e Frege) mantenevano
aperto un discorso significativo per la metafisica e il problema dell’essere. Non è mia intenzione ricostruire il lento passaggio, accaduto in
specie nell’area analitica anglosassone di seconda maniera, da un rifiuto
4
Cfr. ad esempio J. Habermas, Il pensiero postmetafisico, Roma-Bari, Laterza,
1991. Per Heidegger cfr. il cap. “Oltrepassamento [Ueberwindung] della metafisica”
in Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1980, pp. 45-65. L’oltrepassamento heideggeriano della metafisica è atteggiamento del tutto diverso da “Il superamento [anche qui
Ueberwindung] della metafisica attraverso l’analisi logica del linguaggio”, svolto da R.
Carnap in un saggio del 1932.
11
completo della metafisica ben rappresentato dal Manifesto del Wiener
Kreis e da vari scritti di R. Carnap, ad una più recente situazione in cui
si parla di ontologia e di nuove ontologie quali descrizioni di tutto ciò
che esiste, dei vari possibili tipi di enti, e delle loro condizioni di permanenza, cambiamento, trasformazione, identità, e si riprende a indagare
sulla teologia naturale o razionale.
4. Crisi della ragione. Il movimento scettico sul rinnovamento della filosofia si espresse alcuni decenni fa attraverso i temi della crisi della ragione, fine della filosofia, riduzione della filosofia a metascienza,
disfatta della metafisica. Trentacinque anni fa la questione riscosse attenzione in Italia con l’uscita del volume collettaneo Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umana, a cura di A.
Gargani (Einaudi 1979) con contributi di C. Ginzburg, G.C. Lepschy,
F. Orlando, F. Rella, V. Strada, R. Bodei, N. Badaloni, S. Veca, C.A.
Viano. In specie nella presentazione di Gargani il volume intendeva
sanzionare la fine di un paradigma di razionalità, ed espressamente di
quanto veniva chiamato il ‘paradigma classico di razionalità’, ossia
della “rappresentazione classica e tradizionale della ragione umana”,
di cui “è stata impugnata la capacità di esaurire in ampiezza e spessore il campo delle nostre operazioni intellettuali” (p. 5). La cosiddetta
razionalità classica che nella presentazione di Gargani era quella procedente dalla fisica newtoniana, era diventata insufficiente a coprire i
nuovi territori della conoscenza.
Sarebbe facile osservare, e venne allora obiettato, che nel termine
‘razionalità classica’ l’aggettivo è assai limitativo in quanto si tratta di
un classico-moderno, cioè di una struttura di razionalità che si è imposta in vari campi del moderno coi titoli di una struttura naturale, necessitante e apriorica, capace di emarginare l’individuale e la vita, ma che
poi è esplosa nel secondo Ottocento, e che comunque non è stata l’unica
forma di razionalità della ragione moderna. La ‘ragione classica’, così
come schizzata in Crisi della ragione, assume in maniera smodata i
lineamenti della ragione scientifica e geometrica newtoniana, perché
sia possibile considerarla tout court il paradigma della ragione classicomoderna, tanto più che la ragione classica senza altri aggettivi affonda
le sue radici ben più indietro del ’600.
è indubbio che la ragione scientifica con la sua esigenza di sicurezza
cui alludeva Gargani, era da tempo entrata in gravi difficoltà, ma questo
12
non autorizzava una diagnosi universale di crisi della ragione, a meno
di non cedere ad un infausto monismo gnoseologico in base a cui il modello classico-moderno di razionalità non avrebbe alternative. Questo
era appunto il peccato originale della razionalità scientifica che manifesta un mondo “in cui ogni cosa è logicamente decisa e nulla o pressoché
nulla è lasciato ai processi costruttivi del sapere” (p. 13). Ci si voleva
difendere da ogni novità intellettuale, ricondurre tutto all’identità, far
entrare tutto o quasi in un paradigma predisposto, riportando il nuovo
al già saputo e dunque all’identità. Scrisse Adorno: “Nell’idealismo domina inconsciamente l’ideologia che il non-io, l’autrui e in fondo tutto
quanto evoca la natura è inferiore, affinché l’unità del pensiero possa
ingoiarlo senza scrupoli”5.
Questo tipo di ragione ha dissanguato la vita e l’essere; dispiace che
in Crisi della ragione la ragione aperta, itinerante, china verso la vita
ed i soggetti ed insieme capace di porsi come filosofia prima non risulti
presente. Eppure un abisso invalicabile separa ragione metafisica e ragione scientifica classico-moderna, poiché la prima è aperta all’evento,
all’altro, al diverso, all’imprevisto, al dono. Ciò che sorprende è che la
crisi manifesta della ‘razionalità classica’ non evochi per contrappunto
la possibilità di una razionalità ontologico-metafisica, attenta alla vita,
ma presti attenzione solo ai pur necessari e importanti nuovi modelli del
sapere, aprendo il cammino verso la “ragione complessa”, come si sarebbe detto circa 15 o 20 anni dopo. Indubbiamente l’immagine di una
ragione complessa e plurima si manifesta più idonea di quella di una
ragione monocratica e monolitica, nel senso che la ragione plurale non
è di per sé contraria alla ragione metafisica. Quest’ultima, a differenza
di quella classico-scientifica, non appare “come una sorta di abbraccio
che stringe in una presa unica e inesorabile tutti gli atti della nostra
esperienza intellettuale” (Gargani, p. 50).
La crisi della ragione evocata nel volume di pari nome si è poi allargata e precisata ed ha coinvolto negli stessi anni, in ambiti più propriamente filosofici, la crisi della dialettica di origine hegeliano-marxista,
dapprima nel versante marxista ma poi anche in Hegel. Crisi della ‘razionalità classica’ e crisi della ragione dialettica hanno comportato un
riflusso verso forme di rifiuto della ragione come tale, della filosofia e
dell’idea stessa di verità, come può essere capitato col pensiero debole
5
Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 1970, p. 20s.
13
in Italia o col neopragmatismo di Rorty nell’orizzonte anglosassone.
Dall’insieme del processo si trae l’impressione che la mappatura della
ragione e del problema della conoscenza fosse stato da tempo molto impoverito, che il pluralismo dei modi umani di conoscenza fosse venuto
sbriciolandosi sotto la pressione di un solo modo del conoscere, nella
stragrande maggioranza dei casi quello delle scienze6. Ne consegue un
monismo conoscitivo che comporta un impoverimento generale dell’attività conoscitiva e che presto o tardi porta la filosofia alla disfatta.
5. L’elemento su cui ha più intensamente influito, a livello speculativo, la semplificazione e la destituzione del logos è forse l’esteso rifiuto
del discorso dichiarativo ed apofantico, a cominciare da Heidegger, a
favore di un discorso esclusivamente ermeneutico e interpretativo, invece di puntare ad una coordinazione di metafisica e di ermeneutica7.
La grande crisi dei fondamenti, che ha investito il filosofare negli
anni 1960-2000 e che era tutt’uno con la crisi della ragione che non
6 Per questo motivo mi adoperai affinché la Morcelliana ristampasse Distinguere
per unire o i gradi del sapere di J. Maritain, che da 30 anni era esaurito. Operazione
necessaria in quanto nessuna opera della grande modernità filosofica, ossia né il metodo cartesiano, né il discorso kantiano sulla ragion pura ed i suoi poteri, né la scienza
della logica hegeliana potevano fondare sulla cosa stessa nel suo rapporto con l’intelletto quel pluralismo conoscitivo e quella eterogeneità di nessi tra mente e mondo da
cui appunto nascono i vari saperi umani: scienze, filosofia della natura, matematiche,
metafisica. I gradi del sapere oltrepassano tre secoli di monismo noetico e riaprono
alla mente umana nuove possibilità di accesso al reale. La mappatura che in quest’opera viene compiuta dell’orizzonte della ragione è fatta per dare cittadinanza al maggior numero di saperi, evitando l’eccessiva semplificazione della ragione provocata
da razionalismo e irrazionalismo, che quasi sempre termina nella destituzione della
ragione e nel decesso del problema della sapienza: di quest’ultima sembrano essersi
perse le tracce nel pensiero postmoderno. La semplificazione della ragione che non
vuole confrontarsi con la polivalenza e la complessità del reale, comporta un suo
grave impoverimento.
I gradi non è soltanto il miglior frutto moderno del realismo classico, ma è un’opera che in rapporto alle Meditationes cartesiane, alla Critica della ragion pura di Kant
e alla Scienza della logica di Hegel, risulta più fondata e decisiva per il suo generale
orientamento realistico assente nelle opere appena citate.
Per la mia Premessa alla nuova ed. di I gradi, non raccolta qui per motivi di spazio,
rinvio al volume, pp. I-XXIX.
7 Su questi aspetti decisivi, entro i quali è nascosto il segreto di non poca parte della
filosofia del ’900, rinvio a Nichilismo e metafisica. Terza navigazione, Roma, Armando,
2015. Nel rifiuto del discorso apofantico, nell’abbandono della dottrina del concetto e
dell’intenzionalità, e nell’interdetto gettato sull’intuizione intellettuale si possono condensare i maggiori equivoci di una parte notevole della filosofia novecentesca.
14
trova più un sapere primario od un asse fondamentale ma che diventa
una pluralità di tecniche di ricerca tra loro sparpagliate, ha condotto
ad un’esplicita scepsi e spesso al nichilismo teoretico come abbandono dell’idea stessa di verità. Se ciò colpiva il monismo gnoseologico
uscito da Cartesio, conduceva ad un pluralismo tanto accentuato che
non trovava più un momento comune. Rifiuto da un lato benedetto, in
quanto la scienza non può requisire per sé soltanto l’idea di conoscenza,
ma dall’altro precario perché tale rifiuto spesso diventava negazione
dell’idea stessa di verità.
6. Esaurimento di talune scuole. Da tempo alcuni indicatori di profondità sembrano segnalare il declino o l’esaurimento di correnti filosofiche che hanno contato a lungo nella vicenda del pensiero contemporaneo degli ultimi 70 anni e che non sembrano più in grado di apportare
spinte nuove e propulsive. Già vent’anni fa H. Putnam osservava l’esaurimento della filosofia analitica prima maniera.
La filosofia analitica è caduta progressivamente sotto il dominio dell’idea che la scienza, e solo la scienza, descriva il mondo come è in sé,
indipendentemente da una prospettiva. Certo tra i filosofi analitici vi
sono figure importanti che combattono questo scientismo: basti citare
Peter Strawson, o Saul Kripke, o John McDowell, o Michael Dummett.
Ciononostante, l’idea che la scienza non lasci spazio per un’attività filosofica indipendente è arrivata al punto che autorevoli professionisti
suggeriscono talvolta che tutto ciò che resta alla filosofia è tentare di
anticipare come saranno alla fine le presunte soluzioni scientifiche di
tutti i problemi della metafisica8.
La scienza e solo la scienza offrirebbe l’unica visione assoluta del
mondo. Forse nel conto può entrare anche l’ermeneutica, non nel senso
di un suo esaurimento ma in quello di un ampliamento del suo quadro
con un’apertura al discorso metafisico.
La filosofia si rinnova con la metafisica e l’etica, col discorso sull’essere e sul dover essere: non si è filosofi se non si è metafisici9. Un nucleo
8
H. Putnam, Rinnovare la filosofia, Milano, Garzanti, 1998, p. 7s.
Tale era l’opinione di Maritain che nel Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente (Brescia, Morcelliana, 2014) osserva: «Non si è filosofi se non si è metafisici.
è l’intuizione dell’essere – anche se tradita da un sistema come quello di Platone o di
Spinoza – che fa il metafisico: cioè l’intuizione dell’essere nelle sue proprietà pure
9
15
storico deve sempre essere presente, però intendendo che l’elemento
storico serve per illustrare, non per dimostrare. Tutto ciò significa che
in filosofia si scambiano ragioni (si danno ragioni, logon didonai; e si
chiedono ragioni, logon labein), ossia si cerca la verità, e si cerca poiché
essa non è immediatamente evidente. Il soggetto si confronta con
l’esperienza che lo circonda e ne chiede il significato e il perché. Viene
elevata una domanda che l’io rivolge a se stesso e agli altri, di modo
che si dà origine ad un dialogo tra parlanti e ragionanti. Così operava
Socrate quando chiedeva agli interlocutori di rendere ragione delle loro
affermazioni sul bene, su una singola virtù e così via. Domandare ragioni significa formulare problemi riguardo a singoli momenti dell’esperienza e infine sulla totalità dell’esperienza, nel senso che i nuclei
singoli e l’insieme si mostrano come problematici, pongono domande
ed hanno bisogno di risposte giustificate. Nasce così il problema filosofico come tale e con esso la domanda sul tutto e sull’originario.
7. Su alcuni modi per rinnovare la filosofia, ed in primis sul modo
di intenderla. è ovvio che per rinnovare la filosofia occorra avere
una qualche idea di filosofia, che sono tante. Un modo tutto sommato abbastanza diffuso nell’area analitica è intendere la filosofia come
chiarimento e rielaborazione di concetti10. Ma è questo sufficiente o
bisogna che vi sia un contatto più originario con la realtà? Nell’area
ermeneutica si ritiene di rinnovare la filosofia con l’elaborazione della
differenza tra pensiero rivelativo e pensiero espressivo, come intendeva Luigi Pareyson in Verità e interpretazione. Personalmente intendo
il rinnovamento della filosofia (teoretica) come approfondimento della
concezione dell’essere, e come conquista del suo metodo argomentativo-dimostrativo, che – come dirò più avanti – non è soltanto elencticoconfutatorio. E qui cade opportuno ricordare l’eccezionale rilievo del
realismo al fine di un rinnovamento.
Non intendo sostenere che rinnovare la filosofia con il realismo e la
e onnipenetranti, nella sua densità intelligibile e primordiale, l’intuizione dell’essere
secundum quod est ens», p. 53.
10 Questa è la linea di Paolo Parrini: “Io intendo la filosofia come rielaborazione
di concetti”, “Verità e razionalità in prospettiva positiva”, in AA.VV., Filosofi italiani
contemporanei, a c. di G. Riconda e C. Ciancio, Milano, Mursia, 2013, p. 230. Sulla posizione epistemologica di Parrini, esposta in Sapere e interpretare (Guerini, 2002) rinvio ad
alcune mie considerazioni sul realismo e il fondazionalismo, svolte nel cap. “La verità e i
suoi concetti”, in Essere e libertà, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, pp. 51-92.
16
metafisica risulti cosa facile e a portata di mano, e questo non solo perché anche la filosofia ha i suoi scribi e i suoi farisei. Quel rinnovamento
è arduo: nessuno l’ha illustrato con tanta chiarezza quanto l’Aquinate in
alcuni passaggi del suo Proemio al Commento della Metafisica aristotelica. Ho commentato questo testo venerabile e magnifico in Nichilismo
e metafisica. Terza navigazione (cap. III) e solo il timore di ripetermi mi
ha trattenuto dall’inserirlo in questo libro; un’epoca intellettualmente
incerta e perfino smarrita come la nostra non potrebbe che trarre giovamento dalla meditazione di tale scritto. Ricorderò soltanto che per
Tommaso la filosofia prima quale sapere supremo e massimamente universale è altamente intellettuale e verte sugli oggetti più alti e più remoti
dall’esperienza, e dunque più difficili da raggiungere. Tale scienza non
è disponibile ad nutum, e se può avere solo una modica cognitio: “Nos
non scimus nisi quaedam infima entium”. La sua difficoltà allontana la
presunzione del razionalismo di un tempo che riteneva di poter disvelare l’Assoluto e la sua natura; eppure Tommaso da nessuna parte lascia
trasparire che l’impresa sia impossibile e spinge con tutte le forze a non
ritirarsi per gustare il frutto della verità e della sapienza.
Non desidero sostenere che la filosofia si rinnova soltanto con la
metafisica, che non è l’appestato da cui guardarsi come osservava ironicamente Hegel. Vi sono più cammini: rinnovare la filosofia con l’antropologia, oggi paurosamente sbilanciata verso naturalismo e materialismo, che propagandano una concezione antieroica dell’esistenza,
lodano l’io minimo e comico che tanti di noi sono, auspicano la fine
della dimensione religiosa e contemplativa dell’esistenza e dello spazio del trascendente a favore della civiltà tecnologica. La filosofia si
rinnova anche con la religione che include ad un tempo protologia e
escatologia. In merito il rischio di oggi non è l’assorbimento idealistico della religione nella filosofia, ma la radicale obiezione empirista,
positivista e scientista contro ogni fede e trascendenza. La filosofia si
rinnova in vari modi ma in maniera più intensa e radicale mediante il
discorso metafisico e l’impegno realistico. Le scienze nel loro campo
sono necessarie; allontaniamo però l’illusione che possano dare risposte sul senso del tutto: non vi sono né mai vi saranno soluzioni scientifiche a problemi metafisici.
Forse oggi non è più valido quanto scriveva Gilson nel 1935: “Il
realismo non gode di buona fama. I nostri contemporanei sono quasi
17
tutti convinti che per essere filosofi occorre necessariamente adottare
il metodo idealistico”11. L’autore aveva mille ragioni per sostenere il
suo asserto, ma oggi 80 anni dopo il riferimento all’idealismo è venuto
meno. Dopo un’eclisse – perlopiù mediatica poiché gli studi sul realismo non si sono mai interrotti – da alcuni decenni in diversi ambiti,
compreso quello analitico, accade una promettente ripresa di elaborazione sul realismo.
Il compito della filosofia dell’essere
Verso dove orientarci entro l’incerto Zeitgeist dell’oggi? Ritengo
che le grandi tradizioni filosofiche non vengano mai meno e che anzi
presentino virtualità e profondità che interpellano e vanno riscoperte.
La filosofia ed in specie la metafisica sono un sapere tradizionale e progressivo che progredisce come approfondimento del medesimo, ed in
cui il lato “problema”, molto forte nelle scienze, risulta certamente presente anche in essa ma affiancato ed avvolto dal lato “mistero”.
Tra le grandi tradizioni massima è quella della filosofia dell’essere
che è ben lungi dall’essere spenta, nonostante le difficoltà in cui si è
trovata da vari decenni a farsi presente e a rielaborarsi in rapporto alle
nuove sfide. Questa mia antica convinzione vertente sulla transtemporalità e la perennità della filosofia dell’essere, trovò un importante
riscontro nel postumo Giovanni Gentile di A. Del Noce. Secondo questi lo scacco terminale dell’attualismo gentiliano riapre la strada alla
filosofia dell’essere. Del Noce, dopo una fase degli anni ’40 in cui aveva
mostrato dubbi e riserve sulla neoscolastica ed il neotomismo, aveva
successivamente in due scritti degli anni ’70 ed oltre trovato un eccellente punto di assestamento. I due scritti cui mi riferisco sono “La ri11
E. Gilson, Il realismo, metodo della filosofia, Roma, Ed. Leonardo da Vinci, 2008,
p. 115. “Una dottrina, quali che siano le sue specifiche caratteristiche, è una forma di
idealismo nella misura in cui fa del conoscere la condizione dell’essere, sia soggettivamente che oggettivamente”, p. 46. Tra i beni spirituali di cui abbiamo più acuto bisogno
al primo posto sta la filosofia. Scrive Gilson: «Il primo e più necessario di questi beni è
l’esistenza di una filosofia come disciplina autonoma del pensiero, con al vertice la metafisica. La vecchia definizione della filosofia rimane valida, tanto che lo stesso Auguste
Comte ha finito per riconoscerlo: essa è lo studio della saggezza», p. 112.
18
scoperta del tomismo in Etienne Gilson e il suo significato presente”12,
e il Giovanni Gentile (il Mulino 1990). Del Noce interpreta l’opera di
Gilson come capace di favorire un incontro tra una linea del pensiero moderno, quella non immanentistica, con il tomismo. E con ancora
maggior vigore scriverà nel Giovanni Gentile: «L’opera del tomista Gilson si situa nella storia della filosofia contemporanea esattamente dopo
lo scacco dell’attualismo gentiliano» (pp. 102-103, corsivo dell’autore), per cui né storicamente né teoreticamente il tomismo o la filosofia
dell’essere sono coinvolte nella crisi che ha investito le moderne filosofie immanentistiche ed atee.
Possiamo aggiungere a questo punto: tra le posizioni non coinvolte
[nello scacco del pensiero gentiliano] c’è il tomismo, almeno nel senso
in cui i suoi avvertiti interpreti, come appunto il Gilson, lo intendono…
Si può quindi dire: poiché l’attualismo è lo svolgimento sino alle conseguenze ultime della valenza idealistica del principio d’immanenza,
conseguente al dualismo cartesiano, ne consegue che il tomismo non è
coinvolto nel suo scacco (p. 105s).
Dunque la crisi dell’attualismo come momento in certo modo conclusivo della filosofia moderna, riapre il cammino storico e teoretico
alla ripresa della filosofia dell’essere. Ed è questa la posizione che
vorrei esplorare, adottando quel vocabolario privilegiato che è il vocabolario dell’essere.
Le piccole filosofie riflettono come possono il proprio tempo, mentre le grandi filosofie aiutano a pensare non solo il presente immediato
ma ciò che è diacronico e in qualche modo permanente. Sono filosofie
al di sopra dell’epoca, e pur capaci di intendere meglio di altre la propria epoca.
Riprendere la metafisica e il realismo significa non solo ricominciare ma pure svolgerne le virtualità inespresse. Le numerose tesi dell’ultimo mezzo secolo sulla fine della filosofia non possono che risultare
assai affrettate: non arriverà mai il tempo in cui dovremo prendere atto
della fine della filosofia, la quale è un’attività immortale che perdurerà nell’aldilà, come genialmente prevedeva e desiderava Socrate (cfr.
Apologia di Socrate). E quanto al linguaggio della metafisica esso è
12
In AA.VV., Studi in onore di Gustavo Bontadini, Milano, Vita e Pensiero, 1975,
p. 470.
19
altrettanto giovane oggi che 2500 anni fa: essenza ed esistenza, atto e
potenza, partecipazione, causalità, idea, essere e non essere, assoluto,
originario, contingente e così via sono radicati da sempre nella realtà e
lì rimarranno. Non nego il rilievo di rinnovare idee, metodi, modo di ricerca, eppure il linguaggio fondamentale ed originario della metafisica
rimane stabile come la verità che esso manifesta. Non è il linguaggio
che va cambiato ma lo sguardo speculativo e contemplativo che va costantemente rinnovato e rivitalizzato.
8. Il volume. La Parte I è dedicata a presentare e approfondire
l’impianto fondamentale del realismo diretto o immediato e il concetto di verità, mediante un’elaborazione speculativa e un esame serrato
delle posizioni d’importanti filosofi del ’900 (Gentile, Gilson, Heidegger, Maritain, Putnam, Apel e la pragmatica trascendentale). Si intende mostrare che il realismo diretto costituisce la strada maestra per
il rinnovamento della filosofia e il suo futuro. Il cap. IV approfondisce
la dottrina tomista dell’essere e dell’esse ipsum per se subsistens in
rapporto all’aristotelismo e al platonismo, mostrando l’originalità di
tale concezione e avvalorando la tesi di una ‘terza navigazione’ nella
storia della metafisica.
Nella Parte II si affronta la domanda capitale su quale sia le point
de départ della dottrina della Scienza, mettendo a confronto la metafisica dell’essere con le posizioni libertiste (Schelling, Pareyson) e quelle
logicistiche (Hegel, Gentile, Bontadini, Severino). Queste ultime presuppongono un’insostenibile identità tra Logica e Metafisica, e in ciò
consiste la più radicale negazione moderna del realismo classico. Si approfondisce il rapporto tra Gentile e Bontadini, esplorando nuovamente
l’errore idealistico del nesso tra logica e metafisica, e l’inganno della
dialettica. L’attenzione si volge poi al pensiero speculativo di J. Maritain
di cui si traccia il quadro fondamentale, giungendo alla conclusione che
la dottrina dell’essere e del sapere del pensatore francese – incardinato
nella terza navigazione della Seinsphilosophie – costituisce la chiusura
del ciclo filosofico della modernità, partito con Cartesio e Kant, e proseguito nel dialettismo hegeliano, e l’apertura di un ciclo postmoderno o
‘ultramoderno’ nel senso di ulteriore al moderno. In certo modo è con lo
spartiacque degli anni ’30 e con la pubblicazione di I gradi del sapere di
Maritain (1932) e di Essere e tempo di Heidegger (1927) che la filosofia
moderna giunge a conclusione dopo un ciclo secolare.
20
L’inesorabile processo di declino della filosofia moderna verso la
sua conclusione si svolge nella tappa che va da Cartesio a Kant, segnata
da un insuperabile dualismo gnoseologico, e in quella che procede da
Hegel a Gentile connotata dall’inganno o illusione propri della dialettica. Con Gentile la filosofia moderna in quanto tale si chiude all’insegna
di uno smisurato oblio dell’essere e si riapre lo spazio per la ripresa e
l’approfondimento della conoscenza metafisica. L’apertura di un nuovo
ciclo postmoderno o ultramoderno viene emblematicamente individuata nel pensiero di J. Maritain.
La Parte III include un capitolo in cui la dottrina del realismo e la
problematica del divenire sono poste alla prova in rapporto agli appassionanti problemi del caso, dell’evoluzione e della finalità, che concernono in maniera profonda le scienze della natura, della vita e la filosofia. Segue un capitolo sulla necessità di passare dall’eterno ritorno
al ritorno all’eterno quale compito essenziale del pensiero contemporaneo e futuro che, abbandonando la pretesa di Nietzsche sull’eterno
ritorno, riapra la strada alle metafisiche di trascendenza dopo la fine
dell’epoca delle dottrine immanentistiche. Chiude il volume un epilogo
in cui viene esplorato il rinnovamento della filosofia alla luce dell’alleanza socratico-mosaica, emblema dell’alleanza tra ragione e fede.
Notizia. I temi trattati in questo volume sono stati svolti dall’autore
in numerosi altri saggi qui non raccolti perché avrebbero notevolmente
aumentato la mole del libro. Quando necessario sono segnalati in nota.
Mi scuso col lettore se questo accadrà con una qualche frequenza, tuttavia minore di quanto sarebbe stato necessario per raggiungere rimandi
completi. I richiami in nota non hanno altro intento che quello di segnalare l’esistenza di sviluppi maggiori per chi li desiderasse. Ai capitoli
del volume che raccolgono studi già pubblicati nell’arco di pochi anni,
si sommano alcuni capitoli inediti.
I vari capitoli sono stati pubblicati come segue: Il cap. I in AA.VV.,
Perché essere realisti. Una sfida filosofica, Milano, Mimesis, 2013 (curato insieme ad A. Lavazza). Il cap. II è una relazione presentata al convegno “Il nuovo realismo tra scienza e interpretazione”, promosso dal
Dipartimento di Scienze della Formazione (Università di Roma Tre) e
dalla Scuola filosofica romana, Roma, 22 novembre 2013, divenuta poi
“Il realismo diretto e il futuro della filosofia” (Studium, n. 1, 2014, pp.
101-115). Il cap. III include una parte della relazione “Perché la filosofia
21
non può fare a meno della verità”, presentata al 12th International Symposium on Metaphysics, Lublin, 10 dicembre 2010 (Dispute over truth),
ed una parte del contributo dal titolo “Metafisica, problema della verità,
pragmatica trascendentale” (AA.VV., Seconda navigazione. Annuario
di filosofia 2000, Milano, Mondadori, 2000, pp. 63-95). Il Cap. IV in
Sensus Communis (n. 21, Roma, 2015, pp. 93-130). Il cap. V è in buona
parte inedito. Il cap. VI in Per la filosofia (n. 69, gennaio-aprile 2007,
pp. 77-98). Il cap. VII è stato presentato al convegno “Per un realismo
integrale. A partire da Jacques Maritain”, di cui non sono stati ancora
pubblicati gli Atti. Il Cap. VIII in AA.VV., Natura umana, evoluzione ed
etica. Annuario di filosofia 2007, a c. di V. Possenti, (Milano, Guerini,
2007, pp. 75-108). Il cap. IX è in larga parte inedito, e così il cap. X.
22
Prima parte
la strada maestra del realismo
Capitolo I
Realismo diretto e verità
I) La strada maestra. Numerosi anni fa scrissi che il realismo è la
strada maestra della filosofia, e ritengo di poter confermare il giudizio1. è la strada maestra poiché ci può condurre a conoscere l’essere
e la verità, che è lo scopo universale e quanto conta. L’obiettivo del
realismo non è il realismo stesso, ma la verità e con esso il nesso tra
ragione e realtà. Detto così, sembra un po’ generico ma rende l’idea
che tutti gli infiniti problemi che poniamo a noi stessi e agli altri
debbono avere nella realtà delle cose e nel rapporto che instauriamo speculativamente con loro una qualche possibilità di risposta. In
questo capitolo vorrei mostrare che il realismo diretto – ossia l’assunto che le nostre facoltà cognitive sono in presa diretta sul mondo
e l’essere e ci consentono di conoscerli – è la risposta che si impone, e che emargina le risposte scettiche e nominalistiche. Tutto ciò
1 Cfr. l’Introduzione a “Il realismo: strada maestra della filosofia”, Per la filosofia,
maggio-agosto 1995, pp. 1-7. L’appello al realismo è il mio percorso filosofico sin
dall’inizio, segnato in specie da alcuni volumi quali Razionalismo critico e metafisica. Quale realismo?, Brescia, Morcelliana, 1995, e da Nichilismo e metafisica. Terza
navigazione, cit. Si veda anche la mia ‘Autobiografia’ nel volume Filosofi italiani contemporanei, Milano, Bompiani, 2008, pp. 446-455. Il realismo cui mi sono ispirato è
il realismo classico che si allea con la metafisica. Lo potrei chiamare anche ‘realismo
speculativo’ oppure ‘realismo metafisico’ che conduce ad un rilancio dell’ontologia e
della teologia naturale, all’abbandono del materialismo come verità oggi ovvia e del
nichilismo come oblio dell’essere e destructio dell’idea stessa di verità. Durante il cammino è sempre rimasta in me ferma l’idea che l’oggettività fosse un pregio e non qualcosa di ambiguo e di violento.
A livello editoriale e in un arco di tempo di oltre 15 anni a partire dalla fine degli
anni ’70, la prospettiva del realismo diretto o ‘classico’ era una delle basi della collana
“Filosofia e scienze umane” (ed. Massimo, Milano) in cui uscirono circa 40 volumi.
25
naturalmente richiede un’accurata riflessione sui concetti di verità
e di conoscenza2. Ci occupiamo di realismo perché siamo interessati a sapere come stanno le cose, e dunque siamo spontaneamente
dei ‘metafisici’. In effetti le domande fondamentali cui la metafisica
cerca di rispondere sono tre: che cosa esiste? Qual è la natura di ciò
che esiste? In quali modi esiste tutto ciò che esiste? La prima è una
domanda tutto-niente, ossia se A esista o non esista; la seconda è una
domanda di essenza (qual è la natura/essenza di A?); la terza una
domanda di modalità di esistenza: in quale specifico modo A esiste?
La seconda e la terza questione sono tra loro collegate. Da qui parte
la metafisica per specificarsi come scienza dell’essere e dell’essenza,
e dunque valere come sapere ultimo.
Qualsiasi teoria che non ci aiuti a conoscere che cosa esiste/non
esiste, non ci rende un buon servizio. In senso generale nel realismo
si esprime un’intenzionalità conoscitiva rivolta alla totalità di quanto
esiste. Nell’antico detto ‘anima est quodammodo omnia’, proveniente
da Aristotele e ripreso dal pensiero medievale, si fa valere l’idea di una
apertura illimitata della mente al tutto e di una sua possibile conformità
con tale tutto. L’idea del realismo è di trovare un accesso all’intero che
permetta di ‘non perdere il mondo’.
Il realismo non implica l’assunto che vi sia una totalità definita e
conclusa di oggetti, né una totalità definita delle loro proprietà, ma che
– qualunque sia tale totalità, eventualmente variabile in quantità e qualità nel tempo – sia possibile acquisirne una qualche conoscenza.
Il realismo, in cui il compito della ragione non è regolativo (Kant), o
costitutivo (idealismo), ma percettivo e disvelativo, implica un rapporto cognitivo diretto con l’oggetto, non ipotesi o assunzioni a priori sugli oggetti
e le loro qualità. Neppure implica che dobbiamo prescindere nel descrivere
il mondo dagli interessi di coloro che lo descrivono. Essi potranno descriverlo mediante specifici punti di vista, accentuando o smussando, ma mai
2
Il realismo diretto può anche essere chiamato ‘realismo immediato’, secondo la
nomenclatura di Gilson, Il realismo, metodo della filosofia, cit., p. 50. Immediato significa senza inferenza alcuna. Il realismo immediato non dimostra l’esistenza del mondo
esterno, ma la dà come immediatamente certa in virtù dell’intuizione sensibile. Bisogna
partire dall’essere reale, che è primariamente la cosa materiale, e non dall’essere conosciuto. Il realismo diretto parte dalle cose, non dal pensiero, né da Dio. Il realismo come
metodo o realismo metodico significa partire dall’essere invece che dal conoscere, poiché ab esse ad nosse valet consequentia, mentre per Cartesio vale il contrario, cfr. p. 87.
26
in maniera contraria a come è: non potranno perciò dire inesistente quanto
esiste e viceversa. Noi non costituiamo il mondo ma cerchiamo di conoscerlo partendo da diversi angoli di visuale, e per così dire inventando idee e
linguaggi che ci consentano di approssimarci sempre di più alla res; la conoscenza della res non è una fotografia o un rispecchiamento della natura
(sull’errore di pensare la mente come ‘specchio della natura’ torneremo).
La posizione del mero rispecchiamento dell’oggetto nella coscienza non
tributa l’attenzione dovuta all’enorme lavoro dell’intelletto per raggiungere una qualche conoscenza della res.
II) Il ritorno al realismo implica un ritorno alle cose stesse, e costituisce un ricorrente movimento che ha preso corpo più volte nel Novecento. Il suo scopo è ed è stato il tentativo di non cedere alla scepsi, al
riduzionismo, per rimanere aperti al miracolo dell’esistenza delle cose
ed alle domande che esse pongono. Dobbiamo tornare al realismo per
motivi teoretici ben prima che politici.
Sono esempi di ritorno alle cose e al realismo il movimento neotomistico, e più generalmente neoscolastico con la sua critica dell’idealismo
e lo sviluppo di una noetica di prim’ordine, la prima fenomenologia e
poi una notevole parte di tale scuola che dal fondatore ha assunto il vigore antinaturalistico che la contraddistingue, e che la porta ad affermare
“una fenomenologia della coscienza di contro ad una scienza naturale
della coscienza”3 ed a riconoscere il valore dell’intuizione, sia pure solo
come intuizione delle essenze. La caratura realistica di queste scuole si
oppone alla riduzione della conoscenza alla scienza ed al positivismo:
in questo senso il realismo ha favorito un’istanza di apertura contro le
riduzioni monistiche del conoscere ad una sola forma, ed è in grado di
riprendere il cammino dopo gli esiti relativistici e quelli della filosofia
della scienza postpositivistica e postpopperiana. Particolarmente rilevante fu lo sviluppo del realismo tomista, specialmente in Francia, Italia, Nordamerica ed America Latina. Ma anche in ambito anglosassone
pensatori come E.M. Anscombe, P. Geach, J. Haldane, Brian Davies, A.
Kenny, A. McIntyre e per certi aspetti gli aristotelici oxoniensi (G. Ryle,
J. Austin) possono essere considerati parte dell’orientamento realista4.
3
E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 28.
Indico senza pretesa di completezza opere degli ultimi 15 anni che segnalano una
rinascita degli studi storici e teoretici sul tomismo e la filosofia dell’essere: B. Davies
(ed.), Thomas Aquinas. Contemporary Perspectives, Oxford, Oxford U.P., 2002; J.
Haldane, Faithful Reason, London, Routledge, 2004; Id (ed.), Mind, Metaphysics and
4
27
Da alcuni decenni è in atto una ripresa del dibattito sul realismo
come reazione al decostruzionismo, al relativismo, al contestualismo,
allo scetticismo, che in alcuni casi hanno portato (vedi H. Putnam) ad
una riscoperta del realismo di provenienza aristotelica (cfr. Realismo dal
volto umano; Rinnovare la filosofia; Mente, corpo, mondo; Words and
life, ecc.), ritenuto il più idoneo a reagire a posizioni antirealistiche sorte
nel presente. Ciò pone la domanda se i ‘nuovi realismi’ saranno qualcosa di diverso da una qualche riedizione di dottrine del passato, tanto a
lungo è stato arato il suo campo. D’altra parte l’istanza realistica rinasce
continuamente, in quanto costante è la percezione del divario tra le sue
aspirazioni – giustificate e profondamente umane – e la condizione più o
meno precaria delle correnti filosofiche vigenti in una certa epoca.
III) Varietà del realismo
Introduciamo due significati fondamentali di realismo, di cui il secondo è più importante del primo:
III.1. Realismo ontologico o anche realismo esterno, secondo cui
là fuori c’è un mondo, degli oggetti che esistono in modo ontologicamente indipendentemente da ogni tipo di descrizione che provenga dal
senso comune, dalle scienze, dalla filosofia. Indipendente significa che
essi ci sono anche se non si riesce a descriverli adeguatamente, e che
essi non sono costituiti dalla nostra descrizione (il Monte Bianco sta lì
davanti e non chiede a noi il permesso di esistere o di essere fatto come
è fatto). C’è dunque qualcosa ‘là fuori’ e qualcosa che vale la pena di
darsi da fare per conoscere. Un mondo dunque come realtà da investigare e non come costruzione del soggetto; un mondo fatto di costituenti
od oggetti che possiedono una determinata natura con caratteristiche
anch’esse determinate. Quel che più conta è che ciò che rende veri o
falsi i nostri giudizi è qualcosa di ‘esterno’, non la struttura della nostra
mente o il nostro linguaggio.
Il realismo ontologico non si contenta di asserire l’ovvietà che le
cose esistono indipendentemente da noi (anche quelle che abbiamo prodotto noi, dopo che le abbiamo prodotte). Aggiunge in maniera decisiva
che la verità delle nostre asserzioni è misurata dalla realtà delle cose.
Value in the Thomistic and Analytical Traditions, Notre Dame, University of Notre
Dame Press, 2002; V. Possenti, Nichilismo e metafisica. Terza navigazione, cit., (I ed.
1995); V. Possenti, “Realismo diretto e verità”, in AA.VV., Perché essere realisti. Una
sfida filosofica, cit.; R. Pouivet, Après Wittgenstein, Saint Thomas, Paris, PUF, 1997.
28
La verità è un rapporto o una relazione in cui l’intelletto cerca di conformarsi alle cose/essere5.
III.2. Perveniamo così al realismo gnoseologico, ossia all’idea che
le cose possiedono una loro essenza e intelligibilità che la nostra mente
può cogliere. Il nocciolo duro del realismo sta nel problema del realismo gnoseologico, più che in quello del realismo ontologico. è da matti
dubitare dell’esistenza delle cose là fuori, anche se qualche sconsiderato da mercatino di periferia può forse farlo, ma non è per nulla da matti
interrogarsi sui modi con cui conosciamo le cose.
Il realismo gnoseologico, oltre che un realismo esterno, è un realismo diretto. Quest’ultimo termine include tre nuclei notevolissimi:
1) la natura o essenza degli oggetti non è condizionata o trasformata
dal fatto di essere conosciuta; 2) noi conosciamo l’oggetto attraverso
un segno mentale, che è costituito dal concetto; 3) tuttavia la mente
intenziona direttamente l’oggetto e non ha come termine immediato di
riferimento l’idea entro lo spirito, ma la cosa stessa. Il termine direttamente e immediatamente attinto dall’intelletto nel e col concetto non
è una rappresentazione interna che, conosciuta per prima, rinvia poi
in qualche modo alla cosa, ma è la cosa stessa. Il concetto è il vicario
dell’oggetto nella mente.
Nel realismo diretto il concetto non rappresenta ma presenta direttamente l’oggetto, la sua essenza o forma6, per cui tale realismo non
introduce alcuna interfaccia tra mente ed oggetto. Da tale vigorosa rivendicazione risulta che l’elemento centrale e originario della conoscenza non sta nella produzione di teorie (come in Popper o più ancora
nell’olismo), ma nell’apprensione dell’oggetto nel concetto. Il realismo
risulta gravemente monco se non tematizza il nostro rapporto prelinguistico con le cose.
Realismo diretto significa dunque la possibilità di conoscere come
stanno le cose, attraverso un contatto cognitivo diretto tra intelletto e/o
senso e mondo. Significa altresì che la realtà e le cose hanno una struttura
ed un ordine che non dipende dalle nostre facoltà cognitive, per cui noi
scopriamo e non creiamo gli oggetti e le loro essenze. Il realismo diretto
5
Cfr. De Veritate, q. 1, a. 2.
Su questi aspetti si veda De interpretatione, 16a e De anima, l. III, c. 4. Per una trattazione di alta qualità del nucleo classico elaborata nel ’900 si vedano in specie J. Maritain,
Riflessioni sull’intelligenza, Milano, Massimo, 1984, e Id., I gradi del sapere, cit.
6
29
è apertamente anticostruttivista nel senso che la realtà non è costruita dai
nostri schemi concettuali per cui è possibile un accesso diretto all’og­
getto in virtù dell’atto astrattivo della mente che forma il concetto e che
risponde alla struttura dell’oggetto. A questo proposito i realisti si distan­
ziano molto dai cammini seguiti da Kant, e in specie dai nominalisti e dai
costruzionisti postmoderni che a vario titolo assumono che il ‘mondo’ è
disordinato (ossia privo di propri nuclei di intelligibilità) e dunque passi­
bile di vari ordinamenti da parte del soggetto.
Talvolta si obietta al realismo di assumere ingenuamente che gli og­
getti ed il mondo esistano al di là del pensiero. Si tratta di un’obiezione
tutto sommato indifferenziata e che occorre sciogliere, osservando che
gli oggetti che chiamiamo ‘esterni’ in quanto conosciuti non stanno al
di fuori del pensiero e perciò non sono gnoseologicamente indipendenti
da questo, aggiungendo però subito che essi esistono ontologicamente
indipendenti dal nostro pensiero. Inoltre realismo diretto non significa
che noi conosciamo tutto, ma che possiamo avere un accesso – mai
pieno – alle strutture del mondo ed alle essenze delle cose.
IV. Vi è inoltre un tipo di realismo che si potrebbe chiamare scientifico e assoluto, nel senso che l’immagine scientifica del mondo perse­
guita dalla scienza sarebbe secondo i neopositivisti il solo rendiconto
attendibile della realtà. In tale posizione si ritiene possibile una compiuta
conoscenza di come è fatto il mondo (e solo questo, poiché non vi è tra­
scendenza), e che questa conoscenza ci provenga dalla scienza. Un tale
realismo è forse ‘esterno’ e diretto, ma appoggiato solo sulla conoscenza
scientifica e dunque apertamente monista nel senso che esclude ogni al­
tra forma di conoscenza reale diversa da quella scientifica. In particolare
rifiuta quella ontologica e metafisica: è appunto il progetto neopositivi­
sta, perseguito dai Viennesi e in specie da Carnap (The Logical Structure
of the World). In merito si può osservare che le forme di realismo di cui
si è appena parlato sono pluraliste nel senso che ammettono diversi gradi
del sapere oltre a quello scientifico.
IV.1. A che cosa si oppone il realismo? Per completare la nomencla­
tura concettuale, che risulta utile in quel campo delicatissimo che è la
gnoseologia o dottrina del conoscere, ricordo che il realismo si oppone
principalmente all’idealismo e al nominalismo (nonché al costruttivi­
smo e al fenomenismo), e forse al secondo ancor più che al primo.
Consideriamo brevemente in che modo il realismo si oppone a idea­
30
lismo e nominalismo. L’idealismo può essere inteso secondo quattro si­
gnificati: 1) come idealismo ‘assoluto’ in base a cui sarebbe il pensiero
a creare il mondo; 2) come idealismo antirealistico secondo cui è il pen­
siero a ‘ordinare’ il mondo, il quale sarebbe un caos indistinto di flussi,
segnali, percezioni, ‘oggetti’, che verrebbe messo in forma e ordinato
solo dal nostro pensiero; 3) come ‘idealismo kantiano’ nel senso che
secondo Kant per idealista “si deve intendere non chi nega l’esistenza
degli oggetti esterni, ma chi soltanto non ammette che essa ci sia nota
per percezione immediata, e ne conclude che noi, con tutte le esperien­
ze possibili, non possiamo mai diventare certi della loro realtà” (A 232);
4) come assunto che esista una conformità a priori tra pensiero e realtà,
per cui l’automovimento logico del pensiero adeguerebbe di per sé lo
svolgimento dell’ente. Si tratta della forma più rischiosa di idealismo
che assume a priori una sorta di identità tra logica e metafisica, come
accade in Hegel e in Gentile.
A tali posizioni si contrappone il realismo per il quale il mondo e la
totalità degli enti sono portatori di un’intrinseca intelligibilità e di un
ordine interno che è dato e va scoperto, non imposto dal di fuori alle
cose. Se invece così accadesse, ossia se volessimo costringere il mondo
entro un ordine da noi stabilito attraverso un ricorso estremo ad una
libertà concettuale e linguistica arbitraria, allora incontreremmo nella
realtà stessa ostacoli e resistenze alle nostre creazioni (intellettuali e
linguistiche) che cozzerebbero contro le cose e verrebbero infine da
esse smentite.
L’altro grande, duraturo e forse massimo avversario del realismo è
il nominalismo, compreso quello linguistico: la realtà non include in sé
strutture stabili che devono essere conosciute dalla mente, ma è il lin­
guaggio che struttura volta a volta arbitrariamente la realtà e gli oggetti.
Nel nominalismo la questione degli universali è risolta nel senso che i
nomi classificano convenzionalmente oggetti, di cui non raggiungono
mai la forma-essenza. Alto è stato l’impatto del nominalismo nella mo­
dernità, ed anche nel ’900, con la conseguente crisi della dottrina del con­
cetto. Orbene, poiché il concetto è l’unità basilare e indispensabile per
ogni tipo di conoscenza, la soluzione nominalistica che ne nega la portata
realistica, conduce ad esiti apertamente scettici. Per il nominalismo ra­
dicale contemporaneo i nomi non hanno rilievo ontologico e gli oggetti
valgono come costrutti dipendenti dal nostro modo di organizzarli (cfr.
31
N. Goodman e W.V.O. Quine, Step forward a Constructive Nominalism, 1947). Scrive David S. Oderberg nell’introduzione ad una raccolta
di studi di diversi autori: «Coupled with the prevailing nominalism, the
idea that reality is explained essentially in terms of human beings’ mental
and linguistic operations rather than in terms of objects which lie outside
the mind in categories which are not invented but discovered, the result is
that recent philosophy has taken a decidedly sceptical and inward turn»7.
In virtù dell’isomorfismo tra pensiero e realtà, i concetti non sono intesi dal realismo come funzioni utili con cui la mente raggruppa più o
meno arbitrariamente gli oggetti, ma come capaci di portare in loro stessi
una carica intelligibile mediante cui esprimono la realtà e le strutture o
essenze degli oggetti, veicolate dalla percezione sensibile e colte dall’atto
astrattivo della mente. Nella versione funzionale del concetto disegnata
dal nominalismo sparisce ogni identità formale tra intelletto ed oggetto
nel concetto, e si pone attenzione esclusivamente alla causalità efficiente
fisico-meccanica che opera nella percezione sensoriale, ossia si assume
che tale percezione sia spiegabile ed esauribile solo in termini fisici e di
causalità efficiente. Pensiamo alla visione: la luce colpisce l’oggetto, il fascio di fotoni che da questo si diparte eccita la retina, questa genera segnali
elettrici che viaggiano verso il cervello, ecc. Seguendo la spiegazione fisicalista, viene negletta completamente la carica intelligibile e intenzionale
che la sensazione veicola, che trasmette alla mente e che viene decodificata dall’attività dell’intelletto agente con l’astrazione.
Con il richiamo all’astrazione si apre un capitolo dolente tanto per
l’idealismo quanto per il nominalismo: entrambi la lasciano da parte,
come del resto ha fatto una quota veramente considerevole della filosofia moderna, ignara del fatto che rifiutare l’astrazione significa rifiutare
la condizione umana: l’intelletto umano infatti non può operare se non
astraendo. Nel nominalismo che attraversa in profondità molta filosofia
neopositivistica e analitica del XX secolo il compito dell’astrazione, in
specie di quella formale o tipologica che astrae il tipo o l’essenza dalla
percezione dell’oggetto, è tralasciato per cui la descrizione dell’attività
7
D.S. Oderberg, “Introduction”, Form and Matter. Themes in Contemporary
Metaphysics, Oxford, Blackwell, 1999, p. vii. Come illustra il titolo della raccolta, si
tratta di un ritorno all’aristotelismo ed alle filosofie collegate, che senza vergogna cominciano dall’ente, non dalla mente, il linguaggio e le opinioni. Che cosa c’è di più
semplice ed immediato che cominciare dagli oggetti che abbiamo intorno e di leggerli
come enti?
32
dell’intelletto risulta monca, l’isomorfismo tra pensiero e realtà è negato e i nuclei di intelligibilità che rilucono nelle cose lasciati da parte.
Con questa negligenza che non si fa interpellare dall’oggetto, l’atto conoscitivo sarà in vario modo soggettivo e tendente ad imporre al reale
un ordine che in esso non vi è: da qui la notevole varietà di dottrine
costruttivistiche ed olistiche sino all’olismo estremo di Quine. Olismo
significa che non esiste mai alcuna percezione diretta di alcun genere, e
che l’unità significante minima è una teoria, al limite l’insieme di tutte
le teorie, mai il concetto. Quine ed in buona misura Popper sono inspiegabili senza il nominalismo e senza l’‘idealismo kantiano’ che nega che
l’esterno ci sia noto per percezione immediata.
Il nominalismo è presente in numerose espressioni del pensiero del
’900, poiché costituisce la filosofia più funzionale al progetto scientifico-naturalistico che poi spesso si completa in materialismo e fisicalismo. In questi ultimi la mente è resa uguale al cervello, ed il suo rapporto col mondo avverrebbe solo mediante catene di causalità efficiente
fisica, nella esclusione di ogni causalità formale8.
Annotazioni fondamentali sul realismo
La dottrina del realismo, in specie di quello diretto, include alcuni fondamentali capitoli: a) una dottrina del rapporto tra pensiero ed essere in
cui l’elemento percettivo (sensibile ed intellettuale) primeggia su quello
rappresentativo e costruttivistico: una posizione-cardine di assoluto rilievo da cui si diparte una teoria dell’intenzionalità; b) una dottrina del
concetto; c) una dottrina del giudizio; d) una dottrina della verità come
conformità o adaequatio. Queste quattro parti non sono tra loro indipendenti ma momenti dell’unico atto conoscitivo con cui lo spirito raggiunge
l’oggetto, concependolo in un concetto e dicendo la realtà in un giudizio
che sarà vero o falso secondo che si conformi o meno al reale. Senza
un’elaborazione di questi temi non vi è che un molto generico realismo, o
più esattamente niente realismo. Non potendo qui affrontarli tutti insieme
8 In Nichilismo e metafisica. Terza navigazione, cit., esprimo l’assunto che il punto
di catastrofe della gnoseologia del ’900 stia nella teoria del concetto e in quella dell’intenzionalità, più che nella dottrina del giudizio, poiché sulla dottrina del concetto – forse più difficile e delicata di quella del giudizio – si è scaricata la scepsi e l’obiezione
nominalistica.
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analiticamente, ci volgeremo a considerare il primo ed il quarto tema, ossia l’importanza decisiva della percezione e relativa intenzionalità, e poi
la determinazione dell’idea di verità, dedicando poi attenzione ad alcuni
altri temi, tra cui quello se la mente/intelletto operi come ‘specchio della
natura’ o ben altrimenti.
A) Percezione e intenzionalità. Nel realismo diretto e percettivo
tanto i sensi quanto l’intelletto sono assicurati di primo acchito sulle
cose: non sussistono interfacce cognitive tra loro e il mondo, interfacce
che sarebbero dapprima conosciute dalla mente e che poi rinvierebbero
al problematico tema di stabilire che cosa esse rappresenterebbero di
quanto sta là fuori. Non intendo qui ricostruire un’immensa storia, che
non è stata certamente una vicenda di gloria ma di progressiva involuzione, che ha appesantito tre secoli e mezzo di filosofia moderna e
che da Cartesio a Kant agli idealisti ad Heidegger sino ai postmoderni
(Derrida, Foucault, Rorty, Feyerabend, ecc.) ha condotto ad una sfiducia
sempre più radicale verso la percezione sensibile ed all’annientamento
della percezione ed intuizione intellettuale, sino all’emergere sempre più
scatenato del costruzionismo. è la storia di un fallimento progressivo
che forse si sta chiudendo sotto i nostri occhi, e che con adeguate forme
di realismo può riaprire il cammino ad una ricerca aperta, libera, impregiudicata sull’essere e le cose. L’ultimo Putnam ha colto brillantemente
l’importanza della percezione sensibile diretta senza interfaccia cognitiva, riprendendo fondamentali elaborazioni aristoteliche, e ha emesso un
giudizio di chiusura del programma rappresentazionale moderno durato
appunto oltre tre secoli (vedi avanti). Fino a questo momento Putnam ha
però taciuto sulla percezione intellettuale, lasciando in merito aleggiare
un’enorme ipoteca sulla qualità del suo ultimo realismo.
Ad onor del vero il giudizio di chiusura gnoseologica ed ontologica
del ciclo filosofico moderno era stato emesso varie volte da parte di
esponenti di primo piano della filosofia dell’essere e già da quasi un
secolo. Spicca in proposito l’opera di J. Maritain che nel XX secolo
è colui che più intensamente e profondamente ha chiarito la portata
realistica dell’elemento percettivo, in specie di quello intellettuale, risultato nella modernità il più duramente incompreso e tartassato da un
nugolo di filosofi9. In Nichilismo e metafisica. Terza navigazione viene
9
Da Antimoderno (1922) sino a Il contadino della Garonna (1967) Maritain ha
ribadito il fallimento gnoseologico di tanto pensiero moderno sino al punto di chia-
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elaborata la differenza fondamentale tra presentare immediatamente e
rappresentare e svolta l’idea che il concetto quale vicario dell’oggetto
presenta, non rappresenta. La percezione non è una funzione costruttrice dell’oggetto, non lo organizza ma ne è organizzata. La percezione
conduce verso ciò che è, e dunque la sua è una funzione dapprima ontologica e poi gnoseologica.
Conseguentemente il concetto non può essere inteso costruttivisticamente come una rappresentazione che organizza la realtà, ma come
l’espressione della chiarità dell’essere nel pensiero; l’essere è a se stesso la sua propria luce.
Col termine intenzionalità non intendo soltanto la proprietà dell’intelletto o mente di dirigere la propria attenzione verso (in-tendere) taluni oggetti invece che altri (significato banale di intenzionalità), ma
ben più radicalmente alludo alla questione centrale sul come una cosa
fuori dalla mente possa essere presentata alla mente e vivere in essa.
Lo sviluppo classico – tanto prekantiano quanto postkantiano – della
dottrina del concetto legge quest’ultimo come vicario dell’oggetto, di
modo che l’intenzionalità opera come ponte originario tra pensiero ed
essere. L’intenzionalità raggiunge l’alterità come tale, ben lungi da ogni
ipotesi di soggettività costituente che istituisce l’altro a partire dal mio
pensare ed essere.
Nell’operazione conoscitiva noi portiamo in noi stessi nel concetto
la ‘forma’ dell’altro, e diventiamo immaterialmente l’altro in quanto
tale (fieri aliud in quantum aliud). Si noti che non ho scritto: ‘diventiamo altro’, ma ‘diventiamo l’altro’, ed un abisso intercorre tra le due
formule. Conoscere è sì un’identità immateriale ma tale che noi portiamo in noi stessi la forma dell’altro e quindi guadagniamo qualcosa,
altrimenti gireremmo in tondo e non acquisteremmo nulla. Del tutto
diverso (e disastroso) sarebbe intendere la conoscenza come riconduzione dell’altro a se stessi, identità con se stessi, in cui saremmo situati
in un circolo chiuso e non conosceremmo mai nulla di diverso dall’io
e dalle sue modalità. In base a questi cenni si intuisce che non si possa
naturalizzare l’intenzionalità, come molti oggi tentano di fare, dimentimare ideosofia (o sapienza dell’idea) la strada moderna contrapposta all’ontosofia (o
sapienza dell’essere), la prima da evitare e la seconda da riprendere. In tutto il percorso
il punto centrale è sempre stato il primato del percepire sul costruire: quindi antikantismo e antiidealismo senza compromessi ed elaborazione di gran classe del problema
dell’intuizione intellettuale.
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cando la causalità formale e prendendo in conto solo quella efficiente.
Né si può naturalizzare l’intuizione intellettuale che è atto originario
della mente-intelletto e di cui le noetiche naturaliste e materialiste contemporanee fanno tanto più volentieri a meno quanto più sanno che tale
intuizione è una condanna a morte per il materialismo. Putnam sostiene
l’incapacità di ogni concezione radicalmente materialistica di offrire un
resoconto attendibile dell’intenzionalità10.
L’idea di intelletto del realismo è che esso non può essere ridotto
solo alla logica o a raziocinio, ma che la ragione è molto più di una
macchina logica, è propriamente facoltà che intenziona l’essere e lo
coglie, per cui essa non è soltanto l’agente di cambio della finitezza11.
L’intelletto umano è come un investigatore sempre attivo che per sua
natura va alla ricerca degli oggetti-enti per conoscerli, e che è dotato di
potere intuitivo. In genere gli antirealisti hanno una concezione non
solare dell’intelletto: ne hanno un’idea strettamente empirica, oppure
logico-analitica, ed in entrambi i casi ne negano la capacità intuitiva,
che è originaria, intrascendibile e imperdibile. Salvo pochi casi, l’intuizione intellettuale è la grande assente nella filosofia del XX secolo. Il
problema dell’uso intuitivo dell’intelletto è da sempre uno dei massimi
problemi filosofici, e certamente decisivo per la filosofia analitica del
XX secolo che in sua mancanza scivola verso l’olismo di un Quine. In
una prospettiva realistica non possiamo mantenere né l’identificazione
di ragione e logica dei positivisti, né quella tra ragione e interpretazione
degli ermeneutici.
B) La mente come specchio? Alla questione dell’intenzionalità si
lega la domanda se la mente sia lo specchio della natura. Rorty ritiene
che la filosofia tradizionale – drasticamente limitata a quella da Cartesio a noi – intenda l’atto conoscitivo come specchio (della natura),
ma manca gravemente il bersaglio. Se la conoscenza fosse questo donde l’errore? L’intelletto sarebbe passivo e morto come uno specchio?
10
Cfr. Rappresentazione e realtà, Milano, Garzanti, 1993, p. 141.
11 Per Kant invece l’intelletto è la facoltà della conoscenza a priori: “L’intelletto non
può mai sorpassare i limiti della sensibilità, dentro i quali soltanto ci sono dati oggetti. I
suoi sono semplicemente i principi dell’esposizione dei fenomeni, e l’orgoglioso nome
di Ontologia, che presume di dare in una dottrina sistematica conoscenze sintetiche a
priori delle cose in generale (per es. il principio di causalità), deve cedere il posto a
quello modesto di semplice Analitica dell’intelletto puro”, Critica della ragion pura,
Roma-Bari, Laterza, 1983, p. 250.
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